lunedì 11 ottobre 2010

Ansa 9.10.10
Libri: Lombardi e il fenicottero" presentato a Parma


E' stato presentato anche a Parma il libro 'Lombardi e il fenicottero', edizioni 'L'Asino d'oro' giunto alla seconda ristampa, quasi 4.000 copie, scritto dal giornalista dell'Agi Carlo Patrignani in onore di Riccardo Lombardi e della donna che gli fu accanto per 52 anni, 'il fenicottero' Ena Viatto. Un libro su cui si era discusso a luglio alla Festa Democratica del Pd a Roma, il 3 settembre a quella nazionale di Torino e il 16 settembre, alla Festa dell'Avanti del Psi a Ravalle. Lombardi ''e' stato per noi un maestro, ci ha insegnato la politica con la P Maiuscola'', ha detto dello storico dirigente socialista Franco Benaglia, della direzione nazionale Psi, che ha Parma ha dialogato con Roberto Garbi, segretario provinciale del Pd e consigliere regionale (''nel Pd, che sara' pure nato male e che con Bersani vuole tener assieme il popolo delle primarie ed i movimenti presenti nella societa', c'e' posto per Lombardi e la sua progettualita' perche' noi abbiamo bisogno di un progetto di societa' nuovo''), e Elvio Ubaldi, ex sindaco della citta' emiliana fino al 2008 ed attuale presidente del Consiglio comunale (''un politico scomodo ed inquieto, un grande innovatore: se a suo tempo non ci fosse stata la nazionalizzazione dell'energia elettrica, oggi non si parlarebbe di liberalizzazioni''). (ANSA).

Repubblica 11.10.10
Dalla “Fiera di Francoforte
Voglio parlare della pace"
di David Grossman


Pubblichiamo il discorso che ha tenuto ieri in occasione del conferimento de "Il premio della pace" dell´Associazione degli editori e dei librai tedeschi alla Fiera del libro di Francoforte

"Non posso dire cosa si aspettino i palestinesi: non ho diritto di fare i loro sogni. Posso solo augurare loro che conoscano un´esistenza di libertà e sovranità"
"La guerra, per sua natura, annulla le sfumature che rendono unico un individuo e la meravigliosa peculiarità di ogni essere umano e rinnega anche il nostro comune destino"
"La letteratura è la stupefazione per l´uomo e per la sua complessità La scrittura dà il piacere di immaginare Per questo mi auguro che il mio Paese trovi la forza di riscrivere la sua storia"
"Solo la fine dello scontro darà a Israele una casa, un domani, generazioni future E darà la possibilità di vivere una sensazione mai provata: quella di un´esistenza stabile"

Quando ho cominciato a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore sapevo di voler raccontare la storia di Israele che da più di cento anni – ancor prima che diventasse una nazione – si trova in uno stato di guerra. E sapevo che l´avrei raccontata attraverso la storia privata, intima, di una famiglia.
Sarete forse d´accordo con me che il vero grande dramma dell´umanità è quello della famiglia. E ognuno di noi è un personaggio di questo dramma in quanto in una famiglia è nato. Ai miei occhi i momenti più significativi della storia non sono avvenuti sui campi di battaglia, in sale di palazzi o di parlamenti bensì in cucine, in camere da letto matrimoniali o in quelle dei bambini.
In A un cerbiatto somiglia il mio amore ho cercato di mostrare come il conflitto mediorientale proietti sé stesso, la sua brutalità, sulla fragile e delicata sfera familiare e come, inevitabilmente, ne modifichi il tessuto.
Ho cercato di descrivere la lotta che persone intrappolate in questo conflitto, o in un qualunque scontro violento e protratto, devono sostenere.
È la lotta per mantenere il sottile e complesso intreccio dei rapporti umani e sentimenti di tenerezza, di sensibilità, di compassione, in una situazione di durezza e di indifferenza nella quale il volto del singolo viene cancellato. A volte paragono il tentativo di preservare questi sentimenti nel pieno di una guerra a quello di camminare con una candela in mano durante una violenta tempesta.
Concedetemi ora di condurvi, con una candela in mano, in mezzo a questa violenta tempesta.
Se mi chiedeste cosa mi auguro per il conflitto israelo-palestinese la mia risposta, ovviamente, sarebbe che finisse al più presto, si risolvesse e regnasse la pace. Ma forse allora insistereste a chiedere: «E se le ostilità dovessero andare avanti ancora a lungo, quale sarebbe il tuo più grande desiderio?». Dopo aver provato una punta di dolore per questa domanda risponderei che in quel caso vorrei imparare a essere il più possibile esposto alle atrocità e alle ingiustizie, grandi e piccole, che il conflitto crea e ci presenta ogni giorno, e non chiudermi in me stesso o cercare di proteggermi.
Per me essere uomo in uno scontro tanto prolungato significa soprattutto osservare, tenere gli occhi aperti, sempre, per quanto io riesca (e non sempre ci riesco, non sempre ho la forza di farlo). Però so di dovere almeno insistere, per sapere ciò che succede, cosa viene fatto a nome mio, a quali cose collaboro malgrado io le disapprovi nella maniera più assoluta. So di dovere osservare gli eventi per reagire, per dire a me stesso e agli altri ciò che provo. Chiamare quegli eventi con parole e nomi miei, senza farmi tentare da definizioni e da termini che il governo, l´esercito, le mie paure, o persino il nemico, cercano di dettarmi.
E vorrei ricordare – e spesso è questa la cosa più difficile – che anche chi mi sta di fronte, il nemico che mi odia e vede in me una minaccia alla sua esistenza, è un essere umano con una famiglia, dei figli, un proprio concetto di giustizia, speranze, disperazioni, paure e limitatezze.
Signore e signori, oggi mi conferite questo prestigioso "Premio della pace", e della pace voglio parlare. È indispensabile parlarne, insistere a parlarne, soprattutto in una realtà come la nostra. È importante praticare una rianimazione costante e intensa alla coscienza terrorizzata e paralizzata di israeliani e palestinesi per i quali la parola "pace" è quasi sinonimo di illusione, di miraggio, se non addirittura di trappola di morte.
Dopo cento anni di guerre e decenni di occupazione e di terrorismo la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi non crede infatti più nella possibilità di una vera pace. Non osa nemmeno immaginare una situazione di pace. È ormai rassegnata al fatto di essere probabilmente costretta a vivere in una spirale infinita di violenza e di morte. Ma chi non crede nella possibilità della pace è già sconfitto, si è autocondannato a una guerra continua. Talvolta occorre ricordare – e di certo su questo autorevole palcoscenico – ciò che è ovvio: le due parti, israeliani e palestinesi, hanno il diritto di vivere in pace, liberi da occupazioni, dal terrorismo, dall´odio; di vivere con dignità, sia a livello del singolo che come popoli indipendenti in un loro stato sovrano, di guarire dalle ferite provocate da un secolo di guerre. E non solo entrambe le parti hanno questo diritto, hanno anche un estremo bisogno della pace, un bisogno vitale.
Non posso parlare di cosa si aspettino i palestinesi dalla pace. Non ho il diritto di fare i loro sogni. Posso solo augurare loro, dal profondo del cuore, che conoscano al più presto un´esistenza di libertà e di sovranità dopo anni di schiavitù e di occupazione sotto turchi, inglesi, egiziani, giordani e israeliani; che costruiscano la loro nazione, uno stato democratico, in cui crescere i figli senza paura, godere di una vita normale, di pace, e di quanto essa può offrire a qualunque essere umano. Posso però parlare dei miei desideri e delle mie speranze di israeliano e di ebreo.
Ai miei occhi la parola "pace" non definisce soltanto una situazione in cui finalmente la guerra, con tutte le sue paure, sarà finita e Israele manterrà buoni rapporti con i suoi vicini. La vera pace, per Israele, significherà un nuovo modo di essere nel mondo, la possibilità di guarire lentamente da distorsioni causate da duemila anni di diaspora, di persecuzioni, di antisemitismo e di demonizzazione. E forse, fra molti anni, se questa fragile pace resisterà, se Israele rafforzerà le basi della propria esistenza e potrà sfruttare appieno il suo grande potenziale umano, spirituale e culturale, anche la sensazione di estraneità esistenziale, di isolamento, che l´uomo ebreo, che il popolo ebreo, prova in mezzo ad altri popoli, svanirà.
Con la pace Israele avrà finalmente dei confini, cosa non da poco, soprattutto per un popolo che per gran parte della sua storia è stato disperso in altre nazioni e molte sue tragedie sono derivate proprio da questo. Pensate: ormai da 62 anni Israele non ha confini definitivi. Le sue frontiere sono instabili, vengono modificate, allargate o ristrette, a ogni decennio. Nel nostro mondo chi non possiede dei confini chiari è paragonabile a chi vive in una casa i cui muri ondeggiano e la terra trema costantemente sotto i suoi piedi. A chi non possiede una vera casa.
Nonostante la sua grande forza militare Israele non è ancora riuscito a infondere nei suoi cittadini il senso di naturale serenità di chi si trova al sicuro nel proprio paese. Non è riuscito – ed è questa la cosa tragica – a guarire gli ebrei da un´amara sensazione di fondo: il disagio di chi non si sente quasi mai a casa nel mondo.
E dopo tutto Israele è stato creato per essere rifugio degli ebrei e del popolo ebreo. Era questo il sogno che ha portato alla sua creazione. Ma fintanto che non ci saranno la pace, dei confini definitivi e concordati e un vero senso di sicurezza noi israeliani non avremo la casa di cui siamo degni e di cui abbiamo bisogno. Non ci sentiremo a casa nel mondo.
Di sicuro ve ne rendete conto: certe parole, pronunciate da un ebreo israeliano in Germania, hanno una cassa di risonanza come in nessun´altra parte del mondo. Ciò di cui parlo, i termini che uso, i palpiti della memoria che questi risvegliano, provengono dalla ferita della Shoà e a essa fanno ritorno. Molto di quanto avviene in Israele, sia in ambito privato (nei rapporti di un uomo con sé stesso, con la sua famiglia, con i suoi amici), sia in quello pubblico, politico e militare, intrattiene un discorso complesso con la Shoà, con il modo in cui questa ha forgiato la coscienza ebraica e israeliana. Anche le cose che dico qui, nella Paulskirche, sede del primo parlamento tedesco democraticamente eletto nel 1848, le mie parole, come un colombo viaggiatore della Shoà, tornano sempre "laggiù", a quei giorni.
Ma al tempo stesso, e senza fare paragoni inaccettabili tra situazioni storiche completamente diverse, io rammento a me stesso che qui, in Germania, si può anche vedere come un popolo è in grado di risollevarsi non solo dalla distruzione fisica ma dal superamento di ogni limite e freno, dallo sgretolamento di ogni senso di umanità, e di impegnarsi a rispettare i valori dell´etica e della democrazia e di educare i giovani all´idea della pace.
Ma torniamo alla realtà del Medio Oriente: solo la pace potrà curare Israele dalla profonda paura che palpita nei cuori dei suoi cittadini riguardo al futuro del loro paese e dei loro figli. Credo che non ci sia al mondo un altro stato che viva una tale angoscia esistenziale. Quando leggete sul giornale che la Germania ha grandi progetti per il 2030 la cosa vi sembra logica e naturale, ma nessun israeliano farebbe progetti così a lungo termine. Quando penso a Israele nel 2030 provo una stretta al cuore, come se avessi profanato un qualche tabù concedendomi di immaginare un futuro tanto lontano….
Solo la pace darà a Israele una casa, un domani, generazioni future. E solo la pace permetterà a noi israeliani di vivere una situazione, o sensazione, mai provata prima: quella di un´esistenza stabile.
Chi è stato esiliato, deportato, perseguitato, cacciato ripetutamente per gran parte della sua storia, chi ha errato sospeso tra la vita e la morte per migliaia di anni, può solo aspirare a un´esistenza stabile e sicura nella propria patria. Aspirare a sentirsi un popolo radicato nella propria terra, con confini protetti e riconosciuti dalla comunità internazionale, accettato dai vicini, in buoni rapporti con loro e integrato nel tessuto delle loro vite, con un futuro davanti e finalmente a casa nel mondo.
Eccomi qui a parlarvi della pace. È strano. Io che non mai conosciuto un solo istante di vera pace in vita mia, vengo a parlarne a voi? Eppure ritengo che proprio ciò che so della guerra mi dia il diritto di farlo.
Già da molti anni la mia vita, i miei libri, si dipanano in un questo miscuglio di guerra, di paura delle sue conseguenze, di ansia per Israele e per i miei cari che ci vivono, di lotta per il diritto ad avere una vita privata, intima, non eroica, in una situazione spesso monopolizzata dal conflitto, dalla tempesta, dalla candela.
E quanto più conosco profondamente la distruzione e la devastazione di una vita in uno stato di guerra, più sento il bisogno di scrivere, di creare, come se questo fosse un modo di rivendicare il mio diritto all´individualità, di dire "io" anziché "noi".
La guerra, per sua natura, annulla le sfumature che rendono unico un individuo e la meravigliosa peculiarità di ogni essere umano. E con la stessa violenza rinnega anche la somiglianza fra gli esseri umani, le cose che ci rendono uguali, il nostro comune destino.
La letteratura, non solo scrivere libri ma anche leggerli, è l´opposto di tutto ciò. È la totale dedizione all´individuo, al suo diritto di essere tale e al destino che condivide con l´intera umanità. La letteratura è lo stupefazione per l´uomo, per la sua complessità, la sua ricchezza, le sue ombre.
Quando scrivo cerco di redimere con tutte le mie forze ogni personaggio dalla morsa dell´estraneità, della banalità, degli stereotipi, dei cliché, dei pregiudizi. Quando scrivo lotto, talvolta per anni, per cercare di capire ogni aspetto di una figura umana, per essere lei.
C´è un che di tenero, quasi materno, nel modo in cui uno scrittore cerca di percepire con tutti i suoi sensi i sentimenti e le emozioni del personaggio che crea. C´è un che di vulnerabile e di sprovveduto nella sua disponibilità a dedicarsi senza difese ai personaggi di cui scrive. È forse questo ciò che di grande può offrire la letteratura a chi vive in uno stato di guerra, di alienazione, di discriminazione, di povertà, di esilio, di sensazione che il suo "io" venga continuamente calpestato: la capacità di restituirci un volto umano.
Signore e signori, ho aperto questo discorso parlando di come ho cominciato a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore. Forse sapete che il romanzo narra di un soldato israeliano che parte per la guerra e la madre, in ansia per il figlio, fugge di casa perché un´eventuale brutta notizia non la raggiunga.
Tre anni e tre mesi dopo avere cominciato a scrivere il libro è scoppiata la seconda guerra del Libano in seguito a un improvviso attacco di Hezbollah a una pattuglia israeliana in ricognizione entro i confini di Israele. La sera di sabato 12 agosto 2006, poche ore prima del cessate il fuoco, mio figlio Uri è stato ucciso insieme a suoi tre compagni, l´equipaggio di un carro armato, da un razzo lanciato da Hezbollah.
Dirò solo questo: pensate a un ragazzo sulla soglia della vita, con tutte le speranze, l´entusiasmo, la gioia di vivere, l´ingenuità, l´umorismo e i desideri di un giovane uomo. Così era Uri e così erano migliaia di israeliani, palestinesi, libanesi, siriani, giordani ed egiziani che hanno perso, e continuano a perdere, la vita in questo conflitto.
Al termine della settimana del lutto ho ripreso a scrivere.
Quando a un uomo capita una tragedia una delle sensazioni più forti che prova è quella di essere esiliato da tutto ciò in cui credeva, di cui era certo, dalla storia di tutta la sua vita. All´improvviso niente è più scontato.
Per me, tornare a scrivere dopo la tragedia è stato un atto istintivo. Avevo la sensazione che così facendo avrei potuto, in un certo senso, tornare dall´esilio.
Ho ripreso a scrivere. Sono tornato alla storia che, stranamente, era uno dei pochi luoghi della mia vita che ancora potevo capire. Mi sono seduto alla scrivania e ho cominciato a riannodare i fili lacerati della trama. Dopo qualche settimana ho sentito per la prima volta, con un certo stupore, il piacere di scrivere. Mi sono ritrovato a cercare per ore una parola che descrivesse con esattezza un preciso sentimento. Mi sono reso conto di non potermi accontentare di un termine che non rispecchiasse fedelmente quel sentimento. A tratti mi stupivo che qualcosa di tanto piccolo accentrasse a tal punto la mia attenzione quando il mondo intorno a me era crollato. Ma non appena trovavo la parola giusta avvertivo una soddisfazione che pensavo non avrei più provato in vita mia: quella di fare qualcosa come si deve in un mondo tanto caotico. Talvolta mi sentivo come chi, dopo un terremoto, esce dalle macerie di casa, si guarda intorno, e comincia a impilare un mattone sull´altro.
E mentre scrivevo a poco a poco riaffiorava in me il piacere di immaginare, di inventare, lo stimolo del gioco e della scoperta che palpitano in ogni creazione. Inventavo personaggi, soffiavo in loro la vita, il calore e la fantasia che non credevo più ci fossero in me. Davo loro una realtà, una quotidianità. Ritrovavo dentro di me il desiderio di toccare tutte le sfumature di un sentimento, di una situazione, di un rapporto. E non temevo il dolore che talvolta questo contatto provoca. Riscoprivo che scrivere è per me il miglior modo di combattere l´arbitrarietà – qualsiasi arbitrarietà – e la sensazione di essere una vittima impotente dinanzi a essa. E ho imparato che in certe situazioni l´unica libertà che un uomo ha è quella di descrivere con parole sue il proprio destino. Talvolta questo è un modo per non essere più una vittima.
E questo è vero sia per il singolo che per le comunità, i popoli. Mi auguro che il mio paese, Israele, trovi la forza di riscrivere la sua storia. Di porsi in maniera nuova e coraggiosa dinanzi al suo tragico passato e ricrearsi da esso. Mi auguro che tutti noi troveremo la forza necessaria per distinguere i veri pericoli dai potenti echi delle sciagure e delle tragedie che ci hanno colpito in passato, per non essere più vittime dei nostri nemici o delle nostre angosce e per arrivare, finalmente, a casa.
Grazie e shalom
(Traduzione di Alessandra Shomroni)

Repubblica 11.10.10
Da Bala Murghab alla Zirko Valley la guerra nascosta dei soldati italiani
di Giampaolo Cadalanu


C´era ancora la neve in Afghanistan quando i soldati italiani hanno capito che il 2010 sarebbe stato un anno difficile: lo annunciava una battaglia che spazzava via il luogo comune della guerriglia abituata al riposo invernale.
La battaglia di Natale
A Bala Murghab la Brigata Sassari si è trovata a passare gli ultimi giorni del 2009 sotto i razzi e le granate Rpg: 72 ore di combattimento continuo e la "neutralizzazione della minaccia" solo dopo l´intervento delle forze aeree - soprattutto gli elicotteri d´assalto Mangusta - e l´uso massiccio dei mortai Thompson da 120 millimetri. Serviva a garantire l´allargamento della "bolla di sicurezza" nella valle, per consentire l´uso della ring road, l´unica strada che collega l´intero Paese. L´avevano battezzata "operazione Buongiorno", ma era la prima puntata di una stagione di agguati, bombe, granate, fucilate che arrivano dal nulla.
L´attacco al cotonificio
Dopo i dimonios della Sassari, è stata la Brigata Taurinense a scoprire che anche nel quadrante Ovest l´intensità dello scontro era salita. Negli ultimi sei mesi gli Alpini hanno sempre più difficoltà a chiamare "missione di pace" lo stillicidio di attentati e scontri. A maggio un ordigno stradale nascosto fra i tornanti di montagna sulla strada sterrata che porta a Bala Murghab ha ucciso due genieri e ne ha feriti altri due, compresa una soldatessa. La bomba contro il convoglio era anche un segnale che la guerriglia ormai conosce il blindato Vtlm e ha preso le misure necessarie per superarne le corazze: le cariche sono sempre più alte, nemmeno "San Lince" riesce più a fare miracoli. Ma la base avanzata dell´ex cotonificio sul fiume Murghab è uno dei fiori all´occhiello dell´intervento italiano: la zona garantita si allarga, almeno settemila sfollati sono tornati nei villaggi della valle. E credono nel futuro: lo dimostrano anche andando a votare numerosi, il 18 settembre.
La trappola di Herat
Non c´è modo di abbassare la guardia nemmeno a Herat, dove pure le truppe afgane sembrano avere il pieno controllo. A luglio una doppia trappola esplosiva strazia i due artificieri italiani intervenuti su richiesta della polizia per disinnescare un ordigno. Mauro Gigli, decano del mestiere, fiuta che qualcosa non va e riesce a far allontanare tutti prima che la seconda bomba esploda. Ma per lui e il collega non c´è niente da fare. Le bombe artigianali si confermano lo strumento più micidiale. Il bilancio dell´intero settore Ovest è impressionante: in sei mesi 98 ordigni esplosi, dieci con vittime, almeno 158 disinnescati prima che facessero danni, una ventina di arsenali di esplosivo scoperti e distrutti.
La casa degli insorti
Ci sono anche le truppe speciali, inquadrate nella semisegreta Task Force 45 sotto il diretto comando Nato, a svolgere incarichi difficili. A settembre un Predator partito da Herat vede un gruppo di persone nascondere una bomba sotto la strada. La base più vicina è quella di Farah, da lì gli elicotteri partono alla caccia dei guerriglieri. Ma la casa dove si rifugiano gli insorti si rivela una roccaforte armatissima, prima di averne ragione gli italiani perdono il tenente Alessandro Romani, raggiunto dai proiettili al torace.
Caccia all´uomo a Javand
Due uomini della "45" erano stati feriti anche in un´operazione nel distretto di Javand, nella provincia di Badghis. È la prova definitiva del coinvolgimento italiano in operazioni search and destroy, cioè nella caccia all´uomo con cui la Nato cerca di neutralizzare - catturare o più spesso uccidere - i personaggi di rilievo della guerriglia, leader e soprattutto esperti di esplosivo. Gli scontri delle unità d´élite probabilmente non sono compresi nel conteggio ufficiale dei "Tic", gli episodi di truppe in contatto, cioè i combattimenti diretti: sono oltre duecento, fra harassment fire, cioè fucilate di disturbo, e confronto faccia a faccia. La cifra riguarda tutti i contingenti e comprende dunque gli episodi segnalati dalle truppe afgane. Chiaramente, è una cifra approssimata per difetto.
L´inferno della Zirko Valley
La distribuzione dei compiti che voleva gli italiani lontani dai punti ad alta intensità è archiviata. Ne è un esempio la Zirko valley, zona di Shindand, infestata dagli Ied che nelle scorse settimane hanno colpito i Lince, per fortuna senza conseguenze. È considerata "la Korengal italiana", con riferimento alla valle sul confine pachistano da dove persino i marines del generale McChrystal hanno dovuto ripiegare. Lo stesso vale per zone appena passate alla responsabilità italiana: Bakwa, o, appunto, la valle del Gulistan. Prima erano controllate dai marines, e nessuno si sognava di considerarli in "missione di pace".

l’Unità 11.10.10
Bersani: breve governo di transizione poi si voterà
Il leader Pd in tv da Fazio: abbiamo sottovalutato Berlusconi, è un osso duro, non una macchietta
Il partito si prepara. «Nuovo Ulivo con Di Pietro e Vendola e alleanza con l’Udc»
«Prima il governo di transizione, poi il voto a primavera». Bersani da Fazio ribadisce lo schema delle alleanze: «Nuovo Ulivo con Vendola e Idv, poi accordo con l’Udc». «Per il premier faremo le primarie».
di Andrea Carugati

«Berlusconi è un osso duro, quando abbiamo detto che era una macchietta lo abbiamo sottovalutato». Pierluigi Bersani sceglie il salotto di Fabio Fazio su Raitre per una “confessione” inedita sul rapporto tra il suo partito e il Cavaliere. E tuttavia, accanto a questa autocritica, infila un moto d’orgoglio: «Io sono per guardare tutti i nostri limiti e correggerli, ma non sono per l’autolesionismo. La destra in tutta Europa vince perché è riuscita a gestire meglio i temi della globalizzazione. Ma noi non siamo stati delle meteore inutili, se siamo nell’Unione europea è per noi...». Bersani parla anche del futuro, a partire da una previsione sul voto: «C’è una buona probabilità che si vada votare in primavera, il deterioramento di questa maggioranza è evidente», spiega. «Andranno avanti a pajata e polenta, finché uno di loro non staccherà la spina...». Per questo il leader Pd continua a ragionare su «un breve governo di transizione, che faccia una nuova legge elettorale». «Tutti dimenticano che due anni fa fu proprio Berlusconi a dire in Parlamento che bisognava cambiare la legge elettorale. Se la maggioranza dei parlamentari vuole attuare la riforma, allora si può fare. Ancora non è in vigore la costituzione di Arcore...».
PROPOSTA ALL’UDC
Su come andare al voto, Bersani ha ribadito la sua ricetta dei “due cerchi”: un «nuovo Ulivo» con Vendola e Di Pietro, e una proposta di alleanza anche all’Udc. Sulla base di accordi chiari, «perché stavolta dobbiamo fare una cosa come si deve, altrimenti meglio che ci riposiamo...». Bersani difende il metodo delle primarie per scegliere il candidato premier, «sono una cosa bellissima». Massima disponibilità dunque al dialogo ma il segretario avverte: «Il Pd non è salmeria di nessuno, discute con tutti ma non ci sta a tutti i prezzi. Noi stiamo costruendo un progetto, ne discutiamo con tutti ma abbiamo bisogno di rispetto». «Se restiamo a pettinare le bambole, veniamo meno a un compito storico», avverte Bersani, ribadendo i rischi del secondo tempo del berlusconismo che rischia «lesionare i pilastri fondativi della Costituzione più bella del mondo». «Le regole vengono prima del consenso, non si può dire che siccome ho il consenso io forzo le regole. Chi direbbe in una democrazia “ghe pensi mi”? Berlusconi favorisce una deriva populista e plebiscitaria che rischia di portare l’Italia fuori dalle democrazie occidentali». «Il Cavaliere è arrivato in una fase di discredito della politica e il suo istinto porta verso una fase di grande discredito della politica. Oggi c’è un distacco tra società e politica paragonabile al ‘94. Bisogna sfondare il numero di gomma che si è creato...». Di qui la risposta alla “dolorosa” domanda: «Perché la crisi di Berlusconi non porta voti al Pd?». «Quando piove piove per tutti», dice Bersani.
E il “papa straniero” che dovrebbe salvare il centrosinistra? «Speriamo che non si liberi Obama risponde sorridendo lo spero per Stati Uniti...». Fazio cita Montezemolo, Draghi, Profumo, «nessuno di questi ha fatto il volontario alle feste del Pd...». «Per adesso divertiamoci leggendo i giornali. Poi quando sarà il momento vedremo», la risposta.
CHIARIMENTO SULL’AFGHANISTAN
Si parla anche del dramma afghano. «L’Italia chiarisca il proprio ruolo», spiega Bersani uscendo dagli studi Rai. Nessun commento sulle bombe proposte da La Russa. «Servirebbe un chiarimento sul futuro della missione italiana. Perché siamo andati li? Cosa succede? Quali sono le prospettive?». Una tappa fondamentale per mettere a fuoco la questione «è quella che coincide con l’inizio del ritiro delle truppe, a metà del prossimo anno». «I talebani non possono vincere questa partita, né l’Italia può venire meno ai patti e alle alleanze. Mi piacerebbe che l’Italia giocasse un ruolo decisivo per ottenere chiarezza su quello che sta succedendo, che facesse sentire la sua voce».

l’Unità 11.10.10
La sfida del programma
Scuola
«Posto nido per tutti i bimbi. Piano urgente per i precari»

Piano straordinario 0 6 anni
Trasformare l’asilo nido da servizio a domanda individuale a diritto educativo di ogni bambino e bambina. Assicurare a tutti i bambini un posto nella scuola dell’Infanzia.
Dare certezza di funzionamento alle scuole Ogni scuola deve poter contare su un triennio certo di programmazione. Assegnare un organico funzionale che includa, anche per reti di scuole, personale stabile per le supplenze brevi e professionalità specializzate a supporto dei ragazzi con bisogni speciali (autismo, dislessia, discalculia). Questo sistema comporta molti vantaggi a parità di spesa: il superamento del precariato scolastico; la programmazione certa dei fabbisogni di insegnanti e conseguente piano di reclutamento; la piena autonomia delle scuole nell’organizzazione della didattica.
Scuola primaria
Il Pd propone l’estensione a tutto il Paese del tempo pieno e del modulo a 30 ore con le compresenze.
Attuazione del Titolo V
Uffici scolastici regionali trasferiti dal ministero alle Regioni. Alle Regioni spetta definire il dimensionamento e il numero delle autonomie scolastiche, la distribuzione nel territorio delle scuole, le specializzazioni nella scuola superiore. Passare dai livelli essenziali delle prestazioni (Lep) ai livelli essenziali degli apprendimenti e delle competenze (Leac) per garantire l’unitarietà dell’ordinamento dell’istruzione: un ragioniere di Torino deve avere le stesse competenze di uno di Trapani, competenze utili a raggiungere gli obiettivi di Lisbona e gli standard internazionali.
Formare e reclutare gli insegnanti di domani Serve una terapia d’urgenza per il precariato immettendo in ruolo a tempo indeterminato i posti che ora sono coperti con incarichi annuali e che quindi già sono considerati nella spesa. Il personale scolastico deve restare in servizio per non meno di 3 anni nella stessa scuola per garantire la continuità didattica. No alla chiamata diretta. Introdurre la formazione in servizio obbligatoria e certificata.
Lotta alla dispersione
Il tasso più alto di dispersione scolastica si ha tra gli 11 e i 16 anni. Servono quindi dei raccordi tra medie e biennio delle superiori, un biennio che vogliamo unitario per aiutare i ragazzi a fare scelte più consapevoli. Obbligo di istruzione a 16 anni. Realizzare in tutta Italia le Anagrafi regionali degli studenti (a oggi ne abbiamo 11 su 20 Regioni)
Piano per l’edilizia scolastica
Due scuole su tre non sono a norma di legge. In Italia solo il 46 per cento delle scuole ha il certificato di agibilità statica, contro il 98 per cento della Germania, il 93 della Francia e il 92 per cento dell'Inghilterra.
Le risorse stanziate, anche dall’ultimo governo di centro sinistra, spesso non possono essere spese dagli enti locali per i vincoli imposti dal patto di stabilità interno: per questo chiediamo che dal patto vengano escluse le spese per l’edilizia scolastica.

l’Unità 11.10.10
La sfida del programma
Immigrazione
«Cittadinanza per i figli. Diritto di voto per gli adulti»

Selezione a punti?
La proposta lanciata all’assemblea di Varese dal gruppo dei 75 di Veltroni (un sistema di selezione a punti basato sulla qualità dell’immigrazione, come avviene in Paesi come Australia e Gran Bretagna), è stata discussa e inclusa nel documento finale approvato, in cui peraltro erano già contenuti concetti simili. Il Pd ha deciso di «aprire una discussione nel Paese» sul tema. Dunque non è ancora una proposta ufficiale del partito.
Accordi bilaterali
Gli accordi bilaterali avviati dai governi di centrosinistra (il 90% di quelli esistenti) hanno dimostrato di essere la strada più efficace per governare l’immigrazione. Bisogna estendere quegli accordi.
Chi nasce e cresce in Italia è italiano Sono 864.000 i figli degli immigrati che vivono in Italia; nel 1992 erano 50.000: in queste cifre è scritto il cambiamento che l’Italia ha vissuto nell’arco di 20 anni. Bisogna modificare la legge in vigore sulla cittadinanza e prevedere che i figli di genitori stranieri, da alcuni anni residenti nel nostro Paese, che nascono in Italia o che arrivano bambini in Italia, al momento della nascita o quando concludono il primo ciclo scolastico possono essere riconosciuti come cittadini italiani.
Piano contro la clandestinità
-utilizzare tutti gli strumenti già disponibili per l’emersione del lavoro irregolare;
-introduzione del reato di grave sfruttamento del lavoro (caporalato), aggravato quando interessa minori e migranti clandestini;
-estendere ai lavoratori immigrati gli ammortizzatori sociali previsti per i lavoratori italiani;
-ridurre i tempi per il rilascio ed il rinnovo dei permessi di soggiorno; -adottare forme di regolarizzazione ad personam per evitare il formarsi di periodiche “bolle” di irregolarità che poi comportano il ricorso alle periodiche sanatorie. Tali regolarizzazioni dovrebbero essere attuate sulla base di requisiti: il lavoro, la casa, il rispetto delle leggi, la buona integrazione. Potrebbe riguardare coloro che contribuiscono all’individuazione di fattispecie criminali legate all’immigrazione; per coloro che compiono atti di rilevanza umanitaria e sociale;
-riattivare le quote dell’ingresso regolare e semplificare le procedure;
-applicare l’articolo 18 del decreto legislativo 286/98 che prevede un permesso di soggiorno umanitario per le persone che denunciano i propri sfruttatori;
-applicare la direttiva del 18 giugno 2009 che impegna gli Stati membri dell’Unione Europea a sanzioni e provvedimenti nei confronti dei datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare;
-incentivare il rimpatrio volontario degli irregolari sulla base di quanto previsto dalla direttiva europea 2008/115/EC;
-prevedere l’inserimento dei rifugiati e delle persone vittime di tratta tra le categorie svantaggiate che possono essere inserite nella cooperazione sociale attraverso la modifica della legge 382/91;
-ingresso per ricerca di lavoro sponsorizzata e garantita da istituzioni ed organizzazioni certificate (sindacati, associazioni di imprenditori, istituzioni pubbliche);
-ingresso per ricerca di lavoro su domanda dei singoli, dietro prestazioni di garanzia da parte del richiedente entro tetti numerici;
Votare per partecipare
Il diritto di voto amministrativo per gli immigrati rientra dentro il processo di “manutenzione” della democrazia.
Moschee e burka
No al volto coperto, serve un’intesa tra le comunità musulmane e lo Stato che riguardi l’esercizio della religione musulmana, la seconda in Italia.
Respingimenti
Nel caso di riaccompagnamento o respingimento al paese, al migrante deve essere garantito il diritto di rivolgere domanda di asilo per il tramite dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Le domande devono essere esaminate con le garanzie giuridiche prescritte ed in tempi ragionevoli. Queste condizioni oggi non esistono. Per quanto riguarda il Trattato tra Italia e Libia il Governo italiano deve applicarlo in tutte le sue parti, a partire dagli articoli 1 e 6 che impegnano le parti ad adempiere agli obblighi “derivanti dai principi e dalle norme del Diritto Internazionale universalmente riconosciuti”; deve intervenire sul Governo libico perché sia riattivato l’ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, gestito da una commissione mista libico-europea, per consentire l’attivazione della procedura del diritto d’asilo; deve inoltre rispettare l’ordine del giorno presentato dal Pd al Senato e accolto dal Governo per un coinvolgimento del Parlamento medesimo nella gestione dell’Accordo Italia-Libia.
Rom e Sinti
Dalle persone Rom bisogna esigere il rispetto delle regole. E al contempo offrire loro le opportunità di inserimento nella società. A partire dall’obbligo scolastico dei bambini e dal superamento dei campi rom. L’Ue ha messo a disposizione da anni risorse per l’integrazione della comunità Rom, che il governo italiano non ha usato

Repubblica 11.10.10
Le due agende etiche
di Stefano Rodotà


Due "agende etiche" sono comparse all´orizzonte politico, e vale la pena di metterle a confronto. La prima è stata presentata dal presidente del Consiglio nel suo discorso alle Camere, e contempla temi noti, nell´abituale cornice limitativa dei diritti delle persone – procreazione assistita, aborto, testamento biologico, ricerca scientifica. La seconda nasce dall´ordinanza con la quale il Tribunale di Firenze ha rinviato alla Corte costituzionale la legge sulla procreazione assistita perché vieta la cosiddetta fecondazione eterologa, così violando l´eguaglianza tra le persone. Qui l´impostazione è completamente rovesciata. Si vuole restituire a tutti la libertà di scelta nelle questioni di vita, come ha già fatto la Corte dichiarando incostituzionali alcune norme della stessa legge e come ha indicato la Corte europea dei diritti dell´uomo affermando l´illegittimità del divieto contenuto nella legge austriaca.
Prevedibili le reazioni critiche di governo e Vaticano, fondate tuttavia su sgrammaticature istituzionali e falsificazioni della realtà. Non è vero che la legge sulla procreazione assistita sia inattaccabile perché confermata da un referendum: nel 2005 semplicemente non fu raggiunto il quorum necessario per l´abrogazione per l´invito all´astensione venuto dalla Chiesa, dunque non vi è un risultato giuridicamente vincolante. E non è vero che una dichiarazione di incostituzionalità provocherebbe "un far west procreativo": questo, invece, è stato l´effetto dei divieti legislativi, che obbligano le donne italiane a chiedere una sorta di provvisorio "asilo politico" in altri paesi europei per soddisfare il desiderio di maternità.
Ma torniamo all´agenda governativa e a quel che ha detto uno dei ministri che l´ha preparata: «La biopolitica è oggettivamente all´ordine del giorno». Mai parola è stata più rivelatrice. Consapevole o no, quel ministro ha usato un termine, «biopolitica», che descrive proprio il modo in cui il potere si impadronisce della vita delle persone, sottomettendole, espropriandole della loro libertà. Un progetto autoritario, destinato a creare scontri su un terreno dove la misura dovrebbe essere la regola, dove il rispetto delle scelte della persona dovrebbe essere massimo, dove la ricerca scientifica dovrebbe essere libera da ipoteche ideologiche.
Considerando tempi e difficoltà della politica, vi è la ragionevole speranza che questa agenda non sia approvata dal Parlamento. Ma il suo annuncio rivela un intento strumentale. Usare i temi "eticamente sensibili" per mettere in difficoltà i finiani, già critici verso la legge sulla procreazione e ostili alla proposta di testamento biologico approvata dal Senato, per allettare l´Udc e creare divisioni all´interno del Pd. Soprattutto, però, la mossa ha un destinatario privilegiato, le gerarchie vaticane, alle quali Berlusconi cercò di mandare un segnale di fedeltà proprio su quei temi al tempo dell´affare delle escort. E Berlusconi fece recapitare una lettera alle suore che avevano ospitato Eluana Englaro, addolorato «per non aver potuto evitare la sua morte».
Non era il rammarico di un Re Taumaturgo al quale era stato impedito di imporre le sue mani per una guarigione altrimenti impossibile. Era la rivendicazione di un potere sulla vita, di cui il politico vuole tornare a essere l´unico depositario. Era pure il tentativo di mantenere una traballante alleanza tra Trono e Altare, con una agenda bioetica e dichiarazioni governative che rispecchiano quasi alla lettera parole di Benedetto XVI.
Ma il Parlamento deve essere sempre guidato dai principi costituzionali, chiariti assai bene dalla Corte costituzionale in sentenze su salute, autodeterminazione, procreazione (e si potrebbe aggiungere quella sulle unioni omosessuali, per mettere ancor più in evidenza quanto la logica costituzionale sia lontana dalla linea dell´attuale maggioranza). Nel dicembre 2008 la Corte ha ribadito che le decisioni sulla vita sono affidate al consenso informato dell´interessato e che vi sono «due diritti fondamentali della persona: quello all´autodeterminazione e quello alla salute». Pochi mesi dopo, nel maggio 2009, dichiarando incostituzionali proprio alcune norme della legge sulla procreazione assistita, la Corte ha sottolineato che «in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere l´autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali». Il quadro costituzionale è così definito senza possibilità di equivoci. Il potere di decidere sulla vita appartiene alla persona, titolare del diritto fondamentale all´autodeterminazione. Al suo consenso è subordinato l´intervento del medico, il quale tuttavia non può essere espropriato delle sue competenze professionali. No, dunque, al legislatore-medico e al legislatore-scienziato (che, ad esempio, stabilisce se idratazione e alimentazione forzata siano o no trattamenti medici).
I contenuti dell´agenda etica rovesciano questa linea, si allontanano dalla retta via costituzionale. La sostanziale cancellazione della volontà della persona nel disegno di legge sulle "dichiarazioni anticipate di trattamento", dunque sulle decisioni di fine vita e sulla dignità del morire, è in contrasto palese con il diritto fondamentale all´autodeterminazione e vuol far divenire le persone prigioniere di un´etica di Stato invece d´essere titolari dei diritti riconosciuti dalla Costituzione.
Poiché, tuttavia, il tema del governo della vita rimane cruciale nel tempo della tecnoscienza, è indispensabile una riflessione più generale sul ruolo del diritto e i limiti dell´intervento dello stesso Parlamento. Ancora una volta è la Costituzione a indicarci nitidamente il cammino, con le parole che chiudono l´art. 32 sul diritto alla salute: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». È una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, una sorta di nuovo habeas corpus, con il quale il moderno sovrano, l´Assemblea costituente, promette ai cittadini che non "metterà la mano" su di loro, sulla loro vita. Quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all´indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell´interessato. Una riflessione indispensabile in un tempo segnato dalla presenza pervasiva del diritto, sulla quale ha richiamato recentemente l´attenzione anche il cardinale Angelo Scola.
Mentre discutiamo di questioni generali, però, troviamo il tempo per gettare uno sguardo su una piccola e devastante agenda etica che si vuole imporre nella Regione Lazio, che vuol riscrivere le norme sui consultori familiari, modificare sostanzialmente la legge sull´aborto, costringere le donne a fare i conti con le associazioni private antiabortiste. Né la Costituzione, né il rispetto della persona consentono prepotenze come questa.

l’Unità 11.10.10
Vienna
Calo socialdemocratico. L’estrema destra fa il pieno e sale al 27%

Vienna la «rossa» si tinge di blu, il colore della destra xenofoba in Austria. Per la città-stato si conferma il trend in atto Europa di forte avanzata dei partiti estremisti sull'onda di problemi e paure degli elettori legati all'immigrazione. Superando tutti i pronostici, il leader della Fpoe di estrema destra, Heinz-Christian Strache, ex braccio destro di Joerg Haider, è il vero vincitore delle regionali ieri a Vienna, ha strappato il 27,05 aumentando i voti del 12%. Il partito socialdemocratico Spoe del sindaco Michael Haeupl ha difeso il primo posto ma ha perso la maggioranza assoluta che aveva finora, ha ottenuto il 44,12 perdedo il 4, 9%

Repubblica 11.10.10
Il vento di destra su Vienna la rossa
Austria, lo xenofobo Strache al 27%: "Non siamo estremisti ma basta immigrati"
La gente vota per noi perché è insoddisfatta e stanca dell´arroganza e della prepotenza dei socialisti
di Andrea Tarquini


VIENNA - «È un giorno storico». Abbronzato, elegante, il leader della Fpoe, la destra radicale austriaca, è raggiante di gioia parlando con Repubblica. Dopo Geert Wilders in Olanda, dopo i "Democratici di Svezia" a Stoccolma, ora in Austria è Heinz-Christian Strache il vincitore, il protagonista. Alle elezioni nella Vienna "rossa" dai tempi di Francesco Giuseppe (elezioni di valenza nazionale, perché la capitale è uno Stato federale), il suo partito ha quasi raddoppiato i consensi, volando al 27 per cento. Per i socialdemocratici del borgomastro-governatore Michael Haeupl e del cancelliere federale Werner Faymann, la disfatta è gravissima: calano dal 49,1 al 44,1. Peggio ancora va ai cristianopopolari alleati di Faymann nel governo nazionale, e degradati a terza forza nella capitale, e ai Verdi. Mancano 120mila schede di voto per posta, ma comunque dopo Paesi Bassi e Scandinavia, il nuovo vento di destra sconvolge gli equilibri politici anche in Austria, e si conferma come trend europeo.
«Cinque anni fa, quando assunsi la guida del mio partito, eravamo macerie, al 3 per cento», dice Strache. Fuori, nella tenda elettorale della Fpoe, i suoi esultano, ballano a ritmi rock e brindano alla grande. Li galvanizza la bruna, giovane Barbara Kappel, un´altra loro star. «È il miglior risultato della nostra storia, ha un peso nazionale», continua. Difficile dargli torto: poche centinaia di metri lontano, tra i musi lunghi al quartier generale della Spoe, la socialdemocrazia sconfitta, il cancelliere Werner Faymann ammette: «Speravo in un risultato migliore». Adesso, sottolinea Strache, «non potranno più isolarci diffamandoci con etichette di estremismo. La gente vota per noi perché è insoddisfatta, e stanca dell´arroganza e della prepotenza dei socialisti».
Difesa dei valori nazionali contro l´islamizzazione, chiesta anche con una durissima campagna online, severità sull´immigrazione, più ordine pubblico e sicurezza sociale, sono le proposte con cui Strache ha trionfato. Ora chiede il pieno sdoganamento. «Gli elettori hanno scelto noi, non gli altri partiti come alternativa ai socialisti. I tentativi di criminalizzarci e diffamarci non funzionano, siamo veri democratici, rispettiamo ogni persona, di qualsiasi origine e religione. Ma abbiamo il coraggio di parlare di problemi reali».
Nella tenda dei "blu", il colore della Fpoe, il party alza il volume. Tra socialisti, cristianopopolari e verdi, il clima è funebre. Strache, come Wilders, è votato dal Centro della società. «Novità in luoghi che sono cuore d´Europa e della sua cultura», sottolinea. Col nuovo trend, è il messaggio, tutti dovranno fare i conti. «Wilders, o io, abbiamo avuto il coraggio di parlare di sviluppi pericolosi, della formazione di società parallele, di trend islamisti, fondamentalisti. È un grave pericolo di cui occorre parlare, non sono discorsi da estremisti».
Vincitore a Vienna, rossa fino a ieri, Strache espone un disegno di dimensioni europee. «Su questi temi ci capiamo benissimo anche con la Lega Nord». Il messaggio è chiaro: «o l´Europa si rassegna al suo tramonto, o la salviamo insieme. I partiti dell´establishment rifiutano il dibattito: guardi a Sarkozy, per le sue misure di confronto con la verità viene trattato dalla Ue come un criminale. Quando Berlusconi dice la verità media, establishment, e certi cosiddetti intellettuali, gli sparano addosso». Un forte vento di nuova destra soffia sulla ricca Austria. La sfida alle sinistre e ai conservatori tradizionali, con quelli tedeschi di Angela Merkel in testa, sull´idea di Europa del futuro, dopo il voto di ieri a Vienna diventa ancora più forte.
(Ha collaborato Luca Faccio)

«Giuro d’essere fedele allo Stato d’Israele in quanto Stato ebraico e democratico, e di rispettarne le leggi»
Corriere della Sera 11.10.10
Fedeltà allo Stato ebraico, sì alla legge della discordia
Netanyahu accontenta l’estrema destra. I laburisti: deriva fascista
Il giuramento obbligatorio per arabi e stranieri
 La nuova legge sulla «fedeltà» è rivolta solo ai non ebrei
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — «Giuro d’essere fedele allo Stato d’Israele in quanto Stato ebraico e democratico, e di rispettarne le leggi». Tre anni fa Yariv Levin, deputato Likud, presentò una nuova la legge sulla cittadinanza: non basta giurare fedeltà a Israele, diceva, bisogna giurarla anche alla sua «ebraicità». Poiché un israeliano su 5 è arabo, la proposta parve provocatoria: fu stoppata in commissione e il governo, chiamato a discuterne, per cinque volte accampò scuse. Finché la leggina non finì dimenticata. Tre mesi fa, d’improvviso, Bibi Netanyahu ha accolto la richiesta del suo alleato Lieberman, l’estrema destra determinante nell’eventuale voto sul congelamento delle colonie, e ha rispolverato il giuramento. Rivisto e corretto, ieri mattina è stato presentato al consiglio dei ministri ed è diventato legge, 22 a favore, 8 contrari: tutti i palestinesi che sposano arabi israeliani, tutti i non ebrei che sposano israeliani, tutti gli stranieri che vogliono restare qui, tutti quanti dovranno promettere fedeltà eterna allo Stato, ebraico prim’ancora che democratico.
Non giuri, non sei. Lo slogan è passato. E se il Parlamento lo ratificherà, migliaia di palestinesi dovranno adeguarsi. L’ultradestra religiosa dello Shas vorrebbe anche la possibilità di revocare la cittadinanza a chi sostenga organizzazioni terroristiche come Hamas, laddove il sostegno appare un concetto molto elastico: si cita perfino il caso della deputata araba che in maggio partecipò alla Freedom Flotilla, per rompere il blocco di Gaza. Su Netanyahu piovono critiche: dagli alleati laburisti, «qui si sconfina pericolosa mentene lfasci -smo » ; dal presidentede lla Knesset, Reuven Rivlin, «diamo armi ai nemici del sionismo»; da tre ministri del Likud che temono nuove tensioni con gli arabi («che c’importa se arabi o gentili dicono di sentirsi fedeli ai nostri valori?»). Le statistiche, ogni anno, dicono che metà dei nuovi cittadini israeliani sono palestinesi. E siccome il governo esclude dall ’ obbli go di gi uramento gl i ebrei della diaspora, che acquistano la cittadinanza con la «legge del ritorno», l’accusa di razzismo è dietro l’angolo: «Si crea uno status di cittadini di seconda classe», protesta Ahmed Tibi, deputato arabo. «E’ molto meno di quanto esigono in Olanda o Danimarca — ribatte Aviad Hacohen, opinionista di destra —: noi non chiediamo d’imparare l’ebraico o di studiare la nostra storia». Il premier difende la scelta: «Questo principio è l’essenza del sionismo. Nessuno ci faccia prediche sulla democrazia: non ci sono in Medio Oriente altre democrazie, né al mondo altri stati ebraici. Questa è la particolarità d’Israele: essere la casa nazionale del popolo ebraico. Chi vuole farne parte, deve riconoscerla».
Chi già ne fa parte, non sempre si riconosce. Un gruppo di scrittori, d’artisti, d’intellet tualiieriha manifestatoa Tel Aviv, davanti alla casa di Ben Gurion: «Non vogliamo essere cittadini d’uno Stato che forza le coscienze individuali — commenta Sefi Rachlevsky, scrittrice —, lo punisce se ha opinioni diverse da quelle della maggioranza, tradisce i principi che l’hanno fondato 62 anni fa». Bibi, si sa, ha pronte altre sorprese: per esempio, una legge che renda obbligatorio il referendum popolare, prima che sia firmata qualsiasi cessione di territori nel Golan o a Gerusalemme. «Uno scudo per le tempeste prossime venture», dicono gli sherpa del premier. «Un altro regaloa Lieberman » , scuotono la testa davanti alla casa di Ben Gurion.

Repubblica 11.10.10
"Pas d´ennemis à droite" l´ultimo slogan del Cav
di Mario Pirani


«Marciare per non marcire» scandisce sulla scia della fraseologia vetero-fascista il sito "La destra per Milano", dando seguito alle espressioni di plauso dei giorni scorsi per gli slogan antisemiti del senatore Ciarrapico (PdL). E poi, quasi compiaciuto di essere stato oggetto (vedi ultima "Linea di confine") dell´attenzione di "Repubblica" aggiunge: «Quando i nostri nemici parlano male di noi, mentre lodano gli infami traditori finiani, è solo un buon segno, vuol dire che siamo nel giusto, che dobbiamo continuare a marciare sulla strada intrapresa».
Se, quindi, torniamo a parlarne è solo per segnalare qualche ulteriore nefandezza. In primo luogo l´abitudine di questi figuri di mascherare le espressioni antiebraiche con una specie di post scriptum afferente alla loro presunta ammirazione per Israele, con ciò aggiungendo offesa ad offesa. Come, infatti ha ribadito Gianfranco Fini chi giustifica le ingiurie agli ebrei sbandierando l´amicizia per lo Stato ebraico «vuol dire che non ha capito nulla e considera ancora gli ebrei italiani, meno italiani degli altri». In secondo luogo scorrendo i vari siti che inalberano fiamme tricolori, fasci e persino forche (vedi il sito di "Patria e Libertà" che rivendica la pena di morte) colpisce il fatto che dopo il riavvicinamento di Storace a Berlusconi tutti questi gruppi estremistici ed esplicitamente filo-repubblichini accompagnino i loro singoli stemmi con quello del PdL, quale bollo di libera circolazione all´interno della maggioranza di governo. Una libera circolazione che da un lato reimmette nel profilo informe del PdL i veleni di cui An si era in gran parte liberata; dall´altro autorizza alla diffusione del peggio dell´ideologia razzista del fascismo. Tutto ciò non è casuale ma il frutto di un disegno politico tipico di Berlusconi: "Pas d´ennemis à droite" (nessun nemico a destra), speculare al "Pas d´ennemis à gauche" della sinistra antiriformista.
D´ora in poi l´ideologia della maggioranza non troverà le sorgenti solo nel verbo di Bossi ma anche nei veleni non dissolti dei nostalgici di Salò. Ne sortirà il brand che dovrebbe permettere a Berlusconi di non competere ma di assorbire i movimenti dell´estrema destra europea in rimonta ovunque. Qualcuno comincia ad accorgersene. Segnalo tra i pochi l´editoriale di Giovanni Sabatucci sul "Messaggero" (6 ottobre) che sottolinea come quei movimenti razzisti nel resto del Continente «sono tenuti fuori dall´area della legittimità e non hanno alcuna possibilità di coalizzarsi. Perché allora in Italia questi filtri non funzionano, perché la strategia della inclusione è così estesa e indiscriminata?... È prima di tutto necessario che le forze politiche maggiori… ricordino che in ogni democrazia esiste un confine che non può essere varcato a cuor leggero, un patrimonio originario di valori che non può essere svenduto in cambio di un pugno di voti».
Dedico quest´ultima citazione, presa tra altre analoghe dal sito ufficiale de "La Destra" storacian-berlusconista, a quanti, anche nella Comunità ebraica, mostrano di non accorgersi di quel che avviene: «Accumulazione satanica è quella che non attribuisce importanza ai soldi ma che ottiene soddisfazione dall´impoverimento di interi Stati, ad es. quello che accadde qualche anno fa all´Italia quando il finanziere ebraico–ungherese Soros (nato Schwartz) mosse uno straordinario attacco finanziario al nostro Paese e la lira si svalutò impoverendoci di colpo; o quello dei famosi subprime che hanno impoverito migliaia di investitori, azione per cui l´ebreo americano sta scontando decine di ergastoli; attualmente anche in Cina si inizia a temere un attacco da parte della cricca bancaria ebraica… Alla luce di quanto abbiamo detto si può ipotizzare… il futuro attacco all´Europa: maggiore povertà, tensioni sociali, violenza, sfiducia, tendenze autoritarie e il solito tentativo insurrezionale bolscevico». Chissà se Berlusconi valuterà queste farneticazioni dei suoi nuovi alleati una barzelletta?

Repubblica 11.10.10
La cronaca nera è il traino dei tg. Una tendenza che fa dell´Italia un caso unico in Europa
Cara Tv, dacci la nostra ansia quotidiana
di Ilvo Diamanti


Nei notiziari domina il romanzo criminale in diretta. Da Cogne ad Avetrana è un serial infinito che intreccia lo show del dolore e la caccia al colpevole dal divano di casa. Storie che rischiano di farci sprofondare nell´angoscia. A beneficio di chi?
Noi detective, magistrati, giurati. La tragedia ci sfiora, ma in realtà tocca gli altri

La tragedia privata di Sarah Scazzi, esibita in pubblico in tv da "Chi l´ha visto?" e proseguita su "Linea notte", mercoledì scorso, ha sbancato l´auditel. Oltre 4 milioni di spettatori. Un trionfo di pubblico e di critica. Nonostante le polemiche violente.
Il delitto della giovane Sarah Scazzi ha suscitato sgomento. Per come è stato consumato. Ma anche per come è stato scoperto e comunicato. In diretta tv, presenti - e protagoniste - la madre, la zia e la cugina (di Sarah). Rispettivamente: moglie e figlia dell´assassino. A casa dell´assassino. La novità è che lo spettacolo del dolore, stavolta, non solo è avvenuto in diretta. Ma è stato predisposto prima - per quanto in modo inconsapevole. I protagonisti della tragedia erano presenti sulla scena del crimine, davanti alle telecamere. "Prima" del colpo di scena.
Così questa tragedia privata, esibita in pubblico, trasmessa da "Chi l´ha visto?" e proseguita su "Linea notte", mercoledì scorso, fino a notte inoltrata, ha sbancato l´auditel. Oltre 4 milioni di spettatori. Facendo balzare lo share, in pochi minuti, dal 10% al 33%. Un trionfo di pubblico e di critica. Nonostante le polemiche violente. Perché, comunque, si sono marcati nuovi limiti nella corsa al "reality show" senza limiti. Recitato da attori involontari, che avrebbero rinunciato volentieri alla parte e, soprattutto, al soggetto. Ma proprio per questo più gradito al pubblico. Alla ricerca costante di emozioni forti. Di tragedie consumate in ambito familiare, amicale, locale. In Italia più che altrove. Perché da noi la criminalità costituisce un genere televisivo di successo, che occupa uno spazio specifico e ampio - anzitutto nei notiziari.
Lo confermano i dati dell´Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (di Demos, Osservatorio di Pavia e Unipolis). Visto che, nel primo semestre del 2010, il Tg1 ha dedicato ai "fatti criminali" 431 notizie: circa l´11% di quelle presentate nell´edizione di prima serata. Uno spazio maggiore rispetto a quello riservato allo stesso tipo di notizie dagli altri principali notiziari (pubblici) europei. In dettaglio: l´8% la BBC, il 4% TVE (Spagna) e France 2, il 2% ARD (Germania). Va precisato, per chiarezza, che il tasso di crimini in Italia non è superiore a quello degli altri Paesi europei considerati. Semmai, un po´ più basso. E aggiungiamo, per correttezza, che il TG5 mostra un andamento pressoché identico al TG1. Da ciò l´impressione - e anche qualcosa di più - che il crimine costituisca una passione mediatica nazionale. D´altronde, come abbiamo già mostrato altre volte, in queste pagine, c´è un legame stretto, in Italia, tra la percezione sociale e la rappresentazione mediale. Occorre, peraltro, evitare di ricondurre alla politica la responsabilità intera - comunque, prevalente - di questa tendenza. La politica, sicuramente, c´entra, visto l´intreccio inestricabile che la lega ai media e soprattutto alla televisione, pubblica e privata. (E l´enfasi sulla criminalità aiuta, certamente, a contenere la crescente preoccupazione sollevata da altri problemi. Per primo: la disoccupazione).
Tuttavia, vi sono altre importanti ragioni dietro all´irresistibile attrazione esercitata dai fatti criminali nella società italiana.
In primo luogo: le logiche "autonome" che regolano la comunicazione. In particolare, la televisione. Che, in Italia, affronta questa materia in modo diverso rispetto agli altri Paesi europei. Basta vedere la densità e la frequenza di questi avvenimenti. In Italia, i fatti criminali occupano uno spazio quotidiano sui telegiornali. Anzi, ogni giorno, in ogni edizione, vengono loro dedicate numerose notizie. Nulla di simile a quanto si osserva nelle altre principali reti europee. Le quali, peraltro, affrontano questi eventi in modo "puntuale" e "contestuale". E, dove è possibile, li tematizzano. In altri termini: l´informazione televisiva, nelle altre reti europee, è limitata, nel tempo, all´evento e ai suoi effetti. Inoltre, se possibile e utile, diviene occasione per affrontare problemi sociali più ampi. L´integrazione degli stranieri, la violenza nelle scuole, l´intolleranza interreligiosa. In Italia ciò avviene raramente. Soprattutto nel caso degli immigrati o di altri gruppi marginali, come i Rom. Con l´effetto (non involontario) di confermare il pregiudizio nei loro confronti. Invece, la regola, nella comunicazione e nei media italiani, è la "serializzazione". Oltre alla "drammatizzazione".
I crimini, cioè, non solo hanno uno spazio quotidiano, ma vengono trattati - e sceneggiati - come fiction. Da un lato, i "serial tematici" associano delitti e violenze simili: per ambiente, responsabilità, reato. Così, periodicamente, assistiamo a sciami di stupri, cani assassini, chirurghi criminali. Che all´improvviso, come sono arrivati, scompaiono. D´altro canto, e soprattutto, l´Italia è il Paese dei "grandi casi criminali" che non finiscono mai. Seguiti dai media che indagano, celebrano e riaprono i processi, sentenziano. Durano anni e anni. Dal 2005 ad oggi, i 7 telegiornali nazionali, in prima serata, hanno dedicato: 941 notizie al delitto di Meredith Kercher Perugia, 759 a quello di Garlasco, 538 all´omicidio del piccolo Tommaso Onofri, 499 alla strage di Erba. Avvenuti 3-4 anni fa. E, ancora, 508 notizie all´omicidio di Cogne, che risale a dicembre 2002.
Otto anni dopo, nel primo semestre del 2010, i telegiornali di prima serata gli hanno dedicato oltre 20 notizie. Si tratta di casi accomunati da alcuni elementi. Maturano in contesti familiari. Figli che uccidono i genitori. E viceversa. Oppure: si verificano nell´ambito del vicinato (come a Erba), delle relazioni amicali e di coppia (come a Garlasco), tra giovani. In ambiente universitario (Perugia). Insomma: si tratta di "casi comuni". Che ci coinvolgono tutti. Come se i fatti avvenuti potessero capitare anche a noi. O, comunque, a persone amiche e conosciute. È il voyeurismo che contrassegna una società locale e localista. Questo Paese di paesi e di compaesani (come lo definisce Paolo Segatti), dove la tv contribuisce a perpetuare l´immagine della "comunità". D´altronde, questi eventi tracimano oltre i telegiornali. Invadono i programmi di infotainment. I contenitori pomeridiani. I salotti di tarda serata. Primo - e più importante - "Porta a Porta". Dove Bruno Vespa allestisce, periodicamente, la sua corte, affollata di avvocati, criminologi, psicologi, psichiatri, vittime, parenti delle vittime e, talora, (presunti) assassini. Questa attrazione per il "crimine" costituisce, appunto, uno specifico italiano. Una "passione" che ha radici lontane: nella letteratura, nel teatro, nel cinema. (A cui, non per caso, l´Università Sorbonne Nouvelle - Paris 3, la prossima settimana, dedicherà un seminario).
Il "fatto criminale", in Italia, sui media non è guardato come "esemplare" rispetto ai problemi della società e delle istituzioni. Ma come "caso in sé". "Singolare". Il che ci fa sentire coinvolti eppure distaccati. Noi: detective, magistrati, giurati. E, in fondo, vittime e assassini. Ciò spiega lo spazio dedicato in tivù alle grandi tragedie quotidiane e ai delitti di ogni giorno. Ma anche il successo di pubblico che ottengono. Perché generano angoscia ma, al tempo stesso, rassicurano. Ci sfiorano: ma toccano gli "altri". È come sporgersi sull´orlo del precipizio e ritrarsi all´ultimo momento. Per reazione. Si prova senso di vertigine. Angoscia. Ma anche sollievo. E un sottile piacere.

Repubblica 11.10.10
L’indagine dell´Osservatorio europeo sulla sicurezza di Demos, Osservatorio di Pavia e Unipolis
I tg italiani voyeur del delitto in Europa non abbiamo rivali
di Paola Barretta e Fabio Bordignon


Serialità e pervasività: sono questi gli elementi che caratterizzano la trattazione dei casi criminali nei tg italiani, e che ne determinano la specificità a livello europeo. Episodi di criminalità violenta esistono in tutta Europa e, inevitabilmente, entrano nell´agenda dei notiziari televisivi. Due aspetti sembrano però distanziare, in modo netto, il caso italiano: lo spazio assegnato a questo tipo di notizie e le modalità di narrazione utilizzate dall´informazione televisiva di casa nostra.
La trattazione della cronaca nera è diventata, in Italia, un vero e proprio "genere". La ricostruzione della scena del crimine e del contesto sociale, la ricerca del colpevole attraverso interviste a protagonisti e comprimari: un´insistenza quasi "voyeuristica" che mantiene gli occhi delle telecamere puntati sull´evento per periodi molto lunghi.
La "serie" che vanta il maggior numero di episodi si lega al delitto di Perugia, che dal 2007 ad oggi ha visto 941 notizie nei tg Rai e Mediaset. Ma possiamo citare molti altri esempi di "romanzo criminale" catalogati dall´Osservatorio europeo sulla sicurezza: il delitto di Garlasco (759 notizie, tra il 2005 e il primo semestre 2010), l´omicidio del piccolo Tommaso Onofri (538), il delitto di Cogne (508) e la strage di Erba (499). Casi eclatanti, proposti a più riprese e a grande distanza di tempo, anche quando la fase processuale ha superato il primo grado o si è addirittura conclusa.
Negli altri paesi europei ci si ferma molto prima: in Gran Bretagna, la strage di 12 vittime compiuta da un ex-tassista ha occupato l´agenda della Bbc per due settimane, salvo poi scomparire. Una simile dinamica si osserva, in Spagna, per un omicidio dalle tinte fosche (il caso Marta del Castillo), oppure in Francia per l´uccisione di una giovane poliziotta.
Un´ulteriore peculiarità del caso italiano si lega alla "densità", nell´informazione tv, delle notizie sulla criminalità. Notizie spot, diffuse su tutto il territorio, eterogenee e pervasive (scarsamente tematizzate e contestualizzate, peraltro, rispetto a quanto avviene in altri Paesi europei). Nel primo semestre del 2010, il numero di episodi di criminalità proposti dal Tg1 - ben 431: l´11% sul totale delle notizie date - supera nettamente i valori registrati per i tg del servizio pubblico monitorati in altre cinque realtà del continente.
All´estremo opposto troviamo il tg tedesco, per il quale, nello stesso periodo, si rilevano solo 34 notizie di criminalità (meno del 2% sul totale). Ma anche Francia (113: 4%), Spagna (267: 4%) e Gran Bretagna (159: 8%) i livelli sono nettamente inferiori a quello italiano.


l’Unità 11.10.10
Il caso Una delle «pagine più oscure della storia della medicina»
Gli esperimenti condotti dal ‘46 al 48 in Guatemala con soldi pubblici
Il Mengele d’America che infettò innocenti per studiare la sifilide
Una vicenda terribile, scoperta dalla storica Susan Reverby: per anni il dottor John Cutler tra il ‘46 e il 48 aveva infettato di proposito persone ignare per studiare le sifilide. Oggi è un caso internazionale.
di Pietro Greco

Hillary Clinton, Segretario di Stato e dunque responsabile della politica estera degli Stati Uniti, l’ha definita un’azione «chiaramente non etica» e «orrenda». Francis Collins, direttore dei National Institutes of Health (NIH), l’agenzia federale che finanzia la ricerca medica negli Usa, è andato oltre e l’ha definita
«una pagina scura nella storia della medicina». L’azione non etica che segna una pagina nera nella storia della medicina è stata consumata oltre 60 anni fa, tra il 1946 e il 1948. Proprio nelle settimane in cui a Norimberga era in corso il «Processo ai dottori» e venivano giudicati i medici nazisti colpevoli di un crimine contro l’umanità per aver usato come cavie i prigionieri dei campi di concentramento, un gruppo di medici americani con fondi NIH è andato in Guatemala, ha reclutato un gruppo di prostitute, le ha infettate, ha fatto in modo che contaminassero centinaia di ignari prigionieri, soldati e malati mentali per studiare i modi di prevenire e di curare la sifilide e altre malattie trasmesse sessualmente.
I risultati di quello studio «chiaramente non etico», non sono mai stati pubblicati. E la vicenda è rimasta a lungo segreta. Finché una storica della medicina, Susan Reverby, è venuta in possesso di alcuni documenti che il dottor John G. Cutler, un esperto di malattie sessuali, aveva lasciato in eredità all’Università di Pittsburgh al momento della sua morte, nel 2003. Reverby stava, in realtà, studiando un altro caso «chiaramente non etico» consumato in Alabama tra il 1932 e il 1972 che aveva visto protagonista lo stesso Cutler insieme a un gruppo di ricercatori del U.S. Public Health Service. In questo caso – chiamato Tuskegee experiment – un gruppo di afro-americani con la sifilide era stato lasciato deliberatamente senza cura per studiare il decorso della malattia.
DOPPIA INCHIESTA
Studiando le carte del disinvolto medico americano, Susan Reverby ha scoperto la vicenda del Guatemala. Cutler era andato in Guatemala per realizzare un esperimento ancora più crudele: infettare di proposito persone ignare per studiare la sifilide. Un crimine contro l’umanità. Così «scioccante» che, anche se a 64 anni di distanza, ha indotto il Segretario di Stato Usa a chiedere pubblicamente scusa al Guatemala. In un comunicato congiunto con il Segretario alla Sanità, Hillary Clinton hanno riconosciuto che: «L’azione di contagio di malattie trasmissibili sessualmente avvenuto in Guatemala nel 1946-48 è stato chiaramente non etico, e nonostante si tratti di eventi occorsi 64 anni fa siamo scioccati che una ricerca simile sia potuta avvenire sotto la guida della sanità pubblica. Ci scusiamo con tutte le persone che sono state colpite da una simile orrenda pratica di ricerca».
La vicenda non è chiusa. Le autorità politiche e scientifiche degli Stati Uniti hanno aperto una doppia inchiesta sui quella «pagina scura nella storia della medicina». Appare opportuna l’iniziativa di Francis Collins di promuovere la costituzione di una commissione internazionale che assicuri che tutte le ricerche mediche realizzate sul pianeta raggiungano gli standard etici minimi e rispettino i diritti umani.

Corriere della Sera 11.10.10
Israele Stato ebraico, i rischi della demografia
risponde Sergio Romano


Mi è rimasto un dubbio. Israele chiede di essere riconosciuto come Paese ebreo, praticamente come uno Stato confessionale. Come potrà essere un Paese in cui i palestinesi abbiano gli stessi diritti? Infatti, mi sembra che i palestinesi attualmente in Israele non siano totalmente sullo stesso piano degli ebrei. Le sarei grato se volesse chiarire questo aspetto che rende alquanto dubbia tutta la ricerca di una soluzione del problema del Medio Oriente che, poi, è anche la causa dell’instabilità dell’intera regione.
Gabriele Guzzetti

Caro Guzzetti,
L’influenza della componente ortodossa della società israeliana è molto più forte di quanto fosse sessant’anni fa, quando l’ideologia dominante era quella del sionismo laico dell’Europa centro-orientale. Ma non è possibile sostenere che Israele sia uno Stato confessionale. All’ebreo che giunge nel Paese e si avvale della legge del ritorno per ottenere la cittadinanza israeliana non si chiede una dichiarazione di fede ma l’appartenenza a una stirpe. Nel caso di Israele converrebbe piuttosto parlare di «Volkstaat», vale a dire di uno Stato costruito per un popolo, come fu la Germania, sia pure con diverse accentuazioni, sino a quando il governo del cancelliere Schröder fece approvare dal Parlamento una nuova legge, più liberale, sul conferimento della cittadinanza tedesca agli immigrati. Quando il primo ministro Netanyahu chiede ai palestinesi di riconoscere Israele come «Stato ebraico» e una legge inserisce tale denominazione nel giuramento di fedeltà dei nuovi cittadini, viene chiesto ciò che la comunità internazionale ha riconosciuto, di fatto, sin dal 1948. È probabile che le richieste, in questo momento, siano motivate tra l’altro dal desiderio di sgomberare il campo da qualsiasi discussione sulla possibilità di uno Stato binazionale di cui arabi ed ebrei sarebbero cittadini con gli stessi diritti. Netanyahu sa che in un tale Stato la crescita demografica della componente araba ridurrebbe gli ebrei a minoranza.
Il guaio, caro Guzzetti, è che a questa richiesta di Netanyahu corrisponde una politica che va nella direzione opposta. Se il primo ministro volesse davvero evitare questa prospettiva, il suo governo dovrebbe vietare gli insediamenti nei territori occupati, raggruppare quelli esistenti nelle aree destinate a restare parte integrante dello Stato israeliano, riconoscere l’esistenza di uno Stato palestinese, scambiare le aree annesse con il Triangolo, una parte della Galilea dove già vivono 250 mila arabi israeliani. È la soluzione di cui parla Sergio Della Pergola in una intervista a Ugo Tramballi ( Il Sole 24 Ore del 2 ottobre). Della Pergola, nato a Trieste ma i mmigratoin Israel enel 1966, insegna all’Università ebraica di Gerusalemme, è il maggiore studioso della popolazione ebraica nel mondo e fu consigliere di Ariel Sharon all’epoca del ritiro dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza. Ma nella realtà tutti i governi israeliani, anche quando si dichiaravano favorevoli alla formula dei due Stati, hanno permesso che il partito dei coloni dettasse la linea e bloccasse questa soluzione con una serie interminabile di fatti compiuti. Se Netanyahu vuole davvero che il mondo arabo riconosca Israele come lo «Stato degli ebrei», questa non è la strada per arrivarci.