martedì 26 ottobre 2010

Il Sole 24 Ore 26.10.10
Lettera aperta
Caro Vendola, da poeta a poeta sono con te
di Davide Rondoni

Caro Vendola, ti chiamano il poeta. Tra derisione e disagio. Perché parli in modo fantasioso, oscuro o almeno ombreggiato. Ti chiamano così non solo perché hai usato versi (o qualcosa di simile) in campagna elettorale, ma anche perché un po' di poesia ce l'hai davvero addosso, nella memoria e nel sangue. Dicono che comunque non sarai un avversario temibile per chi del Pd accettasse di misurarsi in primarie. Non è di politica che voglio parlarti, o almeno non di quella che in molti chiamano politica e invece è qualcosa senza carne né sangue. Voglio infatti parlarti di poesia. Perché hai avuto il coraggio, l'onore, la sfrontata maledizione di non nascondere il gergo della politica da quello della poesia. Perché hai avuto la terribile, ustionante responsabilità addirittura di indicare il Vangelo, sì quel libro che non è uguale a nessun libro, come punto di ripartenza. Sai che trascinare la poesia, e poi lui, il Vangelo medesimo, che è belato e compiersi di ogni poesia, dentro questo agone furioso e decadente della politica italiana, è un atto estremo. Grave, come devono essere i gesti di chi si sta giocando l'anima non solo la carriera politica.
Vuoi che sia così. Per questo la mia ammirata costernazione, la mia tremante quasi stordita attesa. E la mia incondizionata amicizia, qualunque idea ci divida. So bene, avendolo provato nell'altro campo altrettanto violento anche se più segretamente, quello della cultura italiana, che tirare in ballo la poesia e il Vangelo significa esporsi a trafila infinita di disprezzi, sospetti e odiosi fraintendimenti. So che l'osare tirare fuori lei, la più nuda e povera delle arti e lui, il più nudo e indifeso degli dei, il più violato e deriso Cristo, mette automaticamente dalla parte dei bersagli. Si diventa uomini a cui rinfacciare tutto, ogni debolezza, ogni infedeltà. Solo per aver osato affermare l'esistenza di qualcosa di più grande di se stessi, la torma dei ricurvi, dei cinici, dei contabili di soldi e di anima ti fa sentire più ignobile di quanto ognuno di noi già sia. E dunque il tuo gesto di poeta e cristiano sarà oggetto di ogni scherno.
Hai mostrato nel tuo discorso il coraggio di non recitare una parte che ti volevano già tagliare addosso. Hai reso omaggio a realtà che molti sanno solo offendere, hai evitato banali anticlericalismi. Diranno che lo fai per strategia. Non importa. Il gesto di convocare di nuovo la poesia nella stremata lingua italiana pubblica e l'aver convocato di nuovo il Vangelo ‑ il più disponibile e dunque umiliato e povero parlare ‑ è un gesto che mi convince. Sarà una pazzia farlo in questa Italia cinica e maldestra? Neppure questo importa. Importa solo che la poesia e quel Vangelo siano per te e per noi correzione e medicamento, e più ancora invito di umiltà e pazienza. Perché il compito che hai deciso di assumere è grande e necessità di ogni risorsa di anima per non essere vanità o terminare come sola, sperduta variante linguistica minore.

AgoraVox 26.10.10
Nichi Vendola nuovo Papa della sinistra
Vendola, acclamato presidente di Sel, ora si propone come il nuovo conciliatore politico tra il centro, la sinistra e il Vaticano
di Gian Carlo Zanon


 E' sempre alla domenica, il giorno del Signore, che Nichi Vendola dà il meglio di sé. Ieri c’è stata fumata bianca e il nostro è stato acclamato, dai suoi estimatori, presidente di SeL e Papa della sinistra. Ma egli ha già detto che non si accontenta: «Io credo e voglio parlare con la Chiesa». Poi vuole parlare con il centro di Casini; poi vuole dialogare con Bersani, poi con i cattolici, «Non nascondo la mia fede, voglio parlare con la Chiesa delle coppie gay». Poi vuole l’adozione per i Gay, poi… ma non vorrà per caso parlare anche con quel Dio che lui ha nella mente e che la pensa senza dubbio come lui in fatto di matrimoni e adozioni gay? C’è da giurarci.
Dice il mattatore Nichi: «tra le tante mie tante diversità vi beccate anche questa, sono innamorato di Cristo che morendo in croce ha ribaltato i simboli del potere». Chissà cosa penserebbe il povero Cristo che viene tirato per la tunica da questo resuscitato San Giovanni, il prediletto da Gesù.
Insomma il caro Nichi ormai si esprime proprio come un Papa «Ci eravamo smarriti, ci siamo ritrovati», è una classica frase da predicatore e raccoglitore di anime, tant’è vero che ieri qualche incauta madre gli ha allungato il figlio da baciare quasi fosse un santo medioevale, guaritore di scrofolosi.
E ancora Vendola rilanciando «il progetto d’amore tra due persone dello stesso sesso» avverte la platea: «No all’anticlericalismo, di queste cose voglio parlare con la Chiesa. Voglio chiedere agli amici del Family day se li hanno feriti le coppie gay o il liberismo».
Insomma il suo discorso di ieri era puro sincretismo selvaggio: un calderone delle streghe dove egli mette disordinatamente di tutto e di più: da Gramsci ad Aldo Moro, dalla piazza Fiom al Sessantotto, dalle istanze gay al suo credo cattolico, da Gandhi a Capitini, da Vandana Shiva a Gino Strada, da Carlo Petrini a Pannella, dalla Bonino ai ragazzi di Locri, da Don Ciotti a Bertolt Brecht, da Uccio Aloisi il cantore della Taranta a Apicella il cantore di Berlusconi; persino Dioniso e gli dei Olimpi ha fatto scomodare come testimonials del suo personale carisma politico dove tutti, morti e viventi, sono stati chiamati per evocare un nuovo paradiso dove «Ci prenderemo cura delle persone, delle loro debolezze, a partire dai disabili». E via così in un crescendo di citazioni e di berlusconiane promesse che coprono i “non contenuti” dei suoi discorsi. Lo aveva capito persino Scalfari il quale, anch’egli osannandolo come unico leader delle sinistre, poi si era fatto sfuggire “Il suo strumento è la parola, l´affabulazione…”.
Ed ieri sembrava veramente di essere ad una fiera d’altri tempi dove si fondevano sacro e profano e gli imbonitori scandivano a squarciagola: “Venghino signori e signore qui sulla pubblica piazza; è arrivato dalla palude degli scandali della Regione Puglia, il grande mago di Bari, incontrato nelle selve del PCI, ammaestrato dal grande Betinottì; divenuto poi suo pupillo e suo erede naturale. Venghino siori e siore, non siamo qui per vendere ma per regalare, più gente entra e più vendoliani si vedono”.
Ieri domenica giorno del signore, in una “mappazza” vendoliana dove si fondono religione, magia, fantapolitica, tarantella, e i suoi simboli: falce-martello-rosario incorniciati dalla corona della passione di Cristo, il suo popolo credente lo ha acclamato leader di Sel. Se Nichi Vendola non ce la farà a diventare leader della sinistra e della destra e del centro potrà sempre optare per il Soglio Pontificio, pare che abbia tutte le carte in regola, in tutti i sensi.
Se fallirà anche questa sua missione e vocazione, forse fra un po’ di tempo Nichi andrà in pensione e raggiungendo il suo mentore Bertinotti, tergendosi una lacrima, gli dirà «Ci eravamo smarriti, ci siamo ritrovati» e poi se ne andrà in giro con un cartello con impressa una frase famosa “Non seguitemi, mi sono perso anch’io”.

Ansa 25.10.10
Sel: Bonino, con Vendola proseguire dialogo a Chianciano

(ANSA) - ROMA, 25 OTT - ''Noi abbiamo invitato Nichi Vendola ad intervenire, se lo vuole, al congresso radicale che si apre a Chianciano. E a partire dal suo discorso di chiusura il congresso radicale può essere una buona occasione di dialogo. Mi auguro che Vendola, e anche il segretario del PD Bersani, colgano queste occasioni di dialogo''. Lo dice, a Radio Radicale, la vicepresidente del Senato Emma Bonino che nel commentare l'intervento di chiusura di Vendola al congresso di Sinistra ecologia e libertà esprime perplessità sul rapporto con la Chiesa. ''Basta con l'anticlericalismo? A me la frase non è molto comprensibile. Cosa vuol dire? 'Forza con il clericalismo?''' si chiede Bonino che, comunque, ringrazia Vendola per ''aver ricordato i radicali, per aver segnalato la nostra pratica della non violenza''. ''Forse anche Vendola però, come milioni di italiani, - sottolinea l'esponente radicale - non è informato che la non violenza non fa parte solo della nostra storia ma della nostra pratica quotidiana, e che è in corso una lotta non violenta che riguarda anche la condizione delle carceri, che sicuramente gli interesserebbe''.

Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale

Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis


Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.

Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?

Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.

Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?

La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.

Questo cosa cambia?

Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.

Chi ha interesse a rimuovere questo problema?

La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.

Perché parlarne proprio ora?

Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.

Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte

l’Unità 25.10.10
Nichi «cerca» i cattolici
Vendola si “gioca” la fede: «Io credo E voglio parlare con la Chiesa»
Vendola chiude il congresso del Sel e viene acclamato presidente. Nel suo discorso sfida al Pd e apertura al mondo cattolico: «Non nascondo la mia fede, voglio parlare con la Chiesa delle coppie gay».
di Andrea Carugati


Matrimoni gay, Il congresso dà via libera. Sì anche all’adozione per single

«Ci eravamo smarriti, ci siamo ritrovati», esordisce Nichi Vendola poco prima di mezzogiorno, per concludere un’ora e mezzo dopo con Bella Ciao a squarciagola, (sparuti) pugni chiusi tra i delegati, e un abbraccio corale della platea che lo incorona leader di Sel ben prima del voto ufficiale del pomeriggio (ovviamente all’unanimità). C’è persino chi gli allunga un bimbo da baciare, per dire il clima del teatro Saschall di Firenze, dove è nato sì un nuovo partito, ma soprattutto un leader nazionale.
Novanta minuti in cui Vendola mette in tavola la summa del suo repertorio, da Gramsci ad Aldo Moro («Avrebbe capito la piazza Fiom come fece col Sessantotto»), da Gandhi a Capitini, dai rapporti di produzione di Bertolt Brecht alla «Cura» di Franco Battiato, che diventa la chiave per spiegare il suo welfare: «Ci prenderemo cura delle persone, delle loro debolezze, a partire dai disabili». E ancora: Vandana Shiva, Gino Strada, Carlo Petrini, l’omaggio a Pannella e Bonino, i ragazzi di Locri, Don Ciotti,
Uccio Aloisi, il cantore della Taranta («Il suo gusto per il mondo è l’antidoto al leghismo»). E la bellezza, «che non è il giovanilismo, ma le ferite del tempo che ci consuma, non sono gli Olimpi pacchiani a metà tra Dioniso e Apicella». Risate, Berlusconi è servito.
IL RAPPORTO COL PD
Vendola non lesina critiche ai leader riformisti italiani “alla Blair”: «La parabola della sinistra modernizzatrice che si congeda dalla radice laburista e sceglie gli slogan della destra è giunta al suo compimento». E ancora: «Il patto tra produttori è un inganno perché cerca di rimuovere il conflitto sociale, solo ai più forti conviene...». «Il tremontismo ha avuto i suoi prodromi nel rigorismo di Padoa Schioppa, ecco le ragioni delle nostre sconfitte». No, lui punta dritto allo sciopero generale proposto dalla Fiom. «Serve perché l’Italia possa guardarsi allo specchio». Di Bersani dice che «ci legano stima e affetto sincero». «Il nostro incontro alcuni giorni fa è stato buono, ha aperto porte e finestre alla speranza». Però... Il leader di Sel spara a zero contro l’ipotesi di governo tecnico che metta mano a riforme economiche bipartisan, evocato sabato da D’Alema. «Va bene cambiare il Porcellum, ma quali sono le riforme neutre? Quelle sul lavoro? E su quale terreno, il tremontismo? Spero di avere risposte chiare da Bersani». Poco prima Fabio Mussi aveva sparato sui «leader difettosi» che, come Blair, «sono andati al centro per governare». Vendola è più ecumenico, ma non molla l’osso: «Il nostro popolo vuole che stiamo insieme, ma anche che proponiamo un nuovo modello sociale e di sviluppo. Vinceremo se la generazione del “lavoro mai” vedrà in noi un futuro».
IL MONDO CATTOLICO
Il leader di Sel rivendica la sua fede («tra le tante mie tante diversità vi beccate anche questa, sono innamorato di Cristo che morendo in croce ha ribaltato i simboli del potere»), smentisce un incontro col cardinale Bagnasco ma ribadisce la volontà di dialogo «a oltranza» con la Chiesa, a partire dagli «affamati», e anche se «troveremo porte chiuse». Il congresso vota all’unanimità alcuni odg: via libera ai matrimoni gay, all’adozione per i single, ai registri comunali per i testamenti biologici, Vendola rilancia «il progetto d’amore tra due persone dello stesso sesso» ma avverte i suoi: «No all’anticlericalismo, di queste cose voglio parlare con la Chiesa. Voglio chiedere agli amici del Family day se li hanno feriti le coppie gay o il liberismo». Nel Pd Ignazio Marino gongola, Matteo Renzi ne loda la passione, ma avverte: «Non si schiacci sulla Cgil». Vendola, giù dal palco, asciuga i concetti: «Sogno un compromesso tra le forze centriste e di sinistra sulle riforme possibili. Ma non è detto che l’egemonia debba essere moderata, quella sfida ce la giochiamo con le primarie, che ormai non possono più essere sabotate». Enzo Carra, ambasciatore Udc in prima fila, sorride: Un discorso da dirigente dell’Azione cattolica. Secondo me alle primarie ha delle chances, in questa fase serve un’anima, e per noi più facile parlare con chi ha un’identità chiara... La soluzione è un centro alleato con la sinistra, col trattino...».

Repubblica 25.10.10
Il leader di Sel: governo tecnico solo per la legge elettorale
Vendola parla di fede e rilancia il patto al centro "Basta anticlericalismo"
di Giovanna Casadio


Passa un ordine del giorno sui matrimoni gay, ma Nichi insiste sulle unioni civili

FIRENZE - Nichi Vendola parla ai cattolici e alla Chiesa. Propone un´alleanza «tra le forze centriste e di sinistra ma senza ipoteche moderate». Invita a «un compromesso», a patto che si voglia battere «la precarietà del lavoro, contro cui è anche il papa, quindi potrà ben essere in un programma elettorale». Pensa a un fronte ampio per «il cambiamento del modello di sviluppo dell´Italia», per sconfiggere il berlusconismo e il suo «Olimpo pacchiano tra Apicella e Dioniso». E ribadisce il sì a un governo tecnico ma solo per riformare la legge elettorale.
Parte da sé, Vendola, dalla sua omosessualità, dalla sua fede: «Tra le tante diversità del vostro portavoce che vi dovete beccare - si rivolge ai 1.400 delegati del primo congresso di "Sinistra ecologia e libertà" - c´è anche questa, c´è una fede religiosa che non intendo nascondere». Non è che abbia incontrato il cardinale Bagnasco, come è stato scritto. È che Nichi si dice «innamorato di quel povero Cristo che finisce in croce» e racconta una storia dove i simboli del potere si capovolgono completamente in «due legni in croce, quattro chiodi, una corona di spine...». Non solo. Tra le ovazioni di una sinistra che - prosciugata dal "voto utile" del Pd di Veltroni nel 2008 e dai propri errori - temeva di non rialzarsi mai più, rilancia i temi dimenticati dei diritti civili, a cominciare dalle coppie di fatto. «Alle famiglie del Family Day chiedo: vi ha ferito di più l´amore gay o l´impoverimento prodotto dal liberismo?». Insiste: «No alle vecchie pulsioni anti clericali». Ricorda più volte Aldo Moro.
Sel vota poi un ordine del giorno in cui si prevede «il matrimonio a prescindere dal sesso dei contraenti». Colpi battuti su temi dimenticati. Dal Pd arriva la condivisione di Ignazio Marino e di Vincenzo Vita. Ma è il filo di un discorso «finalmente» ripreso («Ci eravamo smarriti, ci siamo ritrovati»), quello di Vendola. Un´ora e mezza su tutti i temi. Sul lavoro soprattutto, precisando: «Non diventeremo il partito della Cgil, l´Italia ha bisogno della Cgil». Sui conflitti: «Il patto tra produttori è un inganno». Al Pd e a Bersani chiede di uscire dalle ambiguità, di essere chiaro sul «governo tecnico o di fine stagione»: sì, se è per la legge elettorale, no per le riforme economiche. Al teatro Saschall lo acclamano presidente di Sel, e lui: «Non sono il presidente di un piccolo partito ma di una grande speranza. C´è un´Italia migliore. La politica la voglio vivere per strada». Si commuove Fabio Mussi, il leader dell´ex Correntone Ds che non ne ha voluto saperne del Pd: «Parliamo con il Pd ma sono felice di non essere lì». Tutta la platea in piedi lo applaude.
Franco Giordano, Gennaro Migliore, Titti Di Salvo, Eva Catizone, Loredana De Petris, Grazia Francescato, Elettra Deiana, Paolo Cento, Carlo Leoni e le tante storie politiche della sinistra tornano sul palco, giurando però di non guardare indietro, di volere il partito-ponte. Parlano gli operai, i cassintegrati in collegamento dalla Sardegna. La delegata Maria Pia Erice ricorda i sei stranieri che volevano uscire dal centro d´accoglienza di Trapani liberi e sono usciti morti. Grazie di Vendola a Pannella e a Emma Bonino, «con cui sono stato 90 volte in disaccordo» ma anche da quelle «ho imparato. Grazie a tanti, alla memoria di Uccio Aloisi il padre della Taranta, a Gino Strada, a don Ciotti, a Lorella Zanardo. Quindi tutti a cantare "Bella ciao", per non dimenticare.

l’Unità 25.10.10
Intervista a Rocco Buttiglione
«Se il governo cade vanno cercate nuove maggioranze»
Il presidente Udc: «Verso l’astensione sul Lodo
Alleati con Vendola? Salveremmo Berlusconi»
di Federica Fantozzi


Eredità politiche. «Bersani è un grande erede di Prodi, perchè rappresenta l'essenza dell'Ulivo. Prodi ha a cuore le vicende del Pd e gli vuole bene. Penso che, nel caso in cui ci fosse bisogno, si schiererà, non come candidato o operativo, ma con tutta la sua saggezza e capacità». Lo ha detto Angelo Rovati, ma per la portavoce dell’ex premier sono «opinioni personali».
Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc. Un altro governo è possibile senza passare per le urne, come dicono Fini e D’Alema?
«Non è uno scenario inaudito. La Costituzione, l’unica vigente, dice che il capo del governo ha la maggioranza in Parlamento: se la perde, il governo si disfa e se ne fa uno nuovo sempre in Parlamento. Il presidente della Repubblica ha non il diritto ma il dovere di accertare se ci sono nuove maggioranze.»
Sul piano giuridico. Ma nelle fibrillazioni di questi giorni che significato politico legge? «È un momento grave. Il governo è in crisi: il fatto che Berlusconi non salga al Colle a rassegnare le dimissioni non la cancella. Il Paese non è governato da un anno. Noi in Parlamento per dare l’impressione di lavorare dobbiamo inventarci le cose più strane... Se la crisi non si apre, nemmeno si potrà chiudere».
In caso di voto, Scalfari considera l’unica chance anti-Berlusconi una «cordata» dal centro alla sinistra senza veti. L’Udc aprirebbe a Vendola e Di Pietro? «Io la penso all’opposto. L’unica salvezza di Berlusconi è una campagna elettorale contro i comunisti: Vendola e Di Pietro. La grande massa degli elettori di centro, pur stufa del premier, non li voterebbe mai».
Ne è certo?
«C’è un problema di cultura di governo. Il nodo è Bonanni. Noi vogliamo difendere davvero il diritto al lavoro, magari senza scaldare i cuori ma mantenendo i posti. E se il lavoro italiano non diventa competitivo...». Sta con Marchionne?
«Non sono un sostenitore entusiasta di Pomigliano, ma è una dura necessità. Scontiamo anni di politica che non c’è. Il nostro lavoro, poco qualificato, è in concorrenza con polacchi e serbi». Tornando al problema culturale? «Questa coalizione evocata da Scalfari starebbe con Bonanni o con la Fiom? O magari con i centri sociali che gli sparano i petardi? È il bivio del Pd: una via scalda il cuore ma allontana dalla realtà ed è perdente, l’altra è più rischiosa ma è l’unica percorribile».
L’alleanza con Fli, invece, è nelle cose? «Mi pare che ci sia una convergenza e un’elevata possibilità che in caso di elezioni a breve si vada a costituire insieme una terza posizione. Nei fatti un’area di responsabilità nazionale si sta delineando. C’è un blocco elettorale del 15-25%che non è nè di destra nè di sinistra».
Lei vede un posto per il Pd in questo quadro? «Un’alleanza con il Pd su posizioni riformiste cambierebbe scenario. Potrebbe porsi l’ambizione di governare. Il Paese guadagnerebbe tempo prezioso».
L’Udc darebbe via libera a un governo Tremonti? «Nessun veto personale, il nome è valido. Ma bisognerebbe ragionare sulla formula».
Di certo sarebbe appoggiato dalla Lega. Un problema? «Vedremo. Tremonti ha lavorato con gli strumenti che aveva, con un altra maggioranza si potrebbe fare meglio. Lui ha difeso i conti: chapeau. Ma accanto al rigore, manca lo sviluppo. Non c’è una politica di sviluppo industriale, non la si è voluta avere».
Vede un esecutivo Draghi o Montezemolo? «Persone che stimo. Ripeto: contano programmi e maggioranze». Sul Lodo Alfano l’Udc si è astenuta. Se al Senato il PdL recepisce le critiche del Quirinale cambierete posizione? «Al momento no. Non è solo una questione di riformulazione, vogliamo capire se porrà fine ad altre leggi ammazza-processi e riforme punitive sulla giustizia. E non è emerso con chiarezza».


l’Unità 26.10.10
L’antica disputa su ragione e religione torna su «Micromega» alla vigilia del Festival della Scienza
Ne scrive in quest’articolo lo scienziato di Oxford, appassionato comunicatore e ateo militante
Ragione e fede. Perché non possiamo dirci credenti
Secondo un luogo comune la scienza deve occuparsi del mondo fisico e la religione di quello spirituale. La scienza può spiegare il “come”, alla religione spetta l’analisi del “perché”. Ma quest’idea ha ragion d’essere?
La luce e Dio. Il raggio luminoso viaggia sulla rotta più breve. Non c’è mistero...
di Peter Atkins


Ottimismo e pessimismo. Il primo è una qualità della ragione. Il secondo della fede

Peter William Atkins (10/8/ 1940) insegna chimica all’università di Oxford. Scrittore prolifico di libri di testo, è anche un rinomato divulgatore. In Italia è pubblicato da Zanichelli. È uscito per Cortina invece «Il dito di Galileo. Le dieci grandi idee della scienza»

Due caratteristiche fondamentali distinguono la scienza dalla religione. Una è il suo modo di operare: il suo fare affidamento su esperimenti pubblicamente accessibili, in contrasto con la religione che si affida a introspezioni personali. Mentre la scienza si affida ad esperimenti, la religione si affida a sentimenti. Mentre la scienza è meticolosamente oggettiva, e quindi una osservazione falsa viene rapidamente sottoposta a riscontro mediante sfilze di dati pubblicamente accessibili, la religione coglie dell’osservazione qualche frammento e, se questo tocca una corda emotivamente significativa, lo ingloba nella sua fabbrica di credenze. Altra caratteristica distintiva della scienza è la sua attitudine mentale: la sua visione ottimistica per cui la struttura fondamentale della realtà possa essere scoperta e resa comprensibile. La religione invece parte dal pessimistico assunto che l’origine prima sia intrinsecamente inconoscibile e che il cervello umano sia troppo debole per giungere a una piena comprensione. La scienza rispetta le capacità umane mentre la religione le disprezza.
Esistono molti altri modi possibili per descrivere le differenze tra scienza e religione. Così, gli scienziati sono scavatori che estraggono la semplicità dalla complessità. Essi percepiscono, e apprezzano, le proprietà terribilmente complesse, e spesso di una sbalorditiva bellezza, del mondo che li circonda, ma scavano per scoprire da quali semi tanta complessità è scaturita. Sono sì spaventati, ma non intimiditi (...).
La ricerca alla radice delle cose per scoprire la semplicità di fondo è impresa molto difficile e ha bisogno di essere condotta con immaginazione unita a prudenza: l’immaginazione per individuare un percorso e la prudenza per trovare conferma nell’osservazione. Anche il percorso inverso, dalla semplicità scoperta su fino al mondo delle manifestazioni apparenti, è molto difficile, perché gli elementi semplici non sono collegati in una sequenza lineare che va dalla fonte ai fenomeni manifesti, ma sono interconnessi in una rete estremamente complessa per cui un evento in un dato luogo può determinare conseguenze praticamente imprevedibili altrove. In breve, la scienza è un lavoro veramente duro.
La religione, al contrario, è immaginazione svincolata dalla prudenza. Invece di estrarre il semplice che è alla base del complesso, direi che la religione accumula complessità sulla semplicità: il suo scopo sembra essere quello di nascondere l’inconsistenza del suo approccio attraverso la confusione mentale. Essa ricerca la complessità (cioè Dio) come causa e spiegazione. Si muove per libere interpretazioni argomentate spesso in modo stringente e ammirevole con grande erudizione e sapere dottrinale, ma che una volta esaminate con attenzione si dissolvono (...) Con ciò non intendo dire implicitamente che una vita religiosa sia facile: tutt’altro, perché può essere, ma non sempre lo è, una vita di grandi restrizioni.
Ma è giusto che il raggiungimento della semplicità sia lo scopo di una spiegazione? E cos’è poi la semplicità? Una semplicità piena è raggiunta quando le sue proprietà non richiedono ulteriori spiegazioni. La cartina di tornasole per affermare che è stata raggiunta la semplicità ultima è il riconoscimento che non è più necessario ipotizzare un ulteriore meccanismo perché una data entità acquisisca un comportamento: è l’entità stessa a determinare il proprio comportamento. Quindi, la semplicità dal punto di vista scientifico deve essere una semplicità potente, in grado di incidere sulla complessità del mondo. Anche questo è in forte contrasto con la ricerca della conoscenza in senso religioso, dove ciò che si desidera è giungere a conoscere, perlomeno nell’accezione emozionale del termine, la potente complessità che si afferma essere l’origine di tutto. Un Dio è la definitiva «antisemplicità»: una complessità al di là di ogni comprensione, un’entità che già per definizione è fuori di ogni comprensione. In altri termini, un Dio è sinonimo di fallimento intellettuale, il pessimismo estremo, l’antitesi della fiduciosa, ottimistica forza che guida la scienza.
Un segno del raggiungimento della semplicità è dato dall’eliminazione di una legge di comportamento.
Molta scienza consiste nell’esaminare un’entità, identificarne uno schema comportamentale, e riassumere tale comportamento nei termini di una legge (per la scienza una legge non è un comando cui si debba obbedire, ma il riepilogo dell’insieme dei comportamenti osservati, come nella legge del moto di Newton). Comunque, un passo avanti verso la semplicità è dato quando si può mostrare che la legge è una naturale conseguenza dell’intrinseca natura dell’entità: a quel punto la combinazione «entità+legge» è sostituita dalla sola «entità».
(...) Il percorso di un raggio di luce attraverso un mezzo è tale che il tempo del suo passaggio è il minore possibile (questa è la versione semplificata del «principio di minor tempo» di Fermat). Come fa un raggio di luce, allora, prima che si metta in moto (o quantomeno nel suo primo istante di viaggio) a conoscere il percorso che, una volta terminato il viaggio, si rivelerà essere il più breve di tutti quelli possibili? Una volta che ci siamo resi conto che la natura intrinseca della luce è un’onda, un tale comportamento si spiega perfettamente.
In breve, la luce intraprende tutti i percorsi tra il punto di partenza e quello di arrivo; tuttavia, tranne pochi, tutti i percorsi hanno dei vicini che interferiscono tra loro in modo distruttivo, nel senso che nel loro punto terminale la cresta di un’onda coincide con il ventre di un’altra, così in quel punto mediamente si azzerano. I pochi percorsi che non interferiscono in questo modo sono tutti vicini ad una linea retta, per cui le onde che viaggiano lungo tali percorsi arrivano tutte con le loro creste e ventri per lo più in fase (tale risultato può essere espresso matematicamente con precisione). Quindi un osservatore è portato a concludere che la luce viaggi in linea retta. L’aspetto importante è che dove sembra che una legge governi un comportamento, esso si rivela essere il naturale prodotto di una totale anarchia: la luce viaggia in ogni direzione senza ostacoli, ma solo i percorsi molto vicini alla linea retta sopravvivono in modo da essere osservati. (...). Questo esempio illustra come la conoscenza scientifica riduca la complessità del mondo e faccia diminuire il bisogno di un Dio che crea e controlla.
Traduzione di Laura Franza

l’Unità 26.10.10
Ai giovani militanti, in maniche di camicia: «Cambiare la legge elettorale è fondamentale»
Ai giovani dirigenti: «Rispetto per chi ci ha portato fino a qui, non si nasce sotto il cavolo»
Bersani: «Dobbiamo impedire a Berlusconi di andare al Colle»
Il leader del Pd sfida i cosiddetti “rottamatori”: «Io sarò garante del rinnovamento, ma ognuno di noi si deve ricordare che siamo all’interno di un cammino. Altrimenti si fa carriera e non politica».
di Simone Collini


Rimane per due ore al centro di quello che la pugliese Giulia definisce un «assedio pacifico», e seduto su uno sgabellino rotante e in maniche di camicia rigorosamente rimboccate come da campagna mediatica, Pier Luigi Bersani per tutto il tempo parla di proposte a sostegno del mercato del lavoro, di come combattere il precariato e come rilanciare la produttività delle aziende, di ricette economiche che possano favorire i redditi più bassi, e insomma alle domande molto concrete dei 150 Giovani democratici arrivati da tutta Italia per questo appuntamento dà precise risposte su come la pensa il Pd e su cosa farà quando da «partito di governo momentaneamente all’opposizione» tornerà alla guida del paese.
NO A BERLUSCONI AL QUIRINALE
Ma poi sul finale, approfittando di una domanda sulla Costituzione, spiega a questi ragazzi con cui ha scelto di passare questo primo anniversario da segretario del Pd che anche tutta la discussione sul governo di transizione e tutti gli sforzi per cambiare la legge elettorale sono importanti. Non solo perché abbiamo un presidente del Consiglio per il quale «il consenso viene prima delle regole» e occupandosi degli affari propri e attaccando magistratura e organi istituzionali sta facendo «traballare i muri portanti della Costituzione». Ma perché se si torna a votare col porcellum Berlusconi, anche se abbandonato da Casini e da Fini e anche se incasserà solo un terzo dei voti degli elettori, potrà puntare ad assumere il ruolo di garante e difensore della Costituzione: «Questa legge assegna il 55% dei seggi in Parlamento a chi prende un voto in più. Ma noi dobbiamo impedire che col 35% dei voti uno possa fare il Presi-dente della Repubblica».
SFIDA AI ROTTAMATORI
I ragazzi riuniti al Tempio di Adriano annuiscono, applaudono quando attacca il «modello plebiscitario» che ha lasciato «qualche residuo in vena anche a noi» e quando promette che si farà «garante del rinnovamento» del Pd. Annuncia che già alle prossime amministrative «ci sarà in campo una nuova generazione». Ma a chi parla della necessità di «rottamare» gli attuali dirigenti Bersani lancia un messaggio piuttosto chiaro: «Bisogna portare rispetto per quelli che ci hanno portato fin qui, e loro devono capire che la ruota deve girare». E poi, senza citare Matteo Renzi e però facendo ben capire che il sindaco di Firenze non è estraneo al discorso: «In politica nessuno nasce sotto il cavolo, sei sempre nel solco di una vicenda, di un cammino che viene da qualche parte, altrimenti si fa carriera e non politica». Ricorda l’alta percentuale di segretari di federazione sotto i trent’anni, ma dice anche che in ogni caso l’età anagrafica conta fino a un certo punto perché, spiega Bersani: «Alla gente frega poco avere un sindaco o un presidente del Consiglio giovane piuttosto che vecchio, se poi non gli risolve i problemi». E poi non bisogna mai dimenticare che il Pd propone un modello di partito «mutualistico e solidaristico» in contrapposizione con il partito «plebiscitario e populistico» incardinato sulla figura del leader. «Le leadership devono essere pro tempore, contendibili e nascono attraverso processi politici». Per i Democratici, dice, «nessuna leadership può nascere al di fuori dalla politica. Noi siamo lontani dal modello plebiscitario del ghe pensi mi».

il Fatto 26.10.10
Giovani e non
Pd, Bersani sfida i “rottamatori”


Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, ieri pomeriggio, a Roma, per “festeggiare” un anno dalla sua elezione nelle primarie del Pd, ha incontrato “i giovani”, che, conta, non sono pochi tra i Democratici: “Su 105 federazioni provinciali 105 sono segretari sotto i 45 anni e in 6mila circoli abbiamo 1500 coordinatori donne e 2500 sotto i 40 anni”, snocciola alla platea riunita al tempio di Adriano. A loro spiega che il Pd si deve rinnovare, e aggiunge: “Il giorno in cui sono stato eletto l’ho detto a chiare lettere: dobbiamo avere rispetto per chi ci ha portato fin qui, ma chi ci ha portato fin qui sa bene che la ruota della politica gira...”. Spostando l’orizzonte più in là aggiunte che il partito dovrà essere messo (un giorno) nelle mani dei “nativi”, vale a dire di coloro che si sono iscritti al Pd senza avere precedenti tessere di Ds o Margherita. Bersani risponde anche alla domanda ineludibile in quel contesto: quella posta dai “rottamatori” che si rifanno al sindaco di Firenze Matteo Renzi e che vorrebbero mandare a casa la classe politica che li ha preceduti. Dice Bersani: “Alla gente frega poco avere un sindaco o un presidente del consiglio giovane piuttosto che vecchio, se poi non gli risolve i problema”. Un discorso che si incastra in un’idea più ampia di partito, che parla anche contro “il plebiscitarismo” del modello berlusconiano. Plebiscitarismo contro il quale punta il dito “anche a chi, nel centrosinistra e nel Pd, pensa di improvvisarsi leader”. Certo, ammette, i partiti si devono adeguare ai tempi della tv ma “bisogna diffidare dall’eccesso di personalizzazione perchè le leadership sono pro tempore e i modelli plebiscitari del ghe pensi” non sono accettabili nelle democrazie.








Corriere della Sera 26.10.10
Bersani raccoglie la sfida di Renzi: pronti a ringiovanire il gruppo dirigente
di M. Gu.


ROMA — A Palazzo Chigi c’è un presidente del Consiglio che «gira da quattordici anni e si fa gli affari suoi» e Pier Luigi Bersani, nel giorno del suo primo anniversario da segretario del Pd, spiega ai giovani democratici come (e perché) conta di «rottamare» Berlusconi. «Quando dico che un governo di transizione deve cambiare la legge elettorale, non lo dico perché sono un politologo — ragiona il leader rivelando quale sia il vero timore dell’opposizione — quanto perché la legge attuale consente, con il 34 per cento dei voti, di eleggere il presidente della Repubblica». Il che, è la tesi di Bersani, sarebbe da parte del Cavaliere un «mettersi contro i pilastri della Costituzione». Oltre due ore in diretta su Youdem, a un anno dalle primarie del 25 ottobre, per dimostrare ai «rottamatori» di Matteo Renzi che il Pd è un partito tutt’altro che anziano. Dal 5 al 7 novembre il sindaco di Firenze riunirà nella sua città i ribelli che chiedono di svecchiare la classe dirigente e Bersani, pur senza nominarlo, raccoglie la sfida di Renzi. In maniche di camicia su uno sgabello da bar, al centro di una scenografia stile «Amici», snocciola dati che dimostrano quanto giovani siano i dirigenti del suo partito. E si impegna a svecchiare ancora: «La ruota deve girare. Noi della vecchia guardia possiamo tenere ancora un po’, poi però dovremo andare a riposarci». Promette che alle amministrative scenderà in campo una «nuova generazione» di democratici e, al tempo stesso, chiede «rispetto» per chi ha dato vita al Pd: «Alla gente frega poco di avere un premier o un sindaco giovane, se non risolve i problemi». Eppure, se ha deciso di incontrare i «suoi» giovani, è anche per un sondaggio commissionato dal Pd tra i militanti, in cui si dice che il 99 per cento è favorevole a rinnovare la classe dirigente.


il Fatto 26.10.10
Fiat, modello antipatia
di Furio Colombo


Una profonda antipatia emana come uno strano effetto speciale durante i 14 minuti di presenza e monologo di Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, davanti a Fabio Fazio nel programma Che tempo che fa. È un effetto forte, come un aroma. Diminuiva un po’ se ti allontanavi un istante dallo schermo per chiudere un telefonino. Tornavi e quell’effetto speciale ti riprendeva alla gola. Devi analizzare il fenomeno. Non è il programma, percepito come civile e benevolo. Non è Fazio, che questa volta è impreparato ma sa ascoltare. È evidente che non sto parlando dello spettatore, il cui giudizio soggettivo si perde nei milioni di altri spettatori e giudizi. Osservi bene e ti accorgi che il programma è colmo dell’antipatia, intensa, franca, esibita, di Marchionne verso tutti. Quando dice “tre operai” per riferirsi ancora una volta, con tutto il suo peso, ai tre di Melfi, Ragozzino, Pignatelli, Lamorte e ti mostra le dita, la sua repulsione è netta. Capisci subito che dura oltre le 20 ore di lavoro al giorno, che sono per lui (sibila sottovoce) “un dovere”.
Scandisce i numeri della vergogna. L’amministratore della più grande impresa italiana, una delle principali d’Europa, una a cui l’America, fiduciosa, ha affidato la Chrysler, tiene a far sapere che il nostro lavoro italiano è disprezzato nel mondo sia come efficienza sia come competitività. Diventa più scuro e più duro, quest’uomo senza sorriso (tranne il sorrisetto, che è un’altra cosa) quando afferma “non un euro dei due miliardi dell’utile operativo 2010 arriva dall’Italia”. Per chiarezza aggiunge: “La Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia”. Marchionne è un uomo di poche e aspre parole che sono per lo più di condanna. Non ha spiegato, alla prudente domanda di Fazio, chi sono gli animali scappati dai cancelli aperti dello zoo. Non ha detto come fa la Ferrari – che in quel momento stava vincendo sulle altre marche del mondo – a campare, visto che si trova al 118esimo posto di efficienza del lavoro, al 48esimo per la competitività. Non ha spiegato come fa la Fiat a non guadagnare un euro in Italia, dove si progettano e realizzano i prototipi delle Fiat da produrre nel mondo. Chiaro che si tratta di una trovata contabile per umiliare gli operai italiani. E, dato il tono poco invitante, non gli è stato chiesto come venderebbe un auto senza bandiera. La Toyota produce e vende molto più negli Usa che in Giappone. Nessuno, alla Toyota, anche nei momenti peggiori, si è sognato di dire “Ah, se potessimo tagliare il Giappone”. Ma queste erano riflessioni dell’Avvocato Agnelli, di cui Marchionne non sa nulla. E nessuno si è azzardato a dirgli che la simpatia conta molto nelle vendite. Più del gelo e del disprezzo.

il Fatto 26.10.10
Fava, Giordano, Cento
L’album di famiglia di Vendola di moda
Nella squadra del leader di Sel volti noti e “senza soldi”
di Luca Telese


Nichi e gli altri. Ora che Sinistra e libertà “va un po’ più di moda” (ipse dixit) molti si chiedono: chi c’è al fianco di Vendola? Per rispondere a questa domanda bisogna iniziare con un paradosso ricordando alcune storie recentissime (ma dimenticate). La fortuna del leader di Sinistra e libertà infatti ha voluto che fossero le sue sconfitte di ieri, a selezionare la classe dirigente del suo partito, e le vittorie di oggi a restituirgli credibilità. Ovvero: visto che fino alle ultime regionali Sel non poteva garantire carriere ed elezioni certe, è rimasto intorno al governatore solo chi credeva davvero al suo progetto. Di più: tre diverse scissioni dei movimenti che hanno dato vita al partito di Vendola hanno drenato altrove ogni residuo di apparato e personale politico. Esempi illuminanti. Non è un nodo da poco, se è vero che tutto il congresso di Firenze è stato percorso da interventi (come la giornalista de Il Manifesto Giuliana Sgrena) preoccupati che possano arrivare (ora) “Aspiranti carrieristi”. Il primo filtro di selezione, per esempio, è il congresso di Rifondazione in cui nel 2008 Vendola corre per la segreteria e viene sconfitto. Il governatore contava sul 47%. Ma per tenerlo fuori si uniscono contro di lui, in un solo schieramento, tutte le mozioni ideologiche: ex demoproletari, ex cossuttiani, ex trotskisti.
Il patrimonio degli ex comunisti
IL FINANZIAMENTO pubblico il patrimonio immobiliare e il giornale restano al partito che elegge come leader Paolo Ferrero. Morale della favola: lo segue solo chi crede in lui. L’ex segretario Franco Giordano (che generosamente annuncia le dimissioni volontarie “Per fare spazio a Nichi”), giovani come Gennaro Migliore, ex femministe come Elettra Deiana, un dirigente come Ciccio Ferrara (persino Fausto Bertinotti, a Firenze in platea, all’inizio non aderisce).
Il secondo pilastro fondante di Sel è Sinistra Democratica, il movimento che guidato da Fabio Mussi era uscito dai Ds (proprio a Firenze). Anche in quel caso, dirigenti che abbandonavano carriere certe: Claudio Fava, eurodeputato con 100 mila preferenze nella Quercia (che infatti non è tornato a Bruxelles) o ex parlamentari come Gloria Buffo e Marco Fumagalli che ripartono da zero (distribuendo volantini da “militanti semplici”). Giovani come il campano Arturo Scotto (nel 2006 era l’eletto più giovane a Montecitorio) o come l’attuale capoufficio stampa del movimento (Paolo Fedeli) che lascia un stipendio sicuro al gruppo parlamentare. Lo stesso Mussi (caso raro nella sua generazione) si dimette da coordinatore “per far posto a dirigenti più giovani” (e cede la sua guida a Fava). Ma anche nella gamba “Verde”, la selezione della battaglia politica porta a Vendola “spose senza dote”. La corrente di Paolo Cento, Loredana De Petris e Monica Frassoni, infatti, entra nel congresso di Roma sconfitto dall’ala “identitaria” di Angelo Bonelli che vince a sorpresa uncongresso predestinato (a lui restano simbolo, sedi, e finanziamento pubblico). Stesso discorso per l’astronauta Umberto Guidoni (via dal Pdci senza un euro in tasca). Altro “investimento” non programmato: quello di Maurizio Landini. Quando abbandona i Ds con Mussi è “solo” un dirigente sindacale, ora è leader di uno dei sindacati più forti (la Fiom) e una star della tv. Ancora più paradossale il caso dei Socialisti di Riccardo Nencini. Il Partito socialista se ne va volontariamente da Sinistra e libertà per una (dichiarata!) questione di poltrone. Nencini, infatti, prevedendo che con lo sbarramento elettorale Sel avrebbe faticato a eleggere consiglieri nella sua regione (la Toscana) indica una strana linea: accordi nel resto d’Italia (a macchia di leopardo); accordo in Toscana (con il Pd). Risultato finale? Il suo partito se ne va esercitando addirittura il potere di veto sul simbolo (che, infatti, per motivi legali deve essere cambiato).
Arrivano un pugno di intellettuali come l’attore Moni Ovadia, il disegnatore Milo Manara e Sergio Staino (il papà di Bobo).
Così, per una curiosa eterogenesi dei fini, Vendola si ritrova alla vigilia delle regionali con un simbolo nuovo, e l’unico partito che abbia fatto un ricambio generazionale di classe dirigente (volontario). Con una classe dirigente giovanissima, con una struttura movimentista come quella delle “Fabbriche” (che nasce in Puglia) totalmente autofinanziata. Non solo: non potendo contare su fondi pubblici e rimborsi elettorali (i primi 700 mila euro arrivano solo dopo la vittoria delle regionali) il partito si proietta su tecnologie moderne e povere, come internet (la curatrice, Sonia Pellizzari, vince l’oscar della rete per il sito del governatore). Nascono campagne di autofinanziamento spartane (anche con prodotti di riciclo come le borse) e torna il volontariato totale: tutto il partito ha solo 4 funzionari e una quindicina di rimborsi spese. Non per virtù, ma per necessità, perché soldi non ce ne sono. La campagna in Puglia costa 500 mila euro (contro i 5 milioni del Pdl). Insomma, con Vendola non c’è una club di frati francescani, ma un movimenti che per due anni ha traversato il deserto dietro. Giovani come Nicola Fratoianni, 30enne astro nascente del vendolismo, assessore in Puglia e spin doctor e coordinatore delle sue campagne. Alle Europee il partito era inchiodato al 3.3%. Dopo la vittoria in Puglia e dopo l’autocandidatura alle primarie di Vendola i sondaggi lo danno fra il 4.4% e il 6.5%. Il che vuol dire che per la prima volta Sel sarebbe in grado di leggere un gruppo di 30-40 parlamentari anche senza apparentamenti. Paradossalmente i problemi iniziano ora che “il partito va di moda”.

il Fatto 26.10.10
La task force europea anti-immigrati
Dispiegata per la prima volta alla frontiera tra Grecia e Turchia
di Lorenzo Consoli


Il contingente di pronto intervento è stato creato nel 2007 ma non era mai stato utilizzato

L’Ue    manderà in Grecia squadre di guardie di frontiera provenienti dagli altri Stati membri per aiutare Atene a fronteggiare il flusso massiccio di migranti irregolari che cercano di entrare nel territorio comunitario attraverso i confini con la Turchia. Lo ha confermato ieri la Commissione europea, dopo che domenica il governo greco aveva chiesto di attivare, per la prima volta, il dispositivo previsto dal regolamento Ue 863/2007. Il dispositivo mira a “fornire assistenza operativa rapida per un periodo limitato allo Stato membro che ne faccia richiesta e che si trovi a fare fronte a sollecitazioni urgenti ed eccezionali, specie in caso di afflusso massiccio alle frontiere esterne di cittadini di paesi terzi che tentano di entrare illegalmente nel territorio dello Stato membro”.
Il “buco” nella rete continentale
A QUESTO FINE , è prevista la creazione di squadre di intervento rapido alle frontiere, a cui sono chiamati a contribuire, con uomini e mezzi, tutti gli Stati membri, a meno che non abbiano essi stessi da fronteggiare situazioni di emergenza simili.
L'afflusso dei migranti irregolari verso la Grecia sta aumentando in modo “drammatico”, secondo Bruxelles, in particolare lungo un segmento del confine di 12,5 chilometri presso la città di Orestiada. Il confine greco-turco, dopo il giro di vite imposto all'immigrazione irregolare via mare dall'Italia, da Malta e dalla Spagna, sta diventando ormai la vera porta d'accesso all'Ue per i profughi provenienti dalle zone di conflitto in Africa, Afghanistan e Medio Oriente, o per i cosiddetti ‘rifugiati economici’, che cercano semplicemente una vita migliore nella ricca Europa, e si affidano ai trafficanti di esseri umani. Secondo i dati di Frontex, l'Agenzia europea di sorveglianza delle frontiere esterne, più di tre quarti dei 40.977 migranti irregolari intercettati ai confini dell'Ue nel primo semestre del 2010 sono passate per questa via.
“La decisione sull'invio delle guardie di frontiera degli altri paesi membri in Grecia sarà presa nei prossimi cinque giorni dai vertici dell'Agenzia Frontex, ma è troppo presto per sapere quanti uomini saranno impiegati”, ha detto oggi a Bruxelles, rispondendo alla stampa, il portavoce del commissario Ue alla Sicurezza e gli Affari interni, Cecilia Malmostroem.
“Saranno guardie di frontiere esperte dei diversi Stati membri, e saranno poste sotto il comando greco; saranno armate, ma potranno fare uso della forza solo per legittima difesa”, ha aggiunto il portavoce, Michele Cercone, precisando anche che le squadre dell'Ue dovranno comunque agire sempre in presenza di un rappresentante delle autorità di Atene, e nel rispetto delle norme Ue e del diritto internazionale.
Solo un'altra volta, finora, uno Stato membro, l'Italia, aveva chiesto di attivare le squadre d'intervento rapido alle frontiere di Frontex (chiamate Rabit, dalle iniziali di Rapid Border Intervention Team, in inglese), ma in quel caso si trattava di mezzi navali per il pattugliamento delle acque territoriali dell'Ue, volto a bloccare le imbarcazioni dei
migranti irregolari, e non del dispiegamento di guardie di frontiera suoi confini terrestri.
Le squadre di guardie di frontiera dell’Ue indosseranno le proprie uniformi nazionali e saranno pagate dal paese d’origine, ma porteranno un bracciale con l’emblema blu a 12 stelle e il distintivo di Frontex.
Non potranno autonomamente adottare provvedimenti di respingimento, che restano di competenza esclusiva del paese ospitante.
“Rispettare la dignità umana”
IL REGOLAMENTO UE del 2007 è molto chiaro sul rispetto dei diritti dei migranti da parte delle squadre di guardie di frontiera comunitarie. All’ articolo 6, paragrafo 2, prevede che “nello svolgimento dei loro compiti e nell’esercizio delle loro competenze, i membri delle squadre rispettano pienamente la dignità umana. Qualsiasi misura adottata nello svolgimento dei loro compiti e nell’esercizio delle loro competenze deve essere proporzionata agli obiettivi perseguiti dalla misura stessa. Quando svolgono i loro compiti ed esercitano le loro competenze, i membri delle squadre non esercitano verso le persone discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”.

il Fatto 26.10.10
Un albanese costa meno
La sentenza che ha riconosciuto ai familiari di un operaio immigrato una cifra di dieci volte inferiore a quella che sarebbe toccata in caso di morte di un italiano, apre interrogativi inquietanti
di Nando Dalla Chiesa


E dunque chi è giusto che ci “guadagni” sulla disgrazia? La famiglia dell’operaio morto o l’imprenditore nel cui cantiere si è consumata una delle tre o quattromila morti “bianche” all’anno del nostro paese? La sentenza di Torino che ha riconosciuto ai familiari di un operaio albanese un indennizzo pari a un decimo di quello che sarebbe spettato ai familiari di un suo compagno italiano, apre la porta a questi surreali interrogativi. Purtroppo il giudice civile che ha emesso la sentenza, rifacendosi ad altra (e più eccellente) sentenza della Cassazione di dieci anni fa, ha dato la sua risposta. Senza volerlo, per applicare rigorosamente la giurisprudenza. Ma l’ha data: è più giusto che ci guadagni l’imprenditore. Il principio in fondo è semplice. L’indennizzo deve essere perequato al “reale valore del denaro nell’economia del Paese ove risiedono i danneggiati”. E dunque, visto che c’è la crisi, non graviamo sulle imprese imponendo loro somme incongrue, in Albania si campa con molto meno che da noi. Lì da loro già sessantaquattromila euro sono un tesoro da farsi ricchi a vita. Mi torna in mente una discussione sentita da ragazzo dopo il terremoto in Belice. Un brillante commensale sosteneva che non bisognasse ricostruire Gibellina e Santa Ninfa con case belle e moderne, che nel Belice erano abituati a vivere in case di pietra e paglia e il terremoto mica doveva diventare una fortuna. Che si ricostruisse assecondando il loro stile di vita. Ecco, i genitori di giovani immigrati albanesi non si mettano in testa che un incidente sul lavoro del proprio figlio possa trasformarli in paperoni.
PECCATO che questo ragionamento, che cerca – conveniamone – di seguire quel filo di logica follia che attraversa la giustizia dai tempi dei babilonesi, non tenga conto di una cosa. Che l’indennizzo viene imposto al datore di lavoro a causa di una sua mancanza o colpa. Per riparare a un suo comportamento od omissione che ha prodotto, magari in concorso con la vittima (come in questo caso), la morte di un uomo. Per
ricordargli che la morte di un dipendente non è piccola cosa, nemmeno se il dipendente è immigrato e viene da un paese povero. Per sancire che in questo paese la tutela della sicurezza dei lavoratori non è più un optional, al punto che quella delle morti in fabbrica e nei cantieri è diventata quasi la più importante battaglia personale del presidente della Repubblica. Ma perché questo sia chiaro, occorre anche che la somma che l’imprenditore è chiamato a versare come indennizzo non sia mai ridicola. In fondo è questa consapevolezza, la famosa “certezza della pena”, che può svolgere una funzione deterrente rispetto ai troppi cinismi o alle troppe indifferenze che punteggiano la vita di aziende, cantieri e officine. Altrimenti il datore di lavoro si potrebbe convincere, per assurdo ma non troppo, che nell’epoca della globalizzazione sia meglio attirare manodopera straniera, prendendola da paesi dove si campa con un dollaro a settimana. La vita di quegli immigrati non costerebbe praticamente nulla, e d’altronde mica ci si vorranno arricchire i genitori se gli capita una disgrazia al figlio, giusto?
VEDETE un po’ che succede quando la ragioneria, questa meritoria disciplina, trionfa sulla cultura civile. Quando la giustizia è “civile” nel senso che non è penale. E vuole calcolare il valore della vita stando ben attenta che nelle tragedie non ci sguazzi, non ci marci il più debole. La Cassazione di dieci anni fa... Esperti giuristi hanno notato che altra sentenza della Suprema Corte, a noi più vicina, distillata un anno fa, recita principi opposti, sostenendo che “la tutela dei diritti dei lavoratori va assicurata senza alcuna disparità di trattamento a tutte le persone indipendentemente dalla cittadinanza, italiana, comunitaria o extra-comunitaria”. Una curiosità: come si sceglie tra le sentenze della Cassazione?


Repubblica 26.10.10
Se l'immigrato resta un estraneo
di Renzo Guolo


La Merkel proclama il fallimento del multiculturalismo, o di quel modello di integrazione che si regge sul riconoscimento di un certo grado di diversità culturale nello spazio pubblico, soprattutto in relazione alla presenza dell´islam in Europa. Ma tutti gli Stati europei sono alle prese con la crisi del proprio modello di integrazione. A riprova che il radicale mutamento indotto dalla globalizzazione ha sottoposto a dura prova un bagaglio di soluzioni che si riteneva ormai consolidato. L´irruzione di culture altre nello spazio sociale solleva, infatti, questioni enormi, tra le quali il concetto di cittadinanza, la laicità dello stato, il pluralismo religioso. Tutti si interrogano sul che fare ma nessuno dispone di ricette miracolose.
Il multiculturalismo mostra palesi limiti perché amplifica la già vasta frammentazione sociale. Ma in crisi è anche il modello assimilazionista, come ci ricorda non solo il famoso caso delle ragazze musulmane del liceo di Creil, espulse da scuola perché la laicità francese non permette che venga ostentato alcun segno religioso nella sfera pubblica, nemmeno il velo. Un modello che taglia gordianamente i nodi ma fatica a legittimarsi quando non riesce a distinguere nettamente tra ciò spazio pubblico o privato. La rivolta delle banliues ha mostrato poi che il presupposto dello scambio assimilazionista, concessione della cittadinanza contro rinuncia ai particolarismi identitari, non funziona: per i giovani delle periferie i diritti sociali di cittadinanza restano un miraggio senza politiche pubbliche di sostegno. Così non trovano lavoro e hanno cattivi risultati a scuola, l´istituzione cui è assegnato il compito di trasmettere i "valori repubblicani".
Gran Bretagna, Olanda, e alcuni lander tedeschi, hanno adottato un modello multiculturalista. Ma esasperano il riconoscimento delle differenze senza definire il terreno comune sul quale le diverse culture devono incontrarsi per rendere possibile un comune senso di appartenenza. Sono, così, proliferate comunità parallele, etniche o religiose; e, come tutte le figure parallele, destinate a non incontrarsi mai. La Gran Bretagna si è stupita quando ha preso atto che gli autori degli attentati di Londra del 2005 non erano stranieri ma cittadini di Sua Maestà. Perfettamente integrati, ma solo all´interno delle loro comunità chiuse, in questo caso quella etnica pakistana.
Francia e Gran Bretagna, hanno comunque confermato, sia pure con qualche variante per evitare di alimentare l´ulteriore crescita di forze xenofobe, i loro modelli. È l´idea di fondo che li sorregge: per quello assimilazionista la convinzione che la coesione sociale sia garantita dalla condivisione di ideali come i valori repubblicani e la laicità "negativa" dello Stato; per quello multiculturalista, l´idea che singoli e gruppi siano meno conflittuali quando coltivano la propria identità religiosa e culturale. Modelli che hanno entrambi come presupposto lo ius soli: è cittadino non solo chi è nato lì ma anche l´immigrato che voglia diventarlo attraverso un adesione basata non sul legame etnico ma sul contratto.
E in Italia? Il nostro paese non ha elaborato alcun modello: a seconda delle diverse maggioranze di governo, ha prevalso una concezione inclusiva o esclusiva dello straniero. In realtà, un modello si è imposto. Sotto il pugno di ferro leghista ne è nato uno nominalmente assimilazionista, ispirato dalla generica formula «gli immigrati rispettino le nostre leggi e tradizioni». Ne è derivato un assimilazionismo monco: l´assenza di cittadinizzazione lo rende poco appetibile agli immigrati, chiamati a rinunciare alle proprie identità, culturali, etniche e religiose, in cambio del nulla. Se in Francia quella rinuncia ha come oggetto di scambio la cittadinanza, in Italia l´assimilazionismo in salsa padana assume il volto dell´imperativo senza contropartite.
Un modello essenzialmente disciplinare, fondato sullo ius sanguinis che sbarra l´accesso alla cittadinanza allo straniero. Formalmente assimilazionista, questo modello funziona, di fatto, come un modello multiculturalista. Stigmatizzando gli immigrati come portatori di irriducibili differenze etniche e religiose, rinuncia a qualsiasi interazione con lo straniero, alimentando una separatezza che riproduce intoccabili ghetti identitari. Questo assimilazionismo senza assimilazione, questo multiculturalismo negato e di fatto riprodotto nella sua versione ostile dell´enclave identitaria, è però foriero di futuri conflitti. Dentro al magma oscurato della separatezza sociale crescono, più che stranieri, estranei senza nessuna lealtà politica verso il Paese in cui vivono.

Repubblica 26.10.10
Chi rappresenta il popolo sovrano
di Nadia Urbinati


Il nuovo libro di Nadia Urbinati
Montesquieu e Rousseau affrontano da prospettive molto diverse la questione dell´esercizio del potere ma sorprendentemente arrivano a conclusioni simili

Pubblichiamo parte dell´introduzione del libro Democrazia rappresentativa di , in uscita in questi giorni.

Sebbene Atene sia la pietra di paragone classica delle nostre riflessioni sulla democrazia, l´idea che la rappresentanza sia antitetica alla democrazia non trae origine da un parallelismo con Atene. Pur ponendo l´accento sulla modernità della repubblica rappresentativa, per esempio, gli autori dei Federalist Papers non sostenevano un´incompatibilità di principio tra democrazia antica e rappresentanza; anzi, riconobbero perfino che ad Atene si faceva ricorso a un metodo di tipo rappresentativo in alcuni ambiti statali. Analogamente, il democratico Thomas Paine basò la sua difesa della democrazia sul concetto di continuità tra democrazia antica e moderna, nonostante la seconda soltanto si presentasse in forma rappresentativa. Da dove deriva allora la teoria dell´incompatibilità?
La tesi dell´incompatibilità (tra democrazia e rappresentanza) è figlia – figlia adottiva – della moderna dottrina della sovranità. Le sue coordinate concettuali si trovano al cuore della teoria del governo delineata da Montesquieu e da Rousseau, i primi teorici a sostenere esplicitamente (per ragioni e con scopi diversi) l´esistenza di un´irriducibile tensione tra democrazia, sovranità e rappresentanza. I due pensatori affrontarono i problemi dell´identità del sovrano e dell´esercizio del potere sovrano in modo differente, giungendo tuttavia a conclusioni sorprendentemente simili. Montesquieu, il mentore del governo liberale rappresentativo, scisse la rappresentanza dalla democrazia, laddove Rousseau, il mentore della legislazione diretta quale principio della legittimità politica, separò la rappresentanza dalla sovranità. Il primo sostenne che uno Stato in cui il popolo delegava il proprio "diritto di sovranità" non potesse essere democratico e dovesse essere classificato tra le specie di governi misti, invero un´aristocrazia eletta. Il secondo invece considerava uno Stato siffatto non politico sin dalla sua origine e illegittimo, in quanto gli individui, perdendo il potere di votare direttamente sulle leggi, perdevano la loro libertà politica: a meno che i cittadini non fossero i legislatori, non esisteva qualcosa come la cittadinanza.
L´incompatibilità tra rappresentanza e democrazia è stata tradizionalmente derivata da un´idea di democrazia che esclude a priori forme indirette di azione politica ed è arroccata in una concezione volontaristica e decisionista della sovranità. Di qui la conclusione che la rappresentanza, pur agevolando il processo decisionale politico negli Stati grandi, non sia un metodo democratico perché sostituisce la volontà sovrana, la quale non può essere rappresentata, e fa sì che gli individui siano politicamente attivi soltanto il giorno in cui si rendono schiavi, come dice Rousseau degli inglesi nel Contratto sociale.
Non è dunque Atene l´origine della dottrina dell´incompatibilità. Sia i fautori che i critici dell´incompatibilità tra rappresentanza e democrazia, allorché descrivono il governo rappresentativo come una violazione dell´autonomia politica, presuppongono una sovranità diretta e anzi una dottrina della sovranità intesa come volontà. Da questo punto di vista, l´idea secondo cui la rappresentanza non necessariamente viola la presenza del popolo sembra quanto meno irragionevole e la conclusione che la rappresentanza viola la democrazia appare prevedibile e preordinata. Altrettanto prevedibile è l´idea che, nonostante il progresso democratico nel XIX e nel XX secolo, una "democrazia rappresentata", ancorché praticabile tecnicamente, sia un ossimoro, laddove la democrazia indiretta, pur essendo la norma, è impraticabile. Il mio intento è mettere in discussione questa concezione della democrazia, condivisa dagli scettici sia della democrazia "pura" che di quella "rappresentativa".
Il governo dei moderni non è definito dalle elezioni in sé, bensì dal rapporto tra partecipazione e rappresentanza (tra società e Stato) che le elezioni istituiscono. Il fattore cruciale della rappresentanza è il rapporto tra il dentro e il fuori delle istituzioni statali creato dalle elezioni.

il Fatto 26.10.10
Micromega
Viaggio al centro della mente
Memoria, coscienza e linguaggio risposte a molti perché
di Edoardo Boncinelli


Che cos’è la mente? La mente è tutto ciò che accade nella nostra testa, C’è anche una periferia che noi chiamiamo “cuore”,
perché molte delle nostre emozioni le sentiamo nei vasi che passano vicino al cuore, nella regione pericardica. Da qui nasce la tradizione di chiamare cuore l’aspetto emotivo della nostra mente, sebbene col cuore non abbia nulla a che fare. (...) La mente non potrebbe esserci senza il cervello: niente cervello, niente mente. (...)
IL NUMERO delle nostre cellule nervose è di circa 100 miliardi: 100 miliardi è il numero delle stelle della nostra galassia e 100 miliardi probabilmente è anche  il numero delle galassie nell’universo. Sono numeri incredibili, ma non sono i numeri più incredibili. Le cellule nervose si toccano attraverso dei micro-contatti che noi chiamiamo sinapsi e che sono circa 10 mila per cellula: moltiplichiamo 100 miliardi per 10 mila e viene 1 milione di miliardi. Ciascuno di noi, grande o piccolo, giovane o vecchio, ha nella sua testa 1 milione di miliardi di contatti, di connessioni. Quello che noi siamo, quello che ricordiamo, quello che ci aspettiamo e quello che desideriamo è il prodotto di questa gigantesca conversazione fra tutte queste cellule attraverso tutti questi contatti (...)
I NEURONI comunicano tutti i giorni, a tutte le ore e in tutti i momenti, anche quando dormiamo. Tant’è vero che il nostro cervello, il cui peso rappresenta solo il 2 per cento del peso del nostro corpo, utilizza il 20 per cento dell’energia che noi consumiamo ogni giorno. Anche quando il cervello non fa nulla – e c’è gente che è maestra in questo tipo di “abilità” – consuma lo stesso un enorme quantitativo di energia. (...) Già prima della 23° settimana di gestazione il cervello ha una struttura molto elementare, però è solo a questo punto, terminata questa prima fase di evoluzione, che comincia a emettere un segnale elettroencefalografico simile a quello di un adulto. (...)
C’è già una grandissima differenza fra noi e gli animali: alla nascita il nostro cervello ha sì tutte le cellule che deve avere, ma ha talmente poche connessioni, talmente pochi circuiti, che è incompleto, immaturo. Alla nascita pesa un quarto (25 per cento) di quello che peserà nell’età dell’adolescenza, mentre nello scimpanzé – che è lo scimmiotto più somigliante a noi – questa percentuale si aggira intorno al 70 per cento. (...)Tutti gli animali superiori hanno un periodo di apprendistato in cui i genitori sono molto coinvolti, il cosiddetto periodo delle cure parentali. Di solito però non dura moltissimo: nel nostro caso dura una quantità di tempo spropositata!
QUESTO FATTO ha almeno due conseguenze fondamentali. La prima è di natura conoscitiva o, per meglio dire, di memoria. Noi apprendiamo lungo tutto il corso della vita, ma ciò che apprendiamo nei primi mesi e anni della nostra vita ha una qualità completamente diversa. Perché? Perché le informazioni invece di essere immagazzinate nel cervello, vi vengono come scolpite. Il nostro cervello non è ancora completato e deve mettere in piedi ancora tante connessioni, le quali vengono attivate proprio conoscendo la faccia della mamma, imparando una lingua, giocando con un oggetto. Queste “conoscenze prime” si stampano nel nostro cervello e non le perdiamo più. (...) Noi ci distinguiamo dagli animali perché abbiamo un’evoluzione culturale. Nonno castoro che cosa lascia al nipotino? Lascia uno stagno, se va bene gli lascia una diga, ma non gli insegna quasi niente. Noi invece a una certa età abbiamo conoscenza della matematica, della geometria, della storia, degli autori del passato. Noi possiamo leggere ed eventualmente litigare con Platone che ha cessato di vivere 25 secoli fa. Tutto ciò non ha assolutamente un corrispettivo nel regno animale.(...) Di fatto è come se nascessimo due volte: nasciamo biologicamente quando emettiamo il primo “uè-uè” e nasciamo culturalmente via via che impariamo. Questa “nascita culturale” non si ferma fino all’adolescenza o, per essere precisi, fino ai 18 anni, perché fino a quell’età il cervello continua a svilupparsi sulla base di quello che abbiamo appreso o stiamo apprendendo. Dunque la nostra iniziale inferiorità, il fatto di nascere con un cervello imperfetto, ci dà in realtà un vantaggio spaventoso.
(...)
L’ALTRA importante conseguenza della spropositata lunghezza del nostro periodo di fetalizzazione rimanda all’“amore romantico”. (....) La riproduzione è necessaria in tutto il regno vivente e ovviamente anche nel regno animale. La sessualità esiste anche per gli animali superiori: ci si vede, ci si sceglie, ci si accoppia e in genere poi si torna a spasso ognuno per conto suo. Nel caso nostro non solo non si fa così, ma addirittura ci si innamora. E ci si innamora anche a dieci, undici, dodici anni, quando ancora la sessualità è in nuce. (...)
La maggior parte degli animali non si riconosce, o meglio si riconosce solo nelle prime fasi dello sviluppo: la mamma riconosce il cucciolotto e il cucciolotto riconosce la mamma. Poi, quando il cucciolo cresce, ognuno seneva per conto suo e se si rincontrano certamente nessuno si riconosce anche perché... nessuno ha la carta d’identità! Nel caso nostro invece il riconoscimento avviene per tutto il corso della vita. (...)
Il riconoscimento è la prima base per l’attaccamento e per l’amore. Noi ci amiamo come ci amiamo – intensamente, passionalmente, irrazionalmente e, certe volte, anche dolorosamente – perché ciascuno di noi continua in qualche modo a cercare la mamma o il papà: la mia fidanzata in me cerca il papà, nello stesso momento in cui io in lei cerco la mamma. Il rapporto amoroso consiste proprio in questa dialettica continua in cui in certe cose io sono il papà e lei è la bimba e in altre cose io sono il bimbo e lei è la mamma. Questo gioco, che tutti sono in grado di riconoscere come nucleo essenziale del rapporto amoroso, è probabilmente dovuto – uno scienziato deve dire sempre probabilmente, non deve dire mai sicuramente – a questa nostra “cucciolaggine” o infanzia protratta. Si parla di “attaccamento” e l’attaccamento è una cosa che
si applica benissimo al cucciolo: l’amore è un attaccamento protratto. (...)
MEMORIA, linguaggio e coscienza sono cose che nascono nei primi anni della nostra vita e si formano a poco a poco. Non possiamo dirci uomini fintanto che non siamo dotati di queste caratteristiche. Si calcola che i primi ricordi che abbiamo risalgono in genere ai tre, quattro anni di età. (...)
Un discorso del tutto particolare merita il riconoscimento. Noi siamo l’unico animale che guardandosi allo specchio dice “quello sono io”. Anzi, siamo l’unico animale che dice “io” e probabilmente siamo anche l’unico animale che pensa “io”. (...) Fra i due e i tre anni c’è un periodo cosiddetto di “evitamento”, nel quale il bambino rimane un po’ perplesso quando guarda se stesso. A tre anni invece se al bambino si chiede chi è quello, dice “quello sono io”. È già coscienza questa? È già autocoscienza? È già presa di coscienza della propria identità? È difficile dirlo, è difficile argomentarlo e probabilmente è una domanda anche senza senso. Però i tre anni, guarda caso, rappresentano anche la soglia dei primi ricordi. Esiste dunque un collegamento fra memoria e inizio della coscienza che fa del bambino di tre anni un animalino già abbastanza in grado di cavarsela – per quanto ovviamente nessuno di noi abbandonerebbe a se stesso un bambino di tre anni. Poi c’è il linguaggio, che secondo me e secondo molti altri studiosi costituisce l’unica vera differenza fra noi e tutti gli animali. Il linguaggio si apprende, ma naturalmente non si apprenderebbe se non ci fosse dentro di noi una traccia, una sorta di predisposizione. (...) Noi ascoltiamo con le orecchie tutti i suoni fin dalla nascita. Questi suoni sono indirizzati in varie parti della corteccia; i suoni di natura linguistica vanno tutti nella zona temporale sinistra, nella famosa area del linguaggio che comprende le aree di Broca e di Wernicke. Quando c’è “puzza di linguaggio” i suoni vanno lì e se tutto va bene riusciamo a comprendere cosa significano.
(...)
COSA significa tutto ciò? Significa che il nostro cervellino è molto ben ordinato, anche se ancora, come abbiamo detto, è immaturo. Soprattutto è attentissimo agli stimoli. E uno degli stimoli fondamentali della nostra vita è il linguaggio. Appena c’è “puzza di linguaggio”, fin dalla nascita, riusciamo a indirizzare in maniera molto precisa questi “rumori”.

Corriere della Sera 26.10.10
Innamorarsi? Un quinto di secondo e fa tutto il cervello
di Maria Luisa Agnese


Il colpo di fulmine attiva dodici aree

L’alchimia dell’amore e dei sentimenti intriga ormai gli scienziati quasi più dei poeti, visto che incessantemente cercano di imbrigliarne l’indicibilità in formule precise e universali. Dall’Università di Syracuse arriva freschissima la ricerca che dice una parola definitiva sul colpo di fulmine: per innamorarsi ci vuole un quinto di secondo. In quel baleno, una scheggia di eternità, si attivano 12 aree cerebrali che lavorano in team per liberare sostanze euforizzanti, dopamina, ossitocina, adrenalina: con effetti simili a quelli della cocaina. Il tutto per produrre quello stato di beata trasognanza che vuol dire buio intorno a te, solo una persona illuminata, quella che è entrata improvvisamente nel tuo campo visivo, batticuore e incapacità di verbalizzare.
Se ha ragione la giovane bruna psicologa Stephanie Ortigue che ha coordinato la ricerca e l’ha pubblicata sul Journal of Sexual Medicine, dobbiamo dunque arrenderci al fatto che l’amore romantico è un abbaglio poetico, dimenticare per sempre che faceva rima con cuore, leggere con meno tremori tutti i canzonieri d’amore, e canticchiare distrattamente le canzoni che finora sono state colonne sonore dei nostri sconvolgimenti?
D’obbligo è farsi illuminare dal sociologo che più ha studiato i meccanismi amorosi da quando, nel 1979, ha pubblicato la prima edizione di Innamoramento e amore, 45 edizioni solo in Italia. E Francesco Alberoni dice subito che il cuore non c’è mai entrato nulla con l’innamoramento, tutto parte dal cervello e che semmai, di conseguenza, ti emozioni, ti batte il cuore, ti si chiude lo stomaco; ma soprattutto precisa che è sbagliato dire che il colpo di fulmine sia la stessa cosa che innamorarsi. Da un colpo di fulmine può derivare l’amore, ma anche no, può finire tutto lì, perché «l’innamoramento è un processo, una rivoluzione fatta in due in cui si mettono in moto un’infinità di cose, ti stravolge la vita». Basta guardare, suggerisce Alberoni, come è cambiato Gianfranco Fini da quando è innamorato: «Non solo ha trovato una donna, ha lasciato la moglie, ha fatto dei figli. Non so se il suo sia stato un colpo di fulmine o no, so che ora la sua vita è un’altra».
Ma se anche non tutti gli amori sono nati da un colpo di fulmine, non scarna è la lista degli amori celebri provocati proprio da quella scintilla: folgorante fu per Napoleone Bonaparte l’incontro con Giuseppina de Beauharnais, chi dice a un ballo dato da Barras, chi perché lei gli chiese udienza per un favore; di sicuro fu amore a prima vista per quella bella creola che poi l’imperatore dei francesi sposò per divorziare dopo 13 anni, nel 1809, liquidandola con qualche cinismo: «Ella ha abbellito la mia vita durante 15 anni».
Incontro fatale e del tutto irrituale, perché avviene alle nozze di lui, è quello di Barney Panofsky con Miriam, raccontato nel libro La versione di Barney da Mordecai Richler e poi nel film dalla coppia Paul Giamatti-Rosamund Pike. È un attimo, come la vede non ricorda neppure di essere al suo ricevimento di matrimonio, ma da allora l’irregolare e dispettoso Barney è un altro uomo, la segue ovunque, abbandona la festa, la raggiunge in treno, la riempie di rose, e non avrà più pace finché lei non lo sposerà. «La donna che l’età non può sciupare né l’abitudine guastare» le dice per una volta garbato, rinunciando ai canoni a cui lo scorretto Barney era più avvezzo, per esempio farsela passare con la battuta di Ennio Flaiano secondo cui i grandi amori si annunciano in modo ineluttabile, «appena la vedi dici: Chi è questa stronza?». Ma l’innamorato Barney non ce la fa.
Come non ce la fa a rinunciare al suo colpo di fulmine, accessosi il primo giorno di scuola nella sala mensa, Edward, il vampiro senza età uscito dalla penna di Stephenie Meyer che insieme alla sua Bella sono stati da poco incoronati «la coppia di innamorati più romantica della letteratura». Tra Twilight e Bridget Jones il bisogno di innamorarsi sembra inestinguibile. «Perché quando si proviene da un lungo periodo di ansia e di insoddisfazione, il colpo di fulmine come lo chiamano loro (le sue clienti perlopiù donne, quaranta-cinquantenni, ndr), o l’incapricciamento come lo chiamo io, rappresenta quasi un riscatto — commenta Gianna Schelotto dal suo "limitato" osservatorio di psicologa —. Limitato perché da me vengono quando stanno male perché non è finita bene».
Il colpo di fulmine può anche rovinare una vita, e non solo alle signore. Ne sa qualcosa Johannes Brahms, inchiodato dalla passione per Clara Wieck, moglie di Robert Schumann: che, come racconta lo scrittore Luigi Guarnieri in Una strana storia d’amore (Rizzoli), gli ha impedito di viverne altre, con una dolorosa rinuncia alla vita.

Corriere della Sera 26.10.10
Occuperemo il tappeto rosso del Festival


ROMA — «Occupiamo il tappeto rosso». E’ il coro unanime del mondo del cinema. La protesta contro i tagli allo spettacolo proseguirà al Festival di Roma con l'occupazione del red carpet durante la giornata di inaugurazione e di uno spazio fisso dentro l'auditorium come presidio permanente. Sono le due azioni votate ieri sera all'unanimità, durante l'incontro al teatro Eliseo, da decine di associazioni. Si chiama «Tutti a casa» — dallo striscione appeso davanti alla Casa del Cinema, occupata venerdì scorso — la mobilitazione dello spettacolo italiano. «Abbiamo capito come questo governo dà senso a parole come azzerare ed espropriare, noi possiamo dare un senso alla parola occupare — dice Andrea Purgatori dell'associazione Centoautori, motore dell’occupazione —. Il giorno dell'inaugurazione dobbiamo dichiarare che quel tappeto rosso è nostro». Tra il pubblico c'è anche Piera Detassis, direttore del Festival di Roma, che precisa: «Non viviamo questa iniziativa come qualcosa contro il Festival di Roma, cercheremo il dialogo. E’ comunque una manifestazione della vitalità della rassegna». Per Stefano Rulli, presidente dei Centoautori «questo governo apparentemente è forte ma non sa gestire i conflitti». All'incontro partecipano associazioni di attori, tecnici, doppiatori, oltre ai sindacati, i produttori televisivi, gli agenti, Articolo 21 e Doc.it, Anica e Agis. Riccardo Tozzi, presidente dei produttori Anica, ricorda come la linea di chiusura di Tremonti «non risponde a nessuna logica economica». Fra le tante proposte quella dello sceneggiatore Domenico Saverni: «I colleghi che hanno dei film in concorso potrebbero utilizzare quello spazio anche per parlare delle nostre ragioni». Fra gli interventi polemici c’è quello di Nino Giarrusso, aiuto regista: «Qui non siamo proprio tutti oggi, manca il presidente dell'Accademia del Cinema Italiano, dei David di Donatello, Gianluigi Rondi». Fra i presenti: Elio Germano, Cristina Comencini, Giulio Scarpati, Paolo Virzì, Marco Bellocchio, Giuliano Montaldo, Sabrina Impacciatore, Marco Risi.