martedì 19 ottobre 2010

l’Unità 19.10.10
Bersani sfida Tremonti: fisco, questa la nostra riforma
di Simone Collini


Lettera al ministro «Discutiamo in Parlamento nuove aliquote e niente tasse per chi investe»
Un questionario fra 100 mila iscritti e militanti conferma il consenso per il segretario al 91%
Bersani replica anche a Casini, che all’indomani della manifestazione della Fiom ha chiesto al Pd di decidere con chi stare: «Senza i numeri del Pd l’alternativa a Berlusconi non si fa. Ognuno si prenda le sue responsabilità».

Si apre con «caro ministro» ma più che un’offerta di dialogo è un guanto di sfida. Pier Luigi Bersani ha scritto una lettera a Giulio Tremonti per chiedere un confronto in Parlamento sul fisco. «La più urgente fra le riforme è quella fiscale: alleggerire impresa, lavoro e redditi familiari per stimolare investimenti, consumi ed occupazione e richiamare risorse da una lotta efficace all’evasione fiscale e dal contributo della rendita». Il segretario del Pd non nasconde al ministro dell’Economia di non ritenere l’attuale governo in grado di produrre riforme e anzi ricorda che «troppo spesso il fisco è stato usato per la propaganda». Ma «davanti alla crisi servono fatti», e il Pd vuole discutere «nella sede giusta», cioè il Parlamento, le sue proposte di riforma fiscale. Quelle cioè approvate a Varese dall’Assemblea nazionale, che Bersani ha fatto recapitare a Tremonti. Due pagine in cui si propone la riduzione della prima aliquota dal 23 al 20%, il bonus figli per dipendenti e lavoratori autonomi, la detrazione fiscale per il reddito da lavoro delle donne in nuclei familiari con figli minori, l’azzeramento dell’Irpef per le aziende che reinvestono gli utili, la tassazione al 20% dei redditi da capitale, con l’eccezione dei titoli di Stato.
IL NODO ALLEANZE
Nessuna risposta da parte di Tremonti è per ora arrivata, ma Bersani è convinto che con questa iniziativa sia comunque possibile spostare la discussione su un tema concreto, che è l’unico modo per lavorare in modo proficuo sulle alleanze. In questa fase infatti l’operazione di accorciare le distanze tra le forze di opposizione, a cui si sta dedicando Bersani, si sta dimostrando molto complicata. All’indomani della manifestazione della Fiom, Casini ha detto che «l’Udc non
si allea con il Pd» se le sue posizioni sono quelle espresse a piazza San Giovanni. Parole in parte ammorbidite in un secondo momento: «Io non ho né chiuso né aperto al Pd, ho fatto solo un discorso di serietà. Chiedo che il Pd si assuma la responsabilità di decidere». Parole, insieme un appello a Enrico Letta a unirsi ai centristi (rispedite al mittente dal diretto interessato), che non hanno fatto piacere a Bersani: «Senza il progetto del Pd, le donne, gli uomini, e i numeri del Pd, l’alternativa a Berlusconi non si fa. Ognuno si prenda le sue responsabilità».
L’INDAGINE
Il segretario del Pd ne fa un discorso di oggettività ma gioca anche la carta dell’orgoglio di partito, soprattutto ora che sono arrivati al Nazareno i risultati di un’indagine condotta in collaborazione con la Swg. Nei giorni scorsi è stato inviato a oltre 100 mila persone, tra iscritti e partecipanti alle primarie, un sondaggio in cui si chiedeva una serie di giudizi sull’intervento di Bersani alla Festa di Torino e su questioni come il rinnovamento del gruppo dirigente. Hanno risposto in 20 mila (la regione da cui sono arrivate più risposte è la Lombardia, seconda l’Emilia Romagna) e il 91% di loro
ha giudicato positivo l’intervento di Bersani, il 77% si è detto d’accordo con la proposta del nuovo Ulivo, il 52% ha condiviso l’idea del sindaco di Firenze Matteo Renzi che bisogna cambiare gruppo dirigente, idee e linguaggio. Tra i dati accolti con soddisfazione da Bersani, soprattutto pensando a chi all’interno del partito ha lamentato l’abbandono dello spirito originario del Lingotto, c’è anche il giudizio sul progetto-Pd: i favorevoli sono passati dall’87% del 2009 al 94% del 2010.

Repubblica 19.10.10
Bersani a Casini: senza noi non si vince
E il leader dell´Udc: boccio la piazza Fiom, non il Pd. Fioroni va da Bonanni
di Alberto D’Argenio


D´Alema: probabile voto a primavera, Vendola non adatto a guidare il centrosinistra

ROMA - È ancora una volta la piazza a dividere Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini. Piazza che, oltretutto, continua ad alimentare frizioni e distinguo all´interno dello stesso Pd. Il tutto a soli due giorni dall´imponente manifestazione della Fiom di sabato a Roma alla quale hanno partecipato molti esponenti democratici, ma in assenza di un´adesione ufficiale del partito. Il leader centrista Casini dice che «se l´idea dell´opposizione è quella di creare un´alternativa partendo da piazza San Giovanni, allora siamo fritti». Inevitabile corollario: «Se queste sono le posizioni del Pd, l´Udc non si allea con i democratici, non ci sono dubbi in proposito». Per Casini la piazza «si ascolta, non si segue». Da qui l´appello «ai moderati di entrambi i poli» (Enrico Letta, Follini e Pisanu) ad unirsi. Al centro.
Parole pronunciate in un´intervista al Corriere e corrette nel pomeriggio, quando Casini spiega che in realtà non c´è una indisponibilità in assoluto ad una alleanza con il Pd: «La porta non è né aperta, né chiusa, ho fatto solo un discorso di serietà» di fronte agli slogan della manifestazione di sabato che «ci riportano direttamente agli anni ‘70». Ma ormai è troppo tardi e dai democratici è già partita la controffensiva. Su tutti è lo stesso Bersani a replicare ricordando a Casini (il quale nella strategia del segretario democratico dovrebbe entrare in una coalizione comprendente anche Vendola) che «senza i numeri del Pd non c´è alternativa a Berlusconi. Ognuno si assuma le sue responsabilità». E a chi gli chiede se l´Udc voglia strappare Enrico Letta ai democratici, risponde con una battuta calcistica: «È più facile prendere Messi...». In realtà il Pd, assicura, «ha la sua testa e le sue gambe per camminare, ha le sue manifestazioni e a novembre incontreremo milioni di persone con il porta a porta». Reagisce anche Vendola, leader di Sel, dicendo che «non è proprio detto che i moderati debbano avere la testa del cambiamento, anche se le loro culture e quelle di sinistra devono convergere per trovare un programma riformatore». Insomma, per il governatore pugliese Casini parla di «alleanze o coalizioni astratte, metafisiche. Io voglio allearmi con tutte le persone di buona volontà che vogliono liberare l´Italia dal berlusconismo».
Ma Vendola nella versione aspirante leader del centrosinistra viene bocciato da Massimo D´Alema, che a Otto e mezzo a chi gli chiede se possa vincere le primarie risponde: «Non lo so. Non mi sembrerebbe ragionevole perché non mi pare che sia la personalità più adatta a guidare una coalizione di centrosinistra. Poi cosa accadrà non lo so. Competitivo è competitivo, ma penso che noi siamo in grado di dare una risposta assai più convincente». Quel che al presidente del Copasir appare invece «probabile» è che a primavera si voti anche se, aggiunge, prima sarebbe più giusto fare la riforma della legge elettorale. Poi parla della manifestazione della Fiom e definisce «la criminalizzazione di Maroni», che aveva lanciato l´allarme sul rischio scontri, «un atto di irresponsabilità da parte del governo», così come erano «sbagliati» alcuni cartelli di piazza San Giovanni contro la Cisl «perché dovevano essere rivolti contro il governo e non contro un altro sindacato»
Intanto oggi 35 parlamentari ex popolari del Pd guidati da Beppe Fioroni saranno in via Po alla Cisl per «un gesto di solidarietà» nei confronti del sindacato guidato da Raffaele Bonanni, le cui sedi nelle ultime settimane sono diventate bersaglio di lanci di uova e scritte offensive. Una mossa che secondo alcuni osservatori potrebbe preludere a futuri spostamenti politici.
E intanto filtra la notizia che da qualche giorno militari in mimetica armati con mitra sono stati schierati in presidi permanenti davanti alle sedi nazionali di Cgil, Cisl e Uil.

Corriere della Sera 19.10.10
Fioroni: impedirò che il partito scivoli a sinistra
intervista di Maria Teresa Meli


L’esponente dell’ala cattolica oggi incontrerà Bonanni: «Colpito dal silenzio dopo gli attacchi contro di lui»

ROMA — Beppe Fioroni, responsabile Welfare del Partito democratico, oggi a mezzogiorno sarà alla Cisl, con gli ex popolari della corrente dei 75, per dare la sua solidarietà al leader sindacale Raffaele Bonanni.
Onorevole, qual è lo scopo di questa sua visita?
«Mi ha colpito il fatto che la maggior parte degli striscioni alla manifestazione della Fiom fossero contro la Uil, la Cisl e il suo segretario. E mi ha colpito ancora di più il silenzio assordante dei dirigenti che hanno organizzato quell’iniziativa e che non hanno condannato pubblicamente gli assalti alla Cisl. Per questa ragione abbiamo sentito il bisogno di un incontro con Bonanni» .
Fioroni, a proposito di quella manifestazione, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini ha detto al «Corriere» che non potrà mai allearsi con «questo Pd» che non sa scegliere tra piazza e riformismo.
«Casini si tranquillizzi: il ruolo dei cattolici con la schiena dritta che evitano che il Partito democratico scivoli verso la sinistra lo assolviamo noi, lui non si preoccupi, che grazie agli ex ppi del Pd i suoi elettori non si spaventeranno».
Voi ex popolari che fate parte della corrente dei 75?
«Certo, siamo noi, con la nostra presenza e la nostra iniziativa, che evitiamo che i moderati scappino dal Partito democratico. Il rischio, oggettivamene, c’è, però saremo noi a garantire che non vi sarà nessuna riedizione del Pci. Ma non vorrei che in realtà Casini, con quelle parole, voglia dire qualche altra cosa. E cioè che il Pd deve fare la gamba di sinistra, mentre a fare il centro ci pensano lui e il suo partito. Peraltro, questo è uno schema vecchio, che non è utile per battere Berlusconi».
Dica la verità, Fioroni, lei adesso sta parlando a nuora perché suocera, ossia Bersani, intenda. «Logico». Torniamo alla manifestazione: lei darà la sua solidarietà a Bonanni, ma, nonostante gli slogan e gli striscioni, quella del 16 ottobre era una piazza pacifica.
«E le piazze pacifiche meritano sempre attenzione. Il problema di quella manifestazione era la presenza di formazioni che, anche nel recente passato, si sono rese protagoniste di episodi di violenza».
C’è chi ha ammonito il Partito democratico invitandolo a non cadere nel collateralismo dei tempi passati.
«Sa qual è il problema? Se la Cisl e la Uil vanno in piazza non ci chiedono di partecipare e noi, per parte nostra, non sentiamo il richiamo della foresta. Se invece manifestano la Cgil e la Fiom quel richiamo scatta subito. È legittimo che partiti ed esponenti politici scendano in piazza, ma quello che dobbiamo assolutamente evitare è il collateralismo, che, tra l’altro, fa un danno al sindacato». E anche ai partiti, si suppone. «Chiaramente. Le finalità del sindacato, di un qualunque sindacato, sono di fare i contratti e gli accordi. Per raggiungere questi obiettivi il sindacato può usare come forma di lotta il conflitto sociale. Un partito, invece, non può fondare la propria azione politica sul conflitto sociale, perché il conflitto genera divisione e non realizza l’obiettivo principale di una forza politica che è quello di governare un Paese unito e sereno. E ancora: il Pd ha sicuramente il dovere di ascoltare il disagio della piazza del 16 ottobre, ma deve avere anche la consapevolezza che la centralità del lavoro riguarda tutti: occupati, precari, disoccupati, dipendenti, autonomi, professionisti, commercianti, artigiani, cooperatori, perché un partito che si candida a governare il Paese non può limitarsi a rappresentare una sola parte».

il Fatto 19.10.10
La sfida di Landini
“Ci battiamo per cambiare la Cgil”
Nella Fiom da quando aveva 15 anni, pensa a una svolta tutta sindacale
di Salvatore Cannavò


“Sei stato bravo,    tranne per quella frase finale...”. L’elogio critico sussurrato dal numero uno della Cgil Guglielmo Epifani al segretario generale della Fiom, Maurizio Landini al termine del comizio di piazza San Giovanni, culminato sabato scorso nella richiesta di sciopero generale fotografa perfettamente il momento particolare del maggiore sindacato italiano. Alla vigilia dell’insediamento al vertice di Susanna Camusso molti osservatori, colpiti dall’efficacia di Landini, e dal colpo a effetto con cui ha costretto la Cgil a dire sì allo sciopero generale, si chiedono se non siamo di fronte a un rovesciamento del quadro: la Fiom che esce dall’angolo dell’estremismo storicamente residuale e impone la linea ai fratelli maggiori. Landini non aggira l’ostacolo: “Noi non ci muoviamo mai pensando solo ai metalmeccanici ma con un pensiero generale che per sua natura è confederale. La Cgil ovviamente può cambiare, noi ci battiamo perché cambi anche perché abbiamo assolutamente bisogno di cambiare”. Con tutto ciò la scommessa del quarantanovenne saldatore di Reggio Emilia è chiara: deve imporre il suo linguaggio tutto sindacale a un’organizzazione abituata alla tradizione tutta politica di padri nobili come il predecessore Gianni Rinaldini (suo concittadino e “fratello maggiore”) e Giorgio Cremaschi.
CHI LO CONOSCE bene sa che il consenso che conta, per Landini, è quello della “sua” organizzazione, del sindacato di cui è figlio e debitore. Non solo perché nella Fiom c’è cresciuto, da quando si iscrisse all’età di 15 anni, quando ha cominciato a fare il saldatore. Ma anche perché il lavoro fin dall’adolescenza e le scuole superiori saltate lo rendono diverso da gran parte del ceto politico e sindacale. Un autodidatta che si identifica totalmente nella dimensione sindacale. “La storia del partito Fiom non esiste”, spiega convinto, “è una schiocchezza che nasconde il vero problema: come fa la sinistra a rappresentare il lavoro? Noi non ci sostituiamo alla politica”.
La forza del comizio di piazza San Giovanni, se lo si ripercorre fino in fondo, non sta in abili trovate retoriche ma nella solidità degli argomenti, nella linearità dell’analisi. E soprattutto nella certezza di stare sul palco a rappresentare un’organizzazione forte, articolata sul territorio, ancora ben organizzata a differenza di altre realtà sindacali in declino. In un mondo politico zeppo di leader senza popolo o sopra il popolo, Landini è “l’espressione coerente dell’organizzazione”. E quando ha detto nel discorso conclusivo: “Se siamo qui non è nemmeno merito della sola Fiom ma degli operai di Pomigliano che hanno avuto la forza di dire no”, più che la battuta retorica ha cercato di rivendicare l’autentico radicamento della sua organizzazione.
A DIFFERENZA dei predecessori Claudio Sabattini e Rinaldini, Landini è anche figlio di un sindacato che negli ultimi vent’anni ha conosciuto solo sconfitte e quasi mai vittorie, costretto a resistere e fare i conti con la spoliticizzazione che si è riversata anche nel sindacato. Con lui la Fiom deve fare i conti con la scomparsa della sinistra e con le disillusioni di un’epoca. Per questo fa presa sul popolo Fiom la sua voglia di ripartire proprio dal sindacato per ricostruire l’identità operaia e del lavoro, e per tentare la strada delle trasformazioni sociali. Per un’impresa del genere puoi affidarti o all’arte della politica-spettacolo oppure alla solidità dei tuoi rapporti interni. La strada scelta da Landini è la seconda. Lui scommette su questa organizzazione un po’ speciale che è la Fiom, un po’ squadra, un po’ famiglia, collettivo politico e umano tenuto insieme dalla figura un po’ mitizzata dell’operaio metalmeccanico.
Per questo sabato scorso si è fatto il giro dei due cortei in modo meticoloso, cercando di incontrare tutti, abbracciare tutti, e ricordare di essere uno di loro, uno della Fiom, un operaio che fa provvisoriamente il segretario generale. Per questo quando c’è un problema parte da Roma e va a farsi vedere dove serve: a Melfi, per i licenziamenti in Fiat, a Pomigliano, per la vertenza con Sergio Marchionne, a Torino, alla Fincantieri. Ieri era all’Università a parlare agli studenti, che lo hanno accolto come un eroe. Con i media invece è attento a non esagerare, e si concede la metà di quanto sarebbe richiesto. Non è per timidezza, ma per non farsi trascinare dalle bolle mediatiche, che alla lunga possono fare molto male. “Stiamo con i piedi per terra”, ripete ai suoi quando qualcuno lo riconosce per strada e gli grida “bravo Landini”.
E POI C’È L’ORGOGLIO
operaio. Landini è stato sempre dalla Fiom, non ha fatto il giro delle organizzazioni, non ha diretto pezzi di Cgil, sempre e solo la Fiom. Ma alla Cgil ci tiene. Quando si è messo accanto a Epifani, sul palco di San Giovanni, di fronte ai fischi della piazza e alle richieste di sciopero generale, non l’ha fatto per una semplice cortesia, ma per ricordare a tutti che quello che parlava era comunque anche il suo segretario generale. E molti di quelli che hanno visto le immagini, in piazza o in video, si saranno chiesti se non si stia preparando un futuro in cui il più grande sindacato italiano possa cercare il suo leader proprio tra gli “estremisti” della Fiom.

l’Unità 19.10.10
Francia bloccata dalla protesta Oggi la grande sfida a Sarkozy
Il fronte contrario all’innalzamento dell’età pensionabile si estende. Ieri sono entrati in campo i camionisti fortemente penalizzati dalla nuova legge voluta dal presidente. Sarkozy tira dritto: riforma essenziale.
di Luca Sebastiani


La settimana decisiva per le sorti della riforma delle pensioni si è aperta con toni più radicali. Da una parte e dall’altra. Se il governo ha accentuato la linea della fermezza, i sindacati hanno fatto salire l’intensità della protesta. Alla vigilia della giornata di protesta che oggi, per la sesta volta da settembre, porterà in strada centinaia di migliaia di lavoratori, ieri il movimento ha calcato la mano sulla strategia della paralisi. Le rassicurazioni del ministro dei Trasporti Dominique Bussereau, che ancora in mattinata parlava di una situazione sotto controllo, stonava infatti con le file di automobilisti alle pompe. Frutto del timore diffuso di restare a secco a causa del perdurare della lotta contro la riforma di Sarkozy. Lo sciopero che da venerdì paralizza le 12 raffinerie francesi e il blocco dei depositi ha già provocato la fine della benzina per un migliaio di stazioni di servizio (su 12mila in totale). E se l’oleodotto che approvvigionava gli aeroporti parigini ha ripreso a funzionare scongiurando il caos aereo, a confortare il timore della penuria ci si sono messi invece i camionisti, che da ieri sono ufficialmente entrati in azione.
Come preannunciato, tutta la giornata è stata caratterizzata da blocchi del traffico, barriere filtranti e operazioni lumaca che hanno determinato file e ingorghi nei pressi delle zone industriali e delle città. Gli automobilisti si sono fatti chilometri di fila a Parigi e Lille, e molto probabilmente, avvertono i sindacati, nei prossimi giorni andrà peggio perché i trasportatori s’impegneranno ancor di più nel movimento. Loro sono tra i più penalizzati dall’innalzamento dell’età pensionabile. Si tratta di un lavoro usurante, e, dice la Cfdt, la seconda confederazione di Francia, «il governo non ha voluto tenerne conto e ora si prende la mobilitazione dei trasportatori». Domenica sera, in prima serata, il premier aveva fatto la voce grossa alla tivù, affermando che «non ci sarà penuria di carburante, perché non lascerò che l’economia soffochi». Se François Fillon può mandare le forze dell’ordine a liberare qualche stock di carburante occupato dai manifestanti, poco può, però, contro le azioni dei trasportatori. Tanto che ieri il ministro dell’Interno Brice Hortefeux, invece di continuare a negare l’emergenza, ha saggiamente messo in piedi una cellula di crisi per monitorare ventiquattrore su ventiquattro ogni ettolitro di carburante presente sul territorio.
TENSIONE NELLE SCUOLE
Nei licei la situazione non cambia, ma cresce la tensione con le forze dell’ordine. Anche ieri le scuole occupate erano tra le 260 contate dal ministero dell’Educazione e le 850 dichiarate dei sindacati studenteschi, mentre si sono moltiplicati gli scontri, fortunatamente senza feriti. Se da una parte i liceali denunciano «l’immaturità» del governo che manda le la celere di fronte ai quindicenni, dall’altra la polizia punta il dito contro le infiltrazioni dei casseurs. Ieri ne sono stati fermati 160 dopo che avevo dato fuoco ad auto e cassonetti. «Non c’è nessun motivo per cui fermare il movimento», hanno dichiarato le organizzazioni degli studenti. Con l’assenso dell’opinione pubblica (il 71% di favorevoli per i sondaggi), oggi aumenteranno i disagi nei trasporti pubblici, le ferrovie e negli aeroporti, ma il governo, come ha ripetuto Fillon con fermezza, concluderà l’iter della riforma che porta da 60 a 62 l’età pensionabile. Mercoledì il Senato dovrebbe varare il testo, ma per l’Eliseo sarà giovedì la vera giornata decisiva, quando i sindacati dovranno decidere il da farsi. Tra confederazioni che vogliono proseguire la mobilitazione e altre che vorrebbero rendere le armi, l’unità sindacale potrebbe infatti saltare in aria.

il Fatto 19.10.10
Il Quirinale contro i tagli del governo all’università
di Caterina Perniconi


L a    piccola piazza dei Cavalieri, davanti all’ingresso della Scuola Normale di Pisa, è piena di persone già dalla mattina presto. Ci sono i ricercatori col lutto al braccio, gli studenti, dietro allo striscione “il futuro non ci aspetta”,
molti precari. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, arriva poco dopo le undici, per celebrare il bicentenario dell’università, e prova a rassicurarli: “Condivido la forte preoccupazione di studenti e docenti per le difficili condizioni del sistema universitario che nessuno può fingere di ignorare”. Difficile però spiegare perché a quei ragazzi che qualcuno il futuro glielo sta rubando. Tagliando gli investimenti sull’istruzione, riducendo i diritti sul lavoro, precarizzando una generazione. “Conto sul vostro sentimento di responsabilità, al di là di ogni momento di comprensibile frustrazione”, ha detto il Capo dello Stato, interpretando i sentimenti di chi non ce la fa più. “Senza interferire sulle decisioni del governo e sulle discussioni parlamentari – ha continuato Napolitano – sento di dover riaffermare, e non cesserò di farlo, che occorre rafforzare il rilievo prioritario che va attribuito, non a parole ma con i fatti, alla ricerca, all’alta formazione e dunque all’università”.
UN RILIEVO che questo governo ha scelto di non dare, tagliando un miliardo e trecento milioni all’università, e aprendo le porte dell’istruzione a una deriva aziendalistica. Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, non ha commentato le parole di Napolitano. In un’intervista a Repubblica ieri mattina aveva detto di essere “amareggiata per quello che è accaduto”, ma fiduciosa perché “Tremonti ha promesso che i soldi per l’università ci saranno con il decreto milleproproghe ed io mi fido della sua parola”. Peccato che due righe dopo abbia accusato i sindacati e la sinistra di “illudere i giovani facendo credere loro che il problema siano i tagli”. Per il ministro il problema sono gli sprechi, per gli studenti, invece, sono proprio i tagli. Perché i soldi non sprecati possono sì essere reimpiegati, ma se le risorse vengono ridotte, con quali forze si investe sul futuro?
“Il ruolo strategico della ricerca e della formazione non può essere a lungo negato e contraddetto – ha spiegato il Capo dello Stato – si imporrà, ne sono certo, al di là di ogni temporanea miopia” aggiungendo un appello “a tutte le forze politiche e sociali a riflettere con lungimiranza su questo punto”.
NAPOLITANO ha ricordato che l’importanza della formazione per assicurare all’Italia e all’Europa “uno sviluppo coerente con il patrimonio di civiltà che rappresentano e in grado di reggere alle sfide di un mondo in radicale mutamento”.
“Ancora una volta il presidente della Repubblica esprime preoccupazione per lo stato dell’università e la ricerca italiana – ha commentato l’Unione degli studenti – e anche questa volta si è mostrato una persona di grande ascolto e sensibilità. La Gelmini, invece di etichettare qualsiasi critica come minoritaria o ideologica dovrebbe prendere esempio dal capo dello Stato, anche perchè, visto il suo comportamento, l’unica ideologica che non vuole ascoltare le preoccupazioni e le critiche che provengono da tutto il mondo accademico è lei”.
“Il Governo ascolti il monito del presidente Napolitano e passi dalle parole ai fatti” ha chiesto la capogruppo democratica nella commissione Cultura di Montecitorio, Manuela Ghizzoni. “La manovra finanziaria è il banco di prova per verificare se il governo ha veramente intenzione di restituire i fondi alle università e avviare un serio piano di investimento. Come ha mostrato l’esame parlamentare del ddl Gelmini non è possibile parlare di riforme se queste sono prive di coperture finanziarie. Dal governo pretendiamo chiarezza”. É stata proprio la mancanza di copertura a far sì che la riforma venisse bocciata dalla Ragioneria generale dello Stato, costringendo il ministro Gelmini a rimandare la discussione in aula a Montecitorio di almeno un mese.
“LE PAROLE del presidente della Repubblica sono una bocciatura senza appello per i ministri che stanno affossando l’università italiana, Tremonti e Gelmini” ha commentato il presidente del gruppo Idv alla Camera, Massimo Donadi. “Il governo – ha aggiunto Donadi – sta tagliano in tutti i settori, anche in quelli fondamentali per rilanciare il paese, come l'Università e la ricerca. Una politica miope che condanna l’Italia alla marginalità perchè un Paese che non investe sulla formazione delle giovani generazioni mette una pesante ipoteca sul proprio futuro”.

il Fatto 19.10.10
Lettera agli amici ebrei
di Maurizio Chierici


O gni volta che la pace si affaccia in fondo al Mediterraneo qualcosa o qualcuno la manda all’aria. Mi rivolgo agli ebrei italiani reduci dall’orrore che accompagna per sempre la nostra vergogna. Ne conservano la memoria come ammonimento; diaspora intelligente, pacifica e di buona volontà. Ha sofferto nell’Europa nera e il ricordare resta l’impegno che aiuta a scongiurare altre sofferenze. Sono la coscienza critica di una patria inseguita nella storia, ideale ma anche reale con la doppia nazionalità di un rifugio aperto. Allora, come evitare ad ogni ebreo del mondo il rigurgito avvelenato di chi specula sul dolore dei palestinesi? Dal 1919 Haaretz racconta ogni mattina la storia del paese; quotidiano liberal dalla parte dei lettori. Sei mesi fa denunciava il razzismo che avvelena “una città elegante come Milano”. Non solo la Lega, ma la disattenzione della signora Moratti: finanzia il torneo di calcio in onore di Sergio Ramelli, fascista bomba e moschetto, assassinato dalla stupidità criminale dell’altro estremismo mentre precipita la deriva dei politici italiani verso una xenofobia senza ritorno. Adesso Israele impallidisce nell’autoritarismo che riapre la memoria di ogni ebreo. Emarginazione, espropriazioni, deportazioni senza diritti quando la religione diventa l’alibi che trasforma le persone in oggetti da trascinare come birilli. E Gideon Levy, direzione Haaretz, vuol sapere dal suo primo ministro Netanyahu se costruire attorno a Gerusalemme (su terreni di famiglie palestinesi allontanate con forza) 238 appartamenti dove insediare coloni ebrei; vuol sapere se la decisione che rompe il cammino della pacificazione, annuncia un Israele “etnocratico, teocratico, nazionalista e razzista”. La nuova legge impone ai cittadini non israeliani il giuramento di fedeltà allo Stato ebraico. “Non riguarda solo loro, avrà effetto su tutti noi. Provoca la minoranza arabo-israeliana allargandone il distacco dal paese nel quale vive da sempre finché un bel giorno arriva il momento di spingerla fuori”. Levy ricorda che l’Associazione per i diritti civili lancia l’allarme sui giuramenti di fedeltà decisi dal governo. Giuramenti per deputati, produttori cinematografici, società senza fini di lucro quindi pericolosissime perché nutrite da ideali che non pretendono il potere. Come evitare nuove tragedie alle porte di casa? Mi rivolgo agli amici milanesi di religione ebraica con i quali condivido le speranze di una pace normale nella terra promessa; amici che insegnano, studiano e si inquietano davanti al razzismo senza maschera delle leghe. Rompete il silenzio. Solo voi potete aiutare le voci civili che tremano a Gerusalemme. Nessun altro. Non i manichini agli ordini di Berlusconi; non le proteste nelle quali può strisciare il razzismo che confonde le colpe di un governo con la trasparenza dei cittadini travolti dalla loro destra estrema. Lieberman, ministro degli Esteri, rimpicciolisce Borghezio in un sacrestano moderato quando “minaccia di annegare ogni traccia di democrazia. Finiremo per ritrovarci in uno Stato ebraico la cui natura nessuno capisce ma che non sarà democratica”: sempre Levy. Solo gli ebrei della diaspora possono svegliare la minoranza silenziosa di Israele la quale osserva senza alzare il dito perché le strategie internazionali non lo consigliano. Opportunismo fatale. A dar mano ai falchi le prediche dei paranoici attorno. Non solo l’estremismo arabo contrario al dialogo: 40 anni di emarginazione trasformano guerriglia e terrorismo in una professione pagata dal signore che, profeta delle sciagure, predica sul confine tra Libano e Israele. L’Ahmadinejad che nega l’Olocausto diventa l’alibi al quale si aggrappano gli opportunisti di ogni Medio Oriente. Rompono le prove di pace di un Obama debolissimo impegnato a tamponare le elezioni di mezzo mandato. Scelta di tempo perfetta: Casa Bianca provvisoriamente nell’angolo mentre Ahmadinejad e Netanyahu sfidano il futuro con l’arroganza del populismo dei ricatti. Gli ebrei della diaspora non possono ormai tacere.

Repubblica 19.10.10
I due imperi
Benvenuti nel nuovo mondo dove la Cina batte l'America
Si chiama "Occidente estremo" ed è il nuovo libro di Rampini che spiega gli scenari del futuro. Tra rischi e scommesse
di Lucio Caracciolo


Abbiamo voluto credere di vivere una crisi globale. Di fatto, sperimentiamo la crisi dell´Occidente. Destinata ad accelerare lo spostamento del baricentro mondiale verso l´Oriente asiatico. Osservare insieme la ritirata degli Stati Uniti e l´avanzata della Cina è la prospettiva scelta da Federico Rampini, corrispondente di Repubblica da New York e, in precedenza, da San Francisco e da Pechino. Tale somma di esperienze dirette e prolungate consente a Rampini di tracciare nel suo ultimo saggio, Occidente estremo (Mondadori, pagg. 324, euro 18), la parabola apparentemente inarrestabile del cambio al vertice del pianeta, che dovrebbe consumarsi entro la metà del secolo.
Un viaggio affascinante nelle dinamiche della storia che si sta compiendo sotto i nostri occhi, a un ritmo troppo accelerato per non generare smarrimento. Questo libro ci aiuta a cogliere l´essenza del cambiamento in corso. Ne ferma i caratteri di fondo, offrendone un´interpretazione spesso sorprendente, chiara ma non semplicistica né consolatoria. Perché Rampini non si ferma a definire il quadro entro cui misurare il declino americano e la rimonta cinese, ne rileva i chiaroscuri che complicano e rendono meno prevedibile il parallelismo fra declino della potenza americana e ascesa dell´impero cinese. E ci lasciano, forse, qualche speranza.
La penna di Rampini coglie le opposte dinamiche che si fronteggiano sui due lati del Pacifico attraverso agili ritratti dal vivo di ciò che si muove nella pancia delle potenze in competizione. A cominciare dal penoso impatto con una pachidermica signora al Lincoln Plaza Cinema, emblema di una patologia nazionale (che invero tocca anche i figli unici della Cina arricchita): l´obesità. Da cui deriva la diffusione di massa del diabete e delle malattie cardiovascolari, con relativa esplosione dei costi sanitari (un aumento di 344 miliardi di dollari l´anno solo per queste patologie). Secondo Rampini, «l´obesità è la rappresentazione plastica di una società dei consumi dilatata, appesantita, oberata, malata, impazzita. Un materialismo ipertrofico, autodistruttivo, sempre sull´orlo di un collasso mortale».
Restando nella colonna negativa, Rampini nota che la miracolosa crescita della produttività americana negli ultimi anni non ha nulla di sano, giacché deriva dalla paura. L´istinto di sopravvivenza spinge i lavoratori a produrre di più, per non fare la fine del collega licenziato o prepensionato. È il multi-tasking, per cui si fanno due o tre cose contemporaneamente. Dunque peggio e con più stress: «Spremere l´essere umano fino ai suoi limiti estremi ha delle conseguenze micidiali».
Allo stesso tempo, il tramonto dell´America è illuminato da mille affascinanti colori. Quasi che la coscienza del declino esaltasse la vitalità della società a stelle e strisce, mai così ricca di idee, di progetti, di inventiva. E forte di una demografia promettente. Nel 2050 dovrebbero esserci 400 milioni di americani, di cui 350 meno che sessantacinquenni. Il contrario della tendenza europea – ma anche di quella cinese. Il nostro continente e l´Impero di Mezzo saranno ospizi quando il Nuovo Mondo ribollirà ancora di fresche energie.
In questa prospettiva acquistano senso le nuove vie del capitalismo americano. È il caso dell´"imprenditoria sociale", che sposa efficienza e attenzione al principio di eguaglianza. L´obiettivo è così descritto dal suo guru, Stephen Goldsmith, con accenti che da noi suonerebbero socialdemocratici: «In una fase di crisi, tutti sono capaci di tagliare i costi peggiorando la qualità dei servizi sociali. La vera sfida è spendere meno e avere un ambiente più pulito, scuole migliori, trasporti che funzionano».
Quando l´indagine si concentra sulla Cina, Rampini ha cura di presentarne non solo i noti successi, ma anche le ombre che cominciano a oscurarne l´orizzonte. Resta forte, ad esempio, il gap con l´Occidente nell´istruzione universitaria, dunque nell´innovazione e nella scienza. Certo, Pechino si sta aprendo, fra mille contraddizioni, a un dibattito pubblico meno stereotipato. Per accettare il valore del pensiero critico, e fruire del suo impatto dinamico nella società e nell´economia, ci vorrà però molto tempo. Sempre che qualche catastrofe non riporti indietro le lancette dell´orologio. La Cina ha probabilmente vent´anni per aprire il suo sistema politico, sociale ed educativo alla competizione più o meno libera e alla critica. Dunque all´innovazione. Dopodiché, il vantaggio finora accumulato nell´industria manifatturiera grazie al basso costo del lavoro sarà evaporato.
Accompagnandoci nelle frontiere inquiete dell´impero, dal Tibet al Xinjiang, l´autore ne illumina la fragilità geopolitica. Le repressioni di Pechino si spiegano anche con la coscienza di tale debolezza. Quanto al dissenso politico, in Cina è affare di esigue minoranze. Difficilmente il Premio Nobel a Liu Xiaobo lo rafforzerà, anche se il nervosismo delle autorità cinesi rischia paradossalmente di alimentarlo.
La maggiore e per noi più pericolosa novità della crisi economica in corso sta però nel fatto che il capitalismo autoritario cinese è ormai un modello per leader e popoli asiatici, africani, sudamericani. Un giorno, forse, anche per gli occidentali. A quel punto sì, potremo dire che l´Occidente è finito. E con esso i suoi valori.

Corriere della Sera 19.10.10
La coscienza? Si può misurare
intervista a Giulio Tononi di Massimo Piattelli-Palmarini


Intervista allo studioso italiano che sta lavorando negli Usa a un «registratore» delle nostre emozioni
Tononi: con una macchina inseguo grado e qualità della consapevolezza

Ciò che il neuropsichiatra italiano Giulio Tononi, da anni professore all’Università del Wisconsin, si prefigge di realizzare può essere riassunto in una sola, strana, parola: un coscienziometro. Pensiamolo pure come una macchinetta che misura il grado di coscienza in un soggetto umano. Zero per cento è assoluta assenza di ogni coscienza, 100% lo stato di coscienza pieno, quello in cui sono io che adesso sto scrivendo e quello in cui siete voi che adesso state leggendo. Ovviamente tutto l’interesse dell’impresa di Tononi e collaboratori sta nello studio e nella misurazione dei gradi intermedi. Per esempio, quelli che insorgono nei vari stadi del sonno e del sogno, nell’anestesia parziale o totale, in vari stati patologici vegetativi e negli stati indotti appositamente mediante la cosiddetta stimolazione magnetica transcranica, un registrati quando si inviano impulsi magnetici dall’esterno, mediante la stimolazione magnetica transcranica. Sia nel primo sonno che sotto l’effetto del midazolam, questi impulsi esterni producono reazioni cerebrali solo locali e di breve durata, a differenza di quelle assai più diffuse e sostenute registrate durante la veglia.
In un «manifesto» sulla coscienza «in quanto informazione integrata», ricco di modelli matematici, pubblicato due anni fa da Tononi nel Biological Bulletin, si legge che ciascuno sa cos’è la coscienza, ma capirla a fondo resta per adesso al di fuori dei limiti della scienza. Beh, il suo manifesto si qualifica come «provvisorio», ma sottolinea l’importanza capitale dell’integrazione dell’informazione come chiave della coscienza. Tononi usa un termine del gergo filosofico, un termine preso dal latino: i qualia, cioè la sensazione intima, cosciente, di avere, ad esempio, l’esperienza di una luce che si accende. I qualia sono la luminosità della luce, il rossore del rosso, la dolorosità del dolore, la sonorità di un suono e così via. Nessuna macchina, nessun computer, per quanto sofisticati, sentono dentro di loro tali qualità, anche se possono registrare colori o suoni, ma non, appunto, provare dolore. La differenza sta tutta, mi dice Tononi, nel tipo particolare di complessità che caratterizza gli esseri umani e magari anche, in modo ridotto, altre specie.
«Il cervelletto — precisa Tononi — ha circa 50 miliardi di neuroni, più dei circa 30 della corteccia cerebrale. La complessità biochimica e l’intrico di contatti neuronali sono del tutto comparabili. Ma bloccando il cervelletto si preserva la coscienza, mentre alterando la corteccia no. La chiave è l’enorme numero e i tipi di stati interni diversi tra i quali la corteccia può discriminare, la ricchezza del suo spazio di informazioni e il modo in cui queste sono integrate». Gli chiedo se la sincronizzazione tra gli impulsi nervosi sia, come molti sostengono, la chiave della coscienza. «No — controbatte Tononi —, è solo un correlato della coscienza, interessante, certo, ma non è la chiave di volta. Nelle crisi epilettiche c’è enorme sincronizzazione, addirittura ipersincronizzazione, ma la coscienza svanisce». Intervisto anche un altro esperto, Stuart Hameroff, capo di anestesiologia all’ospedale universitario dell’Arizona e direttore del centro di studi sulla coscienza, che tiene a Tucson un megaconvegno internazionale sulla coscienza. Dissente da Tononi su diversi punti. La chiave della coscienza non sta in tanti contatti tra tanti neuroni. Chiedo a Tononi quando ha cominciato a occuparsi della coscienza. «Da quando ero al liceo». Cosa progetta di fare adesso? Studiare meglio i pazienti in stati vegetativi e semivegetativi e abbordare il problema anche al livello dell’evoluzione della coscienza, come stato evolutivo adattativo in altre specie. La fotocellula ha due soli stati: luce e non luce. Noi abbiamo dentro migliaia di miliardi di stati, per questo avvertiamo la luminosità della luce e la sonorità del suono.

Repubblica 19.10.10
Egoisti e vendicativi? Deficit di serotonina
di Francesco Bottaccioli


Sulla rivista scientifica Pnas uno studio sperimentale dimostra che l´aumento del neurotrasmettitore cerebrale permette una maggiore disposizione a non danneggiare gli altri. Ma anche il cibo influenza. Soprattutto le donne

Sull´autorevole Pnas è stato da poco pubblicato uno studio sperimentale su volontari sani che dimostra che l´aumento di serotonina nel cervello aumenta anche la disposizione individuale a non danneggiare gli altri. La serotonina è un neurotrasmettitore che viene prodotto da neuroni collocati nell´intestino e nel cervello. La produzione cerebrale di serotonina è modesta (su 100 molecole di serotonina, 95 sono prodotte dalla pancia e lì agiscono), ma rilevante per le molteplici funzioni che svolge, tra cui il controllo della risposta di stress e il mantenimento del tono dell´umore.
In passato, era stato dimostrato che un deficit di serotonina cerebrale si accompagna a comportamenti violenti e di scarsa tolleranza verso situazioni stressanti. Lo studio attuale (Università di Cambridge e di Harvard) fa una verifica al contrario: cosa avviene se si potenzia la serotonina tramite un farmaco? Tre i gruppi di volontari: ad uno è stato somministrato citalopram (classico antidepressivo che aumenta la disponibilità di serotonina), ad un altro un farmaco che potenzia la noradrenalina, a un terzo gruppo una pillola placebo. Valutazione in base ai test, tra cui il cosiddetto gioco dell´ultimatum. Questo test si basa su una regola: potrai incassare una somma di denaro solo se otterrai l´assenso di un´altra persona a ricevere una quota di somma che tu proponi. Si è visto che se l´offerta non è superiore al 30% della somma, questa viene rifiutata, con il risultato che entrambi non ricevono niente. Non un freddo calcolo, ma un giudizio morale: sarebbe disonesto offrire troppo poco, così si punisce l´altro rifiutando l´offerta, pur rimettendoci. Solo il gruppo che aveva assunto citalopram si è dimostrato più disponibile ad accettare la quota del 30% (e ancor più se il citalopram viene assunto da personalità empatiche). Conclusione: la serotonina indurrebbe ad atteggiamenti non egoistici.
Molti gli studi anche per capire come l´alimentazione influenzi la produzione di serotonina cerebrale. Il neurotrasmettitore deriva da un aminoacido, il triptofano, la cui disponibilità per il cervello dipende anche dal tipo di cibo: pasti proteici fanno passare nel cervello meno triptofano di pasti a prevalenza di carboidrati. Ma ciò, dicono lavori sperimentali recenti, varrebbe soprattutto per chi è in condizioni di stress, in particolare se donna. Le donne sotto stress, infatti, sembrano più suscettibili ad avere il circuito della serotonina molto instabile con effetti sull´umore tipici: infatti, mentre negli uomini il deficit di serotonina fa scattare aggressività verso l´esterno, nelle donne causa irritazione, chiusura e depressione.
* Pres. onorario Soc. It. Psiconeuroendocrinoimmunologia