domenica 24 ottobre 2010

il Fatto 24.10.10
A destra della destra
In tutti le Nazioni europee si assiste impotenti a un attacco contro i governi centrali, il problema è l’immigrazione, le culture diverse sono sorvegliate alla stregua di un potenziale pericolo
di Furio Colombo


Propongo una domanda che mi sembra importante: il multiculturalismo (ovvero la convivenza politica della mia e della tua cultura, della mia e della tua radice) è fallito perché il mondo occidentale e democratico si sta spostando a destra, oppure il mondo si sta spostando a destra e dunque deve dichiarare fallito il multiculturalismo perché ogni destra tollera male le diversità? Prendo lo spunto da una frase di Angela Merkel (“Il multiculturalismo è fallito”), che Angelo Panebianco usa in apertura del suo editoriale “Musulmani d'Europa” (Corriere della Sera, 21 ottobre) e che apre un inventario del presente. Punta sulle difficoltà (il dramma è vero, la xenofobia dilaga in Europa) e si conclude con un augurio (la parola “speranza”) e la quasi certezza che (però, invece) bisognerà ascoltare Angela Merkel. Il fatto è che Angela Merkel un premier senza maggioranza e sempre nel turbine del clima elettorale è una candidata che sta seguendo il corteo della paura, invece di battersi in nome di una visione del futuro. Ma restiamo all'argomentazione di Panebianco. È una argomentazione cauta, ma ruota intorno alla frase: “Il punto è che una società siffatta è difficilmente compatibile con la democrazia”. Per chiarezza ripete: “Il multiculturalismo non è politica adatta per le democrazie europee”. Occorrerebbe approfondire il senso della frase. Vuol dire che qualcosa di specifico (difetto, carattere storico?) nelle democrazie europee rende impossibile ciò che è possibile negli Stati Uniti e in India, due mix formidabili di tante culture; ma non nel più sfortunato Pakistan, un mondo tutto islamico, omogeneo ed identitario eppure dilaniato dalle stragi?
CREDO CHE si metterebbero in imbarazzo sia Angela Merkel che Angelo Panebianco con la seguente domanda: vi sono più rivolte e tensioni sociali, scontri e conflitti, dove il multiculturalismo è la regola o dove c'è, del multiculturalismo, poca o nessuna traccia? Consideriamo l'Europa monoculturale dal 1945 in avanti (e dunque fingiamo per un momento di non sapere che cosa è accaduto in questa stessa Europa monoculturale negli ultimi due secoli). I conflitti che hanno o potevano dilaniare Stati democratici sono avvenuti dentro l'Irlanda (protestanti e cattolici, unionisti e indipendentisti) dentro la Spagna (la questione basca e l'Eta), nel Sud Tirolo-Alto Adige. Quest'ultima è la sola regione che ha scampato lo scontro e la strage, grazie a una soluzione multietnica e multiculturale dovuta ad Alcide De Gasperi, che fino ad ora ha tenuto. Qualcuno ricorderà la forte ostilità con cui – per un lungo periodo – la destra italiana (allora incarnata dal Msi e poi da An) ha espresso rifiuto e disprezzo per la soluzione multiculturale altoatesina. Ma questo ci ricorda un problema della destra, non del multiculturalismo. Non ricordo che il sanguinoso e protratto conflitto dentro l'Irlanda tra irlandesi e irlandesi e tra irlandesi e inglesi, sia mai stato discusso come incompatibilità di culture non riconducibile a un condiviso dibattito democratico. Non ricordo che vi siano state interpretazioni del conflitto basco altro che come indipendentismo e nazionalismo. Sono tutte situazioni in cui la comune eredità storica e culturale non ha impedito né l'attentato né l'assassinio mirato né la strage. Non impedisce neppure l'equivoco. La strage di Madrid (11 marzo 2004) è stata creduta per molte ore come un delitto del nazionalismo basco, tardando di quasi un giorno ad identificare la matrice islamica internazionale. Ma veniamo a fatti dei nostri giorni che segnalano fratture profonde fra cittadini (cittadini della stessa cultura e radice storica) e Stato. Inevitabile ricordare la lunga rivolta dei giovani greci, iniziata il giorno dell'uccisione – da parte della polizia di quel paese – di uno studente di 15 anni, rivolta tutt'altro che finita; l’accanita e violenta opposizione di massa dei cittadini francesi contro il loro presidente e la nuova legge sulle pensioni, una rivolta che dura e si allarga mentre scriviamo; la guerriglia urbana dei cittadini italiani della Campania contro soluzioni non condivise, imposte dal governo di Roma sentito come estraneo (al punto da bruciare la bandiera italiana), le marce dei pastori sardi, visti come alieni, ma decisi a far valere il loro diritto (il prezzo del latte quasi a zero) contro l'indifferenza dello Stato; tutto ciò preceduto, negli anni, da violentissime dimostrazioni di allevatori veneti, che hanno rovesciato tonnellate di letame sulle loro città e le loro autorità viste come nemiche. L'unica eccezione italiana a questa serie di rivolte monoculturali è, in apparenza, la rivolta nera di Rosarno (gennaio e agosto 2010) ma è stata una rivolta di bianchi contro neri, non il contrario. E infatti si tratta di una brutta storia xenofoba prontamente dimenticata.
ECCO DUNQUE il paradosso con cui ci confrontiamo. Parti monoculturali di importanti paesi europei sono in rivolta anche violenta contro lo Stato, in cerca di soluzioni impossibili e decise a non arrendersi. Culture diverse, insediate con l'immigrazione negli stessi paesi, decine di migliaia di donne o uomini che convivono e lavorano, ma che vengono sorvegliati come potenziale pericolo individuale e di massa (“gli immigrati il più delle volte delinquono” hanno detto insieme il capo del governo Berlusconi e il sindaco di Milano Moratti) sono visti da una parte degli intellettuali e commentatori italiani come rischio probabile e imminente di frantumazione del Paese, un pericolo dovuto al fatto che il multiculturalismo (ovvero la vita quotidiana in India o negli Stati Uniti) sarebbe – come dice Panebianco – “incompatibile con la democrazia”. Quando un partito di destra e xenofobo è al governo come in Italia (solo in Italia), molte risorse e forze militari e di polizia vengono dirottate a presidiare il pericolo immaginato, mentre i buoni cittadini con la stessa origine e la stessa cultura si scontrano, si attaccano, danneggiano, distruggono, resistono e – in certi casi – spietatamente uccidono, dall'Eta basca alla 'ndrangheta calabrese. Non esistono prove al mondo che il multiculturalismo porti lo stesso pericolo o lo abbia mai portato all'interno di uno Stato libero. Ci si interroga sul fondamentalismo islamico. Giusta domanda, giusta preoccupazione. A patto di estenderla agli altri fondamentalismi religiosi. Il fondamentalismo cristiano negli Stati Uniti è responsabile di attentati e di stragi con centinaia di morti negli ultimi 20 anni di vita americana. Ricordate la Chiesa Armata di Waco, in Texas, comandata dal “pastore” David Koresh, fatta esplodere il 29 aprile 1993 (più di 100 morti, la metà bambini) e la strage di Oklahoma City, 29 aprile 1995 (168 morti, un terzo bambini del locale asilo nido) attribuita a un gruppo dettoChristianIdentity,esecutoreil soldato McVeigh, parte di quell'organizzazione tuttora clandestina in America? I fondamentalismi religiosi, dall'Europa al Medio Oriente agli Stati Uniti, sono la grande minaccia, non i migranti che attraversano il mondo in cerca di rispetto e di lavoro. La cecità persecutoria delle destre e dei partiti xenofobi come la Lega Nord italiana, comincia qui. Quanto alle sinistre, occorrerebbe sentirne la voce.

l’Unità 24.10.10
Adolf Hitler e la colpa di un popolo
A Berlino Polemiche e dibattiti in Germania per la prima mostra sul Führer che mette al centro la fenomenologia del vastissimo consenso popolare del Terzo Reich. Tra busti in ghisa prodotti in serie e foto private del dittatore
di Gerardo Ugolini


A 65 anni dalla fine della guerra e dalla sua morte Adolf Hitler rimane per i tedeschi il fantasma maledetto, l’uomo nero, l’incarnazione del male assoluto con cui è ancora difficile fare i conti da una posizione di sereno distacco temporale. Ogni qualvolta viene pubblicata una nuova biografia o esce un film sul personaggio si scatena la bagarre di accuse e polemiche. L’ultima che tutti ben ricordano fu quella che accompagnò nel 2004 il film La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler di Oliver Hirschgiebel, con Bruno Ganz nella parte del Führer. Ora è la volta di una grande mostra storico-documentaria, la prima interamente dedicata al personaggio, che è stata inaugurata il 14 ottobre nella sede del Deutsches Historisches Museum, il Museo di storia tedesca di Berlino. Si intitola Hitler e i tedeschi. Comunità nazionale e crimine. Per quanto incredibile possa sembrare, si tratta della prima mostra, dalla caduta del nazismo ad oggi, che la Germania abbia allestito sul grande dittatore. Precedenti tentativi erano falliti, come quello intrapreso sei anni fa dallo stesso Museo di storia tedesca, che all’ultimo decise di rinunciare per evitare l’accusa di voler in qualche modo eroicizzare il Führer, o addirittura di attirare tra i visitatori frotte di nostalgici del regime nazista.
E per la verità anche per questa occasione non tutto è filato liscio. Gli organizzatori hanno infatti ammesso di essersi in parte autocensurati rinunciando ad esporre – in mezzo ai molti reperti, tra cui documenti, fotografie, manifesti di propaganda, libri e busti del dittatore – oggetti che potessero attrarre l’interesse nostalgico o addirittura feticistico di qualche neonazista. Perciò non sono esibite, per esempio, le uniforme militari del Führer, portate via dai russi nella primavera del 1945 e conservate a Mosca. Il curatore dell’esposizione, Hans-Ulrich Thamer, in un’intervista al settimanale Der Spiegel ha inoltre spiegato di aver rifiutato di esporre il grande ritratto di Hitler, dipinto nel 1939 e sequestrato in uno dei palazzi del tiranno dall’esercito americano, proprio per la suggestione che poteva esercitare sui neonazisti.
Queste limitazioni tolgono tuttavia ben poco al significato storico e politico della mostra che riesce a centrare l’obiettivo prefissato: inquadrare il Führer nell’ambito sociale, politico e militare in cui si trovò ad agire per provare a spiegare la sua rapida e irresistibile ascesa e per far luce sul mistero di quella malefica fascinazione che esercitò fino all’ultimo sul popolo tedesco nonostante la guerra e tutte le atrocità compiute. Tra gli oggetti dislocati negli spazi della mostra colpiscono i busti in ghisa del dittatore che venivano prodotti a milioni per decorare i tinelli delle famiglie del Reich devote al culto del leader supremo. Per capire fino a che punto la propaganda di regime avesse fatto breccia anche nei sentimenti religiosi della gente bisogna osservare un arazzo con la scritta «Portiamo in chiesa la croce uncinata!»: fu tessuto dall’Associazione delle donne evangeliche di Rotenburg an der Fulda e vi sono raffigurati dei ragazzi della Hitlerjugend, la «Gioventù hitleriana», che marciano insieme alle SA in una disposizione a forma di croce, mentre in un angolo è riportato il testo del Padrenostro. Gli organizzatori insistono molto sull’aspetto messianico che ha caratterizzato la parabola del dittatore nazista, ovvero la sua capacità di farsi identificare come un redentore da seguire ciecamente sempre e comunque. Ma per spiegare il rapporto tra il Führer e le masse non basta riferirsi al suo speciale carisma. Contano soprattutto i meccanismi di adesione, di mobilitazione e anche di esclusione, abilmente costruiti e regolati dal regime.
Tra i materiali iconici spicca una serie di istantanee scattate da Heinrich Hoffmann, il fotografo di fiducia del Führer, l’unico capace di ritrarlo da vicino nelle faccende della vita di tutti i giorni. Alcuni reperti sono curiosamente esposti in maniera sghemba, sospesi di traverso invece che poggiati in terra, come per esempio un dipinto che esalta spirito guerriero della comunità nazionale tedesca. L’intento è di sottolineare visivamente l’aberrazione dell’ideologia nazionalsocialista.

l’Unità 24.10.10
Quelle nostalgie nere che toccano il ceto medio


Per una strana ma sintomatica coincidenza la mostra berlinese su Adolf Hitel è stata inaugurata proprio nei giorni in cui è uscito uno sconvolgente studio della Friedrich-Ebert-Stiftung, la fondazione culturale vicina all’Spd, da cui risulta che un tedesco su dieci sogna un nuovo Führer che guidi la Germania «con il pugno di ferro». La nostalgia del Terzo Reich e il fanatismo di destra vanno contagiando anche il ceto medio e si spiegano in larga parte come conseguenze delle diffuse tendenze xenofobe. Infatti, il 35,6% dei tedeschi – sempre secondo l’analisi della Fondazione Ebert – chiede l’espulsione degli extracomunitari, arrivati in Germania solo «per sfruttare lo Stato sociale», e concorda sul fatto che «la presenza di troppi stranieri ha stravolto in maniera pericolosa la Bundesrepublik». Tra i dati dell’inchiesta che destano maggiore preoccupazione c’è quello relativo al rifiuto dell’Islam (il 58% dei tedeschi vorrebbe vietare ai musulmani l’esercizio delle pratiche religiose) e lo scarso apprezzamento del sistema democratico, il cui funzionamento è giudicato soddisfacente solo dal 46%.

il Fatto 24.10.10
Il divorzio compie quarant’anni
Patrimonio e matrimonio
di Silvia Truzzi


Il divorzio compie quarant’anni: battaglia vinta e conquista civile. Non si può dire che l’istituto sia inutile. Secondo l’Istat, dal 1995 la crescita è stata costante: se nel 1995 si verificavano 158 separazioni e 80 divorzi ogni mille matrimoni, nel 2008 si è arrivati a 286 separazioni e 179 divorzi, con un incremento del 3,4 e del 7,3% rispetto all'anno precedente. Naturalmente, siccome siamo italiani, il nostro è il Paese con i tempi più lunghi nelle procedure di primo grado, ci siamo beccati, per questo, anche un rimprovero dalla Commissione europea per l'efficienza della giustizia, che ci ha invitato a introdurre procedure semplificate, meno costose e più brevi. Quanto alle cause le statistiche indicano, ma va?, il tradimento scoperto come la principale. Ma i numeri non raccontano nulla del dolore e del disagio che stravolge – dentro e fuori – la vita. Che è fatta anche di luoghi, odori, abitudini e reti sociali. C’è la perdita – più o meno improvvisa, più o meno subìta – di un compagno, che non solo è meta d’amore e desiderio, ma è anche custode delle proprie solitudini. L’immagine di Margherita Buy ne “I giorni dell’abbandono”, sdraiata sul pavimento di casa con gli occhi trasparenti, racconta più di mille parole. Matrimonio fa rima (anche) con patrimonio e si è aggiunta, in questi anni di contrazione economica, anche una difficoltà pratica: soldi che, divisi, non bastano. Quando le donne non lavoravano, spesso era il portafoglio a tenerle legate al marito più che il cuore. Ma le donne hanno conquistato autonomia economica e quindi indipendenza sentimentale: due declinazioni di un unico concetto, la dignità. Nelle storie dei divorzi ci sono figli, liti, ricatti, bugie, rancori che non si stemperano. Oggi c’è anche la sempre maggiore difficoltà dei genitori a sostentarsi. Si parla molto di tutela della moglie, che spesso è anche madre: la legge si cura di questa specificità. Anche se sono quotidiani gli esposti ai tribunali a causa di mariti che non pagano gli alimenti, talvolta anche occultando con viltà il proprio denaro. C’è però anche una difficoltà maschile, che cresce sempre più: sono i padri che non sanno dove abitare, perché non si possono permettere un affitto. E finiscono nei dormitori, come ieri raccontava il “Corriere” con un articolo su un centro della periferia di Milano che ospita 53 padri separati, senza una lira e con la rabbia di non poter portare i loro figli in una casa che non hanno più. A Bolzano la Provincia ci ha pensato un paio d’anni fa, creando veri e propri appartamenti per padri separati in difficoltà. Già nel 2004 era stato aperto dal Centro assistenza separati e divorziati un rifugio: cinque stanze con bagno. Al di là di un necessario intervento delle amministrazioni qualcosa si può fare, singolarmente (salvo il principio di eccezione: ogni caso, ogni matrimonio, ogni amore fanno storia a sé). Ex – mogli e mariti – sono pur sempre persone che hanno fatto insieme un pezzo di strada. Ed è vero che ci sono umiliazioni e torti che non si possono perdonare. Però la vendetta non restituisce la felicità, portando spesso lontanissimo dalla civiltà: valore da cui non si dovrebbe prescindere, principalmente per se stessi. E poi se ci sono i divorzi, vuol dire che qualcuno ancora al “finché morte non ci separi” ci crede: dopotutto è una promessa di felicità. Almeno per un po’.

l’Unità 24.10.10
Carcere come rimozione sociale
di Andrea Boraschi


Se interrogassimo un campione rappresentativo della popolazione generale su temi quali lavoro, welfare, caro vita, economia, ambiente (e su altri ancora) otterremmo una serie di indicazioni più o meno articolate, ma certamente non univoche, su quali siano i problemi correnti e le relative possibili soluzioni. Ho la netta impressione (confortata da studi recenti) che esistono, invece, almeno un paio di questioni sociali, nel nostro paese, nei confronti delle quali l’opinione pubblica è schierata in maniera più marcata e unilaterale. Una di esse è l’immigrazione; l’altra, significativamente, è la “questione sicurezza”. Non si tralasci di intendere quanto le due siano strettamente (e cupamente) connesse tra loro; e come la seconda preveda, ancor più della prima, nel sentire collettivo, un orizzonte limitatissimo di “soluzioni”. Meglio ancora: se si può pensare al contrasto alla criminalità come a un concorrere di più fattori, si pensa invece alla repressione della criminalità riferendosi a un solo strumento: il carcere. Il problema è che, per quanto questo orientamento sia diffuso, in pochi, pochissimi sanno davvero cosa sono e come funzionano gli istituti di pena nel nostro paese.
L’associazione Antigone pubblica annualmente un meritorio rapporto sullo stato dell’esecuzione della pena in Italia. Una lettura che potrebbe rivelarsi istruttiva per molti tra quanti vedono nella “gattabuia” la panacea di ogni allarme sociale. Alcuni dati sono consolidati e cominciano a essere noti persino ai più sordi. Parliamo dei livelli di affollamento (un’edilizia penale che potrebbe al più ospitare 44mila unità e che invece ne conta 68mila); dei tassi di suicidio (maggiorati fino a 20 volte rispetto a quelli che si registrano nella popolazione libera); del fatto che circa 15mila persone sono recluse senza aver neppure affrontato il primo grado di giudizio. Potremmo poi discutere di molti altri indicatori che evidenziano come il carcere, sopra ogni altra cosa, sia una soluzione inefficace, un gigantesco, farraginoso e costosissimo strumento di riproduzione di delinquenza e marginalità. Ma alcuni tra questi indicatori, forse meno eclatanti, ci suggeriscono qualcosa di aggiuntivo: il nostro è il paese con più tossicodipendenti reclusi in Europa, con oltre 25mila stranieri detenuti, spesso solo in virtù del reato d’immigrazione clandestina; e, ancora, con tassi di analfabetismo e scarsa scolarizzazione, tra la popolazione carceraria, altissimi. Non potrebbe darsi, dunque, che il carcere sia divenuto, da strumento di sanzione della criminalità, strumento di rimozione del disagio sociale? Non somiglia forse a una scalcinata quanto feroce macchina di occultamento dell’iniquità e della disparità? Vi si detengono i delinquenti o i più deboli?

il Fatto 24.10.10
Fioroni e Gelmini, scambio d’amorosi sensi
di Marina Boscaino


Bon ton istituzionale e imbarazzante concordia nell’inedito dialogo sul Corriere tra Gelmini (il ministro più contestato del Berlusconi IV) e il predecessore, Fioroni (oggi coordinatore del Forum del Pd sul Welfare).

TRA UN COMPLIMENTO e l'altro, la scuola crolla a picco. E non si può non riconoscere ai due pacati dialoganti l’apporto personale alla débâcle. In Italia spesso chi rompe non paga. Fioroni è stato il ministro del centrosinistra che ha favorito nella maniera più esplicita le scuole paritarie (la legge per integrarle a pieno titolo nel sistema scolastico nazionale fu il tributo del centrosinistra – eravamo nel 2000 – alla collaborazione degli allora Popolari); che ha bloccato definitivamente il percorso dell'obbligo scolastico a 16 anni, come negli altri 26 paesi Ue; che – mediante il suo proverbiale “cacciavite” – ha svitato alcuni ingranaggi della riforma Moratti, subito riavvitati da Gelmini e soci, quando, nel 2008, cadde Prodi. Il Fioroni-pensiero è facile da riassumere: tiepida concordia con chi sta massacrando la scuola pubblica. Termini meno diretti, stessa sostanza. Parlando di precariato “la scuola non può essere una fabbrica di illusioni” (a 1.500 euro al mese, nel discredito socio-politico-culturale. E poi, lui dov'era, mentre si edificava la fabbrica?). Più signorilità e meno fantasia rispetto alla collega (dalle felici espressioni: “Scuola ammortizzatore sociale”; “la scuola non è un ufficio di collocamento”). Consueti buoni propositi, trovate anche originali: “Investire risorse per la formazione e l'aggiornamento (...); reperire risorse adeguate per premiare il merito; individuare un metodo per evidenziarlo, fondato su riscontri oggettivi e sulla reputazione [riconosciuto parametro scientifico, ndr]”. Una scuola “in grado di presentare il proprio bilancio sociale alla comunità e che mostri ai genitori la propria valutazione complessiva in termini di acquisizione, di conoscenze, competenze, di specificità di settore e di indirizzo”. Il mio liceo (più di 500 alunni, 38 docenti e 13 Ata) quest'anno avrà 54.000 euro per fare qualsiasi cosa. Di cosa parla Fioroni? Risponde subito giuliva e concorde Gelmini: ringrazia per l'assist inatteso e trova in quelle parole conforto alla sua strategia di affondamento e riduzione al pensiero unico della scuola pubblica. “Dalla lettera di Fioroni, ma anche da parte del sindacato, segnali incoraggianti per considerare chiusa una fase storica”.
QUANDO Gelmini usa questo aggettivo bisogna tremare. Prepariamoci. Soprattutto chiediamoci perché il Pd, incapace di produrre una visione originale, ripropone strade che altri sanno percorrere con maggiore convinzione. Gli elementi imprescindibili non sono più i valori di sinistra – inclusione, cultura, emancipazione, Costituzione – che pure vengono utilizzati strumentalmente con certe platee. Ma valutazione e merito, nella imperdonabile dimenticanza che non basta pronunciare quelle parole né preparare soluzioni improvvisate per dotare la nostra scuola di un sistema di valutazione (sul quale alcuni paesi europei lavorano e studiano dagli anni '80) equo ed efficace. L'ottuso arroccamento su posizioni “moderne” e “alla moda”, su concezioni neoliberiste, ha già prodotto vasti danni. Aver di fatto emarginato quella parte di scuola democratica che ancora studia ed elabora su educazione, cultura e saperi, tenendo per saldi principi e valori teoricamente condivisi, non potrà premiare chi vi ricorre solo in fase emergenziale, contando su voti dati per inerzia o per esclusione. Siamo “vetero”? Abbiate il coraggio di dircelo, non ci offendiamo. Sarà per molti, davanti a tanti maldestri riposizionamenti, un vero onore.

l’Unità 24.10.10
Bavaglio ai presidi: vietato criticare pubblicamente la riforma Gelmini
di Felice Diotallevi


Stretta del ministero dell’Istruzione: chi critica pubblicamente la riforma Gelmini sarà punito con la sospensione, senza stipendio fino a sei mesi. È l’applicazione del Codice Brunetta. Bavaglio ai 10mila presidi.

Vietato criticare in pubblico la riforma Gelmini, stiano attenti i circa 10mila presidi in giro per l’Italia: i dirigenti scolastici che oseranno dire la loro verranno puniti con la sospensione e la perdita fino a sei mesi di stipendio. Multe da 150 a 350 euro per chi ha un «alterco» con un genitore, o per i presidi che circolano senza cartellino di riconoscimento o non mettono la targa col nome sulla porta della stanza. Sanzioni, multe e divieti sono messe nero su bianco nel Codice disciplinare per i dirigenti scolastici, attivo da sabato 6 novembre, pubblicato il 21 ottobre sul sito del ministero dell’Istruzione.
LESA MAESTÀ...
Insomma, esprimere pubblicamente, peggio ancora se con un’intervista, il proprio dissenso sui provvedimenti del ministro sarebbe «lesivo dell’immagine della pubblica amministrazione», alla faccia della libertà d’espressione. E per quelle che verranno considerate «manifestazioni ingiuriose nei confronti dell'amministrazione salvo che siano espressione della libertà di pensiero», i dirigenti scolastici rischiano la «sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di sei mesi». A stabilire se sia libertà d’espressione o ingiuria, l’arbitrio del direttore dell’Ufficio scolastico regionale.
Il pugno di ferro del Miur mette in pratica il Codice Brunetta 150/09 sul «comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni). A mettere il carico da dodici sugli insegnanti ci pensa la collega Mariastella Gelmini, che permetterà anche visite a sorpresa degli ispettori ministeriali, anche senza richieste del direttore regionale. Metodo Guardia di Finanza, praticamente, ma applicato ai comportamenti dei singoli. E la pena che va da un minimo di tre giorni a un massimo di sei mesi (sospensione senza stipendio) verrà applicata anche per «minacce, ingiurie gravi, calunnie o diffamazioni verso il pubblico, altri dirigenti o dipendenti, ovvero alterchi con vie di fatto negli ambienti di lavoro, anche con utenti». Litigare costa caro... Saranno puniti anche gli atteggiamenti di tolleranza dei capi di istituto verso docenti e personale Ata che si siano resi artefici di «irregolarità in servizio, di atti di indisciplina, di contegno scorretto o di abusi di particolare gravità da parte del personale dipendente». Le sanzioni cambieranno caso per caso, ma i dirigenti che chiudono un
occhio rischiano sei mesi di stipendio.
L’avvertimento a presidi e insegnanti era già arrivato a maggio da parte del direttore dell’Ufficio scolastico regionale, Marcello Limina: attenti a come parlate,è preferibile «astenersi da dichiarazioni o enunciazioni che possano ledere l’immagine dell’amministrazione pubblica»; vietato rilasciare interviste, meglio «rapportarsi con i loro superiori gerarchici nella gestione delle relazioni con la stampa». Da allora, secondo la Flc Cgil, i presidi si mordono la lingua prima di dire come la pensano. In un caso il preside al quale era stata chiesta un’intervista, avvertito il proprio superiore, si è sentito preventivamente dire: non denigrare la pubblica amministrazione.
Norme e multe sul comportamento sono contenute nel contratto di lavoro dei dirigenti scolastici per il quadriennio 2006/2009, ma firmato nel luglio scorso. Molti presidi, quindi, possono non sapere ancora cosa rischiano se rilasciano interviste. Il temibile codice Brunetta impone che «salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini», il dipendente «si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’immagine dell’amministrazione». Ammessi soltanto spot sorridenti, non si dica che la scuola va a rotoli...

l’Unità 24.10.10
Iraq, 400mila files Wikileaks Via Saddam, resta la tortura
Centinaia di casi di tortura e violenze sui detenuti commesse da militari e agenti iracheni. Il Pentagono sapeva e non è intervenuto. Da Wikileaks 400.000 pagine di verità sulla guerra. L’Onu: «Obama indaghi».
di Marina Mastroluca


«La prima vittima della guerra è la verità». Julian Assange cita un refrain abusato per arrivare al dunque. E il dunque sono i 391.382 file pubblicati venerdì scorso, «la maggiore fuga di notizie militari della storia» di cui Wikileaks rivendica orgogliosamente la paternità per gettare uno sguardo molto ravvicinato su che cosa è stata la guerra e l’occupazione Usa in Iraq. Non sarà tutta la verità come in un’aula di tribunale, ma qualcosa che ci si avvicina parecchio, fotogrammi del dopo Saddam, così crudi da far evaporare qualsiasi tentativo residuo di spacciare il conflitto per una missione libertaria, la democrazia esportata dalle bombe.
I numeri, prima di tutto. Assange non ha difficoltà a chiamare la guerra irachena un «bagno di sangue, sei volte peggiore che in Afghanistan». A spulciare le carte, che Wikileaks ha consegnato a New York Times, Der Spiegel, Guardian, Le Monde e Al Jazira, si arriva alla cifra di 109.000 morti tra il 2004 e il 2009: 66.081 erano civili, 23.894 persono classificate come «nemici», oltre 15.000 membri delle forze di sicurezza irachene e 3771 della coalizione internazionale. Più vittime civili di quanto si credesse: 15.000 per l’esattezza, morti in uno stillicidio di incidenti minori ignorati dalle cronache. Ma la vera notizia è che le forze Usa hanno sempre negato di tenere una conta delle vittime civili, contestando le cifre formulate da organismi indipendenti come l’Iraq body count.
Gli iracheni, appunto. Gli orrori di Abu Ghraib, sbandierati dagli stessi aguzzini con le loro tragiche foto-ricordo, si sono replicati in altre carceri, in altri luoghi, per mano delle forze di sicurezza irachene. Detenuti trattati con elettroshock, scosse elettriche, appesi per i polsi o per le caviglie e frustati, picchiati a morte. In almeno sei casi documentati i prigionieri non sono sopravvissuti, in un caso un militare americano ha segnalato il sospetto che un detenuto fossero state amputate le dita delle mani e poi sciolte nell’acido. Violenze finite nei report delle forze Usa e spesso accompagnate dall’annotazione: «non richieste ulteriori indagini». Il Pentagono ha spiegato che è questa la sua politica: raccogliere dati e comunicare alle autorità competenti. Gli abusi sono stati segnalati alle autorità irachene, le stesse che li avevano commessi. Tutti sapevano, ma chiudevano uno e se possibile tutti e due gli occhi. Lo stesso premier uscente Al Maliki risulta coinvolto in una serie di violenze settarie, contro elementi ex baathisti e sunniti, con squadroni della morte al suo servizio tra il 2006 e il 2009. I documenti di Wikileaks rivelano anche il ruolo dell’Iran nell’addestramento di milizie sciite e «la lotta letale» tra queste e le forze Usa ai tempi di Obama.
CAMPI MINATI
Anche sulle forze d’occupazione Wikileaks racconta episodi non noti. Come l’uccisione di 26 iracheni, almeno la metà dei quali civili, nel luglio 2007, sotto il fuoco di un elicottero Usa o l’uso di civili su aree che si sospettava fossero state minate. Tra le carte anche lo scambio di battute tra un Apache, nome in codice Crazyhorse 18», e un consulente legale Usa in una base militare: due iracheni, che avevano appena sparato con un mortaio, cercavano di arrendersi, l’equipaggio voleva sapere come regolarsi. «Non si possono arrendere ad un mezzo aereo, sono ancora obiettivi validi», fu la risposta. I due vennero uccisi, mentre sembra che il «Crazyhorse» sia lo stesso elicottero che mesi più tardi aprì allegramente il fuoco su due giornalisti Reuters.
Le reazioni alla mega-pubblicazione di Wikileaks vanno in diverse direzioni. Per Manfred Nowak, capo investigatore Onu sulla tortura, l’amministrazione americana ha la responsabilità di indagare, non solo di registrare le atrocità. Il Pentagono per metà ha minimizzato «tutto già noto» e per il resto ha accusato Assange di aver messo a rischio la vita di 300 collaboratori iracheni. Ma è soprattutto Baghdad a reagire. Al Maliki ha parlato di «obiettivi politici» della campagna scatenata da Wikileaks: il principale bersaglio sarebbe proprio lui, abbarbicato alla poltrona, senza riuscire a formare un governo. Dal partito del suo avversario Allawi le critiche più feroci. Troppo potere nelle mani di uno solo e per di più legato all’Iran.

Repubblica 24.10.10
Taleb, la teoria del cigno nero e l´importanza dell´incertezza
"Perché scommetto sulla mia ignoranza
di Marco Cattaneo


A 35 anni fu colpito da un tumore alla gola, tipico dei grandi fumatori ma lui non aveva mai fumato. Insomma: il cigno nero era lui

Nel suo libro Le nostre paure, recentemente pubblicato da Rizzoli, il celebre psichiatra Vittorino Andreoli afferma senza mezzi termini che "il potere è stupido". Parla del potere politico, Andreoli, ma anche di quello economico e finanziario, con l´esperienza e l´intuizione dello psichiatra. Senza contrapporre la stupidità all´intelligenza, ma considerandola un motore indipendente delle vicende umane.
È su una declinazione di questa stupidità che conta Nassim Taleb, uno dei più fortunati investitori degli ultimi anni, per accumulare miliardi di dollari nel suo hedge fund, ed enormi fortune personali. Autore del bestseller Il cigno nero (Il Saggiatore, 2008), Taleb - che il 29 ottobre terrà una delle conferenze organizzate da Telecom al festival della Scienza di Genova - trae profitto dalla stupidità dei mercati. E dalle intuizioni sbagliate dei trader "ordinari".
Cinquantenne, studioso dei processi cognitivi e percettivi legati alla fortuna e alla probabilità, Taleb ha un biglietto da visita singolare nella specialità che insegna all´Università del Massachusetts: scienze dell´incertezza.
La sua ricetta è semplice, e prende spunto da una massima - che cita di continuo - di David Hume: «Non c´è un numero di osservazioni, per quanto alto, che ci permetta di inferire che tutti i cigni sono bianchi, ma l´osservazione di un solo cigno nero basta a dire che non lo sono». Tradotto nel linguaggio della finanza, Taleb scommette su alti e bassi improvvisi e violentissimi dei mercati, che normalmente non sono soggetti a scossoni. Per dirla con lui, scommette sui cigni neri. A Wall Street, dice, tutti puntano su cambiamenti graduali degli indici azionari, correndo rischi su singoli - ma altamente improbabili - rovesci. Così ogni giorno, o giù di lì, si accontentano mediamente di modesti guadagni, ma non tengono in conto la possibilità di subire invece enormi perdite. Perché non succede mai, o quasi. È proprio il comportamento osservato da Daniel Kahneman e Amos Tversky, che ci hanno vinto il Nobel per l´economia nel 2002, con i loro esperimenti sui guadagni e le perdite in denaro: siamo più inclini a scommettere, a correre un rischio, quando si tratta di perdite piuttosto che quando si tratta di guadagni.
Taleb fa il contrario, scommettendo sull´ignoranza. Sulla sua, intende. Nel senso che mentre gli altri credono di conoscere l´andamento dei mercati lui crede di non conoscerlo, e dunque di non sapere quando arriverà - e arriverà - il cigno nero, il tracollo. Perde un po´ tutti i giorni, acquistando di continuo opzioni finanziarie che quasi mai vanno a buon segno. Ma quando sui mercati arriva un terremoto lui guadagna cifre astronomiche, mentre gli altri colano a picco. È stato così con l´11 settembre, ed è stato così con la crisi di questi ultimi anni. Oggi l´hedge fund di Taleb controlla miliardi di dollari, «e ancora non sappiamo nulla», commenta lui.
Nella sua raccolta di saggi pubblicati sul New Yorker, intitolata What the dog saw, Malcolm Gladwell racconta l´epoca in cui Taleb ebbe la sua intuizione. Nel 1995, aveva 35 anni, gli fu diagnosticato un tumore alla gola, una malattia che di solito colpisce soggetti che hanno fumato come turchi per tutta la vita. Ma lui era giovane e non aveva praticamente mai toccato una sigaretta. Era lui, il cigno nero. Ora, dice, il tumore è guarito, ma non la lezione che quell´evento altamente improbabile gli ha impartito e che si applica alla finanza, ma in generale alla vita di tutti i giorni: gli eventi altamente improbabili avvengono, e siccome non possiamo prevederli perché le variabili in gioco sono troppe (compresi due aerei che si schiantano contro il World Trade Center) dobbiamo essere pronti a coglierne i frutti in ogni momento.
Ecco, questo è Nassim Taleb. Non chiedete di lui, a Wall Street, perché gli altri, quelli che vivono della finanza tradizionale, pensano che perdere denaro sistematicamente ogni giorno sia una follia. Salvo poi pentirsi quando Taleb passa all´incasso.

Repubblica 24-10.10
Il ragazzo che conta i clandestini
"I parenti e gli amici dei desaparecidos mi chiamano dalla Libia o dalla Tunisia per avere notizie"
di Enrico Bellavia


Un giorno Gabriele Del Grande comincia a raccogliere le storie di chi cerca invano di raggiungere l´Europa: annegati in mare, dispersi nel deserto, asfissiati nei Tir, assiderati nelle stive degli aerei, torturati in carcere. Presto diventa l´unica fonte attendibile sulle reali cifre del dramma: 15.059 vittime dal 1988, un genocidio

Il ragazzo che conta i clandestini odia che lo si chiami ragazzo e non usa mai la parola clandestini. Gabriele Del Grande ha ventotto anni, ha trascorso buona parte degli ultimi quattro nel Nordafrica. Ha raccolto le storie di chi è partito per mare alla volta dell´Italia, della Spagna o della Francia e non è più tornato e di chi è finito in centri di permanenza che sono galere, tra torture e violenze di ogni tipo. Ha sbugiardato così la fredda logica dei respingimenti, raccontando di come si muoia per una barca che si spezza o in cella da innocenti. Ha descritto come sono le prigioni libiche finanziate dall´Italia e a che prezzo siano crollati gli arrivi dal mare. Ha rilanciato gli appelli di chi è finito nel girone infernale delle prigioni tunisine diventando un desaparecido. Ha messo in fila le cifre e ne ha ricavato quella che chiama la «scoperta»: 15.059 vittime dal 1988. Due morti al giorno per ventidue anni. Un genocidio.
È nata da qui, da questo numero, l´idea di abbandonare il lavoro all´agenzia Redattore sociale per mettersi a cercare le facce e le vite dei coetanei ingoiati dal mare e dei padri, delle madri e dei fratelli, rimasti ad aspettare e a sperare l´impossibile. «Avevo i numeri ma non avevo le storie. Non sapevo nulla di quella gente. Volevo capire, andare a fondo, conoscere». I primi contatti con le comunità che vivono in Italia, poi il viaggio alla scoperta del perché, a ondate, quelle persone sfidano il mare su legni sfasciati per arrivare in Paesi che ne hanno un disperato bisogno ma dicono di non volerli. E mascherano con mille sinonimi l´idea di una frontiera sbarrata.
«La prima conclusione è che dietro la retorica della disperazione c´è l´ansia e la voglia di generazioni di africani di mettersi in discussione, di provare a fare meglio, di comprarsi una casa, sposarsi, mandare i figli a studiare. Dietro la retorica della disperazione c´è solo una tensione al riscatto da una condizione frustrante. Poi ci sono gli esuli, i perseguitati, quelli che avrebbero diritto all´asilo che nei loro Paesi conoscono la tortura e qui vengono trattati come criminali». Ecco perché in mezzo alle mille storie di chi è partito, la costante è l´ansia di far presto, di guadagnare tempo e opportunità.
C´è Merouane che lavorava nello studio grafico di famiglia ad Annata, nell´Algeria dove un tempo emigravano gli italiani, e voleva andare in Francia dalla Sardegna e Redouane che il padre incoraggiò a partire perché non finisse i suoi giorni a raggranellare spiccioli in una baracca di Sidi Salem riparando cellulari. C´è chi aveva già pronto un piano per arrivare in aereo con un visto turistico e che una notte, senza dire nulla, ha smesso di attendere che la burocrazia corrotta truccasse le carte e si è messo in viaggio rimanendo da qualche parte in fondo al mare. «Sono ragazzi come me che non se la sentono di trascorrere un´esistenza dai confini già tracciati, che hanno il desiderio di crescere e migliorarsi come chiunque altro. È semplice ma è così».
Gabriele ne ha incontrati tanti pronti a partire. Li ha visti consumarsi nella noia dell´attesa tra i tavolini dei bar, spezzarsi la schiena di fatica per racimolare quanto basta a farsi staccare un biglietto di sola andata in direzione Europa. «Le frontiere in realtà sono già aperte, la stragrande maggioranza di chi arriva qui viaggia in aereo. Solo chi non ha abbastanza soldi o non ha voglia di aspettare, provando e riprovando, sceglie il mare».
Le storie che Gabriele Del Grande ha messo insieme sono pubblicate in tre libri che un combattivo editore, Infinito edizioni, gli ha pubblicato e che hanno spopolato in un mercato che c´è e non si vede e che ha regalato a questo toscano vagabondo dall´aria scanzonata, premi, riconoscimenti e un´autorevolezza fatta di citazioni perfino sul New York Times. Gli si riconosce di avere scoperto quello che era sotto gli occhi tutti: le dimensioni di una catastrofe immane. E di non essersi fermato alle cifre ma di essere partito per andare a raccontare le lacrime, il sudore, il sangue che c´è dietro la maschera di un numero.
«Non mi piace che mi sia dia del ragazzo, in questo Paese sembra più una condanna che un merito essere giovane e aver voglia di fare. Anche quella dell´età finisce per essere una specie di categoria che non ti fa essere una persona ma un´etichetta come quella di immigrato o migrante o clandestino». L´ultimo libro di Del Grande si intitola Il mare di mezzo. È il Mediterraneo ma anche lo spazio che divide chi tra le due sponde ha sogni e speranze identiche. «Mi sono reso conto che non c´era molta differenza tra me che viaggiavo e loro che partivano. Solo quel mare». Il primo reportage di Del Grande in terra d´Africa è in Mamadou va a morire che lo ha fatto conoscere in giro per il mondo. In poche settimane ha messo insieme cento presentazioni in circoli e istituzioni culturali in Italia e in Nordeuropa.
Ma il suo lavoro, quello che ogni giorno serve a tenere il conto e la memoria di chi si è perso nel mare di mezzo, è Fortress Europe: la fortezza Europa, il blog, tra i più cliccati da chi si occupa di immigrazione. Un punto di riferimento anche per i giornalisti che attingono a piene mani al lavoro di Del Grande che giornalista non è: «Non ho la tessera e francamente non credo che mi serva: lavoro, scrivo e racconto. La considerazione di cui godo è data dalla serietà e dall´impegno che ci metto. Poi, aver scritto giornalista sui documenti per la mia attività non credo aiuti». Muoversi per la riva opposta a squarciare il velo che copre le storie dei morti, gli ha attirato più di una grana. Non lo amano in Tunisia dove gli hanno fatto pagare una serie di documentati racconti sulla sanguinosa repressione di polizia della protesta dei sindacalisti nel distretto minerario di Redeyef nel 2008. Tornando a indagare, l´anno dopo, sulla fine dei dispersi algerini forse finiti nelle prigioni tunisine, si trovò nella black list.
L´idea di uno che prende rischi senza calcolarli è lontanissima dal modo di procedere di Gabriele Del Grande. Sa di muoversi su un terreno minato: i suoi contatti sono spesso dissidenti dei Paesi in cui si trova, oppositori dei governi, gente che rischia, quella sì la pelle, per una parola di troppo: «Il problema è più per loro che per me. So di mettere a repentaglio la loro vita e la loro libertà e per questo ho l´obbligo di essere cauto». Di poliziotti e barbe finte al seguito durante i suoi giri ne ha avuti parecchi e seminarli non è semplice. Cercavano i suoi taccuini per carpirgli i contatti. Quella volta della protesta di Redeyef dovette mettere tutto su un file, dribblare i segugi che già erano a un passo dalla sua camera d´albergo e mettere in salvo i materiali nel posto più sicuro che conosca: la Rete. La protesta di Redeyef lo ha messo sulla pista della fine che fanno gli esuli e delle torture riferite da chi aveva assaggiato la polizia tunisina. Che non ha gradito tanto zelo.
«Dai centri di permanenza, dalle prigioni che ho visitato, tengo i contatti con chi è dentro. Spesso le persone arrestate utilizzano un telefono cellulare e il mio numero ormai gira parecchio. Ricevo richieste di aiuto, segnalazioni, denunce su ciò che accade. Per chi viene arrestato prima di espatriare, in Nordafrica non ci sono certezze. A bordo di camion, spesso anche dei container, come quelli utilizzati in Libia, somali, eritrei, sudanesi finiscono per mesi, se non per anni, in strutture speciali lontane da tutto e creduti morti dai parenti. Ormai ho la mia rete di contatti e finisco sempre per avere in tempo reale un bollettino di uno sbarco, tentato o riuscito. Ho informazioni di prima mano che sottopongo a verifica. Con i telefoni cellulari mi arrivano anche riscontri fotografici alle torture e alle violenze denunciate».
La prima volta in Africa fu un viaggio in Tanzania imbottito di vaccini, adesso prende il primo volo utile e va, annotando con scrupolo quel che la straordinaria accoglienza culinaria dall´altra parte del mare gli riserva. Messa in un cassetto la laurea in Storia orientale che gli valse una borsa di studio con la quale sono iniziati i reportage, oggi Del Grande lavora per partire ancora e raccontare altre storie e altri spaccati di un mondo che da qui si fatica a vedere. Un tempo non lontano faceva il cameriere in una trattoria di Testaccio a Roma per mettere insieme i soldi, oggi, tra libri, conferenze e seminari all´università, riesce a vivere della sua stessa voglia di raccontare. «Lavoro su Internet, posso farlo da qualsiasi posto. Ho abitato a Roma e Milano, ho vissuto due anni in Sicilia, adesso sto in Toscana dai miei, ma riparto tra non molto e poi chissà, forse metto su casa ancora a Roma». Ha la consapevolezza di fare qualcosa di grande e di utile. Ma se la cava facile con una battuta: «I miei meriti? Forse i demeriti degli altri. Di chi è pagato, e anche bene, per raccontare quel che racconto io e non lo fa».

Repubblica 24-10.10
Il sasso istituzionale e lo tsunami politco
di Eugenio Scalfari


Non è soltanto un sasso nello stagno la lettera inviata da Giorgio Napolitano al presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato. Il Capo dello Stato si è limitato ad attirare l´attenzione del Parlamento e della pubblica opinione su un solo aspetto della legge sull´immunità delle massime cariche istituzionali presentata dal ministro Alfano, ma la logica che ha motivato i suoi rilievi fa parte d´una cultura istituzionale che inquadra una visione complessiva del bene comune e delle regole che ne rendono possibile la realizzazione. La legge Alfano è invece uno dei tasselli della costituzione materiale che Berlusconi e i suoi accoliti hanno in mente da tempo di mettere al posto della Carta vigente. Napolitano, definendo un articolo della legge Alfano «irragionevole e manifestamente contrario all´attuale articolo 90 della Costituzione», ha di fatto interrotto quel percorso obbligando la maggioranza a rimetterci le mani. Solo questo, ma ora quel sasso nello stagno si è trasformato in un maremoto politico che non riguarda il Quirinale ma Palazzo Chigi e il Parlamento.
L´articolo 90 stabilisce l´immunità del Presidente della Repubblica per quanto riguarda eventuali illeciti che possa commettere nell´ambito delle sue funzioni, con l´eccezione di due sole ipotesi: tradimento della Repubblica e atti contro la Costituzione per i quali il "plenum" del Parlamento può con un voto a maggioranza qualificata tradurlo dinanzi alla Corte che si autocostituisce in Alta Corte di giustizia.
Per illeciti che non riguardano la sua funzione il Capo dello Stato può invece essere inquisito e giudicato dai tribunali ordinari. Napolitano ha rivendicato questa immunità e soltanto questa, niente di più e niente di meno.
Stupisce che l´editorialista del Corriere della Sera Massimo Franco abbia avanzato il dubbio di irritualità sulla lettera di Napolitano. Le leggi di riforma costituzionale secondo la prassi debbono esser promulgate dopo la doppia lettura prevista dall´articolo 138 e la firma di promulgazione è considerata un atto dovuto. Ma nel caso specifico era stata creata una situazione di dipendenza del Capo dello Stato dal Parlamento che imponeva al Quirinale di rilevarne la stridente contraddizione ordinamentale. Irrituale è dunque quella norma contestata della legge Alfano, non certo la lettera del Presidente.
Si vedrà ora in che modo la questione sarà risolta dal Parlamento, a cominciare dal Senato. Ma l´intervento del Quirinale, al di là del tema specifico, ne ha aperti altri.
Alcuni di carattere costituzionale che Napolitano non ha sollevato ma che tuttavia emergono chiaramente; altri di carattere politico che esulano dalla competenza del Quirinale ma che tuttavia sono ora sotto gli occhi dei partiti e della pubblica opinione.
I temi costituzionali sono due. Il primo, messo in rilievo dall´ex presidente della Corte, Valerio Onida, sta nel fatto che la legge Alfano colloca il Presidente del Consiglio sullo stesso piano del Presidente della Repubblica dal punto di vista del delicatissimo tema delle immunità, con la differenza che il primo è indicato nella scheda delle elezioni politiche sulla quale il "popolo sovrano" appone il proprio voto, mentre il secondo viene eletto dal Parlamento. Si crea in questo modo un sistema duale al vertice dello Stato nettamente sbilanciato a favore dell´inquilino di Palazzo Chigi che può vantare la sua investitura popolare declassando il Capo dello Stato ad un ruolo puramente notarile senz´altra prerogativa che quella di certificare l´autenticità degli atti sottoposti alla sua firma.
L´altro tema consiste nella differenza tra il concetto di immunità e quello di impunità (l´ha sottolineato anche Luca Ricolfi sulla Stampa). L´immunità sospende la procedibilità del titolare di una carica istituzionale nel periodo in cui esercita le sue funzioni e limitatamente ai reati che può aver commesso relativi a quelle funzioni.
L´impunità invece copre anche illeciti che non riguardano le funzioni ed è ripetitiva se la stessa persona passa dalla carica che ricopre ad altra egualmente "immune" raffigurando in tal modo un salvacondotto valido per molti e molti anni. Come non vedere dietro una siffatta normativa far capolino la maschera di Silvio Berlusconi? È accettabile un salvacondotto di questo genere, per di più in presenza di una legge elettorale come quella attuale che affida alla sua discrezione la scelta dei candidati con un meccanismo elettorale che assegna alla coalizione vincente anche per un solo voto un premio nazionale per la Camera e premi regionali al Senato? Queste considerazioni debbono esser state ben presenti al Presidente della Camera. Fini ha infatti dichiarato ieri sera che l´immunità prevista dalla legge Alfano non può essere reiterabile.
* * *
È evidente che lo scontro tra queste opposte visioni istituzionali avrà conseguenze politiche che sono già visibili. Bene ha fatto il Quirinale a sottolineare ieri che i rilievi del Presidente riguardano specifici aspetti della legge Alfano mentre lo scontro politico e le sue conseguenze sono del tutto estranee alla competenza del Capo dello Stato. All´attenzione delle forze politiche c´è ora con rinnovato vigore un dilemma fondamentale: lo stato di diritto o il comando di una persona, il popolo sovrano e i suoi rappresentanti liberamente scelti o la cricca e la casta che pensa per tutti e provvede per sé? Questa è la posta ed è inutile e deviante anteporre i problemi del paese a questi che sembrano invece temi da intellettualoidi e da politicanti autoreferenti. I problemi del paese ci sono ben presenti e ne parliamo di continuo; sono quelli del fisco, dei rapporti tra le forze sociali, del lavoro, dei rifiuti di Napoli, della corruzione, delle infrastrutture, della crescita economica, dell´Università e della ricerca. Li ha risolti da solo Berlusconi? Li ha risolti da solo Tremonti? Li ha risolti da solo Bertolaso?
O dobbiamo sperare in una Madonna pellegrina e lacrimante? Come mai dopo tanti anni di governo quei problemi sono diventati voragine? Parlare di essi derubricando quello che tutti li ha determinati e ne subordina la soluzione a quel Salvacondotto che è la sola cosa che importa, è un depistaggio in piena regola e come tale va definito.
* * *
Le conseguenze politiche riguardano soprattutto l´opposizione, quella di sinistra, quella di centro e quella finiana.
È evidente e non da ora che la posta in gioco è la Costituzione. Ma ora, con l´arrivo al pettine di tutti i nodi irrisolti, la partita è giunta alla sua svolta che implica un´emergenza oggettiva. L´emergenza soggettiva era quella predicata anzitempo, una sorta di "al lupo al lupo" quando il lupo era ancora sulla montagna. Adesso il lupo è sceso in pianura, pronto a divorare le pecore se pecore resteranno. Per questo dico che adesso l´emergenza è oggettiva e questo impone alcune riflessioni.
1. Per cambiare la legge elettorale ci vuole uno schieramento che unisca tutto il centro e tutta la sinistra.
2. Se si va alle elezioni con questa legge ci vuole egualmente uno schieramento elettorale che unisca tutto il centro (finiani compresi) e tutta la sinistra, altrimenti mancherebbero i numeri per essere competitivi con l´avversario.
3. Una cordata di quest´ampiezza avrà bisogno d´un leader che copra con la sua autorevolezza tutto l´arco delle forze alleate e possa rappresentare il minimo comun denominatore che non è poi tanto minimo: combattere mafie e corporazioni, rilanciare la crescita senza abbassare la guardia sulla finanza pubblica, garantire i diritti e far rispettare i doveri, tutelare i ceti deboli, i poveri, la pari dignità delle persone e le pari opportunità nel lavoro e nell´istruzione, dare alle forze sociali il ruolo che loro spetta a fronte dei sacrifici che la modernizzazione e la globalizzazione impongono. Vi sembra molto "minimo" questo denominatore?
4. Se questo progetto è accettato (ed è l´unico che può evitare una vittoria del berlusconismo per i prossimi nove anni) esso comporta che non vi siano veti da parte di nessuno e contro nessuno. È una sorta di lodo cui tutta l´opposizione è chiamata. Poi, passata la stretta tra Scilla e Cariddi, ognuno riprenderà la propria navigazione e il denominatore minimo cederà il passo ai denominatori massimi che ciascuna forza politica ha il diritto di proporsi e di proporre in libera competizione.
Ma oggi non siamo di fronte a una libera competizione, siamo di fronte appunto ad una concezione radicalmente diversa della democrazia e dello Stato. Questo è il salto. Chi non lo fa si perde e perde il paese.

Agenzia Radicale 23.10.10
Psychépolis
Difendersi da una "Cultura" che avvelena
di Flore Murard-Yovanovitch e Paolo Izzo

Questa settimana dovremmo prendercela un po' con tutti: Lucetta Scaraffia e Claudio Risé, Adriano Sofri e Francesco Piccolo, Elena Dusi e Carlo Picozza, e poi ancora Umberto Galimberti, Pietro Citati, Emanuele Severino e Umberto Eco. Sono decisamente troppi, non ce la faremmo in queste poche righe, ma ci proveremo comunque nelle prossime settimane, affrontandoli uno ad uno.
Per adesso li includiamo sotto una sola categoria, che a loro farà pure piacere, ma che a noi piace sempre meno per il suo alto contenuto di tossicità: CULTURA. Quella che ci viene propinata quotidianamente dai giornali; quella che ritiene di possedere in tasca ogni verità; quella che plagia, inculca, pedagogizza, didascalizza, pontifica, monopolizza, devia o cerca di deviare le nostre menti.
Ci vuole tanta resistenza e la certezza-esperienza di un'altra realtà umana, per rifiutare ogni mattina il martellamento di questa cultura dominante perversa, che ci vorrebbe tutti malati originariamente, dalla nascita. Tutti criminali e malefici peccatori, dall'origine. Controllati semmai dalla coscienza o dalla fede.
Una cultura che sguazza felice in un teorema catto-freudiano e che da decenni, se non da secoli e millenni, con l'ineluttabilità di una natura umana violenta, sancisce l'autorità delle istituzioni, sacre e non, che terrebbero a bada i nostri istinti animaleschi. Una cultura che, da qualsiasi angolo la si osservi, lavora instancabile per convincerci che il Male è dentro ognuno di noi, per prospettarci un destino di marionette obbedienti e identificate, per smarrire la creatività, la vitalità, la fantasia e la sanità degli esseri umani e soprattutto soprattutto convincerci che nessuna trasformazione sia possibile.