sabato 9 ottobre 2010

l’Unità 9.10.10
300mila in piazza in tutta Italia. Nei cortei sfilano insieme studenti, universitari e precari
A Roma «fantasmi» sotto il ministero. Incidenti a Milano e Firenze. Il 14 l’assedio alla Camera
Gelmini sotto sfratto «Ed è appena l’inizio»
Manifestazioni in novanta piazze in tutta Italia, da Milano a Palermo, contro la riforma della scuola. Ma il ministro finge di non vedere: «A qualcuno dà fastidio che la scuola non sia più di proprietà della sinistra».
di Gioia Salvatori


«Non chiamateci onda due: noi siamo più maturi e più arrabbiati. Siamo figli della crisi e fratelli dei precari e scendiamo in piazza insieme agli universitari e agli operai della Fiom perché quest’anno, i tagli, li abbiamo vissuti tutti». Così ieri 300mila studenti, universitari, precari, hanno riempito novanta piazze in tutta Italia aderendo alla mobilitazione indetta dai ragazzi delle superiori contro la riforma Gelmini. Un occhio al futuro e uno alla porta accanto, quella dove abita il fratello disoccupato, il padre cassintegrato, l’ex supplente rimasto senza cattedra e il mix è presto fatto: le piazze dei ragazzi somigliano a quelle dei lavoratori. Stessa paura del futuro, della disoccupazione, della precarietà. Stesse maschere bianche dei precari-fantasma sui volti degli studenti che, alle 6.30 di mattina, hanno già appeso uno striscione sotto le finestre del ministero dell’Istruzione in viale Trastevere a Roma. Qui termina alle 14 la manifestazione contro Gelmini “Gelminator”, e la folla urla «Dimissioni, dimissioni». «Governo, confindustria, rettori: riprendetevi il passato, il futuro siamo noi» è lo slogan in testa al corteo dei 30mila di Roma. Ci sono l’Udu, l’Sds-Run il coordinamento degli studenti Link, le sigle degli studenti delle superiori che hanno lanciato la mobilitazione UdS e Rds, la Flc Cgil e Unicobas che ieri hanno scioperato per un’ora. Mentre a Roma sfila il corteo principale a Firenze e Milano c’è tensione: nel capoluogo toscano sono uova e fumogeni contro la scuola privata dei Padri Scolopi e scontri tra studenti di sinistra e di destra; alla fine i denunciati, anche per corteo non autorizzato, sono decine. A Milano 10mila in piazza: l’ala antagonista cerca di sfondare per arrivare all’assessorato comunale all’istruzione e sono tafferugli con la polizia. In Campania 70mila gli studenti nelle piazze. A Napoli, davanti all’università Federico II c’è il lancio di carta igienica: è la scuola che va a rotoli. A Bologna, Bari, Palermo, gli altri cortei più partecipati. Roberto, uno studente palermitano dell’Uds dice: «L’onda? Era più settaria, noi sappiamo che lavoro e conoscenza sono un bene comune», così lo studente incontra l’operaio e i ragazzi fanno sapere che parteciperanno al corteo della Fiom del 16 a Roma, due giorni dopo “l’assedio” della Camera previsto per il 14, giorno della discussione del ddl Gelmini.
Un “No Gelmini Day” che ieri si è celebrato ovunque: a Parma c’è stata una manifestazione spontanea, a Padova accanto agli studenti ci sono gli operai della Fiom, a Palermo e a Roma i docenti precari. In piazza gli studenti hanno caschi gialli contro le macerie della scuola. «Non ci faremo rubare il futuro», «Non moriremo precari», dicono per esorcizzare la paura. Gelmini, mentre la Flc Cgil con Domenico Pantaleo annuncia proteste fino a Natale e la Fgci invia al ministro il film “Edward mani di forbice”, resta arroccata e minimizza: «A molti dà fastidio che la scuola, finalmente, non sia più proprietà privata della sinistra. Le proteste di oggi sono manifestazioni politiche. Vecchi slogan». «Ascolti è l’invito della responsabile scuola del Pd Francesca Puglisi se qui c’è qualcuno che abusa di vecchi slogan è il ministro, quando parla di scuola come “luogo di indottrinamento politico”».

l’Unità 9.10.10
Un’«AltraRiforma» per ridare qualità alla formazione
Gelmini e Tremonti conoscono soltanto la politica dei tagli E il 16 ottobre saremo in strada con i lavoratori della Fiom
di Tito Russo, Unione degli Studenti


Ieri abbiamo suonato la sveglia. Trecento mila studenti e studentesse sono scesi nelle piazze, da Trieste a Ragusa, dalle città metropolitane ai piccoli centri di provincia. Abbiamo bloccato l’intero paese, abbiamo lanciato il nostro grido d’allarme per la condizione comatosa in cui versano le nostre scuole e le nostre università. Le piazze si sono riempite di giovani studenti convinti che la politica non possa continuare a giocare con il nostro futuro. Tagliare i finanziamenti alle scuole significa imporre un modello di società basato sui privilegi e sulle ingiustizie, significa mortificare i sogni e le aspettative di chi, come noi, rischia di essere condannato ad un futuro fatto di precarietà e sfruttamento. Per questo l’Unione degli Studenti ha da tempo ha lanciato l’AltraRiforma, un percorso partecipato che ha visto la costruzione dal basso di una vera riforma che sia capace di migliorare la qualità della formazione nel nostro paese. Vera riforma, appunto, perché quelle di Gelmini e Tremonti non sono altro che tagli su tagli, mentre solo qualche giorno fa è stato confermato il finanziamento di circa centoventi milioni di Euro alle scuole private. Viviamo nel paese dei paradossi, da un lato si tagliano otto miliardi alle scuole pubbliche con presidi, docenti e studenti costretti ad autotassarsi per comprare gessetti e carta igienica, dall’altro si continuano a finanziare università e scuole di lusso che però niente hanno a che vedere con il merito.
Merito, appunto, altra parola che Gelmini e il suo governo hanno stravolto raccoltando frottole a tutto il paese, ieri l’abbiamo urlato nei tanti megafoni: non può esistere merito se non si parte dai diritti, dalla possibilità di poter accedere ai canali della formazione a prescidere dalla propria condizione sociale. Per questo siamo convinti che l’unica legata al passato sia proprio la Gelmini che ha in mente un modello di società prefeudale dove “leggere e scrivere” sia un privilegio per pochi, un mero strumento di controllo sociale. Le piazze di ieri hanno anche lanciato un monito a tutta la politica troppo spesso ripiegata su sè stessa. La partecipazione che abbiamo visto ieri è solo l’inizio di un percorso. La prossima settimana condivideremo, insieme a tutto il mondo della conoscenza le mobilitazioni contro il ddl dell’università nonché parteciperemo alla manifestazione del 16 Ottobre indetta dalla Fiom perché l’attacco ai diritti dei lavoratori ci riguarda da vicino. Noi ci siamo e vogliamo dire la nostra su come l’Italia può uscire dalla crisi economica e sociale ma soprattutto culturale e politica. In gioco non c’è solo il futuro di scuola e università, in gioco ci sono le nostre vite e il nostro futuro su cui non siamo disposti a cedere di un passo. Il nostro tempo è qui e comincia adesso.

l’Unità 9.10.10
«Chiamano riforma la distruzione totale»
Intervista a Fabio Mussi
Il ministro dell’Università nel governo Prodi «Anche a me chiesero sacrifici, ma davanti ai tagli feci il diavolo a quattro e minacciai le dimissioni»
di Marcella Ciarnelli


Nel vuoto delle risorse la riforma si riduce solo ad un inesorabile taglio» che significa «l’inferno» per la scuola nel suo insieme, dalle prime classi all’università. Anche Fabio Mussi, ministro dell’Università nel governo Prodi, ora presidente del Comitato scientifico di Sinistra Ecologia e Libertà, ebbe i suoi problemi di finanziamento. La questione risorse gli è nota anche perché non è che Tommaso Padoa Schioppa e lo stesso presidente del Consiglio fossero molto larghi di manica. Però una riforma come quella che sta portando tante famiglie, studenti, ricercatori in piazza, non l’avrebbe pensata nè in alcun modo sottoscritta se qualcuno glielo avesse chiesto.
Secondo lei si può ragionare solo in termini economici su argomenti come questi? «Tutti abbiamo dovuto fare i conti con le ristrettezze di bilancio ed anche con le ristrettezze mentali di classi dirigenti che, in ogni loro parte, non hanno certamente ai vertici dell’agenda questioni come la scuola, l’università e la ricerca che invece sono strategiche per un Paese. Io dovetti ingaggiare un discreto corpo a corpo con il mio ministro dell’Economia e anche con la presidenza del Consiglio. E, pubblicamente, dovetti minacciare un paio di volte le dimissioni. Che avrei sicuramente dato se i tagli fossero stati quelli che di volta in volta si affacciavano nei provvedimenti economici portati in Consiglio dei Ministri. Il primo decreto finanziario, appena formato il governo Prodi, prevedeva per l’università un colpo molto pesante. Di quel colpo, grazie anche al fatto che io feci il diavolo a quattro, restò il taglio ai consumi intermedi ma poi al momento di essere esatto, quando i soldi dovevano tornare al Tesoro, il governo rinunciò a pretenderli dagli atenei. Con il nostro governo l’investimento era lievemente cresciuto ma, per grandezze fondamentali, si può dire che rimase stabile».
E’ un risultato da rivendicare?
«Tenere l’investimento stabile significa comunque tenere l’Italia in coda ai paesi Ocse. Due cose in rapporto al Pil sono decisamente scese negli ultimi vent’anni: i salari operai e gli investimenti nella ricerca scientifica. Noi spendevamo già per ogni studente meno di qualunque altro Paese europeo, ottomila dollari o giù di lì, ma ora ci avviamo a sprofondare sotto il livello dell’inferno. Siamo l’unico paese al mondo che è progressivamente sceso nell’investimento. Eppure bisognerebbe tener sempre presente che ogni dollaro investito in questo campo ne produce
tre. La produttività nel lavoro come nella ricerca dipende sempre e solo dagli investimenti e dall’innovazione. Non serve a nulla togliere la pausa mensa degli operai o ridurre i corsi universitari. Tagliare in modo indiscriminato non rende. Questa è una concezione delle riforme degna degli uomini delle caverne».
Allora la via d’uscita è non tagliare senza valutare le conseguenze? «Tu puoi mettere soldi e non estrarne qualità. E questo a volte accade. Ma sicuramente se togli soldi la qualità scende. Il prossimo anno, l’università che era già quasi, alla fame
avrà un miliardo e quattrocento in meno. Con l’entrata in vigore dell’ultimo anno del triennio della legge 33, nel 2011, ci sarà un trasferimento di denaro pubblico quasi di un miliardo e mezzo inferiore a tre anni prima. E quindi la riforma che si sta discutendo non è altro che chiacchiere da salotto. Travestito da riforma è in atto un vero e proprio progetto di distruzione della scuola, dell’università e della ricerca».
I ministri si lamentano e minacciano di andarsene. La risposta è uguale per tutti. Tremonti dice che non ci sono soldi. «Gli investimenti devono essere in apporto al Pil. La più grande crisi economica mondiale ha visto tagli solo in Inghilterra e Italia. Tutti, anche i Paesi africani, hanno puntato sull’università e sulla ricerca. Se c’è un capitolo a cui non è stato sottratto da nessuno un finanziamento è questo. E non parliamo della Cina e dell’India, lì siamo in un’altra categoria. Il problema è delle proporzioni. Bisogna sottrarre ad alcune voci a favore di altre. Se la media della spesa in Italia per scuola, università e ricerca, è molto al di sotto dell’Ocse forse un problema bisognerebbe cominciare a porselo».
Il ministro Gelmini ha appoggiato, anzi si vanta di queste riforme... «Al governo c’è un grumo di reazionari i quali pensano che bisogna affamare la bestia. Se tu togli i soldi aumenti l’efficienza pensano loro ma questa è una colossale bufala. L’efficienza deve essere garantita con appositi sistemi, norme, metodi, riforme. Ma se riduci gli investimenti la nostra università finirà come la Grecia. E qualche rettore che pensa di salvarsi dal diluvio si sbaglia».
E allora come va a finire?
«Male. Noi abbiamo già perso posizioni pur essendo un Paese che ha sempre avuto eccellenze in ogni campo dello scibile. Bisognerebbe riflettere sul fatto che una legge così è solo un suicidio».

l’Unità 9.10.10
Mariastella delle gaffe
Il ministro senza fondi che Tremonti snobba
Ha fatto l’esame da avvocato in Calabria ma adesso tuona contro «le scuole del Sud che abbassano la qualità». Il congedo di maternità? «Un privilegio» E i precari? «Solo militanti politici»
di Federica Fantozzi


Pregiudizi contro chi, come me, ha gli occhi a fessuretta» si difendeva la vaporosa Caterina Guzzanti-Mariastella Gelmini a Parla con me. Chissà se, in consiglio dei ministri, la vera titolare dell’Istruzione ha opposto lo stesso argomento allo sferzante sarcasmo di Giulio Tremonti con le forbici in mano.
In fondo, il mite collega Bondi, che ha minacciato dimissioni dalla Cultura stanco di fronteggiare la rivolta di teatri, musei, fondazioni, enti lirici, siti archeologici, etc, ha incassato non soldi ma almeno umana solidarietà. Lei, invece, tutti si chiedono se sia cattiva o la disegnino così. L’avvocato dalle mise grigio acciaio, i lineamenti appuntiti e gli occhiali aguzzi; il ministro ribattezzato dall’Onda «della Pubblica Distruzione»; la cattolica ritratta come Beata Ignoranza in irridenti santini; la neo-mamma che ha fatto imbufalire mezza Italia dichiarando che «il congedo di maternità è un privilegio, tutte dovrebbero tornare subito a lavorare come me».
37 anni, liceo a Desenzano del Garda, laurea a Brescia, praticantato ed esame da avvocato a Reggio Calabria (trasloco foriero di molte illazioni), sposata a Sirmione con un aitante immobiliarista bergamasco (abito avorio, Berlusconi presente, servizio fotografico esclusivo con parenti e affini in posa per Chi). Forzista della prima ora, consigliere regionale lombarda e coordinatrice locale del partito. Nordista fino al midollo. Al punto che, a voler credere al Cavaliere, chiamò la bimba Emma su sua «imposizione» in onore della Marcegaglia: decisamente erano altri tempi, adesso alla presidente di Confindustria il Giornale del premier intitola dossier. Così nordista la Gelmini che quando Bossi se la prese con gli insegnanti del Sud dopo la bocciatura del figliolo, da Cortina d’Ampezzo batté un colpo: «Nel Sud alcune scuole abbassano la qualità. In Sicilia, Puglia, Calabria (che ingratitudine, avranno pensato laggiù, ndr) e Basilicata organizzeremo corsi intensivi».
Il ministro ha dato nome a due fatti epocali. La Riforma Gelmini (work in progress) di scuola e università. E il No Gelmini Day, punto culminante di una stagione di manifestazioni di genitori, maestri, professori, precari, cobas. Migliaia di caschetti gialli con il suo volto incorniciato da un segnale di senso vietato. Slogan socratici «Come nasce la dittatura? Con i tagli alla cultura» o pragmatici «Silvio, il viagra nasce dalla ricerca».
Gelmini difende la sua multiforme creatura: «meritocrazia, trasparenza e competitività internazionale», addio a baronie e incrostazioni corporative, razionalizzazione degli atenei inutili, rettori a tempo, maestro unico, liceo musicale-coreutico, ritorno ai voti. Plaude alla alla bocciatura per voto di condotta e al grembiule anti-griffe e anti-bullismo. Ma anche ai libri di testo digitali e alle lavagne interattive multimediali. Sul canale dedicato su YouTube illustra gli estimi, la figura disegnata, le tecniche di ristorazione.
Non incontra i precari «perché sono militanti politici». Non riceve gli studenti perché «dà fastidio che la scuola non sia più proprietà privata della sinistra». Quella di Adro, in realtà, è quantomeno affittata alla Lega, e nonostante la lettera con cui lei invitava il sindaco «ad adoperarsi per toglierlo» il Sole delle Alpi è ancora lì.
Il ferreo universo gelminiano mostra due sole crepe. La prima è la scelta del pirotecnico Giorgio Stracquadanio come consigliere politico. La seconda è l’assoluta mancanza di fondi per realizzare la rivoluzione dell’italica istruzione. Mancherebbero parole sue decine di milioni di euro. Copertura zero per ricercatori, associati, precari (pochi) da regolarizzare. Atenei di buon livello al collasso, incapaci di rispettare l’offerta programmatica promessa al momento delle iscrizioni. Le scuole vivono i momenti bui dei tribunali, tocca portarsi da casa il materiale di prima necessità. E Tremonti, slot machine dei dicasteri altrui, si gira dall’altra parte. Quella leghista.

l’Unità 9.10.10
Il testo Gelmini viola le leggi sulla sicurezza nelle aule


Il Movimento per la Difesa della Scuola Pubblica denuncia che la riforma Gelmini va contro le leggi sulla sicurezza. «Basterebbe appendere nelle porte delle aule dei cartelli indicanti capienza e numero massimo di alunni per le relative classi, in base a un numero massimo di 26 persone per aula e di circa due metri quadri di spazio a testa per spronare gli stessi studenti o genitori a segnalare i casi di sovraffollamento, chiedendo lo sdoppiamento delle classi, con le conseguenti ricadute positive date da lezioni con meno alunni.
Molte classi non si formano o gli alunni abbandonano o vengono inseriti nell’apprendistato o nella formazione professionale. Il risultato è calo dei diplomati, che incide considerevolmente sul calo degli iscritti nelle università. Un vero crimine, visto che in Italia dal 2003, e in Sardegna da 2 anni, gli alunni delle scuole inferiori aumentano».

l’Unità 9.10.10
Solo i tagli sul personale ammontano a quasi 8 miliardi di euro, pari a 130mila posti di lavoro
Ma la lista è lunga e articolata: offerta formativa, cancelleria, edilizia scolastica, crediti inevasi
La scuola, vittima prediletta dal governo per fare cassa
L’impossibile conteggio dei tagli alla scuola inflitti dal governo: 8 miliardi sul personale, 1,6 miliardi di crediti non pagati, 73 milioni sulla cancelleria, 10 milioni sull’offerta formativa. Ma la lista è ancora lunga.
di Luigina Venturelli


Ci sono i tagli al personale, quelli all’ampliamento dell’offerta formativa, quelli per il funzionamento ordinario amministrativo. Poi ci sono i crediti che gli istituti vantano nei confronti del Ministero ma che vengono pagati con anni di ritardo, i fondi per l’edilizia scolastica che non si trovano mai, e le risorse che stanziavano gli enti locali prima di essere strozzati dalla manovra d’estate di Tremonti. Impossibile fare una somma esaustiva dei tagli che questo governo ha inflitto e continua ad infliggere alle scuole italiane: il salasso arriva da più parti e spesso sotto mentite spoglie.
LA RIDUZIONE DEL PERSONALE
Un dato acclarato è quello relativo al piano triennale di riduzione del personale che ha preso avvio nel 2009: quasi 8 miliardi di euro in meno, equivalenti ad oltre 130 mila posti di lavoro in corso di cancellazione, 87mila docenti e 45mila ausiliari. «Ma i tagli effettivi sono superiori» sottolineano Gianna Fracassi e Annamaria Santoro dell’Flc Cgil, «perchè il conto finale non considera la soppressione quasi totale dei corsi serali per adulti». Sono infatti sparite quasi del tutto le classi riservate agli studenti lavoratori, quelle allestite negli istituti penitenziari, quelle per persone in età matura: un’utenza debole che non ha avuto modo di alzare la voce e di venir considerata nell’elenco dei danneggiati dalla Gelmini. I numeri sono comunque previsionali, quelli reali potrebbero presto rivelarsi peggiori: la perdita dei posti di lavoro, infatti, considera il licenziamento di 17mila precari all’anno, ma la cifra è destinata a salire man mano che docenti e ausiliari a fine carriera decideranno di ritardare la pensione per non rimetterci in termini economici.
LA VTTIMA PRESCELTA
Quando c’è da recuperare risorse per aggiustare i conti pubblici, la scuola si rivela spesso la vittima prescelta: certo la manovra di luglio ha bloccato i rinnovi contrattuali per tutti i pubblici dipendenti, ma il grosso del risparmio è arrivato dal blocco delle anzianità tra il personale scolastico. E non stupisce il risparmio di 73 milioni di euro attuato sul funzionamento ordinario amministrativo, ovvero sulle spese per la carta, i toner e la cancelleria in generale: lo sanno bene le famiglie degli studenti, a cui gli insegnanti chiedo-
no di farsi carico delle fotocopie necessarie all’attività didattica.
Ancora più odioso il salasso ai fondi per la legge 440 sull’offerta formativa, vale a dire corsi aggiuntivi e sperimentali, sostegno all’innovazione, scuola digitale, integrazione degli alunni in situazione di handicap. Quelli per il 2010 ammontano a 129 milioni di euro, 10,5 milioni in meno rispetto al 2009 e la metà dei 260 milioni che erano disponibili dieci anni fa. Ma la lista non è ancora finita: ci sono i 350 milioni di euro stanziati per l’edilizia scolastica che invece, secondo le stime della Protezione civile, ne richiederebbe 13 miliardi. I crediti per 1,6 miliardi che le scuole vantano nei confronti del Miur e che hanno convinto la Cgil scuola e le associazioni dei genitori a presentare una class action nei confronti del Ministero. E i tagli per ora non quantificabili che gli enti locali saranno costretti a fare sui servizi scolastici dopo la stretta finanziaria della scorsa estate.
«Si tratta di tagli orizzontali che non eliminano gli sprechi per reinvestire in qualità, ma che impoveriscono il sistema dell’istruzione con una operazione di bilancio» spiega il segretario generale della Flc, Domenico Pantaleo. «Eppure l’Italia spende già molto meno degli altri paesi Ocse nella scuola e nell’università: solo il 4,5% della spesa pubblica a fronte di una media europea del 5,7%».

Corriere della Sera 9.10.10
Gli espartriati della scuola
di Ernesto Galli Della Loggia


Nella crisi italiana non c'è solo l'economia. Qua e là affiorano sintomi di altra natura che hanno un significato forse ancora più grave: sintomi di un domani alle porte nel quale ad essere colpiti finiranno per essere la nostra stessa identità collettiva, il senso del nostro stare insieme come Paese. Tra questi uno mi appare più inquietante degli altri: da qualche tempo le élites italiane non mandano più i figli alle scuole italiane.
Non sto dicendo che non li mandano più nelle scuole pubbliche, preferendo quelle private. Accade massicciamente anche questo, ma ormai accade che non li mandino più nelle scuole in cui comunque si parla italiano e dove s'impartiscono programmi italiani. Perlomeno nelle grandi città un numero sempre maggiore di persone agiate sceglie per i propri figli scuole francesi, tedesche, o perlopiù anglo-americane. Fino a qualche anno fa il fenomeno riguardava essenzialmente l'università. Chi poteva permetterselo mandava i figli a studiare, o almeno a specializzarsi, fuori d'Italia. Ora invece questa scelta riguarda sempre più spesso anche la scuola superiore e ormai, sembra di capire, la stessa scuola elementare. Cifre non ne conosco, ma ho l'impressione che la cosa coinvolga già migliaia di giovani delle classi superiori.
È impossibile non vedere che cosa tutto ciò significhi. È la prova certamente del decadimento del nostro sistema d'istruzione, vittima di un marasma organizzativo e di uno sfilacciamento culturale grazie ai quali hanno avuto sempre più spazio prepotenze corporative di ogni tipo: da quelle dei professori universitari a quelle dei sindacati degli insegnanti.
Ma tutto ciò non può impedire di vedere che dietro la diserzione dei giovani figli delle élites dalla scuola del proprio Paese c'è ben altro; e non certo il desiderio di imparare bene una lingua straniera. C'è in generale il progressivo, profondo, sentimento di dissociazione psicologica e spirituale degli italiani dalla dimensione della collettività nazionale. Che si esprime soprattutto nella convinzione che per la propria identità, per il proprio modo di essere e di sentire, per ciò che si è, e dunque per quella dei propri discendenti, la storia, la letteratura, l'arte italiane — per l'appunto ciò che si apprende (o si apprendeva) nella scuola — non hanno più alcun valore particolare. Questa repulsa del nostro passato esprime la convinzione che ormai questo Paese come tale non ha più alcun futuro: intendo un futuro in qualche modo specificamente suo, che porti impressi le caratteristiche, le vocazioni, la storia, il genio, suoi propi, se così posso dire. La convinzione che tutte queste cose, se mai esistono, tuttavia sono ormai fuori gioco, e dunque inutili. Come fuori gioco e inutile appare la nostra lingua; che nel Mondo Nuovo globale, com'è ossessivamente definito, l'Italia in quanto tale non ha più molto da dire. Ecco perché, allora, è meglio cercare di diventare belle o brutte copie degli inglesi o degli americani che restare italiani condannati per sempre alla serie B.
In altri tempi si sarebbe detto che proprio, se non soprattutto di queste cose, una classe politica degna del nome dovrebbe preoccuparsi ed occuparsi. Ma erano altri tempi, per l'appunto. Adesso, il solo parlarne suona perfettamente inutile. Certi discorsi e il loro oggetto appaiono destinati irrimediabilmente a finire nel malinconico mare dei ricordi.

il Fatto 9.10.10
“Tutti con la Fiom”
Alla manifestazione del 16 ottobre con gli operai e contro “il regime B.-Marchionne”
“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma si cerca di negarlo”


“La pretesa di calpestare i diritti costituzionali nello stabilimento Fiat di Pomigliano è diventata la linea dell’intera Federmeccanica, con l’avvallo infine dell’intera Confindustria spalleggiata dal sostegno del governo”, quindi la necessità di scendere in piazza, a Roma il 16 ottobre, accanto alla Fiom, spiegano nell’appello di MicroMega alla mobilitazione, firmato Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, don Andrea Gallo e Margherita Hack: “La volontà di assassinare la Costituzione tracima oltre il berlusconismo tradizionale, appartiene ormai al regime Berlusconi-Marchionne. Ecco perché sentiamo il dovere di rilanciare con convinzione ancora più forte il nostro appello, facendo coincidere l’appuntamento con la giornata di lotta già indetta dai metalmeccanici Fiom”.
Le adesioni non si contano. Intellettuali, politici, giornalisti, esponenti della società civile, dallo scrittore Antonio Tabucchi al regista Giuliano Montaldo, da Luigi De Magistris a Moni Ovadia, da Altan a sacerdoti come don Paolo Farinella e don Enzo Mazzi.
LO SCRITTORE. Una manifestazione “in difesa della Repubblica italiana dall’aggressione del sistema berlusconiano – per Antonio Tabucchi –, oltreché in difesa dei diritti del lavoro di cui si fa carico la Fiom, contro il ricatto dell’azienda Fiat che porta uno sfregio irreversibile alla Costituzione. Un’azienda, vorrei ricordare, che in tutto il dopoguerra è vissuta grazie alle iniezioni di denaro pubblico, cioè al denaro di tutti noi cittadini. A tutto questo si aggiunge il mio allarme per le parole eversive pronunciate sabato 2 ottobre a Milano da Silvio Berlusconi, che costituiscono un attacco inaudito alle garanzie istituzionali. Affermare – continua lo scrittore – come ha fatto Berlusconi, che dietro la caduta del suo governo nel 1994 ci siano la magistratura e l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e proporre una commissione parlamentare che indaghi sulla magistratura italiana è eloquente, penso, sull’imminente pericolo che l’Italia sta vivendo. Ricordo che Mussolini arrogò a sé l’inchiesta sul delitto Matteotti. Cittadini, vigiliamo”.
IL GIORNALISTA. Sarà una “manifestazione in difesa del lavoro, ma soprattutto della Costituzione”, che rappresenta “i valori attorno ai quali adunar si”, spiega Furio Colombo, deputato del Pd e firma del Fatto Quotidiano: “Questa è una Repubblica fondata sul lavoro, ma si cerca di negarlo. Un dovere particolarmente urgente esserci – il 16 ottobre – in un momento particolarmente aspro, duro, buio della vita italiana”.
L’ATTORE. Una Repubblica fondata sul lavoro ormai trasformata, per l’attore Moni Ovadia, una “diarchia berlusconiana” che ha uno scopo preciso: “Demolire la giustizia sociale togliendo al lavoratore la dignità di titolare di diritti. Il lavoro diventa una concessione e il lavoratore serve sotto ricatto. Dobbiamo attivare un processo di mobilitazione costante contro questo imbarbarimento. La battaglia più importante da fare”.
VOCI DI CHIESA. Adesione all’appello, di cui uno dei primi firmatari è don Gallo, anche da altre voci cattoliche. Come don Paolo Farinella, anche lui sacerdote di Genova, che non ha dubbi: “In piazza con la Fiom contro il regime Berlusconi–Marchionne. Perché il progetto di Marchionne è quello di eliminare il sindacato e in questo converge con la politica del governo, che è quella di instaurare un regime anti-democratico. Una manifestazione di piazza intesa, quindi, come nuova Resistenza contro il tentativo non solo di umiliare ma di distruggere l’Italia intera”. Don Enzo Mazzi indica anche una prospettiva: “Non dobbiamo rincorrere il berlusconismo, dobbiamo cambiare strada, perché non si risolvono i problemi con lo stesso schema che li ha creati. Dobbiamo uscire da questo orrido pantano culturale, politico e sociale.
LA POLITICA. Gli europarlamentari dell’Idv Sonia Alfano e Luigi De Magistris si schierano con la Fiom: “Ci interessa la sorte di quelle migliaia di cittadini che ogni giorno perdono il posto di lavoro” perché “è in atto un disegno autoritario di questo governo per cambiare sempre più l’equilibrio tra capitale e lavoro”.

il Fatto 9.10.10
Bersani ci sarà oppure no?
di Sa. Can.


La Fiom qualche sondaggio riservato lo ha fatto e al Pd ha chiesto conto della sua partecipazione in piazza il 16 ottobre. Solo che al momento non ha avuto risposta. Magari Bersani e soci decideranno il 15 ottobre verso la mezzanotte. Eppure la manifestazione Fiom sta diventando sempre di più l’appuntamento di riferimento dell’opposizione sociale e anche politica. Bersani non smette mai di dire che il lavoro è al centro del Pd che lui ha in mente. Se è così la sua assenza in piazza si noterebbe almeno quanto la sua presenza. Ovviamente se Bersani decidesse di partecipare si sottoporrebbe a una sfilza di critiche, il “partito Fiat” all’interno dei Democratici è piuttosto notevole e le contestazioni alla Cisl di questi giorni rendono ancora più difficile l’adesione. L’ex popolare Fioroni, dopo la manifestazione con fumogeni alla sede Cisl di Roma, ha chiesto al Pd di battersi contro questa “nuova strategia della tensione”. Ma la domanda resta: ci sarà o no il Pd il 16 ottobre in piazza con la Fiom?   

il Fatto 9.10.10
Dopo Pomigliano si sono aperte tutte le valvole di sicurezza: diritti calpestati
Esserci perché siamo ai colpi di coda del Caimano e allo sfacelo totale
di Andrea Camilleri


 Queste mie parole, quale che sia il peso che possono avere, hanno il valore di un invito, dettato dal sentimento e dalla ragione, a partecipare alla grande manifestazione del 16 ottobre, indetta dalla Fiom, nel corso della quale saremo presenti anche noi. Perché c’è questa necessità? Credo sia evidente, da tutte le notizie che quotidianamente filtrano attraverso i giornali e le televisioni, che siamo allo sfacelo della politica e agli estremi colpi di coda di un governo. E di un uomo che non ha nessun senso delle istituzioni, né della Costituzione, né della giustizia. E quindi fa di tutto perché queste istituzioni siano modificate a suo uso e consumo. Questo non si può assolutamente permettere in uno Stato democratico.
DIRÒ DI PIÙ: è molto importante che la nostra manifestazione sia all’interno della grande manifestazione della Fiom. In questi ultimi mesi la Fiom ha difeso i diritti dei lavoratori. Ora, diritti non significa solo le pause, la durata delle ore di lavoro.
Diritto è soprattutto il diritto del lavoro ad essere rispettato in quanto tale. La Fiom sta difendendo prima di tutto la dignità del lavoro. Manifestare uniti alla Fiom, oggi, ha un senso preciso di unione di volontà.
La posizione che la Fiom ha assunto nei riguardi dello Statuto dei lavoratori e delle condizioni dei lavoratori nasce nel momento in cui Marchionne a Pomigliano ha fatto un vero e proprio diktat, di quelli o prendere o lasciare.
Credo che già allora i rappresentanti della Fiom avessero intuito che, cedendo al diktat di Marchionne, in realtà avrebbero aperto le valvole di sicurezza per una moltiplicazione dell’esempio Pomigliano, il che è avvenuto. Vorrei farvi riflettere su una cosa vista nei telegiornali. I lavoratori di Pomigliano, intervistati dalla televisione, non rispondono all’intervistatore perché hanno paura di essere licenziati se parlano. Un clima così, io che ho 85 anni, l’ho vissuto nei miei primi diciotto anni, sotto il fascismo.
Voglio dire, Marchionne dà un cospicuo contributo a quello che è il mutamento della democrazia italiana in una dittatura strisciante.
CHE COSA vorremmo in questa manifestazione? Che fossero presenti “tutti coloro che”. Chi sono “tutti coloro che”?
Certo che c’è la società civile, c’è il Popolo viola che ha già manifestato per i fatti suoi, ma vorrei che ci fosse la gente che sento parlare al mercato, la gente che sento parlare in autobus, quelli che non ne possono più e che pure esitano a scendere in piazza.
Ora, una volta che non possono più eleggere i loro deputati con questa legge elettorale, che vengano a dire come la pensano almeno in piazza. Altrimenti tutto questo dà maggiore sicurezza al governo.
Oggi, chi non osa minimamente manifestare il proprio pensiero assieme agli altri, in realtà finisce per dare una mano a questo governo. Quindi non è che posso fare un appello a singole categorie di persone. Posso fare un appello a tutti gli italiani di buona volontà, perché ce ne sono tanti: che si sveglino, che scendano in piazza con noi.

l’Unità 9.10.10
Premiato Liu Xiaobo l’autore della Charta 08, condannato a 11 anni e in carcere dal 2008
Un dissidente Nobel per la pace
L’ira della Cina
Il Nobel entra nelle carceri cinesi. E premia un professore di letteratura che ha lanciato la sua sfida di libertà al Gigante cinese: Liu Xiaobo. Pechino reagisce con rabbia, mentre i dissidenti esultano.
di Umberto De Giovannangeli


«Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di assegnare il premio Nobel per la pace 2010 a Liu Xiaobo per la sua lunga e non violenta battaglia in favore dei diritti umani fondamentali in Cina. Il Comitato norvegese per il Nobel ritiene da tempo che ci sia uno stretto legame tra i diritti umani e la pace. Tali diritti sono un prerequisito per la “fratellanza tra le nazioni”della quale Alfred Nobel scrisse nel suo testamento...». Un Nobel del coraggio. Un Nobel che sfida il Gigante cinese. Il Nobel a Liu Xiaobo. A ricordarlo è lo stesso Comitato di Oslo.
SFIDA DI LIBERTA’
Ogni parola è un macigno politico per Pechino: «Da oltre due decenni, ricorda il Comitato Nobel Liu Xiaobo è un forte portavoce della battaglia per l'applicazione dei diritti umani fondamentali anche in Cina. Prese parte alle proteste di Tienanmen nel 1989; è stato uno degli autori promotori della Charta 08, il manifesto di tali diritti in Cina che è stato pubblicato nel 60/o anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti umani, il 10 dicembre 2008. L’anno successivo, Liu è stato condannato a undici anni di prigione e a due anni di privazione di diritti politici per “aver incitato alla sovversione contro lo Stato”. Liu ha ripetutamente sostenuto che questa sentenza viola sia la Costituzione cinese che i diritti umani fondamentali. «La campagna per promuovere i diritti umani universali anche in Cina è stata intrapresa da molti cinesi, sia nella stessa Cina che all'estero. Attraverso le severe punizioni inflittegli, Liu è diventato il principale simbolo dell' intera battaglia per i diritti umani in Cina». Spiegando i motivi della scelta il presidente del comitato norvegese Thorbjoern Jagland ha affermato che « la Cina, la seconda economia del mondo, deve aspettarsi di essere sotto stretta osservazione man mano che diventa più potente, come gli Usa dopo la seconda guerra mondiale». «Mentre la Cina cresce ha proseguito abbiamo il diritto di criticarla...noi vogliamo far avanzare le forze che vogliono che la Cina diventi più democratica».
LA RABBIA DI PECHINO
La Cina ha reagito con rabbia, affermando che la decisione del Comitato per il Nobel,è «un’oscenità». In una nota diffusa sul suo sito web, il ministero degli Esteri cinese sostiene che Liu Xiaobo è «un criminale» che è stato condannato «dalla giustizia cinese». La decisione è destinata a «nuocere alle relazioni tra la Cina e la Norvegia», il cui ambasciatore a Pechino è stato subito convocato dalle autorità cinesi. Il ministero degli Esteri cinese ricorda che secondo le parole del suo fondatore Alfred Nobel, il premio per la pace deve essere assegnato a «persone che hanno promosso la fratellanza tra le nazioni, l'abolizione o la riduzione degli armamenti e che si sono sforzate di promuovere iniziative di pace«. Le «azioni di Liu Xiaobo conclude il comunicato sono completamente contrarie a questi principi». Liu Xiaobo, un professore di letteratura che oggi ha 54 anni, ha iniziato la sua attività di dissidente nel 1989, schierandosi con il movimento per la democrazia guidato dagli studenti. Subito dopo il massacro che mise fine al movimento, trascorse 18 mesi in prigione e nel 1995 fu condannato a tre anni di «rieducazione attraverso il lavoro». Il Nobel a Liu, rileva Teng Biao, un avvocato democratico impegnato in tutte le principali iniziative per i diritti umani degli ultimi ann, «incoraggerà sicuramente la società civile della Cina e sempre più gente si batterà per la pace e la democrazia». Una speranza che sa di sfida al Gigante cinese. Una sfida di libertà. Nel nome di Liu, un Nobel coraggioso. Scomodo.

l’Unità 9.10.10
Le motivazioni del Comitato che assegna il premio


Pubblichiamo ampi stralci delle motivazione del premio

«Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di assegnare il premio Nobel per la pace 2010 a Liu Xiaobao per la sua lunga e non violenta battaglia in favore dei diritti umani fondamentali in Cina. Il Comitato ... ritiene da tempo che ci sia uno stretto legame tra i diritti umani e la pace. Tali diritti sono un prerequisito per la ‘fratellanza tra le nazioni’ della quale Alfred Nobel scrisse nel suo testamento. Nei decenni passati, la Cina ha raggiunto risultati economici difficilmente eguagliabili nella storia. Il Paese è oggi la seconda economia più grande del mondo; centinaia di milioni di persone sono state sottratte alla povertà. Anche le possibilità di partecipazione politica sono state ampliate. Il nuovo status della Cina deve comportare una maggiore responsabilità. La Cina viola diversi accordi internazionali dei quali è firmataria, così come la sua stessa legislazione in merito ai diritti umani. L'articolo 35 della Costituzione cinese sancisce che ‘i cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di espressione, di stampa, di assemblea, di associazione, di corteo e di manifestazione’. In pratica, è dimostrato che queste libertà sono chiaramente limitate per i cittadini cinesi. Da oltre due decenni, Liu Xiaobao è un forte portavoce della battaglia per l'applicazione dei diritti umani fondamentali anche in Cina. Prese parte alle proteste di Tienanmen nel 1989; è stato uno degli autori promotori della Charta08, il manifesto di tali diritti in Cina che è stato pubblicato nel 60/o anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti umani, il 10 dicembre 2008... Attraverso le severe punizioni inflittegli, Liu è diventato il principale simbolo dell'intera battaglia per i diritti umani in Cina».

l’Unità 9.10.10
Il presidente degli Stati Uniti: «La Cina ancora indietro sui diritti umani fondamentali»
Obama, Francia e Germania: ora dovete liberare Liu
Liberate il Nobel dei diritti umani. Liberate Liu. A chiederlo esplicitamente sono gli Stati Uniti, la Francia e la Germania. Parlano Obama, Angela Merkel, Sarkozy. Il silenzio assordante di Palazzo Chigi....
di Umberto De Giovannangeli


Barack Obama, Angela Merkel, Nicolas Sarkozy. I leader più accorti plaudono al Nobel per la pace assegnato a Liu Xiaobo e chiedono al Governo cinese di liberare il paladino dei diritti umani. La Comunità internazionale si mobilita e preme su Pechino. ««Chiediamo che il governo cinese rilasci Liu Xiaobo al più presto possibile», dichiara il presidente degli Usa. «Lo scorso anno, ho sottolineato come molti che hanno ricevuto il premio hanno affrontato molti più sacrifici di me» si legge ancora nella dichiarazione di Obama, al quale lo scorso anno l'accademia di Oslo ha conferito il Nobel, suscitando non poche polemiche. «Premiando Liu, il comitato dei Nobel ha scelto qualcuno che è stato un sostenitore coraggioso e fermo dell'avanzamento dei valori universali attraverso i metodi pacifici e non violenti, compreso il suo sostegno alla democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto» , ha detto ancora Obama che ha dato anche un chiaro giudizio politico della scelta del Comitato di Oslo.
PRESSIONI SU PECHINO
Sottolineando come in questi ultimi tre decenni la Cina ha fatto importantissimi progressi economici facendo uscire centinaia di milioni di persone dalla povertà, il capo della Casa Bianca ha sostenuto che «questo premio ci ricorda che la riforme politiche non hanno tenuto il passo e che i diritti fondamentali di ogni uomo, donna e bambino vanno rispettati». Per la liberazione di Liu si schiera Parigi. «La Francia, come l'Unione Europea, ha espresso la sua preoccupazione al momento del suo arresto e ha chiesto in più occasioni la sua liberazione ha affermato il ministro degli Esteri Bernard Kouchner in un comunicato ribadiamo questo appello. La Francia riafferma il suo sostegno alla libertà di espressione ovunque nel mondo. Il Comitato Nobel, che fa le sue scelte in modo indipendente, ha voluto inviare un messaggio forte a tutti coloro che militano in modo pacifico per la promozione e la tutela dei diritti dell'uomo». Da Parigi a Berlino. La Germania si augura che il dissidente cinese Liu Xiaobo venga rimesso in libertà dalla Cina e possa così ricevere di persone il Nobel per la pace: a dichiararlo è il portavoce del governo di Berlino, Steffen Seibert. «Il governo tedesco auspica che (Liu Xiaobo) sia presto liberato per poter ricevere di persona il premio», afferma Seibert in un briefing con la stampa. «Il governo si è già impegnato in passato per la sua liberazione e continuerà a farlo», ha aggiunto il portavoce del governo della premier Angela Merkel.
L’UE PLAUDE
L'Unione europea si felicita per l'assegnazione del Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, ma non chiede esplicitamente la sua liberazione. Nel suo messaggio di felicitazione, il presidente della Commissione Ue, Josè Durao Barroso, rileva che il premio a Liu Xiaobao è un sostegno a tutti quelli che nel mondo lottano per la libertà e i diritti umani ma non fa esplicito riferimento alla Cina e neppure chiede la liberazione del leader cinese dissidente. Parlano Obama, Merkel, Sarkozy....Parole chiare e forti verso Pechino. Silenzio da Palazzo Chigi. Ed è un silenzio assordante. A parlare è Franco Fratti-
ni. «L'assegnazione, in maniera, come noto, del tutto indipendente, del Premio Nobel al dissidente cinese Liu Xiaobo incarna il riconoscimento internazionale per tutti coloro che, a prescindere dalla nazionalità di appartenenza, lottano per la libertà ed i diritti della persona», commenta il titolare della Farnesina. « Sono valori che, come ha sottolineato il Presidente della Commissione Barroso, aggiunge Frattini sono alla base della costruzione europea e che l'Europa deve continuare a sostenere ovunque nel mondo, senza eccezioni...». Ma Roma non segue Washington, Berlino, Parigi nel chiedere la liberazione di Liu.

l’Unità 9.10.10
«La Cina una prigione. Il premio aiuterà i paladini dei diritti»
Il portavoce Italia di Amnesty International: «L’Occidente deve far tesoro della scelta del Comitato di Oslo, la difesa delle libertà non può rimanere all’ultimo posto, dietro gli affari»
di U. D. G.


Il Nobel per la pace a Liu Xiaobo visto da Amnesty International (AI). L’Unità ne parla con Riccardo Noury, portavoce in Italia di AI. «Vorremmo che questo Nobel sottolinea Noury portasse l’Italia a considerare la Cina non solo come un enorme mercato ma anche come una grande prigione». E al Governo cinese che bolla come una «oscenità» il riconoscimento a Liu Xiaobo, il rappresentante di Amnesty International ribatte: «A suscitare oscenità è il fatto che un difensore dei diritti umani stia scontando una condanna a 11 anni di carcere».
Qual è il significato del Nobel per la pace assegnato a Liu Xiaobo? «Da parte di un Premio Nobel per la pace qual è Amnesty International, la scelta di conferire il premio a Liu Xiaobo è molto importante e coraggiosa. È un “premio alla carriera” che onora decenni di impegno per i diritti umani in Cina».
Il Governo cinese ha definito una «oscenità» l’assegnazione del Nobel per la pace al «criminale» Liu Xiaobo... «A suscitare oscenità è il fatto che un difensore dei diritti umani stia scontando una condanna a 11 anni di carcere. Piuttosto che bollare come una inammissibile interferenza negli affari interni ogni occasione in cui si parla di diritti umani, il Governo di Pechino dovrebbe considerare la decisione del Comitato di Oslo come un autorevole, ulteriore stimolo per rilasciare immediatamente Liu Xiaobo e tutti gli altri prigionieri di coscienza».
E all’Occidente cosa dovrebbe insegnare questo Nobel? «Il riconoscimento a Liu Xiaobo dà un monito fondamentale. i diritti umani devono essere in testa e non in fondo all’agenda dei rapporti con la Cina. Se Liu Xiaobo si trova ancora in carcere è anche perché, in questi anni, il mondo ha rinunciato a parlare di diritti umani con Pechino».
Gli affari «silenziano» le coscienze?
«Non tutte le coscienze, per fortuna, ma certamente in nome degli affari i diritti umani sono stati ampiamente sacrificati. Anche per questo la decisione di Oslo è importante, perché consente di riaccendere i riflettori sulla drammatica situazione dei diritti umani in Cina». In una metafora, si può dire che oggi (ieri per chi legge, ndr) Davide-Liu ha sconfitto il Golia cinese?
«Si ma solo in parte, perché “Davide” è ancora in carcere». Stando agli ultimi rapporti di Amnesty International è possibile dimensionare il fenomeno dei dissidenti imprigionati in Cina?
«Molti dei cofirmatari di Charta 08 condividono la stessa sorte di Liu Xiaobo e fanno parte di un gruppo di decine e decine di persone che si trovano in carcere per aver chiesto riforme e difeso i diritti umani».
Gli Stati Uniti, la Francia e la Germania hanno chiesto ufficialmente alle autorità cinesi di liberare Liu Xiaobo. E l’Italia?
«Mi auguro che faccia lo stesso, anche alla luce dell’assenza di un qualsiasi riferimento ai diritti umani nella visita dell’altro ieri del primo ministro cinese a Roma. L’Italia negli ultimi quindici anni è stata in prima fila per chiedere la fine dell’embargo dell’Unione Europea sulle armi alla Cina. Nello stesso arco di tempo abbiamo sentito poche voci chiedere la fine delle violazioni dei diritti umani in Cina. Vorremmo che questo Nobel portasse l’Italia a considerare la Cina non solo come un enorme mercato ma anche come una grande prigione».

l’Unità 9.10.10
In Campania Gli immigrati occupano le rotonde della vergogna
«Oggi non lavoriamo per meno di cinquanta euro al giorno»
Diritti e salario Il popolo invisibile del lavoro nero incrocia le braccia
Protesta in Campania degli immigrati irregolari impiegati nell’agricoltura o nell’edilizia. Il sindaco di Castel Volturno, che il 18 settembre ha rifiutato di ricordare i due anni dalla strage di camorra, li ha ricevuti.
di Massimiliano Amato


CASERTA. Ai “kalifoo round”, le rotonde della vergogna, stamattina non ci sono braccia in vendita, solo uomini che chiedono rispetto e una paga decente. E i caporali si tengono prudenzialmente alla larga: troppe telecamere e giornalisti. Baia Verde, dove due anni fa Miriam Makeba, “Mamma Africa”, dopo un concerto memorabile reclinò il bel capo altero e se ne andò a volteggiare libera nei prati del cielo, e i ragazzi del Ghana e della Nigeria la ricordano intonando i suoi must. E Villa Literno, Giugliano. E ancora: Casal di Principe, Qualiano, Scampia, Pianura. Sono 16 le rotonde della vergogna occupate pacificamente dagli “invisibili” di colore costretti a lavorare per poco più di 20 euro al giorno: la paga base è di 25 euro per dodici, anche tredici ore di lavoro filate nei campi, nell’edilizia, nei piccoli lavori di facchinaggio. Due euro e mezzo, il 10%, vanno al caporale, il resto è sufficiente a malapena per la cena. Così per mesi, per anni. Con una folla di incubi per compagnia. Le ronde della camorra e quelle dello Stato. Le prime ammazzano senza pietà, come avvenne la sera di San Gennaro di due anni fa a Castel Volturno: sei ghanesi crivellati da una banda di pazzi sanguinari capeggiati da un boss casalese che si era finto cieco per uscire dal carcere. Le seconde sono meno rumorose ma fanno male lo stesso: braccano i richiedenti asilo in attesa di risposta e i clandestini. La prospettiva di un futuro rispettabile nell’Occidente opulento può evaporare nello spazio di un blitz.
Lo spirito dello sciopero che gli “invisibili” inscenano rinunciando anche ai 22 euro e mezzo di una giornata di lavoro, va quindi oltre i cartelli inalberati sulle rotonde della vergogna: «Noi non lavoriamo per meno di 50 euro al giorno». Da Salerno, dove nel 2006 organizzò il primo grande sciopero dei braccianti “invisibili” della Piana del Sele, Anselmo Botte, sindacalista della Cgil che martedì prossimo presenta il suo secondo libro sui dannati di San Nicola Varco, argomenta: «Spero che la richiesta sia per il datore di lavoro, altrimenti suonerebbe come una legalizzazione del caporalato. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che dietro ogni caporale c’è un datore che calpesta le leggi sull’avviamento al lavoro». «È stato solo un primo appuntamento – spiegano i ragazzi della rete antirazzista – perché l’impegno per far terminare la spirale dello sfruttamento è molto lungo». Gli obiettivi sono due, molto ambiziosi: estendere l’articolo 18 del testo unico anche a chi denuncia di essere stato costretto all’irregolarità del lavoro e avviare «un percorso permanente di emersione dalla clandestinità».
Un primo risultato, la mobilitazione lo ottiene a fine mattinata, quando anche il sindaco di Castel Volturno Antonio Scalzone, che il 18 settembre scorso si era rifiutato di celebrare il secondo anniversario della strage dei ghanesi davanti alla sartoria Oba Oba, capitola. Accetta di incontrare le associazioni in Comune, ed è la prima volta dal giorno dell’insediamento della nuova Amministrazione. «È servito a conoscerci meglio», commenta laconico il primo cittadino. «Ho l’impressione che si sia tornati indietro sulle dichiarazioni fatte in precedenza», è invece la versione di Gianluca Castaldi, della Caritas casertana. Oggi seconda tappa della protesta: corteo a Caserta contro il razzismo, lo sfruttamento e le camorre (tutte) per il permesso di soggiorno e i diritti di cittadinanza. Previsti 2000 migranti, oltre a studenti e lavoratori.

il Fatto 9.10.10
La rivolta degli schiavi parte dal litorale domizio
di Vincenzo Iurillo


I luoghi simbolo del caporalato sono le rotonde stradali sparpagliate tra i vialoni del casertano, del litorale domiziano, della provincia Nord di Napoli. È nei pressi di questi slarghi di cemento che ogni mattina migliaia di immigrati, per lo più africani, vengono ingaggiati per pochi euro al giorno. Per lavorare in nero nell’edilizia, nella grande distribuzione, nelle campagne. Senza assicurazione, senza tutele, senza contributi. Senza
nessun diritto. Ieri mattina all’alba questo esercito di manovalanza clandestina e silenziosa – stimato in quasi 7000 persone secondo i movimenti dei migranti e dei rifugiati – ha deciso di protestare incrociando le braccia. Per dire no alle condizioni finora imposte loro dai caporali, alle paghe giornaliere da fame ancora più basse con la crisi in atto, alle trattenute di 3 o 5 euro imposte dagli schiavisti del Terzo millennio.
SOSTENUTI dai centri sociali, dai movimenti anti-razzisti e dalle associazioni di volontariato, gli immigrati si sono radunati a Baia Verde, Villa Literno, Castelvolturno, Casal di Principe, Pianura, Scampia, Afragola, Giugliano, Quagliano, Licola, Quarto, portando appeso al collo il cartello: “Oggi non lavoro per meno di 50 euro al giorno”. Distribuendo un volantino dal titolo “Siamo uomini o caporali”, hanno spiegato le proprie ragioni agli automobilisti e ai passanti incuriositi. Raccontando storie di agghiacciante sfruttamento. Come quella del nordafricano 30enne che si spacca la schiena 10 ore per 15-20 euro al giorno, a seconda dell’umore del caporale di turno. O del giovane nigeriano che scarica cassette di frutta e di latte in un supermercato gratis per giorni, nella speranza, che non sempre si avvera, di ricevere un salario a fine settimana.
JOSEPH, 39 ANNI, ghanese vive da nove in Italia, è sposato e ha due figli. Vive nella periferia di Villa Literno, dice di arrangiarsi con lavoretti da 25-30 euro al giorno e confessa di non riuscire a farcela. D’estate Joseph fa il bracciante agricolo: raccoglie la frutta per 12 ore al giorno. In alternativa, si presta a fare il giardiniere, il facchino, il muratore. Non raggiunge i mille euro al mese e al netto delle bollette e del cibo c’è davvero poco da scialare. “Qui circola una battuta che non è tanto lontana dalla realtà: c’è chi lavora soltanto per un panino” dice Mimma D’Amico del centro sociale ex Canapificio, uno degli enti che ha promosso lo sciopero. “Ma stiamo assistendo a una situazione paradossale: nei controlli incappano solo questi lavoratori, perché clandestini o irregolari, e non gli sfruttatori. Che approfittano di loro proprio perché sono privi di permesso di soggiorno, obbligandoli ad accettare condizioni davvero assurde. Cose che denunciamo da anni, nel silenzio assordante del governo e delle istituzioni, a cui ci rivolgiamo affinché favoriscano interventi per l’emersione del lavoro nero”.
LA SITUAZIONE è peggiorata da quando negli ultimi tempi alle storiche comunità di immigrati asiatici e africani si sono aggiunti i romeni e i cittadini dell’Est europeo, che accetterebbero di lavorare a condizioni peggiori (i romeni ieri hanno lavorato lo stesso). La protesta degli immigrati è comunque stata pacifica e composta. “Una bella manifestazione – commenta Alfonso De Vito, della rete antirazzista – perché queste persone hanno avuto il coraggio di scendere in piazza, metterci la faccia e sfidare i caporali”. A Baia Verde, nella piazzetta dove morì Miriam Makeba al termine di un concerto per le vittime della strage di San Gennaro a Castel Volturno, in molti si commuovono e dedicano un pensiero a Mamma Africa. Pregando per un futuro migliore.

Corriere della Sera 9.10.10
«Ammissione a punti» La nuova sfida di Veltroni è sull’immigrazione
di Maria Teresa Meli


BUSTO ARSIZIO (Varese) — È una piccola rivoluzione per il Pd. E il fatto che avvenga qui, a Busto Arsizio, a due passi da Varese, in terra leghista per intendersi, è senz’altro significativo. Si tratta della decisione di Movimento Democratico, l’area del partito che fa capo a Walter Veltroni, di presentare all’Assemblea nazionale un documento sull’immigrazione che non ricalca le parole d’ordine care alla sinistra, ma affronta il problema in maniera del tutto inedita per una forza politica come il Pd. L’ha elaborato il vice capogruppo alla Camera Alessandro Maran, e l’hanno sottoscritto tutti i leader della corrente, dall’ex segretario a Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni. Ma a queste firme si sono aggiunte anche quelle di alcuni esponenti della maggioranza interna, come Daniele Marantelli, il deputato «padrone di casa» che ha organizzato l’Assemblea, o di rappresentanti dell’area Marino, come Paola Concia.
La premessa dell’ordine del giorno è chiara: «Vogliamo assicurare attraverso l’introduzione di un sistema d’ammissione a punti che avremo gli immigrati di cui la nostra economia ha bisogno, ma non di più. Con il ritorno della crescita vogliamo vedere crescenti livelli di occupazione e salari crescenti, ma non crescente immigrazione». Un’innovazione per il Pd, senza ombra di dubbio. Tanto più se si pensa che il sistema a punti è quello che il ministro dell’Interno Roberto Maroni vuole introdurre nel nostro Paese. Naturalmente, nella proposta di Movimento Democratico alla fine di questo percorso è prevista per gli immigrati la cittadinanza italiana e i toni del documento sono molto diversi da quelli adottati dai leghisti, ciò non toglie però che l’impostazione sia differente da quella ufficiale seguita fin qui dal partito.
«Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e Danimarca — si legge ancora nel testo presentato ieri sera – hanno adottato strategie di questo tipo. Età, sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese, si combinano in un punteggio, o valutazione, dell’ammissibilità dei candidati all’immigrazione. L’esito normale del processo di inclusione, in queste società è l’acquisizione della cittadinanza, e questo avviene per la maggioranza degli immigrati». Dunque, «si tratta di una politica migratoria selettiva: l’ammissibilità legata ad una valutazione delle caratteristiche degli immigrati», perché «venire, a ancor più restare in Italia, è un’ opportunità e non un diritto».
Ma non finisce qui. Il documento prevede anche un’altra proposta «forte» che rappresenta un’ulteriore novità per la tradizionale politica dell’immigrazione adottata dal Partito democratico. «Riconosciamo inoltre — è scritto nel testo — che l’immigrazione può mettere pressione sulla disponibilità di abitazioni e di servizi pubblici delle nostre comunità, perciò dobbiamo costituire un Fondo Impatto Immigrazione pagato dalle contribuzioni degli immigrati per aiutare le aree locali». Anche in questo caso, una piccola rivoluzione per il Pd, mutuata dalla Gran Bretagna. Una proposta di tassazione degli immigrati che farà discutere.
Il documento presentato da Movimento Democratico e fortemente voluto da Veltroni, ovviamente, non prevede solo paletti. Nell’ultima pagina vi è un paragrafo tutto dedicato ai diritti degli immigrati: «Poiché buona parte dell’immigrazione è di lungo periodo o permanente deve essere in grado di acquisire pieni diritti, politici e di cittadinanza. E le riforme devono riguardare lo snellimento delle procedure per ottenere la carta di soggiorno per “lungo residenti”; la concessione del voto amministrativo; l’accesso alla cittadinanza ai nati da residenti stranieri legalmente soggiornanti e ai minori cresciuti e formati in Italia».
Oggi, dopo una nottata di trattative in un’apposita commissione di lavoro, si saprà se il gruppo dirigente del Pd è disposto ad accettare la sfida sull’immigrazione lanciatagli dalla minoranza di Veltroni (tanto più che il documento è piaciuto anche a una parte della maggioranza interna e a una fett a degli a mministratori l ocal i del Nord), o se preferirà attestarsi sul documento elaborato da Livia Turco, in linea con i temi e gli slogan tradizionali della sinistra.

Corriere della Sera 9.10.10
La barriera di silenzio che nasconde il mostro tra le mura domestiche
di Gianna Schelotto


Come riconoscere l’orco in casa? Purtroppo non esistono decaloghi. Le sensazioni più inquietanti e spaventose creano fortissima la rimozione. Può accadere di essere lambiti dal dubbio, ma di fronte a certe realtà troppo inquietanti si tende a negare, a non capire e non vedere. Le mamme delle ragazzine molestate dai papà non sono complici, ma si trincerano dietro muri di involontarie omertà. Qualunque cosa è meglio dell’indicibile.
Ma c’è un limite a tutto. Cosa succedeva a casa di Michele Misseri non lo sappiamo. Per noi osservatori esterni nessuna espressione, nessun gesto, niente nell’aspetto fisico di quell’uomo poteva far pensare che fosse l’orco. Soltanto quando ha pianto, dopo aver ritrovato il cellulare della nipote, si è insinuato il dubbio che quelle lacrime fossero il segno di una colpa non più sopportabile.
Non sono i gesti, dunque, non è lo sguardo. Dobbiamo piuttosto guardarci da certi profondissimi isolamenti. Sarah è entrata nell’oscurità di quel garage, nel buio di quell’uomo con tutta la luminosità dei suoi quindici anni, il suo sorriso, la sua freschezza. E l’orco ha voluto catturare quella luce. Si parlavano in casa Misseri? Comunicavano tra di loro? Quest’uomo chiuso che lavorava nei campi e si chiudeva nel suo garage con quali spettri si misurava? Quanta solitudine conteneva?
Forse era una famiglia silente. La caduta della confidenza, l’incapacità di trasmettersi emozioni dovrebbero destare allarme in ogni famiglia. Certi silenzi vuoti possono diventare abissi tra chi non sa più dirsi niente o vive nell’angoscia di dirsi qualcosa.
Michele Misseri è sicuramente un mostro e il suo è un delitto atroce. Ma le donne della la sua famiglia hanno emesso per lui una condanna senza appello.
Anche questo desta sgomento perché rivela in quale sconfinato deserto vivesse l’orco.

Corriere della Sera 9.10.10
Severo e distante, il Dio degli americani
Sondaggi e interviste. Solo per il 22% è benevolente (come crede anche Obama)
di Armando Torno


È apparso ieri su Usa Today un articolo di Cathy Lynn Grossman riguardante le opinioni degli americani su Dio («How America sees God»). Come lo vedono o immaginano, cosa ne pensano, quali domande si pongono e come talune figure delle Chiese lo testimoniano. Prima di offrire i dati, varrebbe la pena ricordare che soltanto il 5% si è dichiarato «ateo/ agnostico», percentuale che sarebbe stata ben più alta se questa ricerca fosse stata fatta in Russia (una recente statistica dell’Università di Mosca offre indicatori oltre il 20%) o in qualche Paese europeo.
Le domande rivolte erano chiare, e possono essere riassunte in due quesiti. Quando pregate Dio a chi o a che cosa pensate di rivolgervi? E quando cantate «God bless America» a chi chiedete di benedire la vostra terra? Non si può dimenticare che negli Stati Uniti, Dio — o l’idea di un Dio — permea la vita quotidiana. Il suo riflesso nelle coscienze è un elemento essenziale per spiegare il passato degli Usa, molti dei conflitti a cui hanno preso parte o si sono trovati coinvolti; anzi, sottolinea l’estensore dell’articolo, «potrebbe offrire un indizio di quanto riserva il futuro». Insomma, Dio è al nostro fianco, o se ne sta oltre le stelle? È adirato, geloso, vendicativo come in alcuni passi dell’Antico Testamento o misericordioso e capace di confondersi con un amore infinito? Sino a dove il suo occhio scruterà le cose?
I sondaggi dicono che nove americani su 10 credono in Dio, ma il modo di immaginarlo rivela — sottolinea la ricerca — anche l’atteggiamento in materia di economia, giustizia, morale sociale, guerra, calamità naturali, scienza, politica, amore e anche altro, come sostengono Paul Froese e Christopher Bader, due sociologi della Baylor University di Waco (Texas). Il loro nuovo libro, America’s Four Gods, dove ci si chiede essenzialmente «cosa possiamo dire di Dio?», esamina le diverse visioni dell’Onnipotente. Il metodo di ricerca utilizzato si ba-sa su indagini telefoniche (1.721 adulti nel 2006 e 1.648 nel 2008), ma soprattutto trae c onclusioni qualitative da 200 «interviste in profondità», dalle quali, tra l’altro, si sono avute risposte intorno a una dozzina di immagini evocative dell’Altissimo. Froese ricorda che una simile ricerca ha un fine pratico, giacché si possono meglio comprendere le reazioni di una popolazione — per un fatto di cronaca o per la politica estera — conoscendo l’idea che ha di Dio.
Passando ai dati, diremo che un 28% crede in un Dio autoritario, impegnato nella storia e capace di fulminare con punizioni severe coloro che non lo seguono. C’è poi il Dio benevolente, che per questa ricerca vale il 22%. Si identifica anche in azioni di politica contingente, simili a quelle in cui il presidente Obama dichiara di essere spinto a vivere la sua fede cristiana nel servizio pubblico. È un Dio impegnato e ama e ci sostiene quando ci prendiamo cura degli altri. C’è poi il Dio critico. Vale il 21%. Chi crede in Lui? I poveri, i sofferenti e gli sfruttati. Sono convinti che non perda di vista le cose di questo mondo. Come rappresentarlo? Si può immaginare attraverso una battuta ascoltata in un sermone nella chiesa Open Door, a Rifle (Colorado): «I nostri conti bancari vuoti saranno i magazzini del Signore». C’è infine il Dio lontano: lo crede il 24%. Quasi un americano su quattro lo considera distante, ma ciò non significa che non abbia alcuna religione. È un’idea che i ricercatori hanno trovato in molti ebrei e nei seguaci di religioni e filosofie come il buddismo o l’induismo. Sovente questa categoria parla di un Dio inconoscibile, che si cela in dimensioni non percorribili dalla ragione, quasi fosse racchiuso in un teorema di matematica indimostrabile; oppure lo spiritualizzano sino a trasformarlo in qualcosa di incomunicabile.
Una ricerca come questa va presa con il beneficio di inventario, ma è estremamente importante il motivo che l’ha suggerita: le opinioni che gli uomini hanno su Dio permettono di comprendere meglio le loro scelte. Potrà sembrare a taluni una vecchia questione riportata alla luce e scritta in margine a Voltaire — il quale riteneva indispensabile la religione per il buon funzionamento degli Stati — ma in realtà è attualissima. Dio, per intenderci, non è morto, non è tramontato, non è quello che hanno cercato di dimostrare o distruggere i filosofi; anzi dopo il crollo delle ideologie, dei totalitarismi e di molte illusioni del Novecento si è presentato di nuovo sul palcoscenico della storia. Se Heidegger aveva scritto che soltanto un Dio ci può salvare, noi ora ricominciamo a capire quanto sia ancora indispensabile per spiegare l’uomo.

l’Unità 9.10.10
L’essere fuori luogo secondo Derrida
Il filosofo francese accosta il nostro tempo a quello  ́sconnessoÆdi Amleto. Epoca ambigua dove tutto è fuori asse
di Beppe Sabaste


In  un’epoca in cui sempre più violentemente si assiste a una messa al bando delle idee, della scrittura, della memoria, della gratuità, quindi della vita, Jacques Derrida teneva alta la complessità del pensare e della lingua, e assicurava con la sua statura e la sua fama una sorta di barriera difensiva sia che parlasse di Sant’Agostino, dell’essere marrani, di scrittura e teologia apofatica, del concetto di democrazia, del divario tra giustizia e diritto, tra legge e forza, o del concetto di Stato-canaglia. Per dirlo con parole povere, Derrida allargava costantemente l’area del pensiero e della teoria, come i migliori scrittori allargano l’area del narrare. Nel 2004 Derrida aderì a un appello «contro la guerra all’intelligenza» lanciato dalla rivista Les Inrockuptibles: pur esprimendo riserve su quel soprannome, esso disse Derrida «designa chiaramente una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, il risentimento, anche, di tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope, quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, la società civile, lo Stato e anche l’economia». Insomma, Jacques Derrida parlava molto del proprio tempo (che è il nostro), anche se agli antipodi dell’esaltazione del «presente vivente» con cui Jean-Paul Sartre inaugurava nel 1948 Les Temps Modernes (...).
DA SHAKESPEARE A PHILIP DICK
Il nostro tempo, ha suggerito Derrida in Spettri di Marx (Cortina 1994), è molto simile al tempo sconnesso di Amleto, quando grazie allo spettro conosce la vera ragione del nuovo ordine del regno e prende atto che «The time is out of joint». Analoga profetica disgiuntura fu annunciata da Marx, della cui descrizione economico-antropologica del capitalismo dell’alienazione tramite il feticcio della merce, del valore del valore e altri spettri, che non era già mai solo alienazione del lavoro, ma alienazione dell’uomo e «della specie» si traggono soprattutto oggi le conseguenze. È il tempo out of joint del liberismo selvaggio e della crescente esclusione dalla vita democratica, della disseminazione di armi atomiche e degli «Stati-fantasma», come la mafia, il consorzio della droga, ecc. Scrive Derrida: «(I)l tempo è disarticolato, lussato, sconnesso, fuori posto, il tempo è serrato e disserrato, disturbato, insieme sregolato e folle. Il tempo è fuori di sesto (hors de ses gonds), il tempo è deportato, fuori di sé, disaggiustato. Dice Amleto». Derrida passa in rassegna le traduzioni di questo verso di Shakespeare (...)fino a quella magniloquente di Gide, «cette époque est déshonorée». Altrettante versioni esistono in italiano.
Derrida non ha letto, credo, lo scrittore americano Philip K. Dick, e in particolare il suo romanzo del 1959 dal titolo Time out of joint. Interessante è la variante del traduttore italiano per Sellerio, del resto assolutamente fedele al senso del romanzo: «Tempo fuori luogo». Come tutte le storie di Dick parla di un dis-astro, un deragliamento, un andare fuori asse del tempo che comincia in modo impercettibile e deve assolutamente trasformarsi. Narra di quella situazione così letteraria del percepire qualcosa fuori posto, sconnesso, disaggiustato nell’ordine delle cose (...); un oscuro disagio il cui crescendo spettrale ricorda la situazione filosofica dell’aporia descritta da Derrida in, appunto, Aporie. Tralascio la trama. Il problema narrativo, qui come nel genere di romanzi detta dei «mondi possibili», è sempre l’amletico problema di Hamlet, vorrei dire dell’homeless: quello di tornare a casa. Come tornare, e come «sentirsi» a casa. Nello spettro dell’abitare, lo sappiamo, hanter, «infestare», è una delle non tantissime modalità.
Il «fuori luogo» dice la dislocazione, la dis-giuntura su cui indugia Derrida nel libro su Marx; ciò che Amleto chiama il tra, l’interim, ovvero il passaggio impossibile, l’aporia; percorso dal Ghost al Guest e viceversa, secondo l’etica dell’ospitalità e dell’accoglienza più volte ribadita da Derrida. Fuori luogo sono i discorsi inattesi e paradossali (come minale, poiché «essere clandestini» oltre a un pleonasma è un reato). Il fuori luogo, faglia o rottura spazio-temporale, è la sensazione così attuale di essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso, come in una diaspora universale in cui si è dappertutto ma mai a casa (forse per questo abbiamo bisogno di una home page). È una dislocazione (o «delocazione», come le opere straordinarie di Claudio Parmiggiani ottenute col fumo e le tracce dell’assenza delle cose), che connette la questione dello spettro e dello spettrale alla speculazione e la scrittura delle storie di fantasmi alla scrittura fantasma, ghost writing. (Questione in sospeso, quindi, di cosa e come sia una lingua di fantasmi). La disgiuntura, il «tempo fuori luogo», dice l’urgenza, come ha scritto altrove Derrida, «faticosamente, dolorosamente, tragicamente, (Di) un nuovo pensiero delle frontiere, una nuova esperienza della casa, del chez-soi e dell’economia». Questa nuova esperienza dell’abitare è naturalmente anche una nuova esperienza del linguaggio: leggendo Shakespeare (ma anche leggendo Derrida, Marx e Philip K. Dick), il lettore investito da questa dislocazione è trasformato in un guest-writer.
Ovvero, per esempio, un testimone, che è sempre un, o il, fantasma revenant, colui che ritorna. Un arrivante, un ritornante, un superstite.
(...) In realtà è un’esperienza molto antica. È quella dell’unica vera avventura, di fronte alla quale ogni altra ne è solo l’insoddisfacente surrogato, del «parlare con i morti», su cui da anni sto scrivendo il mio, chiamiamolo così, «romanzo», e che ritrovo, sempre in anticipo e insieme in differita, in différance, in Derrida.
Trasformare il ritorno in rivolta, ha scritto Derrida, a proposito di Marx, e dello spettro del comunismo.
Il tempo del fantasma (come l’archivio) è l’avvenire, ha scritto altrove Derrida, e la sopravvivenza è «la vita più intensa che sia possibile».

Ansa.it 8.10.10
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Studio ricercatori diretti da docente Universita' Padova

qui segnalazione di Francesco Maiorano
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2010/10/08/visualizza_new.html_1734592913.html

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