l’Unità 25.10.10
Bersani: «Via il Lodo. E un nuovo governo per le emergenze»
Se sarà crisi, il leader del Pd punta a un esecutivo di transizione che si occupi di legge elettorale e della crisi economica Un anno fa le primarie che lo hanno incoronato segretario
La proposta di Bersani al centrodestra: «Tirate il Lodo Alfano fuori dal Parlamento e parliamo di riforma fiscale». Il Pdl rispedisce al mittente. Domani battaglia in commissione Affari costituzionali sulla reiterabilità dello scudo.
di Simone Collini
Via il Lodo Alfano e si discuta di riforma fiscale. Se invece il Parlamento continuerà a essere ostaggio dei problemi giudiziari del premier, sarà difficile per Berlusconi evitare la crisi. E a quel punto ci penserà un governo di transizione ad approvare una nuova legge elettorale ma anche a gestire le emergenze del Paese. Pier Luigi Bersani lancia una proposta al centrodestra ma pianifica anche le possibili mosse in caso di rottura definitiva tra finiani e Pdl. Il giorno dopo l’altolà di Gianfranco Fini sullo scudo processuale e due giorni prima che la commissione Affari costituzionali del Senato riprenda la discussione con sul tavolo i rilievi del Quirinale, il segretario del Pd dice davanti alle telecamere di SkyTg24 che il Lodo Alfano verrebbe «spazzato via» da un referendum e che se Berlusconi ritirasse tutti i provvedimenti “ad personam” sulla giustizia dicendo «ai problemi miei ghe pensi mi» darebbe alla politica italiana «un elemento di rasserenamento». Bersani non si fa troppe illusioni che ciò avvenga ma rilancia, sfidando il governo a «tirare il Lodo Alfano fuori dal Parlamento per parlare di riforma fiscale».
La risposta del centrodestra non tarda ad arrivare, e va nella direzione prevedibile, con il vicepresidente dei deputati Pdl Osvaldo Napoli che parla di «offerte finte e ricatti veri».
E domani anziché ritirare il provvedimento, i senatori di Pdl e Lega della commissione Affari costituzionali (rispettivamente 11 e 2) fronteggeranno i senatori (9 Pd, 1 Idv, 1 Udc e 2 finiani) contrari alla reiterabilità dello scudo processuale.
NUOVO GOVERNO PER LE EMERGENZE
Per Bersani, che oggi festeggia il suo primo anno da segretario Pd, la rottura con i finiani sul salva-premier potrebbe portare alla crisi di governo. A quel punto, nei piani del leader dei Democratici, si dovrebbe dar vita a un governo di transizione che si occupi non solo di legge elettorale, ma anche delle emergenze del Paese. Spiega Bersani: «Una nuova legge elettorale serve per mettere in sicurezza la democrazia, perché con questa non solo si nominano i parlamentari ma si può realizzare una condizione in virtù della quale col 35% dei voti uno può fare il presidente della Repubblica. E questo non sta in piedi. Ora, per fare una legge elettorale ci vogliono alcuni tempi naturalmente, e in quei tempi bisognerà pur corrispondere ad emergenze immediate che ha questo Paese». Bersani non si spinge a dire, come ha fatto Massimo D’Alema, che il nuovo governo dovrebbe metter mano anche a delle riforme politiche ed economiche, compresa quella fiscale, anche perché sa che un’impostazione del genere è vista come fumo negli occhi non solo da una forza esterna al Parlamento come la Sinistra e libertà di Nichi Vendola, ma anche da un partito come l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Dice quindi Bersani: «Certamente un grande programma di riforme va affidato a un’alternativa di governo, che va presentata agli elettori. È importante segnalare che anche forze che oggi sono fuori dal Parlamento, Sel per esempio ma non solo, pensano assolutamente necessaria una fase nella quale si metta mano al meccanismo democratico». Ma la convergenza tra la proposta di Bersani e quella di Fini di aumentare la tassazione delle rendite finanziarie non è passata inosservata.
l’Unità 25.10.10
Nichi «cerca» i cattolici
Vendola si “gioca” la fede: «Io credo E voglio parlare con la Chiesa»
Vendola chiude il congresso del Sel e viene acclamato presidente. Nel suo discorso sfida al Pd e apertura al mondo cattolico: «Non nascondo la mia fede, voglio parlare con la Chiesa delle coppie gay».
di Andrea Carugati
Matrimoni gay, Il congresso dà via libera. Sì anche all’adozione per single
«Ci eravamo smarriti, ci siamo ritrovati», esordisce Nichi Vendola poco prima di mezzogiorno, per concludere un’ora e mezzo dopo con Bella Ciao a squarciagola, (sparuti) pugni chiusi tra i delegati, e un abbraccio corale della platea che lo incorona leader di Sel ben prima del voto ufficiale del pomeriggio (ovviamente all’unanimità). C’è persino chi gli allunga un bimbo da baciare, per dire il clima del teatro Saschall di Firenze, dove è nato sì un nuovo partito, ma soprattutto un leader nazionale.
Novanta minuti in cui Vendola mette in tavola la summa del suo repertorio, da Gramsci ad Aldo Moro («Avrebbe capito la piazza Fiom come fece col Sessantotto»), da Gandhi a Capitini, dai rapporti di produzione di Bertolt Brecht alla «Cura» di Franco Battiato, che diventa la chiave per spiegare il suo welfare: «Ci prenderemo cura delle persone, delle loro debolezze, a partire dai disabili». E ancora: Vandana Shiva, Gino Strada, Carlo Petrini, l’omaggio a Pannella e Bonino, i ragazzi di Locri, Don Ciotti,
Uccio Aloisi, il cantore della Taranta («Il suo gusto per il mondo è l’antidoto al leghismo»). E la bellezza, «che non è il giovanilismo, ma le ferite del tempo che ci consuma, non sono gli Olimpi pacchiani a metà tra Dioniso e Apicella». Risate, Berlusconi è servito.
IL RAPPORTO COL PD
Vendola non lesina critiche ai leader riformisti italiani “alla Blair”: «La parabola della sinistra modernizzatrice che si congeda dalla radice laburista e sceglie gli slogan della destra è giunta al suo compimento». E ancora: «Il patto tra produttori è un inganno perché cerca di rimuovere il conflitto sociale, solo ai più forti conviene...». «Il tremontismo ha avuto i suoi prodromi nel rigorismo di Padoa Schioppa, ecco le ragioni delle nostre sconfitte». No, lui punta dritto allo sciopero generale proposto dalla Fiom. «Serve perché l’Italia possa guardarsi allo specchio». Di Bersani dice che «ci legano stima e affetto sincero». «Il nostro incontro alcuni giorni fa è stato buono, ha aperto porte e finestre alla speranza». Però... Il leader di Sel spara a zero contro l’ipotesi di governo tecnico che metta mano a riforme economiche bipartisan, evocato sabato da D’Alema. «Va bene cambiare il Porcellum, ma quali sono le riforme neutre? Quelle sul lavoro? E su quale terreno, il tremontismo? Spero di avere risposte chiare da Bersani». Poco prima Fabio Mussi aveva sparato sui «leader difettosi» che, come Blair, «sono andati al centro per governare». Vendola è più ecumenico, ma non molla l’osso: «Il nostro popolo vuole che stiamo insieme, ma anche che proponiamo un nuovo modello sociale e di sviluppo. Vinceremo se la generazione del “lavoro mai” vedrà in noi un futuro».
IL MONDO CATTOLICO
Il leader di Sel rivendica la sua fede («tra le tante mie tante diversità vi beccate anche questa, sono innamorato di Cristo che morendo in croce ha ribaltato i simboli del potere»), smentisce un incontro col cardinale Bagnasco ma ribadisce la volontà di dialogo «a oltranza» con la Chiesa, a partire dagli «affamati», e anche se «troveremo porte chiuse». Il congresso vota all’unanimità alcuni odg: via libera ai matrimoni gay, all’adozione per i single, ai registri comunali per i testamenti biologici, Vendola rilancia «il progetto d’amore tra due persone dello stesso sesso» ma avverte i suoi: «No all’anticlericalismo, di queste cose voglio parlare con la Chiesa. Voglio chiedere agli amici del Family day se li hanno feriti le coppie gay o il liberismo». Nel Pd Ignazio Marino gongola, Matteo Renzi ne loda la passione, ma avverte: «Non si schiacci sulla Cgil». Vendola, giù dal palco, asciuga i concetti: «Sogno un compromesso tra le forze centriste e di sinistra sulle riforme possibili. Ma non è detto che l’egemonia debba essere moderata, quella sfida ce la giochiamo con le primarie, che ormai non possono più essere sabotate». Enzo Carra, ambasciatore Udc in prima fila, sorride: Un discorso da dirigente dell’Azione cattolica. Secondo me alle primarie ha delle chances, in questa fase serve un’anima, e per noi più facile parlare con chi ha un’identità chiara... La soluzione è un centro alleato con la sinistra, col trattino...».
Repubblica 25.10.10
Il leader di Sel: governo tecnico solo per la legge elettorale
Vendola parla di fede e rilancia il patto al centro "Basta anticlericalismo"
di Giovanna Casadio
Passa un ordine del giorno sui matrimoni gay, ma Nichi insiste sulle unioni civili
FIRENZE - Nichi Vendola parla ai cattolici e alla Chiesa. Propone un´alleanza «tra le forze centriste e di sinistra ma senza ipoteche moderate». Invita a «un compromesso», a patto che si voglia battere «la precarietà del lavoro, contro cui è anche il papa, quindi potrà ben essere in un programma elettorale». Pensa a un fronte ampio per «il cambiamento del modello di sviluppo dell´Italia», per sconfiggere il berlusconismo e il suo «Olimpo pacchiano tra Apicella e Dioniso». E ribadisce il sì a un governo tecnico ma solo per riformare la legge elettorale.
Parte da sé, Vendola, dalla sua omosessualità, dalla sua fede: «Tra le tante diversità del vostro portavoce che vi dovete beccare - si rivolge ai 1.400 delegati del primo congresso di "Sinistra ecologia e libertà" - c´è anche questa, c´è una fede religiosa che non intendo nascondere». Non è che abbia incontrato il cardinale Bagnasco, come è stato scritto. È che Nichi si dice «innamorato di quel povero Cristo che finisce in croce» e racconta una storia dove i simboli del potere si capovolgono completamente in «due legni in croce, quattro chiodi, una corona di spine...». Non solo. Tra le ovazioni di una sinistra che - prosciugata dal "voto utile" del Pd di Veltroni nel 2008 e dai propri errori - temeva di non rialzarsi mai più, rilancia i temi dimenticati dei diritti civili, a cominciare dalle coppie di fatto. «Alle famiglie del Family Day chiedo: vi ha ferito di più l´amore gay o l´impoverimento prodotto dal liberismo?». Insiste: «No alle vecchie pulsioni anti clericali». Ricorda più volte Aldo Moro.
Sel vota poi un ordine del giorno in cui si prevede «il matrimonio a prescindere dal sesso dei contraenti». Colpi battuti su temi dimenticati. Dal Pd arriva la condivisione di Ignazio Marino e di Vincenzo Vita. Ma è il filo di un discorso «finalmente» ripreso («Ci eravamo smarriti, ci siamo ritrovati»), quello di Vendola. Un´ora e mezza su tutti i temi. Sul lavoro soprattutto, precisando: «Non diventeremo il partito della Cgil, l´Italia ha bisogno della Cgil». Sui conflitti: «Il patto tra produttori è un inganno». Al Pd e a Bersani chiede di uscire dalle ambiguità, di essere chiaro sul «governo tecnico o di fine stagione»: sì, se è per la legge elettorale, no per le riforme economiche. Al teatro Saschall lo acclamano presidente di Sel, e lui: «Non sono il presidente di un piccolo partito ma di una grande speranza. C´è un´Italia migliore. La politica la voglio vivere per strada». Si commuove Fabio Mussi, il leader dell´ex Correntone Ds che non ne ha voluto saperne del Pd: «Parliamo con il Pd ma sono felice di non essere lì». Tutta la platea in piedi lo applaude.
Franco Giordano, Gennaro Migliore, Titti Di Salvo, Eva Catizone, Loredana De Petris, Grazia Francescato, Elettra Deiana, Paolo Cento, Carlo Leoni e le tante storie politiche della sinistra tornano sul palco, giurando però di non guardare indietro, di volere il partito-ponte. Parlano gli operai, i cassintegrati in collegamento dalla Sardegna. La delegata Maria Pia Erice ricorda i sei stranieri che volevano uscire dal centro d´accoglienza di Trapani liberi e sono usciti morti. Grazie di Vendola a Pannella e a Emma Bonino, «con cui sono stato 90 volte in disaccordo» ma anche da quelle «ho imparato. Grazie a tanti, alla memoria di Uccio Aloisi il padre della Taranta, a Gino Strada, a don Ciotti, a Lorella Zanardo. Quindi tutti a cantare "Bella ciao", per non dimenticare.
l’Unità 25.10.10
Intervista a Rocco Buttiglione
«Se il governo cade vanno cercate nuove maggioranze»
Il presidente Udc: «Verso l’astensione sul Lodo
Alleati con Vendola? Salveremmo Berlusconi»
di Federica Fantozzi
Eredità politiche. «Bersani è un grande erede di Prodi, perchè rappresenta l'essenza dell'Ulivo. Prodi ha a cuore le vicende del Pd e gli vuole bene. Penso che, nel caso in cui ci fosse bisogno, si schiererà, non come candidato o operativo, ma con tutta la sua saggezza e capacità». Lo ha detto Angelo Rovati, ma per la portavoce dell’ex premier sono «opinioni personali».
Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc. Un altro governo è possibile senza passare per le urne, come dicono Fini e D’Alema?
«Non è uno scenario inaudito. La Costituzione, l’unica vigente, dice che il capo del governo ha la maggioranza in Parlamento: se la perde, il governo si disfa e se ne fa uno nuovo sempre in Parlamento. Il presidente della Repubblica ha non il diritto ma il dovere di accertare se ci sono nuove maggioranze.»
Sul piano giuridico. Ma nelle fibrillazioni di questi giorni che significato politico legge? «È un momento grave. Il governo è in crisi: il fatto che Berlusconi non salga al Colle a rassegnare le dimissioni non la cancella. Il Paese non è governato da un anno. Noi in Parlamento per dare l’impressione di lavorare dobbiamo inventarci le cose più strane... Se la crisi non si apre, nemmeno si potrà chiudere».
In caso di voto, Scalfari considera l’unica chance anti-Berlusconi una «cordata» dal centro alla sinistra senza veti. L’Udc aprirebbe a Vendola e Di Pietro? «Io la penso all’opposto. L’unica salvezza di Berlusconi è una campagna elettorale contro i comunisti: Vendola e Di Pietro. La grande massa degli elettori di centro, pur stufa del premier, non li voterebbe mai».
Ne è certo?
«C’è un problema di cultura di governo. Il nodo è Bonanni. Noi vogliamo difendere davvero il diritto al lavoro, magari senza scaldare i cuori ma mantenendo i posti. E se il lavoro italiano non diventa competitivo...». Sta con Marchionne?
«Non sono un sostenitore entusiasta di Pomigliano, ma è una dura necessità. Scontiamo anni di politica che non c’è. Il nostro lavoro, poco qualificato, è in concorrenza con polacchi e serbi». Tornando al problema culturale? «Questa coalizione evocata da Scalfari starebbe con Bonanni o con la Fiom? O magari con i centri sociali che gli sparano i petardi? È il bivio del Pd: una via scalda il cuore ma allontana dalla realtà ed è perdente, l’altra è più rischiosa ma è l’unica percorribile».
L’alleanza con Fli, invece, è nelle cose? «Mi pare che ci sia una convergenza e un’elevata possibilità che in caso di elezioni a breve si vada a costituire insieme una terza posizione. Nei fatti un’area di responsabilità nazionale si sta delineando. C’è un blocco elettorale del 15-25%che non è nè di destra nè di sinistra».
Lei vede un posto per il Pd in questo quadro? «Un’alleanza con il Pd su posizioni riformiste cambierebbe scenario. Potrebbe porsi l’ambizione di governare. Il Paese guadagnerebbe tempo prezioso».
L’Udc darebbe via libera a un governo Tremonti? «Nessun veto personale, il nome è valido. Ma bisognerebbe ragionare sulla formula».
Di certo sarebbe appoggiato dalla Lega. Un problema? «Vedremo. Tremonti ha lavorato con gli strumenti che aveva, con un altra maggioranza si potrebbe fare meglio. Lui ha difeso i conti: chapeau. Ma accanto al rigore, manca lo sviluppo. Non c’è una politica di sviluppo industriale, non la si è voluta avere».
Vede un esecutivo Draghi o Montezemolo? «Persone che stimo. Ripeto: contano programmi e maggioranze». Sul Lodo Alfano l’Udc si è astenuta. Se al Senato il PdL recepisce le critiche del Quirinale cambierete posizione? «Al momento no. Non è solo una questione di riformulazione, vogliamo capire se porrà fine ad altre leggi ammazza-processi e riforme punitive sulla giustizia. E non è emerso con chiarezza».
l’Unità 25.10.10
Affinità e divergenze tra il Pd e gli altri
di Francesco Piccolo
In questo momento, i due poli si ignorano del tutto, perché sono concentrati nelle battaglie interne. A destra sono più rumorosi e feroci, ma poi continuano a votare uniti ogni tipo di legge, come se nulla fosse. A sinistra sono meno scomposti, più eleganti, ma le divisioni sono più profonde e laceranti.
Bersani ultimamente replica in questo modo agli attacchi maliziosi dei suoi possibili alleati: senza di voi forse è meno facile vincere, senza il Pd però è impossibile vincere. Una presa di posizione giusta e che mette in chiaro le proporzioni reali tra il Pd e tutti gli altri partiti che potrebbero entrare in una coalizione. In tutti questi anni il Pd ha subito da qualsiasi alleato, come se fosse il partito più debole e non quello più forte. Quindi un po’ di orgoglio e di senso di rivalsa sono sacrosanti.
Quello che rimane a fare la differenza, e a rendere debole il partito più forte del centro sinistra, è un dato di fatto che Bersani fa solo finta di non sapere: ai suoi possibili alleati, Di Pietro e Casini, non importa vincere. Anzi, in qualche modo perdere consente loro di continuare a rappresentare qualcosa di concreto. Perché la differenza vera tra il Pd e gli altri partiti di opposizione, è che il Pd, ed è questa l’unica sua virtù palese e incontrastabile, è un partito di governo. È nato per governare. È naturalmente propenso a dare battaglia alle elezioni per vincere (anche se spesso perde). Gli altri, no. Quindi, solo il Pd ha da perdere. Gli altri, se perdono, sono contenti.
Corriere della Sera 25.10.10
«Lasci il posto a una precaria» Renzi attacca la Finocchiaro
Vendola apre ai centristi. Rovati lo elogia. Gelo di Prodi
Anna Finocchiaro: «Ho dato del maleducato a Renzi perché non si usa il termine rottamare parlando di persone»
di R. R.
ROMA — Matteo Renzi è ospite di Lucia Annunziata, su Rai3, nella trasmissione «In Mezz’ora» : senza indugi, anche in questa occasione, parla da gran capo dei «rottamatori» — come sono stati soprannominati i giovani del Pd che si riuniranno a Firenze dal 5 al 7 novembre — e perciò, quando la Annunziata gli chiede di tornare sulla polemica avuta tre giorni fa con Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato, il sindaco di Firenze non fa passi indietro, non tratta, non abbassa i toni. Anzi, sentite: «La Finocchiaro è in Parlamento dal 1987, e se vuole glielo chiedo per piacere, così non sono, come sostiene, un maleducato... ma se ci fa la cortesia di lasciare il posto a una giovane precaria, a una ricercatrice, a una mamma di famiglia, forse è meglio che restare per 25 anni alla Camera o al Senato... quindi, concludendo, chi ha fatto tre mandati in Parlamento non si aggrappi alla sedia...».
Sul palco Il sindaco di Firenze Matteo Renzi al congresso di Sel
Secca la replica che Anna Finocchiaro detta alle agenzie di stampa: «Renzi cerca la polemica, ma non sfugga il problema. Gli ho dato del maleducato, l’altro giorno, perché non si usa il termine "rottamare" quando si tratta di persone».
Dalla Annunziata, tuttavia, succede anche altro. Assieme a Renzi è infatti ospite pure Angelo Rovati, ex consigliere di Romano Prodi a Palazzo Chigi, e suo amico personale.
Sostiene Rovati, riflettendo sul ruolo che ha nel Pd Pier Luigi Bersani: «Mentre si parla di Papa straniero, Bersani è un po’ come Prodi, è il grande erede di Prodi, perché rappresenta l’essenza dell’Ulivo». E ancora: «Come Prodi era il più comunista dei cattolici, Bersani è il più cattolico dei comunisti, così come in parte lo è Vendola...».
Detto che dopo un’ora arriva una precisazione del portavoce di Prodi, la deputata del Pd Sandra Zampa — «In riferimento all’odierna puntata di "In Mezz’ora" di Lucia Annunziata, si precisa che le opinioni espresse da Angelo Rovati non sono direttamente o indirettamente riconducibili al Presidente Prodi» — detto questo, occorre aggiungere che c’era probabilmente qualcosa di politicamente assai preciso in ciò che Rovati ha detto sul rapporto esistente tra Vendola e i cattolici.
La conferma giunge da Firenze, dove Vendola tiene il comizio di chiusura del congresso fondativo di Sinistra ecologia e libertà. «I giochi delle alleanze — dice infatti Vendola — si possono riaprire ascoltando tutti», e per questo mette in guardia da «qualunque superato anticlericalismo».
Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fataleSaggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis
Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.
Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?
Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.
Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?
La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.
Questo cosa cambia?
Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.
Chi ha interesse a rimuovere questo problema?
La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.
Perché parlarne proprio ora?
Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.
Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte
l’Unità 25.10.10
Immigrazione: le nostre parole sbagliate
di Valentina Brinis e Ernesto Ruffini
Le parole sono importanti come qualcuno ha detto tanto che chi parla male, pensa male, vive male». E aggiungiamo noi, fa vivere male gli altri, che forse è anche peggio.
Negli ultimi anni, nell’affrontare il tema dell’immigrazione, la sinistra sembra avere dimenticato le proprie parole e sembra avere accolto un vocabolario non suo, eccessivamente condizionato dalle paure collettive. Tutte da rispettare e da affrontare per disinnescarle, ma nessuna da assecondare. Troviamo tracce di questa rischiosa omologazione linguistica e politica anche in alcune posizioni espresse all’interno del Pd e persino dei ragionamenti di Walter Veltroni nel più recente dibattito sull’immigrazione. Si pensi alla proposta di adottare un metodo di “selezione” delle persone che intendono venire nel nostro Paese da applicare nelle ambasciate italiane all’estero. I criteri di “selezione”, valutati con un punteggio e considerati meno “discriminatori” rispetto alla cittadinanza o al sesso, sarebbero l’“età”, la “formazione” e il “progetto di vita” da attuare in Italia.
Sono queste le parole della sinistra? Davvero si possono applicare criteri di selezione così poco scientifici? Ma poi, selezionare non vuol dire identificare gli elementi migliori all’interno di un insieme omogeneo? Ma vogliamo davvero omologare l’intera categoria degli stranieri, che è per sua natura eterogenea? E ancora, abbiamo davvero deciso che qualcuno possa ergersi a giudice del “progetto di vita” di qualcun altro? E infine: che punteggio si darebbe a una persona di mezza età che non ha potuto frequentare la scuola e che desidera venire in Italia per migliorare le proprie condizioni di vita?
È per questo che le parole sono importanti, e l’uso approssimativo delle stesse si rivela dannoso. E ciò è vero soprattutto oggi, quando sono già in molti ad alimentare sentimenti xenofobi e discriminatori attraverso l’utilizzo di termini inappropriati. Si pensi allo scarso supporto, emotivo oltre che giuridico, espresso dal linguaggio adottato quando si parla di clandestini a proposito delle vittime dei respingimenti in mare. Parole che lasciano perplessi per la violenza con cui sono espresse e da cui è sempre più necessario prendere le distanze. Ricordiamo infatti che le migrazioni sono esistite prima ed esisteranno anche dopo la Lega Nord.
A sinistra, ormai da tempo, si fa a gara per essere i John Kennedy o i Barack Obama del panorama italiano. Ma Kennedy e Obama, in momenti, anche drammatici della storia americana, hanno saputo affrontare le difficoltà facendosi promotori di proposte alternative e coerenti con la propria cultura e i propri valori. Saprà la sinistra essere all’altezza di due esempi che giustamente rivendica e considera punti di riferimento?
Repubblica 25.10.10
"La vita di un operaio albanese vale meno di quella di un italiano"
Torino, sentenza shock: morì sul lavoro, risarcimento ridotto
Ai familiari spetta una somma dieci volte inferiore Addebitato all´uomo deceduto anche il 20% di concorso di colpa nella propria morte
di Alberto Custodero
ROMA - L´operaio morto è albanese. Ma la sua vita vale meno di quella di un italiano. Ai suoi familiari, che vivono in Albania, «area ad economia depressa», va un risarcimento di dieci volte inferiore rispetto a quello che toccherebbe ai congiunti di un lavoratore in Italia. Altrimenti madre e padre albanesi otterrebbero «un ingiustificato arricchimento». Questa gabbia salariale della morte, ispirata al criterio del risarcimento a seconda del Paese di provenienza del deceduto sul lavoro, è contenuto in un sentenza shock del Tribunale di Torino. Il giudice civile, Ombretta Salvetti, richiamandosi ad una sentenza della Cassazione di dieci anni fa, ha dunque deciso di «equilibrare il risarcimento al reale valore del denaro nell´economia del Paese ove risiedono i danneggiati». Dopo aver addebitato all´operaio deceduto il 20% di concorso di colpa nella propria morte, la dottoressa Salvetti ha riconosciuto a ciascun genitore residente in Albania la somma risarcitoria di soli 32mila euro. Se l´operaio fosse stato italiano, sarebbero state applicate le nuove tabelle in uso presso il Tribunale di Torino dal giugno 2009 in base alle quali a ogni congiunto dell´operaio morto sarebbero stati riconosciute somme fino a dieci volte superiori (fra 150 e 300 mila euro).
Questa sentenza destinata a fare discutere in un mondo del lavoro nel quale la presenza di lavoratori stranieri è sempre più alta, è stata criticata da uno dei massimi esperti di diritto civile, l´avvocato Sandra Gracis. «In base a questo criterio del Tribunale torinese - spiega il legale - converrebbe agli imprenditori assumere lavoratori provenienti da Paesi poveri, perché, laddove muoiano nel cantiere, costa di meno risarcire i loro congiunti». «Ma ribaltando la situazione - aggiunge l´avvocato Gracis - che cosa sarebbe successo se il dipendente morto fosse stato del Principato di Monaco, oppure degli Emirati? Il risarcimento ai genitori sarebbe stato doppio o triplo rispetto a quello per un italiano?».
Secondo Sandra Gracis, «il giudice torinese s´è rifatto al una sentenza della Cassazione del 2000 peraltro non risolutiva, ignorando che la Suprema Corte, appena un anno fa, ha affermato che la "tutela dei diritti dei lavoratori va assicurata senza alcuna disparità di trattamento a tutte le persone indipendentemente dalla cittadinanza, italiana, comunitaria o extracomunitaria». Già nel 2006 la Cassazione aveva stabilito che «dal punto di vista del danno parentale, non conta che il figlio sia morto a Messina o a Milano, a Roma in periferia o ai Parioli. Conta la morte in sé, ed una valutazione equa del danno morale che non discrimina la persona e le vittime né per lo stato sociale, né per il luogo occasionale della morte».
l’Unità 25.10.10
Quei bimbi dietro le sbarre ma senza colpe A Rebibbia è emergenza
Dei 57 bambini che «abitano» nelle carceri femminili italiane, i 22 di Rebibbia vivono addirittura in una situazione di sovraffollamento: sei lettini più sei in una sola stanza. In altri penitenziari, un solo bimbo circondato da adulti.
di Luciana Cimino
Ci sono bambini che non dicono come prima parola «mamma» ma «chiavi» o «apri». E lo spazio intorno a loro non lo chiamano cameretta ma cella. Sono i figli delle detenute destinati a condividere fino ai tre anni di età lo stesso destino di privazione della libertà delle loro madri, quando non c’è nessun altro familiare a poter provvedere a loro. Nel nostro paese sono 57 i bambini che vivono nelle carceri femminili. Di questi, 22 si trovano nel reparto Nido del penitenziario di Rebibbia, a Roma, in una condizione di angosciante sovraffollamento. «La capienza massima è di 15 bambini – denuncia il Garante per i diritti dei detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni – e l’affollamento crea un disagio aggiuntivo a questi bimbi». Fino a sei letti più altri sei lettini in una stanza. Per questo da qualche giorno cinque bambini sono costretti a passare la notte in infermeria e quindi «sono a contatto con donne affette da importanti patologie e a rischio contagio». «Nonostante l’impegno degli operatori e dei volontari la situazione di questi bambini è davvero drammatica – continua il Garante Non solo sono condannati a trascorrere in una cella l’età cruciale ma per colpa del sovraffollamento, stanno pagando in maniera insopportabile colpe che non sono le loro».
Se negli anni 70 e 80 erano le terroriste a tenere con sé i figli in cella oggi, come a Rebibbia, sono soprattutto ragazze rom e extracomunitarie in carcere per furti o per droga. «Che la prigione non faccia bene ai bambini è indubbio – dice Gennaro Santoro dell’Associazione Antigone – il nostro osservatorio ha riscontrato che i bambini in carcere accusano disturbi nell’umore e ritardo nella parola. Ma il dato di maggiore drammaticità è rappresentato dal fatto che la vita quotidiana dei bambini detenuti varia a seconda dell’istituto di detenzione». Mentre a Milano, per esempio, è attivo dal 2007 un istituto a custodia attenuata per le madri, senza sbarre, con personale specializzato per l’infanzia e agenti in borghese, ad Avellino i bambini non possono uscire mai dal penitenziario; a Civitavecchia e a Bologna non è presente personale specializzato; in nessun istituto si sono riscontrate iniziative in preparazione del distacco tra detenuta e infante che, categoricamente, avviene al terzo anno di età. E ancora, mentre Rebibbia vive il dramma del sovraffollamento in altri istituti paradossalmente la disgrazia è spesso rappresentata dal fatto che sia presente un solo bambino circondato da persone adulte.
IL VOLONTARIATO NON BASTA
«Il fatto è che il bambino in carcere è un aberrazione», chiosa Leda Colombini dell’associazione A Roma Insieme che da 17 anni si occupa di portare fuori i bimbi di Rebibbia. «Noi ogni sabato li portiamo al bioparco, ai giardini, al mare, a fare tutto quello che fanno i bambini normali per evitare la discriminazione e per ridurre i danni che la carcerazione provoca in un’età tanto importante per lo sviluppo». Ma secondo Colombini il volontariato non basta. L’obiettivo è che nessun bambino varchi più la soglia di un penitenziario. Per questo 5 anni fa la Consulta penitenziaria del Comune di Roma (che raccoglie oltre 70 realtà di volontariato) e la Comunità di Sant’Egidio hanno presentato una proposta di legge che prevede pene alternative per le mamme. «È la terza legislatura che avvia la discussione sulla legge ma non si riesce a portarla a casa – dice ancora Colombini – ora è ferma alla Commissione Giustizia della Camera, speriamo che la presidente Bongiorno sia più sensibile». Ma che succede al bambino al compimento del 3 ̊ anno d’età? Se la madre resta in carcere e non ci sono parenti prossimi le strade sono due: la casa famiglia o l’affido. Hanno fatto questa scelta Tiziana e Pamela Di Troila, due sorelle romane di 32 e 28 anni che da due anni si prendono cura di due gemelli rom di 5 anni, Antonio e Antonello. Tiziana ha filmato nel 2007 un documentario sui bambini nel carcere di Rebibbia, Vietato ai minori che girato ha numerosi festival. Da li le due sorelle hanno cominciato con il volontariato e infine «è venuto naturale aiutare questa ragazza bosniaca». E così loro si son ritrovate a gestire due bambini. «Sono sacrifici enormi, perché li portiamo a scuola e poi ogni tanto anche al campo rom sulla Pontina, dove hanno dei fratelli ma l’abbiamo detto all’assistente sociale: siamo sicure che la mamma poi non tornerà a fare quello che ha fatto, perché l’aiuto è concreto».
l’Unità 25.10.10
«Nell’inferno Gaza due anni dopo Il blocco israeliano è una vergogna»
L’ex commissaria Onu per i diritti umani: situazione peggiorata. Non ci sono viveri e medicine sufficienti I giovani costretti a vivere senza un futuro»
di Umberto De Giovannangeli
Guardare con i propri occhi certe situazioni vale molto di più di tanti documenti, saggi, analisi...E ciò che abbiamo visto con i nostri occhi a Gerusalemme Est come nella Striscia di Gaza, dà conto di una realtà scioccante, di una situazione insostenibile». Gli occhi sono quelli di Mary Robinson, ex presidente irlandese – la prima donna capo di Stato in Irlanda, già Alto commissario Onu per i Diritti Umani. Assieme all' ex presidente Usa Jimmy Carter e a Ela Bhatt (fondatrice dell'associazione delle imprenditrici indiane) Mary Robinson, oggi presidente di Realizing Rights: l'Ethical Globalitation Iniziative, ha intrapreso nei giorni scorsi una missione in Medio Oriente, partita da Gaza e che ha fatto tappa anche al Cairo e a Damasco, per concludersi a Ramallah e Gerusalemme in una serie di colloqui con dirigenti palestinesi e israeliani. L'Unità ha avuto modo di avvicinarla nelle visite a Silwan, quartiere orientale a maggioranza palestinese, di Gerusalemme e a Gaza City. A Silwan l'ex presidente irlandese ha visto con i suoi occhi una realtà scioccante: quella a cui le autorità israeliane costringono «i residenti arabi a Gerusalemme Est». Robinson ha avuto modo di parlare con diverse famiglie di Gerusalemme Est: «Da tutti – dice a l'Unità – ho ascoltato storie di disagio, oppressione, paura, incertezza per il futuro». Per comprendere i quali non servono documenti, saggi, analisi...«Per rendersene conto – annota Mary Robinson – basta un giro in autobus». Un giro che permette di prendere confidenza con una «città che sta cambiando faccia», e dove si accumulano fatti compiuti volti a «circondare e schiacciare i palestinesi: attraverso tunnel, strade, nuove attrazioni turistiche e case per coloni protette da schieramenti massicci di forze di polizia».
Una città blindata, una città che esclude. Una città, rimarca l'ex presidente irlandese, che «decine di famiglie palestinesi sono costrette a lasciare, in un esodo forzato silenzioso quanto devastante». Un panorama, denuncia l'ex Alto commissario Onu per i Diritti Umani, che nei fatti rappresenta «un serio ostacolo alla pace». Gli occhi si posano su una realtà che confligge con i buoni propositi, i «Nuovi inizi» di quanti, come il presidente Usa Barack Obama, pensa ad una pace fra israeliani e palestinesi fondata sul principio «due Stati per due popoli». «La colonizzazione dei Territori palestinesi – sottolinea Robinson – sta vanificando ogni possibilità di un accordo fondato su due Stati». All'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Barack Obama ha rilanciato le ragioni di una pace giusta, duratura, che per essere raggiunta esclude forzature unilaterali. Ma la realtà, annota con amarezza l'ex presidente irlandese, «è ben altra. La realtà sono le colonie in Cisgiordania trasformate in vere e proprie città. La realtà è la Barriera di sicurezza che si è insinuata in profondità nella Cisgiordania occupata, spezzandola in tanti frammenti territoriali, dividendo villaggi, distruggendo campi coltivati...Su quale territorio dovrebbe fondarsi uno Stato palestinese? Nessuno aggiunge – discute il diritto d'Israele alla difesa, ma con la stessa convinzione aggiungo che la colonizzazione dei Territori palestinesi non ha nulla a che vedere con quel diritto». Una riflessione pessimista, che si acuisce in tal senso nella tappa che Robinson, Carter e Bhatt fanno nella Striscia di Gaza. «Ero stata a Gaza nel 2008, prima della guerra – racconta Mary Robinson -. Oggi la situazione è ulteriormente deteriorata. Ritengo che per la Comunità internazionale sia una vergogna accettare che il blocco israeliano prosegua».
«A Gaza – rileva Robinson – non siamo alle prese con una crisi umanitaria ma ad una crisi politica e come tale va affrontata e risolta. “Sono rimasta scioccata – racconta Mary Robinson – dalla situazione determinata dal blocco su Gaza, in termini di perdita di mezzi di sostentamento, di limitazioni al movimento di persone e merci...A Gaza sono ancora in atto punizioni collettive contrarie alle norme del diritto umanitario internazionale». “È stato straziante – afferma l'ex presidente irlandese ascoltare le povere contadine del villaggio di Beit Hano, "La nostra terra è stata rasa al suolo," mi hanno detto. Abbiamo imparato a fare le candele, ma non abbiamo la cera.... I nostri bambini sono affamati e gli ammalati non hanno medicine. Sono profondamente scioccata e costernata che questa stia diventando la "nuova normalità" a Gaza». «È inconcepibile e inaccettabile – insiste l'ex Alto commissario Onu per i Diritti Umani che Israele e la comunità internazionale non hanno eliminato il blocco completamente per permettere agli abitanti di Gaza di ricostruire le loro vite e di essere parte di quel mondo ”globalizzato” e interconnesso che noi diamo per scontato». La crisi di Gaza è politica e su questo terreno che va ricercata una soluzione, incalza Mary Robinson. «Allo stato attuale – osserva – solo gli estremisti sono vincenti. Una nuova strada deve essere trovata, quella che assicura sia che gli israeliani possano vivere in pace e sicurezza e che il popolo palestinese, che ha sofferto troppo per troppo tempo, sia finalmente in grado di vivere con dignità».
Una dignità che fatica a mantenersi viva sulle macerie di Gaza. «Ho avuto modo d'incontrare molti giovani – dice Robinson – e ciò che mi ha maggiormente colpito e scioccato è che nei loro discorsi il futuro sembra scomparire in un eterno presente senza speranza. Una condizione insopportabile oltre che profondamente ingiusta». A Gaza, la delegazione del gruppo degli Elders, gli anziani, che raccoglie ex leader e Nobel per la pace impegnati da anni sul fronte del dialogo internazionale e dei diritti umani – ha incontrato anche il leader di Hamas, Ismail Haniyeh. «Non va dimenticato – annota in proposito Robinson – che Hamas ha vinto le elezioni parlamentari nel 2006. Escludere Hamas da un negoziato mi sembra una scelta sbagliata. La sicurezza d'Israele non può fondarsi sull'oppressione a cui è costretto il popolo palestinese».
(Ha collaborato Osama Hamdan)
l’Unità 25.10.10
Lo scrittore e i comunisti In un saggio di Macaluso il filo di una «conversazione interrotta»
Boccadutri Introdusse l’intellettuale nella rete clandestina del Pci. Ma era ossessionato dal potere
Leonardo Sciascia politico: dalla parte di chi moriva «per un pugno di libri»
di Giuseppe Provenzano
«Leonardo Sciascia e i comunisti» di Emanuele Macaluso (Feltrinelli 2010, pagine 157, euro 14,00): in questo libro il rapporto dello scrittore siciliano con la politica italiana...
Tutto comincia col compagno Boccadutri. Senza il compagno Boccadutri, non si può capire Leonardo Sciascia e i comunisti. Ed Emanuele Macaluso, che è uomo generoso, lo rivela già nella dedica. È un vincolo politico e umano, che risale ai verd’anni di Macaluso e Sciascia, che li tenne legati l’uno all’altro, ed entrambi alla rabbia e alla promessa di allora, nella Caltanissetta «offesa» dalla dittatura eppure «piccola Atene» animata da un’intellettualità antifascista. Ma un altro antifascismo, che col primo conviveva, fu decisivo nel rapporto tra Sciascia e i comunisti, e mantenne forse ai suoi occhi una più alta dignità morale: quello di un operaio venuto da Favara, Calogero Boccadutri, che conobbe Terracini in galera, imparò lo studio e il socialismo, e trasferitosi a Caltanissetta tessé la rete clandestina del Pci. Nella cellula clandestina Macaluso ritrovò Leonardo che, pur senza tessera, attingeva a libri proibiti dal «compagno bibliotecario» – si chiamava Michele Calà, e morì sotto le bombe per mettere in salvo quei libri. Se la storia non si fosse complicata, Macaluso avrebbe potuto fermarsi: da che parte poteva stare, Leonardo, se non dov’era chi moriva «per un pugno di libri»?
Il tempo del fascismo fu l’ultima stagione della vita che non visse da «eretico». Da allora, lo fu sempre, fin dall’immediato dopoguerra. E se votò Pci fino a metà anni Settanta fu in adesione a quel paradosso di Brancati, secondo cui «in Sicilia, per essere liberale, bisogna votare almeno comunista». Tra Brancati e Boccadutri – tra lo scrittore e il minatore – era lo spazio di passione ideale e umana in cui quella coscienza «politica» inquieta trovò a lungo approdo. Nel partito di Li Causi, quello di «né mafia, né Mori»: formula che racchiude i capisaldi di un ideale che legò e lega Macaluso e Sciascia – e con la forza della sua arte espresse in quel capolavoro che è Il giorno della civetta, equivocato ancora oggi dai «cretini» (o dagli «intelligenti in malafede»). Per il resto, la distanza politica tra Sciascia e il Pci era ben chiara: e tra Macaluso e Sciascia, il comunista “togliattiano” artefice dell’«operazione Milazzo» e l’intellettuale che ripudiava ogni «compromesso» col potere. Il Potere fu la sua ossessione. Ossessione che spiega la sua contrarietà a un Pci «di governo» e, per altro verso, molto dopo, spiegherà Il contesto: i momenti di più grave dissenso dal Pci. Dissensi non annullati nemmeno negli anni in cui si candidò al Consiglio comunale di Palermo e fece campagna per le politiche col Pci, illuso dai giovani dirigenti «intransigenti» che la politica del «compromesso storico» non avrebbe attraversato lo Stretto. Le alleanze con la Dc, promosse con solerzia da quegli stessi dirigenti siciliani, furono vissute da Sciascia come un inganno. Probabilmente da lì, per Macaluso, scaturì anche una specie di risentimento personale che segnò la fine del rapporto col Pci, fino ad allora nutrito da scontri ma da un dialogo e un rispetto costanti, e la «felicissima» e «liberatrice» adesione ai radicali. E poi le lacerazioni su Moro e il terrorismo.
Macaluso ritesse il filo di una «conversazione interrotta» e si sofferma infine sull’attualità «politica» di Sciascia, su temi come la mafia e la giustizia, denunciando l’appropriazione indebita che ne ha fatto la destra dell’impunità ad personam e del garantismo bestemmiato. E si chiede se la tensione sciasciana per la giustizia è archiviabile per una sinistra democratica. Commentando lo scritto largamente travisato sui professionisti dell’antimafia (o gli articoli memorabili in difesa di Tortora e di Adriano Sofri) e le reazioni scomposte e infami che seguirono, dà il senso di una battaglia che vale ancora, a partire dalla denuncia del cedimento culturale di una sinistra che, come avrebbe detto Sciascia, «ha sostituito la bilancia della giustizia con le manette». Su questo – dopo Berlusconi, magari – potrebbe venire il tempo di un ripensamento. E a partire dal libro di Macaluso, molto è da cominciare a rileggere, e a ripensare. Sapendo, però, che fare i conti con lo Sciascia «politico» e «civile» impone di risalire alla sua visione del mondo, della libertà dell’uomo che non può mai prescindere dalla «giustizia» e dalla «verità». E dalla «memoria», vorremmo dire: decisiva per Sciascia, decisiva in questo libro. C’è qualcosa di strettamente personale, nell’affetto sempre serbato tra Leonardo ed Emanuele, che riaffiora nei giorni angosciati dell’agonia dello scrittore e che risale, forse, al ricordo dell’amicizia tra suo fratello Giuseppe e i fratelli Macaluso (compagni di scuola). Il suicidio di Giuseppe, ventenne, in zolfara, segnò col dolore più fondo e taciuto la vita intera di Leonardo. Quel vincolo della memoria, forse, precedeva persino quello maturato nella clandestinità. Tempo in cui, come mai più per Leonardo (e per Emanuele), la politica coincise con le relazioni umane e con la dignità: con gli uomini, «i Boccadutri»...
Repubblica 25.10.10
I frutti avvelenati del berlusconismo
di Guido Crainz
Oggi anche la personalizzazione della politica mette a nudo ragioni private e incompatibilità con un sistema di regole
La declinante credibilità del premier è legata al crescere di insicurezze e delusioni
Non poteva esser peggiore il ritorno sulla scena del premier dopo una brevissima assenza. Aveva posto al centro una forte accelerazione sul terreno della giustizia, preannunciando una riforma già pronta e rispolverando sin la legge-bavaglio, ma nel giro di poche ore ha dovuto registrare una durissima battuta d´arresto. L´ineccepibile intervento del Presidente della Repubblica ha posto in nuova evidenza alcune implicazioni di fondo e al tempo stesso l´arrogante imperizia anticostituzionale del Lodo Alfano.
Dal canto suo Gianfranco Fini ha poi ribadito quella posizione di fermezza che per un attimo era sembrata meno limpida e intransigente (e l´incertezza aveva provocato diffuse proteste nella sua stessa area).
Una nuova sconfitta per il premier, dunque, che lo frena su un terreno decisivo e che frustra sul nascere il tentativo di stringer le file della maggioranza con una nuova forzatura: tentativo non rimandabile, perché nei giorni precedenti essa era sembrata quasi dissolversi in mille rivoli e tensioni. Non più calamitati dal protagonista del dramma, i riflettori avevano illuminato meglio un confuso agitarsi di spezzoni e gruppi, facendo risaltare per contrasto - annotazione poco confortante - la prepotente solidità del polo leghista e l´accresciuto decisionismo di Giulio Tremonti (l´unico che può prefigurare un "dopo Berlusconi": di qui i primi cenni di insofferenza del premier nei suoi confronti). I sussulti più recenti - con il vacillare dei tre coordinatori e il disorientato vagare degli ex colonnelli di An - si sono solo aggiunti a deterioramenti e derive precedenti. Si pensi alla assoluta mancanza di pudore che ha segnato la vicenda dell´inquisito - e poi condannato - "ministro per un giorno" Aldo Brancher, o alla protezione parlamentare garantita ad un indagato per camorra come l´ex sottosegretario Nicola Cosentino. O anche - per altri versi - alla scelta di Paolo Romani, "vicino" a Mediaset, per la sostituzione di Claudio Scajola. Appaiono semmai corpi estranei alla maggioranza i pochi esponenti che non fanno organicamente parte del sistema, per dirla con Denis Verdini: lo ha confermato la denuncia dell´onorevole Pisanu sulle ultime liste elettorali - «gremite di persone che non sono degne di rappresentare nessuno» - e ancor di più il gelo che l´ha accolta.
In altre parole, l´appannarsi della leadership di Berlusconi ha fatto emergere sempre di più i contorni del ceto politico che in essa ha cercato legittimazione e potere. E quella leadership ha la sua residua forza nella fragilità delle alternative, interne o esterne al centrodestra, più che nel consenso reale del Paese: ce lo ricordano i dati stessi del suo ultimo successo, alle regionali di qualche mese fa. Con un "non voto" giunto al 40% del corpo elettorale - sommando astensioni, schede bianche e nulle - ha scelto il Popolo della Libertà il 16% degli italiani con diritto di voto: uno su sei. Grazie alla legge attuale, e all´alleanza con la Lega, questa percentuale può però garantire la maggioranza in Parlamento. Può permettere a Berlusconi di continuare un percorso che ha come scopo e approdo l´accentramento del potere e uno stravolgimento profondo degli equilibri e degli assetti istituzionali. Oggi quel percorso è molto più accidentato di prima e il tempo non gioca a favore del premier: di qui il carattere sempre più esasperato che le sue scelte sono destinate ad avere.
Conviene dunque interrogarsi meglio sul sostanziale incrinarsi dell´egemonia berlusconiana. Non sembra dovuto, per la verità, ad una più ampia e prorompente indignazione sul terreno dell´etica privata e pubblica: difficile attenderselo, del resto, in una società che in questi anni ha visto diffondersi semmai l´indifferenza, se non l´estraneità, alla legalità e alle regole del vivere collettivo. Il declinare della credibilità del premier sembra connesso piuttosto al crescere di insicurezze e di delusioni, e al progressivo franare del terreno che ne aveva costituito la base di partenza: la capacità di sostituire la "rappresentanza " con la "rappresentazione". Di proporre una narrazione rassicurante, anche se evanescente e fittizia. Nei primi anni novanta, inoltre, la personalizzazione stessa della sua proposta politica sembrava rispondere in qualche modo ad umori reali, provocati dal crollo della "prima repubblica". Trovava alimento nelle reazioni a una "partitocrazia" sempre meno tollerabile. Oggi quella personalizzazione mette a nudo più che in passato le sue ragioni private e la sua incompatibilità con un orizzonte di regole. Più ancora: la rottura stessa delle regole - che inizialmente parve una risorsa ad ampi settori sociali, attivati dalla promessa di un "nuovo miracolo" - amplifica oggi solo incertezze, inquietudini e paure.
Questa è l´ultimo, avvelenato frutto del quindicennio che abbiamo vissuto: un Paese che ha visto aumentare distorsioni sociali, culturali ed etiche per impulso dei modelli e dei miti alimentati dal premier è ora scosso non superficialmente dalla loro crisi. E, in assenza di alternative, il tramontare dei miti dà rinnovato impulso al ripiegamento individuale e agli egoismi di ceto.
In assenza di alternative: questo è il nodo sotteso all´intero scorrere dei problemi, e mai il centrosinistra è parso così inadeguato come negli ultimi mesi. Incapace di rivolgersi ai suoi stessi elettori, ha mostrato un personale politico lacerato da conflitti morti da tempo, appassito nelle sue sconfitte e restio perfino a riflettere su di esse. Sordo nei confronti della società. Incapace di misurarsi con le colossali trasformazioni del mondo del lavoro (una carenza che lo segna ormai da tempo) o di offrire proposte di lungo periodo sui terreni decisivi dell´istruzione e della formazione. Il suo sguardo sembra essersi sempre più ristretto a quel che si muove fra le macerie del sistema politico; sembra lasciar fuori dal suo spettro visivo quella parte degli italiani che - per buone o cattive ragioni - da quelle macerie si è ritratta. Una parte amplissima, che va anche oltre quel quaranta per cento che qualche mese fa non ha votato o ha annullato la scheda. La deriva non può essere arrestata o frenata se non si parla anche a questa parte del Paese. E se non si fa comprendere realmente e concretamente al Paese nel suo insieme che il bene pubblico può essere perseguito in un modo molto diverso da quello con cui si è governato in questi anni. Diverso, anche, da quello con cui si è fatta opposizione.
Repubblica 25.10.10
L'avventura presidenzialista
di Adriano Prosperi
La fuga presidenzialista, come Massimo Giannini l´ha definita, è per ora una fuga verso le ombre di un domani incerto e avventuroso. Il discredito seminato a piene mani sui riti della politica del passato e il peso dei suoi fallimenti alimentano da tempo un confuso desiderio di cambiamento: quello generazionale, per esempio. Più giovani ci vogliono, dice la vulgata giovanilista dei partiti, che non si pongono però il problema di come ringiovanire e rinvigorire la loro proposta politica. E intanto si scatena la fantasia sulle forme di svecchiamento delle istituzioni.
Per esempio, quello che si muove intorno alla riforma della giustizia è uno strano insieme dove ricompare in nuova veste e da destra l´accusa alla «giustizia di classe» di sessantottesca memoria oggi diventata ripulsa e rivolta interclassista contro ogni forma di vecchiume togato e privilegiato, nutrita dell´insoddisfazione generale per le lentezze dei riti giudiziari. E una massiccia campagna di disinformazione impedisce ai più di cogliere il fatto che questi umori diffusi vengono dirottati nel vicolo della protezione di un uomo in fuga dalla giustizia, pronto a stravolgere l´ordinamento del paese per i suoi fini personali.
Ma intanto il percorso battuto dal partito del premier è costretto dalla forza delle cose a seguire una logica eversiva del sistema costituzionale italiano: una logica che in forme nuove ripropone un meccanismo di capovolgimento dell´assetto democratico del paese di cui conosciamo un precedente importante. Proprio in questi giorni giunge in libreria un prezioso libretto dove un grande esperto dei problemi dello Stato come Sabino Cassese ha raccolto le sue lezioni agli studenti della Scuola Normale di Pisa su Lo Stato fascista (Il Mulino, Bologna).
L´analisi di Cassese è dedicata alle forme elaborate dal fascismo evitando ogni definizione astratta – regime totalitario? autoritario? corporativo? È un avvertimento da seguire. Non si tratta di definire o di catalogare niente, né il fascismo di ieri né il regime berlusconiano. È la logica istituzionale che si deve cercare di capire. E le forme analizzate da Cassese ci dicono qualcosa sul modo in cui il regime di Mussolini si inserì nella evoluzione dello stato liberale, ne riutilizzò abbondantemente i materiali, dette vita a un modello di concentrazione del potere che però si aprì anche a forme di pluralizzazione.
La scansione delle tappe di quella costruzione, che fu efficiente e funzionò a suo modo per un ventennio, ci pone davanti alle tappe successive di una legge che dette un premio di maggioranza assoluta a chi raggiungeva il 25% dei suffragi (legge Acerbo); di una trasformazione successiva del regime maggioritario in regime plebiscitario; della metamorfosi della Camera elettiva diventata una rappresentanza organica e rappresentativa ma non elettiva. L´identificazione del partito con lo stato si avvalse del rifiuto del conflitto politico come malattia da eliminare. Agli inizi di questo percorso troviamo una legge del 1925 che «mise il Presidente del Consiglio dei Ministri su un livello superiore ai ministri, nel nuovo ruolo di primo ministro e di capo del governo».
Potremmo seguire ancora l´analisi asciutta e illuminante di Cassese. Ma fermiamoci qui a riflettere sulla revisione costituzionale verso la quale si sta marciando a tappe forzate. Essa porterebbe alla affermazione di un «premierato elettivo». Sfruttando l´impulso demagogico (o meglio l´astuzia eversiva) di inserire il nome di Berlusconi nella scheda elettorale si è dato corpo all´idea erronea di una elezione diretta del presidente del Consiglio da parte del popolo. Oggi ci si dice che all´«eletto del popolo» spetterebbe non solo la copertura del lodo Alfano ma anche il potere di impedire al presidente della Repubblica di affidare l´incarico di formare il governo a chiunque altro che non sia stato consacrato dalla plebiscitaria elezione popolare. In un colpo solo ritroveremmo dunque quella «personalizzazione istituzionalizzata del potere» che fu il carattere distintivo del regime mussoliniano. E queste considerazioni si fanno – deve essere chiaro – non per esorcizzare la minaccia con l´uso della parola «fascismo» come manganello terminologico, ma perché l´esperienza del passato va tenuta presente. Quando l´incertezza del futuro assetto del paese ci prende alla gola con un´ansia che non avremmo mai immaginato di dover provare, bisogna saper ricorrere agli strumenti della scienza, quella storiografica unita a quella delle scienze sociali e giuridico-istituzionali, per fendere la nebbia che ci circonda.
Repubblica 24.10.10
Ed, il compagno loda Nichi su Facebook
FIRENZE - Su facebook mette la frase che forse più lo ha emozionato della relazione di Nichi ad apertura del congresso di "Sel": «Torniamo alla bellezza delle relazioni, a quell´accogliersi tra generi, tra generazioni, la bellezza dell´incontrarsi tra il mondo vivente e quello non vivente...». Ed, il compagno di Nichi Vendola, ne fa una frase-dedica. Presente ma riservato. Nichi di lui ha parlato in qualche intervista ma qui, al congresso - camicia, jeans e scarpe da ginnastica - Ed sfugge i riflettori e i cronisti. Per lui, italo-canadese, 33 anni, un master in progettazione e una carriera di creativo, tra pubblicità e media, la privacy è un bene supremo. La storia con Vendola è consolidata da qualche anno e con un patto: quello della discrezione. Ma ora che Vendola e Sel «vanno di moda» - come ironizza lo stesso Nichi - gli tocca fare i conti con la popolarità e la curiosità mediatica. (g. c.)
l’Unità 24.10.10
Il compagno di Nichi
Ed c’è ma non si fa vedere
di Andrea Carugati
Non è la prima volta che Ed, 33enne fidanzato italocanadese di Nichi Vendola, scorta il suo compagno ad un congresso. C’era già a Chianciano, quando Nichi perse a sorpresa il congresso del Prc contro Paolo Ferrero. Andò con la mamma, pugliese trapiantata in Canada tanti anni fa, dove il ragazzo è nato e ha studiato marketing alle università di Ottawa e Montreal.
Qui a Firenze, al congresso di Sel, c’è una novità perché da poco Nichi ha parlato di lui, in un'intervista al settimanale Chi. Ha raccontato che vivono insieme da anni a Terlizzi, vicino Bari, la città natale del governatore. «Siamo una coppia morigerata e tranquilla. Ci piace ricevere amici a cena», ha spiegato. Stanno insieme dal 2004, Ed ora ha anche un ruolo nello staff del candidato: art director della sue fabbriche. È un creativo, dopo il ritorno in Italia ha preso un’altra laurea in progettazione visiva e design della comunicazione. Sta dietro le quinte, è superpresente ma nell'ombra. Quando spuntano le telecamere lui si dissolve. Ieri, riuscire a raggiungere Nichi per pranzo è stata un’impresa: telefonate, sms con le ragazze dello staff, che lo coccolano come un fratello minore. «Ed, raggiungici dove siamo scesi stamattina». Lui, capelli corti e scuri, un filo di barba, camicia bianca, jeans e sneakers grigie, è spuntato da dietro il palco. La macchina di Vendola era già arrivata, lui ha fatto per avvicinarsi, uno sguardo, una parola sussurrata, un braccio sfiorato. Poi il governatore è salito in macchina, lui no. È salito dietro l'angolo, lontano da occhi indiscreti. Un'abitudine complicata ma ormai consolidata. «L'amore che non osa definire il proprio nome», aveva detto Vendola nella sua relazione, citando Oscar Wilde, per descrivere «il dolore del silenzio di tanti omosessuali, lesbiche, trans». E aveva citato anche la gioia «quando si rompe quella barriera del silenzio». Vendola è stato tra i primi politici italiani a fare coming out. Non ha mai nascosto la sua biografia, anzi ne ha fatto un punto di forza. Anche stavolta è così: il suo privato si disvela poco a poco, senza forzature. Si protegge, anche.
Corriere della Sera 24.10.10
Eddy scatta foto in platea Il compagno del leader da Montreal a Terlizzi
Il creativo italo-canadese preferisce evitare la notorietà
FIRENZE — È venuto anche Ed, il compagno di Nichi Vendola, al congresso. Fa le foto agli ospiti importanti, Epifani, Landini, con la piccola automatica e con la reflex. Alla fine del lungo discorso di apertura, Nichi, nel retropalco, sudato e contento, cercava anche lo sguardo di Ed, che prima di cominciare gli aveva dato i suoi consigli. Eddy ha superato la trentina, ha i capelli neri corti, lo sguardo curioso e appassionato. Maglione blu, camicia bianca, jeans, sneakers. Tutta la corte degli amici e dei collaboratori di Nichi lo protegge, gli crea attorno uno schermo invisibile, e respinge le domande perché Nichi, come si è detto da solo, «va un po’ di moda», ma Ed che c’entra? Coccolato, anche, come fosse il figlioccio di tutta la prima linea della sinistra, qui risorta. «Voglio una mia foto scattata da te, foto di Eddy», gli dice Ciccio Ferrara, grande organizzatore del nuovo partito Sinistra ecologia e libertà. Lui si muove veloce, sfuggente, vuole esserci, però senza farsi riconoscere.
All’ora di pranzo Eddy e Nichi si parlano rapidi, si separano, si rivedranno.
Ha detto Vendola: «Confessare che ero omosessuale non è stato facile. Da quel momento ho dovuto lavorare il doppio. Per fare in modo che la gente dicesse: vedi, è gay, ma è bravo». Nichi ha confessato a Chi, il settimanale rosa che fa capo a Berlusconi, di aver ricevuto un nuovo orecchino di brillanti dal «suo amore», per i suoi 50 anni, ha aggiunto che vivono a Terlizzi (Bari), da anni, che sono una coppia morigerata e tranquilla, ricevono amici a cena: «Che altro potremmo fare con la vita che conduco?». Adesso Vendola dice che quella cosa è stata un po’ estorta, che i cronisti hanno battuto il paese alla ricerca di pettegolezzi, ma è pur vero che l’operazione di farsi fotografare e intervistare sul privato da un giornale «ostile» era densa d’insidie.
Eddy qui al congresso di Sel è inserito nell’organizzazione, lui lavora nelle «Fabbriche di Nichi», che cercano di realizzare in tutta Italia interventi civici, per migliorare l’esistenza quotidiana. È quel che si dice un «creativo»: freelance graphic designer and creative consultant, si definisce, visto che è italo-canadese. Ha studiato presso la Concordia university di Montreal, alla Ottawa university e poi a Urbino, design e comunicazione. Ha seguito con affetto la vicenda di Vincenzo Deluci, trombettista e compositore jazz pugliese, trentenne, distrutto da un incidente stradale, che riesce ancora a suonare con un puntatore ottico e ha realizzato uno spettacolo «VianDante, viaggio dal Paradiso all’Inferno, andata e ritorno».
È impaurito da una possibile notorietà, Ed, perché i passi avanti, in Italia, sulle coppie omosessuali sono stati enormi, ma non siamo ancora alla pari dignità con la famiglia tradizionale. Vendola venerdì, dal palco, ha lanciato più di un messaggio. Ha citato Oscar Wilde: «L’amore che non osa definire il suo nome». Ha parlato della condizione «atopica», di chi è «senza luogo», gay, trans, travestiti. Ha detto che «la bellezza è anche questo, rompere il silenzio, ritrovare le parole...». Vendola gioca da sempre la sua partita politica rivendicando ogni contraddizione della sua vita. Il rosario in tasca, l’orgoglio della diversità. Ma Ed? Ieri pomeriggio è andato via dal teatro Saschhall, sede del congresso, a riflettere sul peso della fama, quand’anche sia di riflesso.
Corriere della Sera 24.10.10
L’alleato del Pd? Il 60% vuole Nichi
Entrambi i partiti maggiori, Pd e Pdl, si trovano in questo momento in difficoltà. Tutti e due hanno visto, nelle ultime settimane, un calo dei consensi espressi dagli elettori nei sondaggi. Questo stato di cose è particolarmente sorprendente per il Pd, in quanto l’opposizione trae normalmente vantaggio dalla crisi che, quasi sempre, connota la maggioranza dopo qualche anno di governo.
Ciò che, secondo gli elettori, manca oggi al Pd e lo rende relativamente poco attraente per il voto è principalmente l’assenza di chiarezza sulla proposta politica, sulle alleanze ipotizzate in vista di eventuali elezioni e, in una certa misura, anche sulla leadership. Bersani, l’attuale segretario, è molto stimato dagli elettori del suo partito. Il suo livello di gradimento supera, tra i votanti per il Pd, il 90% e raggiunge uno dei livelli massimi (44%) anche considerando la popolazione nel suo complesso. È particolarmente stimato anche dagli elettori dell’Idv, sua attuale alleata, ma trova larghi consensi perfino nella base dell’Udc (44% di giudizi positivi) e di Fli (50%). Negli ultimi mesi, tuttavia, la leadership del segretario è minata dalla ascesa di popolarità di Nichi Vendola, che ha di recente ribadito di volersi presentare alle primarie del partito. Anche Vendola gode di un largo seguito tra gli elettori del Pd (78%), seppure inferiore a quello di Bersani. Ma è molto significativo che eguagli addirittura la popolarità di quest’ultimo nell’insieme dell’elettorato, con un forte incremento (3%) proprio nelle ultime settimane. Questa sovrapposizione dei consensi rende difficile dire oggi chi vincerebbe in caso di primarie. Ma nuoce in una certa misura all’immagine complessiva del partito.
A questo stato di disunità si sovrappone la questione delle alleanze. Sulla quale si registrano una molteplicità di posizioni assai differenziate e, spesso, contraddittorie. Alla richiesta «con chi sarebbe opportuno che si alleasse il Pd alle prossime elezioni politiche?», solo una quota minoritaria, pari a quasi un quinto (18%) dei votanti per il Pd propone, come suggeriscono alcuni dirigenti del partito, di correre da soli. Tutti i restanti indicano, invece, una forza politica con cui accordarsi. Una quota molto minoritaria (4%) auspica addirittura di allearsi con chiunque lo voglia. Ma più della maggioranza assoluta (60%) dei votanti per la formazione di Bersani preferisce proprio Sinistra ecologia e libertà di Nichi Vendola. Questa opzione raccoglie più consensi di quanti (56%) ne conquisti l’ipotesi della prosecuzione dell’accordo con l’Idv di Di Pietro. Assai meno attrattiva pare, per l’elettorato del Pd, l’idea di una apertura verso il centro, alleandosi con l’Udc di Casini (la auspica il 39%) e, meno ancora, quella di un accordo con Alleanza per l’Italia di Rutelli (indicata dal 30%) o con l’Fli di Fini (suggerita dal 25% dei votanti per il Pd).
Molte di queste indicazioni di alleanza si sovrappongono tra loro, poiché gli intervistati potevano suggerire anche più di un’opzione e risultano le combinazioni più diverse e disparate. Ciononostante, dall’insieme delle risposte, si rileva come l’orientamento, esclusivo o non, verso la sinistra superi quello verso il centro (anche se quasi un terzo propone di allearsi con entrambi).
Naturalmente, è fisiologico che in un partito convivano una pluralità di opinioni, anche diverse tra loro. Ma il quadro che emerge dal complesso delle dichiarazioni dei votanti attuali per il Pd sembra talvolta mostrare la prevalenza sulla stessa coesione del partito di componenti anche fortemente contrapposte. Ciò che finisce col ledere l’immagine complessiva, allontanando molti dei numerosi elettori oggi indecisi o tentati dall’astensione. La cui conquista, come si sa, costituisce il fattore principale per vincere le elezioni.
Il Sole 24 Ore 24.10.10
L’obiettivo primarie. Difficile ma non impossibile la vittoria su Bersani, altro discorso è la possibilità di successo alle elezioni
Un leader ambizioso per un partito fermo al 3%
Una democrazia competitiva per funzionare bene ha bisogno che tutti i partiti rilevanti del sistema politico abbiano voglia di governare. Sembra una banalità ma ieri Vendola lo ha ricordato a suo modo alla sinistra italiana che per anni non si è veramente posta il problema di vincere le elezioni per andare al governo. Quello che ha detto il leader Sel non è una novità. E proprio su questo punto che si è consumata dopo l'esperienza negativa del governo Prodi l'ennesima scissione della sinistra italiana. E stato al congresso di Rifondazione comunista a Chianciano nei 2008 che è nato il movimento di Vendola dopo uno scontro molto aspro con la sinistra antagonista di Ferrero. A Firenze questa scelta è stata confermata con forza e rappresenta un'altra tappa di un processo storico che va avanti da più di un secolo. Passo dopo passo, scissione dopo scissione, la sinistra italiana si è progressivamente inserita a pieno titolo tra le forze di governo del Paese. A questo punto ne restano fuori Rifondazione Comunisti ltaliani, e le formazioni della sinistra più radicale.
Posto che l'obiettivo è quello di "vincere bene" si tratta di vedere come raggiungerlo. La ricetta di Vendola è coerente con la strategia di fondo. Servono alleanze, le più larghe possibili. Da questo punto di vista il leader Sel è l'erede di Prodi. La sua proposta in pratica è quella di una Unione di tutte quelle formazioni "orientate al governo" che in questo momento stanno all'opposizione. Quindi tutti dentro tranne chi ‑ come la Federazione della sinistra ‑ si è per ora dichiarata fuori. Con quale programma? Basta come denominatore il comune desiderio di mettere fine al berlusconismo? In che modo la sinistra moderna di Vendola si può sposare con il moderatismo di centro di Casini? Non si sa. Ma il programma è una cosa e la leadership un'altra. Fino ad oggi non si era mai visto a sinistra un leader con la personalità di Vendola. Un mix di linguaggio, caratteristiche personali, capacità di coniugare valori di sinistra e pragmatismo politico. Vendola ha tutte le caratteristiche del grande leader tranne una: il suo è un piccolo partito.
Nelle elezioni europee del 2009 Sel non è arrivata ad un milione di voti, il 3,1%. Se raffrontato ai 1.124.428 voti presi nelle politiche del 2008 dalla Sinistra arcobaleno (Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi) è un buon risultato ma si tratta comunque di una cifra modesta. Più o meno la stessa percentuale è stata ottenuta nelle regionali di questo anno. Ma in questo caso facendo il confronto sulle tredici regioni in cui si è votato anche alle europee si vede ci alla stessa percentuale di voti fl( corrisponde lo stesso numero elettori (830.636 contro 679.084 Solo in Puglia Sel ha fatto meglio nel 2010 rispetto al 2009. ma anche in questa regione dove Vendola gode di grande visibilità il suo partito non ha superato il 10% dei voti. Né i sondaggi più recenti ci dicono che le cose sono cambiate te di molto a livello nazionale. I comportamenti elettorali hanno la loro vischiosità.
Sel è ancora il piccolo partito di un grande leader. E questo spiega il resto della strategia di Vendola. Più del partito contano le primarie SeI è un "partito a termine", destinato a confluire in un'altra formazione. Vendola lo ha detto chiaramente a Firenze. La prima tappa di questo processo saranno le primarie del centrosinistra poi la designazione del candidato premier. Per Vendola sono una necessità e una grande opportunità. Nello stato di disorientamento in cui si trova oggi il popolo di centrosinistra tutto è possibile. Anche che si ripeta l'esito delle primarie pugliesi con Bersani al posto di Boccia. E difficile ma non impossibile, soprattutto se in corsa ci sarà più di un candidato Pd. In ogni caso per Vendoia rappresentano un grande palcoscenico e un trampolino per costruire la sua leadership a livello nazionale. Comunque vadano a finire, per lui saranno una vittoria. Che con lui come candidato premier possa vincere il centrosinistra è tutta un'altra storia.
Il Sole 24 Ore 24.10.10
L'agenda economica. L'obiettivo di guardare oltre la fabbrica ai listini di Borsa
Lavoro ma anche finanza Il «salto» tra Nichi e Fausto
La ricetta. Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e d'affari, freno alle stock option dei manager
di Lina Palmerini
La ricetta. Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e d'affari, freno alle stock option dei manager
Lavoro e finanza: un luogo tradizionale e uno inedito per la sinistra ma comunque il terreno dove Nichi Vendola traccia la sua rotta alternativa. E proprio su queste due strade, dove i cambiamenti sono stati più forti e gli eventi imprevedibili, che si consuma anche il salto generazionale tra Nichi e Fausto.
C'era una volta Fausto Bertinotti, leader carismatico di Rlfondazione comunista e presidente della Camera, che riceveva nel suo studio a Montecitorio Sergio Marchionne. E sempre in quei giorni di quegli anni, si sentì anche dire dallo stesso: «Sì, stimo Marchionne perché una delle prime cose che ha detto è che il valore di un manager non si misura dalla capacità di licenziare ma nel difendere la compagine lavorativa». E, in effetti, una delle cose che l'ad di Fiat non metteva in discussione all'epoca era la chiusura degli stabilimenti in Italia. Era il 2007, sono passati poco più di tre anni, un soffio nella vita di chiunque, un'era geologica per l'economia e la politica.
Oggi la sinistra di Nichi Vendola riparte ancora dalla Fiat. Ancora da Marchionne che nel frattempo ha chiuso Termini Imerese e ha ingaggiato un braccio di ferro con la Fiom sul contratto. «Melfi e Pomigliano diventano cartelli stradali che segnano la via per capovolgere la destra in Italia. Marchionne ‑ diceva Vendola nel suo intervento di venerdì ‑ ha un'idea di modernità regressiva nel sociale». Un attacco perfetto per delineare la nuova rotta della sinistra che si fonda e si fonde con il lavoro. Sono due i pilastri della proposta di Sinistra e libertà: superare la legge 30 quella sulla flessibilità e limitare drasticamente il ricorso ai contratti a tempo rendendo davvero normale la pratica dell'assunzione indeterminata. Dunque, la norma prima ancora che i costi.
Un approccio che certo scavalca il Pd e anzi separa le due strategie. Quella di Pierluigi Bersani che intende colpire la convenienza economica dei contratti flessibili ‑ parificandone il costo a quelli stabili ‑ mentre quella di Vendola somma via legislativa.e svantaggio economico per marginalizzare la precarietà dal mercato. Questo è l'approdo ma l'avvio è quella che Vendola ha chiamato «la bellissima piazza della Fiom». E dunque la battaglia della Cgil contro la Fiat a difesa dei diritti e del contratto nazionale. E la pressione sul sindacato per farlo tornare al suo ruolo antico del conflitto diversamente da Cisl e Uil «sussunto a parastato», come li ha definiti Vendola.
Ma la fabbrica non è più l'unico luogo della sinistra. E qui sta ancora H salto generazionale tra Bertinotti e Vendola. Oggi la sinistra guarda oltre i cancelli, guarda alla Borsa, ai listini. Non solo contratti e sciopero ma pure hedge fund e short selling entrano nel lessico. E qui l'agenda di Nichi parte dall'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie per passare a una nuova «separazione tra banche di risparmio e banche di affari» e poi tornare a «limitare stock option per manager» e, infine, chiedere di «frenare hedge fund e i credit default swap» e vietare lo short selling.
Il lavoro è il "cuore", la finanza è il "nuovo luogo" ma il fìsco è il cervello, la razionalità che deve portare a una nuova distribuzione della ricchezza contro un «capitalismo predatore», come si legge nel Manifesto di Sinistra e Libertà. E sulle tasse si ricompatta il mondo di Nichi con quello del Pd. Il fisco è da sempre la koinè ‑ come direbbe Vendola del centro‑sinistra tant'è che qui le distanze quasi si annullanno. E infatti oltre la proposta di una tobin tax, c'è l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie ad avvicinarli: entrambi vogliono aumentarla dal 12,5 al 20% per alleggerire l'Irpef a partire dai ceti più bassi. Una tassa che, nelle idee di Alfonso Gianni, responsabile economico di Sel e tra gli estensori del Manifesto, dovrebbe colpire anche i Bot dando però una franchigia al piccolo risparmio. Ma già una volta, nel 2006, questo fu l'inciampo dell'Unione.