l’Unità 10.10.10
La sfida del programma
Bersani: «È il Pd l’alternativa Rischio di derive autoritarie»
Il leader democratico incassa il sì sulla «svolta» del programma: «D’ora in poi si parla dei problemi»
Papa straniero? «Abbiamo un nostro progetto e non faremo gli utili idioti per qualcun altro»
Bersani incassa il sì unanime sul programma e rilancia l’allarme sul «secondo tempo» del berlusconismo: «Rischio di deriva plebiscitaria». Rivendica: «Senza il Pd non c’è alternativa e il premier non va a casa».
di Simone Collini
Ai compagni di partito che storcono la bocca sul nome di Casini o di Fini dice di non fare troppo i «sofistici» perché di fronte al rischio di «una deriva plebiscitaria» bisogna dar vita a una «alleanza per la democrazia» quanto più larga possibile. Agli alleati o aspiranti tali dice invece di smetterla con infide punzecchiature o plateali attacchi, perché «chi maltratta il Pd deve riflettere sul fatto che senza di noi Berlusconi non va a casa, senza il Pd non c’è alternativa». E se poi ci sono alcuni che pensano che per battere il centrodestra sia meglio affidarsi a un “papa straniero”, magari da reclutare tra gli imprenditori invece che tra i politici, ecco, anche per questi Pier Luigi Bersani ha un messaggio piuttosto preciso, e cioè che i Democratici hanno un loro «progetto per l’Italia» e non faranno i portatori d’acqua (di voti) per altri: «Spero che sia chiaro agli altri e anche in casa nostra, il Pd discute con tutti ma non fa la salmeria di nessuno dice tra gli applausi dei mille raccolti al Malpensafiere di Busto Arsizio, in provincia di Varese e nessuno pensi che possiamo fare gli utili idioti di qualcos’altro. Avremo il fisico per essere il traino dell’alternativa».
LA SVOLTA DI VARESE
L’Assemblea nazionale di Varese si chiude con quella che Bersani definisce una «svolta» per il suo partito, per via delle proposte su fisco, federalismo, immigrazione, piccole e medie imprese, ma anche per la discussione che c’è stata in questi due giorni di lavori, diversa da quella delle settimane passate. «Le gazzette sono ancora troppo piene di un partito che parla di sé e non dei problemi, che sono tanti. Non possiamo permetterci scarti su questo, perché i tempi stringono», dice il leader del Pd facendo anche notare che se il partito oggi «non viene rispettato abbastanza né dagli avversari né dagli amici» le cose cambieranno, ma a una condizione: «Che ci rispettiamo noi. E qui ci siamo rispettati».
SFIDA SULLA RIFORMA FISCALE
Non mancano i distinguo, qualche lamentela da parte di chi si aspettava di più su alcuni punti specifici, ma la discussione e poi l’approvazione all’unanimità dei documenti programmatici dà ai vertici del Pd la sensazione di ripartire da Varese con gli strumenti giusti per interloquire con la società. «Il problema oggi è la disaffezione nei confronti della politica, e qui abbiamo riavvicinato la politica ai cittadini, alle persone che lavorano», dice Bersani sfidando la destra a discutere il pacchetto di proposte fiscali lanciato dal Pd a sostegno dei redditi medio-bassi e in favore di chi reinveste nella propria azienda: «La riforma fiscale è un’urgenza in una fase di crisi come questa, e dal governo finora sono venuti solo balbettii e promesse mentre le tasse sono aumentate, per chi le paga».
SANSONE E I FILISTEI
Le proposte programmatiche lanciate a Varese in questo «Nord tradito dalla destra, preso in ostaggio da un interesse politico», sono per Bersani «materiali per un combattimento» che non sarà facile: «Non siamo oltre ma nel secondo tempo di Berlusconi, ed è la fase più pericolosa. La fine del berlusconismo non sarà un pranzo di gala, Berlusconi non se ne andrà bevendo una tazza di thè, preferirà il “muoia Sansone con tutti i filistei”». Quello che si è visto nelle ultime settimane, dice i leader del Pd, potrebbe non essere che l’inizio: «Se ci siano dossier in giro non lo so, però c’è paura in giro. Io no, io no eh ripete due volte ma c’è paura in giro, e non solo a Roma».
GOVERNO PER LA LEGGE ELETTORALE
Il rischio è che anche qualche «pilastro costituzionale» venga buttato giù dalla crisi della destra. Per questo è meglio evitare «sofismi» e cercare «tutte le possibili convergenze» per arginare il rischio di una «deriva plebiscitaria» e anzi «mettere in sicurezza la democrazia». E questo vuol dire non solo lavorare «con chi ci sta» per un governo tecnico che cambi la legge elettorale. Ma anche, nella prospettiva del voto, dar vita a un Nuovo Ulivo con le «forze di centrosinistra che abbiano attitudine di governo», e anche, pur senza ripetere l’errore dell’Unione, «ricercare un patto di governo con tutte le forze di opposizione», Udc compresa.
Un discorso condiviso dalla platea, che risponde con applausi ai passaggi sulla sfida alla destra e agli appelli all’unità. E da Dario Franceschini: «Siamo in una situazione di emergenza a cui si risponde con strumenti di emergenza, e cioè un appello a tutti quelli che ci stanno per cambiare questa legge elettorale e poi tornare alla normalità del bipolarismo». Applaude alla fine anche Walter Veltroni, che pure nelle settimane scorse aveva messo in guardia circa i rischi insiti nelle “sante alleanze”. Oggi l’ex segretario dice però di aver «apprezzato» il discorso di Bersani: «Ha ascoltato ed ha tenuto conto e risposto positivamente a molte delle osservazioni che erano state fatte. È proprio il metodo giusto per rafforzare il partito e il suo profilo riformista».
Repubblica 10.10.10
Bersani: "Berlusconi è pericoloso serve un governo di transizione"
Il leader Pd: dal governo balbettii sul fisco. Stretta sugli immigrati
Il segretario agli alleati: "Non maltrattate il mio partito, senza di noi non c´è alternativa"
Anche Franceschini rilancia l´Alleanza costituzionale: "È il momento dell´emergenza"
di Giovanna Casadio
Busto Arsizio - «Non se ne andrà, quest´uomo, sorseggiando il thè. Siamo in un secondo tempo di Berlusconi ed è la fase più pericolosa». Pier Luigi Bersani lancia l´allarme sulla fine del governo Berlusconi. Maniche rimboccate (come da slogan «Rimbocchiamoci le maniche»), il segretario del Pd denuncia un clima di paura: mentre l´Italia di certi tg di regime sembra «alla Gozzano», ossia senza problemi. Invece crisi economica e sociale si stanno avvitando e qui occorrono «ricette concrete». Rilancia: «Siamo pronti a un breve governo di transizione per la legge elettorale. Per questo progetto ci rivolgiamo a tutte le forze che vogliono mettere in sicurezza la democrazia». Stessa identità di vedute con Dario Franceschini, che poco prima ha detto: «A emergenza democratica si danno risposte di emergenza». Non è «tempo di sofismi, ma di far comprendere la posta in gioco - insiste Bersani -. Se diffondiamo l´idea che c´è voglia di inciucio facciamo solo danni». Mentre qui c´è una legge elettorale che è una «stra-vergogna», che con il 35% dei consensi consente di prendersi tutto «compresa la maggioranza delle Camere riunite per eleggere il capo dello Stato».
Il catino del Malpensafiera, dove si tiene l´Assemblea nazionale dei Democratici - nella tana della Lega - applaude a lungo. «Da qui», dal varesotto laborioso, delle piccole e medie imprese, delle partite Iva, degli artigian,i «deve partire la svolta». Sul fisco. Altro che «i balbettii, la riforma fiscale è un´urgenza. Sono due grandi messaggi: alleggeriamo il lavoro e l´impresa, la famiglia con i figli che ha difficoltà. Non lasciamoli a Bossi che fa solo promesse. Non è vero che siamo stranieri al nord, il sogno e il progetto di Bossi e Berlusconi sono falliti. Il Nord tradito, l´Italia tradita. Dov´è il federalismo? Chiacchiere. Si parlava di fisco, infrastrutture, burocrazia. non c´è un miglioramento in nessuno di questi campi». Lo dice tutto d´un fiato Bersani in un´ora circa di intervento, che piace anche a Veltroni («Giusto il metodo per rafforzare il partito «) e ai «75» movimentisti. Sull´immigrazione, che è stato in questa due giorni varesina il punto di massima distanza tra maggioranza e minoranza del Pd, si lascia la palla ancora in campo.
Veltroni ha fatto una proposta (gli ingressi a punti) che al ministro dell´Interno, Roberto Maroni piace. Bersani media: «Sull´immigrazione noi dobbiamo trovare un´idea che non oscilli tra modelli securitari e modelli buonisti, bisogna essere razionali». A condurre l´attacco contro Veltroni è soprattutto Franceschini. La disfida tra i due è aperta su immigrazione, "buonismo" e integrazione. Il capogruppo alla Camera rivendica: «Sì alle regole certe per l´immigrazione ma io sto dalla parte del cardinale Tettamanzi, coniugare accoglienza e integrazione». E i delegati democratici s´infiammano. Poi un altro affondo: «No alle ipocrisie, per cui si va d´accordo nelle riunioni ufficiali, di partito mentre si fa la guerra sui giornali». Fioroni, Veltroni e Gentiloni giudicano l´attacco «un errore». D´altra parte, Bersani invita a «rispettarsi anche dentro il partito per farsi rispettare, siamo un bel partito». Si rivolge anche a Vendola: «Senza il Pd Berlusconi non va a casa, non siamo utili idioti, non faremo la salmeria a nessuno. Chi maltratta il Pd rischia di tenersi Berlusconi». Apre il capitolo alleanze. «Mai più l´Unione - assicura - in cui mentre il governo faceva le uniche cose per il Nord come il cuneo fiscale e le infrastrutture, qualche tuo alleato metteva le dita negli occhi. Noi vogliamo bene agli artigiani, alle piccole imprese, a chi lavora per bene». Sette i documenti programmatici votati per far decollare la sfida al Nord. Bersani ringrazia i «democratici lumbàrd». Daniele Marantelli, il pd varesino che si è speso per organizzare la kermesse, incassa i complimenti. Tra un mese appuntamento a Napoli.
Repubblica 10.10.10
Il documento dell’ex segretario sull´immigrazione divide i democratici. La Turco: "Dobbiamo essere alternativi al Pdl"
L’ultimo affondo dei dalemiani "Ormai Veltroni parla come la destra"
di Goffredo De Marchis
Sempre più netta la divisione tra Walter e Franceschini. L´ex sindaco: "Dario fuori luogo"
Il documento approvato è stato apprezzato dal ministro degli Interni Maroni
Busto Arsizio - Una lunga mediazione notturna. E un testo approvato all´unanimità perché alla fine lascia in piedi tutte le posizioni: immigrazione selettiva sì, ma attraverso le quote o i punti? C´è una bella differenza e se ne riparlerà più avanti. Ma il sasso è lanciato, Veltroni impugna, con il tema extracomunitari, la bandiera dell´innovazione che secondo lui tanto manca nel Partito democratico. E non ha intenzione di mollarla se è vero che nei prossimi giorni la materia-chiave su cui si giocano i voti del Nord sarà oggetto di un confronto tra lui e il ministro dell´Interno Maroni a Porta a porta. Sull´«immigrato doc», più integrabile se ha la laurea e conosce un po´ di italiano come semplificano nella sala di MalpensaFiere alcuni delegati del Pd non proprio veltroniani, finiscono per misurarsi anche gli schieramenti interni. Il dalemiano più alto in grado presente a Busto Arsizio, stante l´assenza di D´Alema, è Nicola Latorre. Non usa mezzi termini: «Un´iniziativa, quella dell´ammissione a punti, da partito di destra. Non la condivido e penso che inseguire la Lega sul suo terreno non sia né utile né giusto». Il franceschiniano David Sassoli, capodelegazione del Pd al Parlamento europeo, tira fuori un po´ di fogli dalla sua cartella: «Ecco qua. La proposta di Walter è identica a quella dei partiti conservatori. L´idea delle forze progressiste nella Ue muove dall´integrazione».
Si dice in sala che Maroni sia attento al documento dei veltroniani. L´attenzione dei leghisti naturalmente diventa un tema scivoloso dentro il Pd, tanto più dopo le ferite dei recenti scambi di accuse sull´intelligenza con il nemico. Ecco perché l´ex segretario Veltroni fa sapere che quando vedrà Maroni in tv l´argomento sarà la lotta alla criminalità. Si sono consumati sulla serissima questione anche alcuni duelli che riguardano le dinamiche interne, soprattutto nell´area della vecchia minoranza. Jean Leonard Touadì, il deputato di colore già assessore nella giunta Veltroni, ha trovato la sua firma in cima all´elenco del documento sui punti. «Ma io non l´ho mai firmato», ha chiarito e alcuni suoi colleghi hanno fatto notare la strumentalità della mossa. Livia Turco ha precisato che l´ipotesi dei punti era anche nel suo documento iniziale. Certo non con quella chiarezza. Prima di chiudere i battenti dell´assemblea nazionale ci tiene a dire: «Noi siamo alternativi al centrodestra su queste politiche». Come dire: altri lo sono meno. Ma il cattolico Andrea Sarubbi difende il documento veltroniano: «Vedo il mio blog. Si sente la necessità di un approccio diverso».
Veltroni, seduto in prima fila, raccoglie i dubbi, discute senza polemica con la Turco. È infastidito dall´intervento di Dario Franceschini. Per l´attacco diretto a chi predica unità negli organismi del partito e poi sui giornali il giorno successivo alimenta divisioni. «È fuori luogo. Le interviste ai giornali le facciamo tutti, anche lui», commenta l´ex segretario. Anche le parole sull´immigrazione sembrano rivolte agli ex amici della minoranza. «Noi abbiamo un´idea diversa dalla destra. Sto con il cardinale Tettamanzi: accoglienza e integrazione», dice il capogruppo. Dal palco il segretario Pier Luigi Bersani media: «Non dobbiamo essere buoni con il fenomeno. Ma razionali. E soprattutto dobbiamo trovare il modo per cui non deve pagare un povero italiano l´arrivo di un altro povero straniero». Prima che si spengano le luci di MalpensaFiere, Veltroni elogia il segretario per il suo discorso: «Usciamo meglio di come siamo entrati. Il Pd ora è più aperto, più plurale». Ma anche l´asse Franceschini-Bersani sembra solidissimo. Sono due minoranze o ex tali che cercano un rapporto diretto con il leader del partito. Un vantaggio per Bersani.
il Fatto 10.10.10
Il Pd va al Nord ma fa autoanalisi collettiva
L’Assemblea nazionale vuole riconquistare le roccaforti leghiste
di Ferruccio Sansa
Dal palco Bersani lancia allarmi sulla “seconda fase” di Berlusconi: “C'è il rischio di una deriva plebiscitaria, per fermarla dobbiamo essere pronti a un’alleanza per la democrazia con chi ci sta. Questa legge elettorale consente, con il 35 per cento dei voti, di prendersi tutto, compreso il capo dello Stato”. Intanto i gruppi di lavoro del Pd votano le proposte sul fisco: aliquota fissa del 20 per cento per prima fascia Irpef, redditi da piccola impresa e da capitale.
“Il Pd è venuto al Nord”. Lo ripetono una, dieci, cento volte. È il mantra dell’assemblea nazionale del Pd. Uno slogan che è un lapsus freudiano: “Macché venire, non siamo un partito romano. Al Nord ci siamo già”, sibila Pippo Civati, lombardo, 35 anni, una delle menti più aguzze del Pd.
È vero, il Pd nel Nord c’è già. Almeno, una volta c’era. Siamo alla Malpensa, nel cuore del Nord leghista. Qui, vent’anni fa, c’erano amministrazioni di sinistra. Oggi sono più rare dei panda. Per capire il crinale su cui cammina il Pd bisogna ascoltare ogni parola di questa due giorni. Si chiama assemblea nazionale, ma sembra una seduta di autoanalisi collettiva. Si ascoltano le proposte del Pd che vuole conquistare il Nord. Ma venire alla Malpensa aiuta soprattutto a capire che cosa il Pd pensi di sé.
“Siamo progressisti, ci vedono conservatori”
A COMINCIARE da quell’immagine folgorante di Enrico Letta che vale cento discorsi: “Noi siamo progressisti, ma ci percepiscono come conservatori”, dice il vice-segretario. E il suo sguardo si sposta verso il palco con Anna Finocchiaro, Dario Franceschini, Rosy Bindi. In prima fila Piero Fassino, Walter Veltroni e Nicola Latorre: gli stessi volti di vent’anni fa. Un’altra frase dai risvolti freudiani. Mentre Letta la pronuncia, ecco Civati, con quell’espressione tra l’intellettuale e il Pierino, che raccoglie le firme per limitare l’eleggibilità degli onorevoli a tre mandati (“già prevista nello statuto”). Sarebbe una strage: dei leader ne resterebbe una manciata. Così Nicola Latorre, che ha resistito imperturbabile alle intercettazioni Antoveneta, propone una versione tutta sua: “Idea saggia, ma bisogna prevedere deroghe per alcuni leader. Le deroghe fanno parte delle regole”. Ma qualcuno ironizza: “C’è gente eletta con Giolitti”. Davvero, più che un analista politico, qui ci vorrebbe un analista tout court. Annoterebbe le frasi in cui i vertici del Pd ripetono – a se stessi, prima che al pubblico – chi sono. “Noi siamo il cambiamento” (Letta). “Noi siamo le persone giuste per vincere” (Bindi). “Siamo un bel partito, non ci rispettano abbastanza” (Bersani). Dal lettino il paziente Pd rivela i propri incubi: “Tocca a noi, noi possiamo farlo, non Beppe Grillo” (Veltroni). Già, Grillo, Vendola e, ovviamente, la Lega, le “soluzioni rabbiose” (Bersani).
L’obiettivo dell’assemblea era, per dirla con il deputato Daniele Marantelli, “fare proposte concrete”. Poi, però, ecco soprattutto echeggiare quel nome: il Cavaliere. “Berlusconi rilancerà, forse fino a far traballare qualche pilastro costituzionale, non sarà un pranzo di gala. Non siamo oltre il berlusconismo, siamo al secondo tempo ed è la fase più pericolosa” (Bersani).
“Peccato”, allarga le braccia un delegato, “perché nei documenti presentati all’assemblea affrontavamo le questioni care al Nord. Facevamo proposte concrete”. Vero, se ne discute nei gruppi di lavoro, ma quando i rif lettori di tv e giornali sono spenti. I taccuini annotano piuttosto la sistemazione in sala, secondo schieramenti contrapposti. Misurano gli applausi tiepidi che le diverse correnti riservano agli avversari. E dire che in Lombardia l’anno prossimo si gioca la battaglia forse decisiva per la stessa sopravvivenza del Pd: si vota a Milano. Il centrosinistra, se non si divorerà da solo, potrebbe farcela nel regno di Berlusconi.
La curiosità degli imprenditori
ALLORA , alla fine, lo sbarco al Nord è riuscito? “Sì, siamo venuti per vedere le carte alla Lega e scoprire il bluff”, non ha dubbi il delegato lombardo Carlo Benetti. E il suo “amico” di partito (si chiamano così quelli che una volta erano “compagni”) Dario Terreni aggiunge: “Qui a Varese abbiamo 25 mila disoccupati, il 20 per cento sono giovani sotto i 25 anni. E la Lega mostra bilanci trionfanti”.
Ma per capire se le proposte del Pd siano davvero uscite fuori dalle grandi sale bianche della Fiera bisogna sentire loro, i piccoli imprenditori. Roberto Belloli, portavoce del movimento dei “Contadini del tessile” (industriali della zona di Busto Arsizio che si battono per la difesa dei prodotti italiani) scrolla la testa: “Sono messaggi lontanissimi dall’economia reale. Altro che aliquote, servono condizioni di reciprocità nei dazi per esempio con la Cina. Ecco, la Lega qualche interesse in questo senso l’ha dimostrato”. Porta chiuse al Pd? No. Basta sentire Alberto Vanzini, industriale metalmeccanico che con la sua protesta apartitica ha richiamato nel paese di Jerago colleghi da tutta Italia: “L’aliquota del 20 per cento mi incuriosisce”, commenta. Aggiunge: “Noi dobbiamo pagare fino al 60 per cento di tasse e altre gabelle. Finora abbiamo avuto qualche segnale solo a parole, ora servono interventi sostanziali”. Insomma, lo spazio per il Pd c’è. Le sue proposte interessano. Ma non basta “venire” al Nord per due giorni e poi prendere l’aereo per Roma appena finisce di parlare Bersani.
il Riformista 10.10.10
Governo di transizione Bersani lancia l’alleanza anti-Silvio
di Alessandro Da Rold
qui
http://www.scribd.com/doc/39035915
l’Unità 10.10.10
Contro l’attacco ai diritti sabato prossimo la piazza sarà della Fiom Cgil
Molte adesioni alla manifestazione del 16, indetta subito dopo l’accordo di Pomigliano contro lo smantellamento dei diritti. Domani il segretario Landini all’università Bicocca a Milano per un incontro con gli studenti.
di Laura Matteucci
E sabato prossimo la piazza di Roma sarà della Fiom Cgil. Con lo slogan «Il lavoro è un bene comune», a piazza San Giovanni, dove parleranno il segretario Maurizio Landini e il leader della Cgil Guglielmo Epifani, sono attese migliaia di persone da tutta Italia: «Contro l’attacco al lavoro e ai diritti, contro l’idea che uscire dalla crisi è possibile solo in modo regressivo e autoritario», spiega Francesca Re David, responsabile dell’ufficio organizzazione della Fiom, riferendosi al fatto che la crisi viene utilizzata da governo e imprese per ridisegnare il mondo del lavoro.
Infatti, la manifestazione del 16 ottobre, tappa del percorso che porterà alla manifestazione della Cgil del 27 novembre, è stata indetta subito dopo l’accordo alla Fiat di Pomigliano: se per Bonanni della Cisl ce ne vorrebbero «10, 100, 1000», per la Cgil è la prova generale dello smantellamento progressivo del contratto nazionale. Altre, più recenti conferme sono poi arrivate col ddl lavoro e con l’accordo di settembre tra Federmeccanica, Cisl e Uil sulle deroghe al contratto (solo il salario minimo è rimasto come punto fisso): «Nel mondo del lavoro l’unico punto di riferimento rimasto sono i profitti continua Re David Il lavoro è solo una merce, i diritti un costo. L’attacco più forte, infatti, è al diritto stesso a contrattare le condizioni dei lavoratori. Siamo alla fine della mediazione sociale, qui c’è solo un interesse prevalente, il profitto appunto. E nessuna democrazia». La parola chiave che tiene tutti in scacco è precarietà, collegata «con il modello di sviluppo che si vuole imporre: più si concorre sui costi, infatti, e meno si ha bisogno di innovare».
ADESIONI IN AUMENTO
Dal Piemonte arriveranno a Roma 3mila lavoratori, 1.200 dei quali da Torino. «Difenderemo la manifestazione dice Giogio Airaudo, segretario nazionale, responsabile del settore auto che sarà democratica, senza intolleranze e non violenta con
l’obiettivo di rimettere al centro il lavoro e la democrazia nel lavoro per il nostro Paese». E le richieste di adesione continuano ad aumentare, sia da parte di partiti e movimenti dell’opposizione (Sel, l’Italia dei valori hanno già aderito, in piazza esponenti del Pd e anche il movimento per l’acqua pubblica), sia da parte del mondo della scuola e dell’università, che sarà presente con centinaia di studenti e di docenti precari. A conferma di un legame che si sta saldando, tra l’altro, domani mattina Landini sarà a Milano, dove terrà insieme ad alcuni docenti un’assemblea pubblica all’Università Bicocca.
Perchè, come dice Domenico Pantaleo, segretario della Flc Cgil: «L’opposizione all’idea di società che si vuole imporre, da parte del governo e delle imprese, basata sulla riduzione dei diritti sarà la questione centrale per unificare movimenti, associazioni e sindacato. C’è un nesso inscindibile tra diritti nel lavoro, saperi e libertà». Adesioni anche da parte di molti intellettuali, politici, scrittori, da Antonio Tabucchi ad Andrea Camilleri.
Due i cortei previsti, in partenza intorno alle 14 da piazzale Ostiense e da piazza della Repubblica, che convergeranno in piazza San Giovanni. Per saperne di più, si può anche visitare il sito www.fiom.cgil.it
il Fatto 10.10.10
“Io, schiavo di Stato”
La rabbia al corteo dei migranti per i soprusi dei caporali e per quelli della legge
di Vincenzo Iurillo
Arrivano in gruppi, scendono dai treni, dai pullman, si radunano nella piazza della stazione ferroviaria, punto di partenza del corteo. Sono il popolo degli immigrati africani, dei “senza diritti” che affollano le degradate periferie domiziane e della provincia casertana. Arrivano da Castel Volturno, da Casal di Principe, da Pianura, da Quarto, da Scampia, da Villa Literno. Dalle capitali del caporalato. Ognuno con la sua storia, col suo carico di povertà e di disagio, con una famiglia da mantenere in Africa o qui in Italia. Ognuno a combattere quotidianamente una guerra per la sopravvivenza e per strappare il permesso di soggiorno. E con esso la dignità di poter dire a testa alta “io esisto, io non devo nascondermi”.
Il giorno dopo lo sciopero delle rotonde stradali e dei cartelli “non lavoro per meno di 50 euro”, rieccoli, stavolta tutti insieme a Caserta, coordinati dal centro sociale dell’ex Canapificio e dai movimenti antirazzisti (i sindacati non hanno aderito alla manifestazione), per marciare pacificamente verso il palazzo della Prefettura, deve una delegazione verrà ricevuta dal prefetto.
Il sogno “permesso di soggiorno”
IN DUEMILA scandiscono slogan e ballano musica etnica per reclamare il rilascio dei permessi di soggiorno. Pratiche ferme anni tra pastoie burocratiche e leggi anti immigrazione. Insieme alla crisi e ai licenziamenti in atto al Nord, sono le cause di una quantità industriale di “irregolari di ritorno” che di nuovo affollano le campagne casertane. Immigrati col permesso scaduto e non rinnovabile senza contratto di lavoro, che in teoria dovrebbero prima tornare nel paese di origine. Il popolo colorato riceve la solidarietà del sindaco Nicodemo Petteruti (Pd): “Caserta vi dà il benvenuto, un Paese civile dovrebbe superare e risolvere le vostre difficoltà”. E del vescovo Raffaele Nogaro: “Gli immigrati sono miei fratelli, sono miei figli. La Curia è al loro fianco per proteggerli dalle insidie di questo territorio”. Nel corteo ci sono padre Alex Zanotelli, don Vitaliano della Sala, l’ex deputato “disobbediente” Francesco Caruso.
I volti mostrano i segni di storie dolorose. A reggere lo striscione dell’associazione “Jerry Masslo” (sudafricano rifugiatosi in Italia per sfuggire alle persecuzioni razziali, ucciso nel corso di una rapina da giovani balordi di Villa Literno nel 1989) di Castelvolturno, creata dall’ex sindaco comunista Renato Natali, c’è chi ha una storia incredibile da raccontare, il suo nome è Lamin.
Ventitré anni da “clandestno”
LAMIN ha 46 anni e un cognome impronunciabile che ci prega di non rivelare perché non ha il permesso di soggiorno. Eppure vive da 23 anni in Italia. Viene dal Senegal. Abita a Castelvolturno, in una casa insieme ad altri 4 immigrati, per un fitto di circa 100 euro a testa. Le bollette sono intestate a uno di loro che il permesso ce l’ha. Lamin ha conosciuto il carcere per spaccio di droga, poi il riscatto del lavoro nelle associazioni di volontariato per il recupero dei disabili. Ha una ex moglie in Africa, una ex compagna conosciuta nel Nord quando lavorava in fabbrica, una figlia che vive nel Continente Nero e che vede solo coi programmi di video-chiamate su Internet: “Arrivai a Villa Literno nel 1987, all’epoca ci chiamavano per la raccolta dei pomodori”. Poi l’emigrazione a Verona, l’impiego in fabbrica, i guai giudiziari, “perché ero giovane e volevo divertirmi”. E col carcere il permesso di soggiorno diventa un traguardo difficile. Cosi quando anche il lavoro viene a mancare, Lamin torna dagli amici neri del casertano. E si inventa una nuova vita con l’attivismo nella “Jerry Masslo”, in Libera e in una cooperativa convenzionata con l’Asl di Aversa, grazie alla quale guadagna circa 400 euro al mese lavorando 3 giorni alla settimana. Si impegna per strappare le prostitute nere dalla strada e per questo viene sequestrato e rapinato di tutti i suoi averi in casa da un clan di africani. Li denuncerà e ne farà arrestare otto. Così, ottiene un permesso di soggiorno per motivi di merito civile. Ma è scaduto, e non riesce a rinnovarlo. “Mi sento italiano e amo gli italiani – dice Lamin – e io come i miei amici africani potremmo dare tanto per questo Paese. Ma odio i politici e mi sento tradito. Non sono un buon esempio per noi, sono corrotti e ci istigano a fare il male. Hanno fatto leggi da Ku Klux Klan”.
Dalle finestre di una scuola dell’infanzia, i bambini salutano il corteo e vengono ricambiati. Sono cinque, ce n’è uno di colore. Un’operatrice ci spiega: “Siccome non hanno la documentazione a posto, i figli degli immigrati irregolari devono pagare mensa e scuolabus come se appartenessero alle fasce più ricche di reddito”. L’ennesima assurdità di uno Stato che scarica sui più deboli e indifesi le colpe degli altri.
Repubblica 10.10.10
Il quotidiano di Rifondazione è in grave crisi e numerosi artisti mettono in vendita 106 opere d´arte
Asta benefica per salvare "Liberazione"
ROMA - L´arte e le idee per impedire la chiusura di un giornale. Si chiama "Che cento fiori sboccino - Artisti per Liberazione". Ed è un´asta, ideata, per l´appunto, da un centinaio di artisti e intellettuali allo scopo di recuperare fondi e salvare una «voce libera» dell´informazione.
Il quotidiano è "Liberazione", la "voce" di Rifondazione comunista. Sigla, insieme con altre della galassia di sinistra, rimasta fuori dal Parlamento dopo le elezioni del 2008. I mesi di vita della redazione sono contati, è l´allarme lanciato dal Prc e dai vertici del giornale. Parte da qui l´iniziativa promossa dal centro per l´arte contemporanea La Nuova Pesa: sarà inaugurata domani la mostra di 106 opere di artisti italiani e stranieri che si concluderà lunedì 18 con un´asta. Il tutto presso la galleria del centro, in via del Corso 530 a Roma. Le opere sono già consultabili sul sito nuovapesa.it/eventi/catalogo.pdf. La mobilitazione degli artisti, che prende le mosse dal critico Roberto Gramiccia e dalla madrina dell´iniziativa Simona Marchini, nasce anche dall´attenzione che il quotidiano ha sempre mostrato nei confronti del mondo dell´arte. E il ricavato di quanto venduto all´asta sarà interamente devoluto a "Liberazione".
Settimana dedicata alla mostra, dunque, ma anche al dibattito per sensibilizzare l´opinione pubblica sul tema del pluralismo dell´informazione e sul rischio chiusura per molti organi di informazione, di partito e non solo, colpiti dalla stretta sui fondi per l´editoria e più in generale dalla crisi del mercato. Dal Manifesto a Europa, dal Secolo a Liberazione. Giovedì 14 è prevista dunque una tavola rotonda dal titolo "Alla democrazia serve una stampa libera, indipendente e plurale", con direttori ed editorialisti di alcuni giornali, coordinata dal direttore del tg3 Bianca Berlinguer, sempre nella sede della galleria La Nuova Pesa.
Repubblica 10.10.10
Il presidente Usa rende omaggio all´uomo che liberò i neri dalla segregazione
Il mio maestro Mandela
di Barack Obama
Mentre il futuro presidente del Sudafrica era in prigione un giovane studente americano incominciava a fare politica Il passaggio di testimone nella nuova biografia del leader anti-apartheid
Uno era il prigioniero più famoso del mondo, leader della lotta all´apartheid, futuro presidente del Sudafrica L´altro uno studente universitario che scopriva la politica, futuro presidente degli Stati Uniti. Ora l´ex allievo rende omaggio al maestro nella nuova biografia dell´uomo che liberò i neri dalla segregazione. Ne anticipiamo un brano
Come tanti altri al mondo, ho conosciuto Nelson Mandela da lontano, quando era imprigionato a Robben Island. Per molti di noi lui era più di un uomo: era un simbolo della lotta per la giustizia, l´uguaglianza e la dignità in Sudafrica e in tutto il pianeta. Il suo sacrificio era così grande da incitare ovunque le persone a fare tutto ciò che era in loro potere per il progresso dell´umanità. Nel più modesto dei modi, sono stato uno di coloro che hanno cercato di rispondere al suo appello. Ho cominciato a interessarmi di politica negli anni del college, unendomi alla campagna di disinvestimento e per la fine dell´apartheid in Sudafrica. Nessuno degli ostacoli personali che mi trovavo ad affrontare come giovane uomo era paragonabile a quello che le vittime dell´apartheid vivevano ogni giorno.
E potevo solo immaginare il coraggio che aveva portato Mandela a rimanere in quella cella per così tanti anni. Ma il suo esempio contribuiva ad aumentare la mia consapevolezza del mondo e del dovere che tutti noi abbiamo di lottare per ciò che è giusto. Con le sue scelte, Mandela dimostrava che non dobbiamo accettare il mondo così com´è, che possiamo fare la nostra parte perché diventi come dovrebbe essere.
Nel corso degli anni ho continuato a guardare a Nelson Mandela con ammirazione e umiltà, ispirato dal senso di possibilità che la sua vita dimostrava e sgomento di fronte ai sacrifici necessari per coronare il suo sogno di giustizia e uguaglianza. Di fatto, la sua vita racconta una storia che si erge in netta opposizione al cinismo e alla rassegnazione che così spesso affliggono il nostro mondo. Un prigioniero è diventato un uomo libero; un simbolo di emancipazione è diventato una voce appassionata a favore della riconciliazione; un leader di partito è diventato un presidente che ha promosso la democrazia e lo sviluppo. Anche dopo avere lasciato gli incarichi ufficiali, Mandela continua a lavorare per l´uguaglianza, l´ampliamento delle opportunità e la dignità umana. Ha fatto così tanto per cambiare il proprio Paese, e il mondo, che è difficile riuscire a immaginare la storia degli ultimi decenni senza di lui.
Poco più di vent´anni dopo aver fatto il mio ingresso nella vita politica e nel movimento per il disinvestimento come studente di college in California, sono entrato in quella che era stata la cella di Mandela a Robben Island. Ero appena stato eletto senatore degli Stati Uniti. La cella era ormai stata trasformata da una prigione in un monumento al sacrificio compiuto da così tante persone per una trasformazione pacifica del Sudafrica. Mentre mi trovavo in quella cella, ho provato a tornare indietro nel tempo, ai giorni in cui il presidente Mandela era ancora il prigioniero 466/64, quando la vittoria nella sua battaglia era tutt´altro che una certezza. Ho cercato di immaginare Mandela - quella figura leggendaria che aveva cambiato la storia - come l´uomo Mandela, che aveva sacrificato così tanto per il cambiamento.
Io, Nelson Mandela offre uno straordinario contributo al mondo, restituendoci proprio l´immagine dell´uomo Mandela. [...] Mandela aveva intitolato la sua autobiografia Lungo cammino verso la libertà. Ora, questo volume ci aiuta a ripercorrere i passi - e le deviazioni - che ha compiuto durante quel viaggio. Fornendoci questo ritratto a tutto tondo, Nelson Mandela ci ricorda di non essere stato un uomo perfetto. Anche lui, come tutti noi, ha i suoi difetti. Ma sono proprio queste imperfezioni che dovrebbero essere d´ispirazione per ciascuno di noi. Perché, se siamo onesti con noi stessi, sappiamo che affrontiamo battaglie piccole e grandi, personali e politiche, per superare la paura e il dubbio, per continuare a impegnarci anche quando l´esito della lotta è incerto, per perdonare gli altri e sfidare noi stessi. La storia raccontata da questo libro - e la storia della vita di Mandela - non è quella di esseri umani infallibili e di un inevitabile trionfo. È la storia di un uomo disposto a rischiare la vita per ciò in cui credeva e ha lavorato incessantemente per condurre quel genere di esistenza che avrebbe reso il mondo un posto migliore.
Alla fine, è questo il messaggio di Mandela a ognuno di noi. Per tutti ci sono giorni in cui sembra che cambiare sia impossibile, giorni in cui le avversità e le nostre imperfezioni possono indurci a desiderare di imboccare un sentiero più facile, che eviti le nostre responsabilità verso gli altri. Perfino Mandela ha vissuto giorni come questi. Ma anche quando soltanto un tenue raggio di sole penetrava in quella cella a Robben Island, riusciva a vedere un futuro migliore, degno del suo sacrificio. Anche quando ha dovuto fare i conti con la tentazione di cercare vendetta, ha visto la necessità di una riconciliazione e il trionfo dei principi sul mero potere. Anche quando ha raggiunto il meritato riposo, ha continuato a cercare - e continua tuttora - di ispirare i suoi compagni e le sue compagne a mettersi al servizio dell´umanità.
Prima di diventare presidente degli Stati Uniti ho avuto il grande privilegio di incontrare Mandela e dopo la mia elezione ho parlato in varie occasioni con lui al telefono. In genere sono conversazioni brevi: lui è ormai giunto al crepuscolo della sua vita e io devo affrontare il fitto programma di impegni che la mia carica mi impone. Ma sempre, durante queste conversazioni, ci sono momenti in cui traspaiono la gentilezza, la generosità la saggezza dell´uomo. Quei momenti mi ricordano che dietro la storia che è stata scritta c´è un essere umano che ha scelto di far vincere la speranza sulla paura e di guardare avanti, oltre le prigioni del passato. E mi rammentano che, per quanto sia diventato una leggenda, conoscere l´uomo - Nelson Mandela - significa rispettarlo ancora di più.
© 2010 by Barack Obama/ Agenzia Santachiara
Repubblica 10.10.10
Ma nonn volevo essere un santo
di Nelson Mandela
Gli uomini e le donne di tutto il mondo, nel corso dei secoli, vanno e vengono. Alcuni non si lasciano nulla alle spalle, nemmeno il proprio nome. Sembra che non siano nemmeno mai esistiti. Altri si lasciano dietro qualcosa: il ricordo ossessivo degli atti malvagi commessi contro gli altri, gravi violazioni dei diritti umani, che non si limitano all´oppressione e allo sfruttamento di minoranze etniche ma si spingono fino al genocidio per conservare intatte le proprie orrende politiche. Il decadimento morale di certe comunità in varie parti del mondo si rivela fra le altre cose nell´uso del nome di Dio per giustificare azioni condannate dal mondo intero come crimini contro l´umanità. Nella moltitudine di coloro che nel corso della storia si sono dedicati alla lotta per la giustizia in ogni sua forma, ci sono alcuni che hanno comandato invincibili eserciti liberatori.
Eserciti che hanno intrapreso operazioni entusiasmanti e hanno compiuto enormi sacrifici per liberare il loro popolo dal giogo dell´oppressione, per migliorare le condizioni di vita creando posti di lavoro, costruendo case, scuole, ospedali, introducendo l´elettricità e portando acqua pulita e potabile alle persone, soprattutto nelle zone rurali. Il loro scopo era eliminare il divario tra ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, sani e malati, affetti da malattie che si potevano tranquillamente prevenire. In effetti, quando un regime reazionario veniva rovesciato, i liberatori cercavano di fare del proprio meglio, nei limiti delle risorse a loro disposizione, per portare a compimento questi nobili obiettivi e per introdurre un governo pulito, libero da ogni forma di corruzione. Quasi tutti i membri del gruppo oppresso traboccavano di speranza che i sogni tanto agognati potessero finalmente realizzarsi, che sarebbero riusciti a riacquistare una dignità umana ormai negata da decenni o addirittura secoli.
Ma la storia non smette mai di giocare brutti scherzi, anche a quei paladini della libertà famosi in tutto il mondo. Spesso i rivoluzionari del passato hanno ceduto facilmente all´avidità, e anche ultimamente la tendenza a dirottare le risorse pubbliche per l´arricchimento personale li ha sopraffatti. Accumulando grandi ricchezze e tradendo i nobili obiettivi che li avevano resi famosi, hanno virtualmente disertato le masse dei popoli e si sono alleati con gli ex oppressori, derubando senza pietà i più poveri solo per arricchirsi. Vige un rispetto universale e perfino una sorta di ammirazione per chi è umile e semplice per natura e per chi mostra assoluta fiducia in tutti gli esseri umani, indipendentemente dallo status sociale. Questi sono uomini e donne, celebri e sconosciuti, che hanno dichiarato guerra a ogni forma di grave violazione dei diritti umani in tutti i luoghi in cui tali eccessi si manifestano. Sono in genere ottimisti, convinti che in ogni comunità al mondo ci siano donne e uomini buoni che credono nella pace quale arma più potente nella ricerca di soluzioni durature.
La situazione attuale giustifica forse l´uso della violenza, che perfino quelle donne e quegli uomini buoni potrebbero avere difficoltà a evitare. Ma, anche in questi casi, l´uso della forza sarebbe una misura eccezionale, il cui scopo principale è creare le basi necessarie per soluzioni pacifiche. Sono proprio queste donne e questi uomini buoni la speranza del mondo. I loro sforzi e risultati sono riconosciuti al di là della morte, anche ben oltre i confini del loro Paese, rendendoli così immortali. La mia impressione generale, dopo avere letto diverse autobiografie, è che un´autobiografia non sia solo una raccolta di eventi e di esperienze in cui una persona è stata coinvolta, ma anche un modello su cui altri potrebbero basare la propria vita. Questo libro non ha tali pretese e non ha l´ambizione di lasciare tracce.
Da giovane […] ho vissuto le debolezze, gli errori e l´impulsività di un ragazzo di campagna, e il mio immaginario e le mie esperienze sono stati influenzati per lo più dagli avvenimenti del luogo in cui sono cresciuto e dei college in cui mi hanno mandato. Mi sono affidato all´arroganza per nascondere la debolezza. Da adulto, i miei compagni hanno tolto me e altri prigionieri, con alcune significative eccezioni, dall´oscurità del male o del mistero, anche se la leggenda secondo cui sono stato uno dei prigionieri militanti più longevo al mondo non è mai del tutto scomparsa.
Una questione che mi preoccupava molto in prigione era la falsa immagine che proiettavo involontariamente sul mondo esterno; di essere considerato un santo. Non lo sono mai stato, nemmeno sulla base della definizione terrena di santo come peccatore che non smette mai di provare a migliorarsi.
© 2010 Sperling & Kupfer Editori S. p. A. Traduzione di Claudia Lionetti, Marilisa Santarone
e Cristina Volpi
Conversations by Myself © 2010 by Nelson R. Mandela and The Foundation/
Agenzia Santachiara © 2010 by PQ Blackwell Limited /Agenzia Santachiara
Repubblica 10.10.10
Il Nobel al dissidente anticipò la fine dell´Unione Sovietica: il partito ha paura di una nuova offensiva dell´Occidente
"Vogliono farci crollare come l´Urss" ora il regime teme "l´effetto Sakharov"
La confusione sul da farsi nasconde una frattura al vertice tra falchi e colombe
Ma l’ala conservatrice vicina a Hu Jintao ha chiesto il pugno di ferro
PECHINO - Sulla Cina cala lo spettro di un «effetto Sakharov». Il Nobel al dissidente sovietico annunciò l´implosione dell´Urss, sancita dai premi a Gorbaciov e Walesa. Le autorità di Pechino, sotto choc, temono ora che «un Nobel da Guerra Fredda punti a spaccare ideologicamente il Paese, per farlo crollare». A un giorno dal riconoscimento a Liu Xiaobo i leader tacciono. Il potere però è scosso e certo di essere al centro di «una campagna dell´imperialismo occidentale, deciso a imporre i suoi valori anche in Oriente».
I falchi del regime paragonano il Nobel al professore di Tienanmen all´invasione Usa dell´Iraq e premono per scatenare una campagna nazionalista all´interno, minacciando ritorsioni economiche contro America ed Europa. L´accusa, rilanciata dalla stampa del partito comunista, è di aver «comprato il Nobel della pace», trasformandolo «in una bomba ad orologeria anti-cinese». «Quando scoppia un contenzioso economico – dice un alto funzionario di Pechino – si sgancia un Nobel contro di noi. Prima il Dalai Lama, poi Obama, che un anno fa stava per compiere il suo primo viaggio in Asia, ora Liu Xiaobo, mentre infuria il braccio di ferro su yuan e protezionismo». Confusione ed imbarazzo nascondono, per la prima volta, una frattura del vertice. Il problema più urgente, discusso ieri in una riunione straordinaria del politburo, è cosa fare di Liu Xiaobo. Il rilascio immediato è stato escluso. «Equivarrebbe – dice a tarda sera il dirigente del partito – ad una resa all´attacco occidentale». Inimmaginabile però tenere un Nobel in prigione per altri dieci. A dicembre poi c´è la consegna del premio e anche su questo il potere è diviso. Impedire a Liu Xiaobo di presenziare alla cerimonia di Oslo scatenerà «un´altra campagna tesa a ridimensionarci». Concedergli un permesso però, offrendogli un palco mondiale, sarebbe peggio. Lo stesso vale per la moglie, Liu Xia. Se andasse a ritirare il premio del marito dovrebbe dire ciò che pensa e Pechino si vedrebbe costretta a negarle il permesso di rientrare in patria. Ma costringere un rappresentante del comitato norvegese ad entrare in carcere, farebbe precipitare l´immagine nazionale al livello di Birmania e Corea del Nord.
Un pasticcio, da cui il regime non sa come uscire e che esprime una leadership cinese furiosa, decisa a ritorsioni, ma spiazzata. Come vent´anni fa, alla vigilia del massacro di Tienanmen, emergono due linee. L´ala più conservatrice, riconducibile al presidente Hu Jintao e per ora maggioritaria, teme che il Nobel filo-dissidenti destabilizzi il potere in vista del cambio di leadership, già avviato e fissato tra poco più di un anno. Ieri ha chiesto «pugno di ferro», una nuova ondata di repressioni e una «forte campagna patriottica pianificata dalla propaganda». «Deve essere chiaro – dice il funzionario della capitale - che Liu è un collaborazionista traditore». I riformisti, più vicini al premier Wen Jiabao, premono invece per «sfruttare l´occasione Xiaobo». Quattro leader, messi in minoranza, hanno proposto di chiedere ai giudici una revisione della sentenza e di avviare «esperimenti circoscritti di rinnovamento politico». Il timore è interrompere la crescita economica e di perdere la fiducia della nuova classe media, più ricca e urbanizzata, ma pure «più arrogante e restìa all´obbedienza». Un solo punto in comune, in questo drammatico dopo-Nobel che fa vacillare il governo: insistere su «una via cinese del potere e dello sviluppo». Con un unico, drammatico dubbio: che il disprezzo dei diritti umani la renda oggi percorribile.
(gp.v)
Repubblica 10.10.10
Il sogno perduto del primo kibbutz
di Alberto Stabile
Nell´ottobre del 1910 otto uomini e tre donne salparono da Odessa e raggiunsero la Terra promessa per fondare una comune agricola, Degania: dal lavoro ai figli tutto doveva essere fatto per il bene della causa. Cent´anni dopo, ecco che cosa è rimasto di quell´utopia socialista che tanto contribuì alla costruzione dello Stato d´Israele
Fra questi viali di eucalipti, su questi ciottoli arroventati dal caldo, quaranta gradi, aleggia lo spirito di Moshe Dayan, bambino. Fra i molti primati che il grande Dayan s´attribuì in vita c´era anche quello di essere stato «il primo bambino nato a Degania», da una coppia di giovani pionieri, Shmuel e Dvorah, approdati in Palestina dalla fredda Ucraina per realizzare il loro sogno sionista. In realtà, se è vero che Degania è il primo kibbutz della storia, e in questi giorni se ne celebra il centenario, Moshe fu soltanto il secondo neonato della comunità, essendo stato preceduto da Gideon Baratz, figlio di Yoseph e Miriam Baratz, venuto alla luce qualche mese prima all´Ospedale della Missione Scozzese, a Tiberiade.
Erano tempi di ferro, di fame, di malattie, d´insopportabili durezze e d´incredibili privazioni quelli in cui il kibbutz Degania venne fondato. La prima infanzia di Dayan fu un susseguirsi di malanni gravi: la malaria, la polmonite, il tracoma. Un continuo girovagare tra ospedali e residenze occasionali, presumibilmente più salubri, dove tentare guarigioni improbabili sempre con accanto la madre, una raffinata intellettuale russofila, grande ammiratrice di Tolstoj che, pur credendo profondamente nei suoi ideali, non si rassegnò mai alle asprezze della vita in quelle terre di conquista.
Nella "kvutza", letteralmente il "gruppo", l´antesignano del kibbutz, di Degania il lavoro era tutto, l´ideologia, la prassi e il programma politico, la ricchezza e l´onore, e tutto era pensato e fatto in funzione del lavoro. Il privato, il personale, non avevano spazio, nulla poteva e doveva sfuggire alle regole imposte dal gruppo che su ogni cosa, dal nome da imporre ai neonati al ricovero in ospedale di un membro della comune, aveva la parola definitiva. E questo, ovviamente, «per il bene della causa».
Nel piccolo museo di Degania, accanto alla casa di mattoni a due piani che ospitò il primo nucleo di undici pionieri, otto uomini e tre donne, ai quali un anno dopo si aggiunsero Shmuel e Dvorah Dayan, si respira una doppia, stridente sensazione: l´assoluta penuria di mezzi di cui disponevano i fondatori, mista ad un´illimitata fiducia in se stessi. Ritratti in una foto color seppia, i membri della kvutza, scesi dai paesi del grande freddo su una landa a duecento metri sotto il livello del mare, guardano stupefatti il mondo nuovo che gli si è appena spalancato davanti. Gli uomini vestono la classica rubacka dei contadini russi, con l´abbottonatura laterale e la cintura stretta in vita, le donne indossano gonne lunghe fino ai piedi e camicie chiuse fino al collo che ne esaltano la figura. Sono, definitivamente, dei giovani borghesi, le loro mani hanno lunghe dita delicate, ma nei loro occhi c´è la febbrile inquietudine dei rivoluzionari, dei visionari che hanno deciso di passare all´azione.
Cent´anni dopo quella foto scattata al loro arrivo ad Haifa, su una nave salpata da Odessa, si può dire che quei giovani venuti dalla Lituania, dall´Ucraina, dalla Russia per realizzare il sogno ebraico del riscatto capovolgendo, al tempo stesso, la piramide sociale, hanno vinto. Il loro esempio ha avuto molti seguaci. Nessuno, oggi, può mettere in dubbio il contributo dato dal movimento dei kibbutz al compimento dell´impresa sionista, avvenuto nel 1948 con la proclamazione dello Stato d´Israele.
Hanno vinto loro, si può dire di quei sionisti ante litteram in posa nel piccolo museo di Degania, ma il kibbutz, inteso come cellula sociale basata su un´ideologia egualitaria e una struttura economica collettivista, è morto per sempre. Travolto dai grandi movimenti della storia, come il crollo dell´ideologia comunista e l´irrompere dell´economia globale, ma anche da fattori specificatamente israeliani, come l´inesorabile scivolamento a destra della scena politica e la crescente influenza della componente religiosa.
Quando, nel 2004, il governo Sharon decise di privatizzare i kibbutz, secondo un disegno elaborato da Ehud Olmert, la crisi incubava da anni. In un paese che aveva decisamente imboccato la strada della new economy e degli start-up, sul modello della Silicon Valley americana, i vecchi kibbutz fondati sull´agricoltura e l´allevamento del bestiame non avrebbero avuto futuro, se non contando pesantemente, come è successo negli ultimi decenni, sugli aiuti dello Stato. Trasformarsi o sparire, questa è diventata la scelta obbligata. Eppure, per Shay Shoshany, il giovane presidente di Degania, una volta si sarebbe detto «segretario», il kibbutz in generale, e Degania in particolare, non hanno perso il loro fascino. Shay resta legato ad una certa cultura politica oggi fuori moda: «Sono orgoglioso di essere uno degli ultimi socialisti rimasti», dice sorridendo. Ricorda il ruolo rivoluzionario e «globale» avuto dal kibbutz nel propagare l´idea dell´uguaglianza, «ma non siamo tutti uguali», ammette.
Ci sono molte cose buone da conservare, assicura il segretario di Degania, nella filosofia del kibbutz. Innanzitutto, la solidarietà praticata in concreto dai membri della comune, il che oggi avviene attraverso una tassa interna che serve a limare le differenze fra i salari e a migliorare i servizi comuni (tra i quali, qui a Degania, c´è anche un parco macchine). Il rispetto reciproco. L´abitudine a frenare gli impulsi consumistici. La qualità della vita. E tuttavia certe imposizioni in nome del «bene comune» non hanno più senso. «Quello che non potevo sopportare era di dover andare a chiedere il permesso per qualsiasi cosa, fosse un viaggio o un vestito», racconta Nina Ben Moshe, settantadue anni, nata a Degania da genitori membri del kibbutz e sposata ad un kibbutzik a sua volta nato da una famiglia di kibbutzniki. Eppure, nessuno dei suoi quattro figli ha seguito l´esempio dei genitori. «Ho bei ricordi, ma direi che i ricordi sono sempre belli. Da ragazzi crescevamo in una libertà assoluta, mentre i genitori erano al lavoro. Da adulti, non sapevamo cosa erano i soldi, cos´era una carta di credito. Queste cose abbiamo dovuto impararle dopo il 2004. Fino ad allora non ne avevamo sentito il bisogno perché avevamo tutto quello che ci occorreva e, soprattutto, avevamo tutti le stesse cose». «Ma - aggiunge Nina - nessun essere umano può lavorare per un lungo periodo senza ricevere nessun compenso, a meno che non sia un idealista. Quindi per rispondere alla sua domanda se eravamo felici: sì eravamo felici, ma era una felicità, come dire?, assistita. Improvvisamente ho dovuto imparare che cos´era una banca, che occorreva risparmiare e che a me stessa dovevo pensarci io e non il kibbutz».
Ad attenuare l´amarezza di alcuni vecchi membri del kibbutz si starebbe producendo una realtà nuova, un ricambio di popolazione dovuto anche alle trasformazioni economiche imposte dalla crisi. «Oggi - assicura Shay - a Degania non vivono soltanto contadini ma anche liberi professionisti, un avvocato, un medico, che hanno deciso di tornare a vivere nel kibbutz pur lavorando fuori. Naturalmente contribuiscono in tutto alle spese comuni e questo cespite proveniente dalle attività esterne, o private, rappresenta il quarantacinque per cento delle nostre entrate, mentre il trentacinque è dato dall´agricoltura (banane e datteri) e il venti dalla fabbricazione di diamanti industriali».
Che i kibbutz si siano aperti al mondo esterno non c´è dubbio. Molti giovani, ad esempio, trovano nelle vecchie comuni agricole quelle condizioni di vita che le città, affogate nello smog e nel traffico, non possono offrire. Tuttavia non si può ancora parlare di un vero e proprio afflusso. In fin dei conti, la maggiore speranza dei dirigenti dei kibbutz di migliorare le finanze comuni è affidata al turismo.
Molti kibbutz della Galilea si sono trasformati in resort. E si vede che questa, nonostante il blasone, la ricca storia e il passato eroico, di cui è testimonianza il piccolo carro armato siriano esposto ai cancelli, residuato della guerra del ´48 e di una fortunata controffensiva dei kibbutziniki a colpi di bottiglie molotov, quella del turismo, dicevamo, è nonostante tutto anche la tentazione di Degania. Approfittando della privatizzazione del 2004 una famiglia del kibbutz ha aperto un piccolo ristorante proprio di fronte alla vecchia stalla dei pionieri, oggi trasformata in teatro e sala cinematografica. Pasta, insalate e cucina kasher, naturalmente, per compiacere il pubblico religioso. Questa è la culla del socialismo laico, ma non si sa mai.
Avvenire 10.10.10
Lenin architetto del Terrore
di Paolo Sensini
Omicidi, torture e clima del sospetto non furono eccessi dovuti alla guerra civile, ma piani preordinati per creare il nuovo «homo sovieticus»
IL LIBRO
Anticipiamo in queste colonne alcuni stralci dell’introduzione di Paolo Sensini a Il terrore rosso in Russia. 1918-1923 di Sergej Mel’gunov, in uscita per Jaca Book (pagine 336, euro 29,00), e un passo delle riflessioni dello stesso Mel’gunov. Lo storico russo, nato nel 1879, fu attivo in campo politico su posizioni socialiste durante l’ultima fase dell’Impero zarista e i convulsi anni delle rivoluzioni di Marzo e d’Ottobre.
Ripetutamente arrestato dai bolscevichi, condannato a morte ma salvato in extremis dall’intercessione di alcuni influenti amici, fu espulso dall’Urss nel 1922 e riparò a Praga, a Berlino e infine a Parigi. Il terrore rosso in Russia uscì in Germania nel 1923 e fu immediatamente tradotto in tedesco, inglese, francese e spagnolo – non in italiano, almeno fino a oggi. Mel’gunov morì nel 1956.
Nel nostro Paese questo libro, che è stato il primo a denunciare pubblicamente nel dicembre 1923 la realtà storica in cui si è affermato il potere bolscevico in Russia, non ha mai trovato nessun editore disposto a farne conoscere i contenuti
«Dell’uomo si può fare quel che si vuole! Io voglio che nel pensare e nel reagire le masse russe seguano uno schema comunista!». Con queste parole, pronunciate poco dopo il colpo di mano del 25 ottobre 1917, Vladimir Il’ic Ul’janov – in arte Lenin – si rivolgeva al fisiologo russo Ivan Pavlov per chiedergli se il suo lavoro di scienziato sui riflessi condizionati del cervello potesse aiutare il Partito a «controllare il comportamento umano». Ed è esattamente questa, al di là delle contingenze e dei diversivi tattici del momento, la posta in gioco che la hýbris leninista bramava fin dall’inizio: «raddrizzare il legno storto dell’umanità». Raddrizzarlo nel senso voluto da Lenin (ossia: «Costringeremo il genere umano a essere felice, costi quel che costi!»). Da questo punto di vista l’opera di Sergej Mel’gunov che viene presentata al pubblico italiano dopo quasi novant’anni dalla sua apparizione in lingua russa a Berlino – opera che va letta al tempo stesso come rigetto morale e messa in guardia intellettuale di un socialista deciso a far conoscere per la prima volta al mondo l’«abisso» in cui era sprofondata la Russia dopo la presa del potere dei bolscevichi – rappresenta un’occasione straordinaria per osservare in presa diretta, senza veli e senza distorsioni gli eventi per come si sono svolti, i primi decisivi atti di quell’immane tragedia che ha condizionato la storia europea e mondiale del XX secolo. In Italia questo libro, che è stato il primo a denunciare pubblicamente nel dicembre 1923 la realtà storica in cui si è affermato il potere bolscevico in Russia, non ha mai trovato nessun editore disposto a farne conoscere gli sconvolgenti contenuti. L’opera di Mel’gunov risulta un contributo imprescindibile per chiunque voglia capire a fondo la situazione che si è determinata in Russia negli anni successivi ai «dieci giorni che sconvolsero il mondo». Una delle cose più ardue da far rivivere oggi, di quella convulsa sequenza, risiede per esempio nella «furia rivoluzionaria» che i bolscevichi misero in campo per cancellare fin da subito qualsiasi traccia della cultura preesistente, fosse essa iconografica, ideografica o semplicemente letteraria, quasi a voler marcare col fuoco un «prima» e un «dopo» il loro avvento messianico nella stanza dei bottoni. Bisognava insomma «sparare sugli orologi del tempo alienato» per costituire il «nuovo calendario» della civiltà futura, cosa che appunto proponeva uno dei massimi esponenti del movimento Proletkul’t (acronimo di 'Cultura proletaria') per lumeggiare quale sarebbe stato l’apporto paracletico dei rivoluzionari finalmente giunti al potere: «In nome del nostro domani – si leggeva su un documento ufficiale del gruppo –, metteremo al rogo Raffaello, distruggeremo i musei, schiacceremo i fiori dell’Arte». Ovvio che, con una simile «rivoluzione totale» da portare a compimento, il Partito comunista e i suoi «ingegneri delle anime umane» (' inzenery celoveceskich duš') non si sarebbero più fermati fino a quando gli individui sottoposti al suo imperio non si fossero finalmente trasformati in «rotelle» (' vintiki ') impersonali e sostituibili di un «ingranaggio tecnico».
Oppure in una sorta di «robot umani» incapaci di pensiero individuale e perfettamente obbedienti a quel «demone della distruzione e demiurgo della creazione» che fu Lenin. Ma come riuscire ad imporre a un sesto del mondo un simile programma in così breve tempo?
Semplice, con il «Terrore rosso di massa». Un Terrore programmato, brutale e inesorabile che era stato architettato da Lenin molto prima della «rivoluzione», il quale si estese fin da subito all’insieme della popolazione e all’esercito. Il sistema era poi ulteriormente «integrato», come mezzo per indurre chiunque a sottomettersi alla «dittatura del proletario», dalla più completa licenza di saccheggio, rappresaglia e sterminio dei «nemici di classe». Fu dunque sotto il regime di Lenin, e non sotto quello di Stalin, che la Ceka creò un autentico Stato di polizia, e fu sempre Lenin a compiere la mostruosità giuridica di fondere in una sola struttura gli organi che conducevano l’istruttoria, quelli che emettevano i verdetti, spesso alla pena di morte, e infine quelli che eseguivano le condanne. Essa era stata organizzata in modo tale da poter disporre di proprie infrastrutture leviataniche, dai comitati di controllo insediati in ogni fabbrica fino ai «campi di rieducazione mediante il lavoro», nel cui ambito operavano oltre duecentocinquantamila addetti, la cui ferocia e arbitrio senza limiti potevano evocare, mutatis mutandis, gli omologhi opricniki, i detestati scherani di Ivan il Terribile. Durante la guerra civile erano costoro a garantire la sopravvivenza del regime sul cosiddetto «fronte interno», quando ormai il Terrore era la conditio sine qua non del sistema. Un’attività, quella delle «Commissioni istruttorie straordinarie, che costituisce un esempio forse unico nella storia dei popoli civili».
In aggiunta agli illimitati poteri di cui godeva, la Ceka, «il cui lavoro si svolge in condizioni particolarmente difficili», venne dichiarata «infallibile» e fu proibita ogni critica nei suoi riguardi. Nei primi mesi successivi all’Ottobre, attuando le idee di Lenin e sotto la sua personale direzione, si delineò quindi compiutamente uno Stato di tipo nuovo, uno Stato totalitario caratterizzato non dal rigore della legge, ma essenzialmente dall’arbitrio più totale. A tale riguardo un alto funzionario della Ceka, Iosif Unšlicht, nelle sue affettuose memorie su Lenin scritte nel 1934, osservava con malcelato orgoglio: «[Lenin] trattava con implacabile brutalità i gretti membri del partito che deprecavano la spietatezza della Ceka; egli derideva e sbeffeggiava l’“umanità” del mondo capitalista». Se il partito era l’ossatura dell’apparato statale, la Commissione straordinaria ne era la muscolatura. Il partito forniva l’Idea: «tutto è lecito, lavoriamo per la Storia». La Ceka invece, «questa meravigliosa macchina per distruggere l’essere umano», forniva il braccio che attuava l’arbitrio assoluto. È stato assai difficile raffigurarsi quanto avvenuto di fronte a una vulgata storiografica compiacente, fraudolenta, omertosa e quasi sempre mistificante, che aveva come sua precipua missione d’impedire la conoscenza di quel gigantesco esperimento d’ingegneria sociale per ciò che veramente ha rappresentato. Forse, a oggi, il più terrificante e grandioso dell’intera storia dell’umanità.
Avvenire 10.10.10
«Dai bolscevichi l’apoteosi dell’omicidio come strumento di dominio»
di Sergej Mel’gunov
Gli storici hanno dato e danno una spiegazione e perfino una giustificazione al Terrore dell’epoca della Rivoluzione francese; i politici trovano una spiegazione anche all’esecrabile realtà contemporanea. Non intendo, in questa sede, spiegare un fenomeno che, prima d’ogni spiegazione, può e deve anzitutto e urgentemente essere stigmatizzato da parte della morale della società, oggi come nel passato, bensì soltanto fornirne una veridica rappresentazione. Lascio ai sociologi e ai moralisti il compito di cercare spiegazioni all’attuale ferocia che dilania il consorzio umano, magari nel retaggio dei tempi andati e nel cruento delirio dell’ultima guerra europea, nella decadenza morale dell’umanità e nello stravolgimento dei fondamenti ideologici e riferimenti ideali della psiche e del pensiero umani. Compete agli psichiatri stabilirne il nesso con le manifestazioni patologiche del secolo; attribuiscano tutto ciò, se credono, all’influsso di una psicosi di massa. Quel che mi preme sopra ogni cosa è ristabilire il quadro reale del passato e del presente tanto travisato sia dal cesello della ricerca storica sia nella valutazione soggettiva, dettata da esigenze pratiche, del politico d’oggi. Non è possibile versare più sangue umano di quanto hanno fatto i bolscevichi; non è possibile immaginare forme più ciniche di quelle in cui s’è concretato il terrore bolscevico. È un sistema che ha trovato i suoi ideologi; è un sistema di metodica attuazione della violenza e dell’arbitrio, è l’apoteosi senza remore dell’omicidio inteso come strumento di dominio alla quale non era mai ancora arrivato nessun potere al mondo. Non si tratta di eccessi, per i quali si può cercare questa o quella spiegazione nella particolare psicosi indotta dalla guerra civile. L’atrocità morale del terrore, la sua azione disgregante sulla psiche umana, consistono più che nei singoli omicidi in sé, o nel loro numero più o meno consistente, proprio nel suo essere elevato a sistema. La debolezza del potere, gli eccessi, perfino la vendetta di classe da un lato e… l’apoteosi del terrore dall’altro sono fenomeni di ordine diverso. Non potremo sentirci a posto con la coscienza fino a quando non sarà eliminato questo cupo e anacronistico Medioevo del XX secolo che abbiamo avuto in sorte di testimoniare. Certamente, sarà la vita stessa a spazzarlo via, ma solo dopo che l’avremo definitivamente superato nelle nostre coscienze, quando la democrazia europea occidentale e in primo luogo i socialisti, accantonati i fantasmi della reazione, si affrancherà veramente dall’incantamento della «testa di Medusa» e le volterà le spalle con orrore; quando i rivoluzionari di ogni tendenza capiranno finalmente che il terrore governativo uccide la rivoluzione e propaga la reazione, che il bolscevismo non è la rivoluzione e che deve cadere con disonore e infamia «tra le maledizioni di tutto il proletariato in lotta per il proprio riscatto». Sono parole del noto capo della socialdemocrazia tedesca Kautsky, uno dei pochi ad aver assunto una posizione così netta e intransigente nei confronti dell’arbitrio e della violenza dei bolscevichi. E bisogna far sì che il mondo capisca e si renda conto dell’orrore di quei mari di sangue che hanno sommerso la coscienza dell’umanità…