lunedì 18 ottobre 2010

Repubblica 18.10.10
"Il Pd non sceglie tra i sindacati"
Bersani: Cisl e Uil non hanno tradito ora serve l´unità
intervista a Pierluigi Bersani di Claudio Tito


"Compito del Pd è avere un progetto non deve scegliere tra Cgil e Cisl"
Bersani: nessun traditore, il sindacato ritrovi l´unità
Serve un nuovo patto sociale. È necessario spostare l´attenzione sul livello aziendale di contrattazione e flessibilizzare quello nazionale
Abbiamo un governo irresponsabile, con un ministro del Lavoro che accende il fuoco anziché spegnerlo. Sacconi ha preso una piega mistica, pensa a un Paese che ha in testa solo lui

«Il nostro è un partito di governo momentaneamente all´opposizione e in quanto tale non è un sindacato, non aderisce a manifestazioni sindacali». Pierluigi Bersani lo ripete più di una volta: sono due cose diverse e distinte.Il giorno dopo la «pacifica» manifestazione della Fiom, il segretario del Pd non nasconde che tra i democratici siano emerse divisioni. Ma sostiene che il suo partito non debba schierarsi nei confronti sindacali. Ritiene che il suo compito debba essere quello di lanciare un nuovo «Patto sociale» per affrontare l´emergenza-lavoro. E per questo si batte per «l´unità di Cgil, Cisl e Uil». «Ma - premette - sono irritato per come qualcuno ci descrive. Noi non siamo incerti, non abbiamo una linea opportunista. Chi lo dice non capisce un accidente».
Con chi ce l´ha?
«Con qualche commentatore. Il Pd è un partito che discute. Ma soprattutto ha un compito diverso da quello di aderire o meno a manifestazioni sindacali».
Sta di fatto che nel campo dell´opposizione la confusione non è mancata. C´è chi ha appoggiato la linea della Fiom e chi quella della Cisl.
«I metalmeccanici della Fiom hanno diverse buone ragioni e vanno ascoltati. Così come quelli della Fim e della Uilm non possono essere considerati dei traditori. E vanno ascoltati anche loro. Chi può ricomporre l´unità, deve dare una mano. Un partito di governo come il nostro, lo ribadisco, non è un sindacato. Si definisce per il patto sociale che propone».
Intanto, sabato scorso Bonanni e Angeletti sono stati accusati di tradimento.
«Non va bene, l´ho detto. C´erano dei cartelli inaccettabili, ma il leit motiv di quella manifestazione non è stato questo, non è stata la cifra del corteo. Proprio perché in giro c´è questo tipo di problema, ci sono questi toni e queste tensioni, bisogna fare in modo di raffreddare il clima».
Le divergenze tra i democratici hanno sfiorato la spaccatura.
«E infatti lo dico anche ai miei. Il compito del partito è avere un progetto suo da portare ovunque e non misurare le distanze da un sindacato».
E´ la linea per tenere insieme Casini e Vendola? Il leader Udc sostiene che la manifestazione di sabato non può essere la base per un´alternativa riformista.
«Ma Casini ha anche detto che non si può lavorare per dividere il mondo del lavoro. La gente che stava a San Giovanni è una fonte di energia che va considerata. Guai a pensare che le forze del lavoro e anche quelle delle impresa non siano una risorsa per un progetto di alternativa».
Non avverte il pericolo che proprio su questo terreno possa venire meno la possibilità di costruire un´alleanza per battere Berlusconi?
«Certo che ho questa preoccupazione e per questo sto lavorando. L´alternativa deve nascere sulla ricomposizione. Sto lavorando per dare corpo all´alternativa con un progetto».
Nel frattempo, quando bisognerà schierarsi sulle scelte del sindacato, cosa farete? Ad esempio, appoggerete lo sciopero generale?
«Non mi avventuro in scelte che toccano al sindacato. Epifani ha detto che se non verranno risposte, allora ci sarà lo sciopero. Questo per me vuol dire che si può aprire un percorso di confronto. Altrimenti spero che le scelte siano unitarie».
Intende dire l´unità di Cgil, Cisl e Uil?
«Devono ritrovare la strada del confronto. Perché vedo davanti a noi mesi complicati. Più di un milione e seicentomila persone hanno perso il lavoro o sono in cassa integrazione. Le tensioni sindacali rischiano di diventare tensioni tra lavoratori. Ho visto litigare gente che ha lavorato per trent´anni insieme. In questo momento serve senso di responsabilità».
Il segretario della Cisl dice che in piazza si è cercata solo l´unità della sinistra. Il sindacato vuol trasformarsi in partito?
«E´ un´idea fuori dalla realtà».
Nel governo c´era chi si aspettava qualche incidente.
«E invece è stato tutto pacifico. Certo, non sono mancate posizioni non condivisibili e non mi riferisco al sindacato. Ma abbiamo anche un governo irresponsabile con un ministro del Lavoro che accende il fuoco anziché spegnerlo».
Proprio Sacconi sostiene che a protestare c´era l´Italia minoritaria.
«La piega di Sacconi è ormai mistica. Pensa a un Paese che si è messo in testa solo lui. C´è un´ideologia berlusconian-tremontian - sacconiana per cui, di fronte all´emergenza della globalizzazione e del lavoro, non si può fare niente. Noi abbiamo un´altra idea».
Quale?
«Serve un nuovo "patto sociale". In tutto l´occidente c´è la crisi del lavoro. Certamente bisogna spostare l´attenzione sul livello aziendale di contrattazione e flessibilizzare il livello nazionale».
Il contratto nazionale per la Cgil non si tocca. Lei mette il dito nelle divisioni del sindacato.
«Tutti sanno che la globalizzazione richiede uno sforzo. Per spostare il confronto sul livello aziendale, bisogna pure porre il problema delle regole della rappresentanza. Cioè di una democrazia più compiuta sui luoghi di lavoro. Avremo inoltre bisogno di una nuova legislazione sul lavoro».
Ad esempio?
«In primo luogo introdurre il salario minimo per chi è fuori dalla contrattazione nazionale. Poi, a parità di costo del lavoro, evitare che un´ora di lavoro precario costi meno di un´ora di lavoro stabile. Non ci può essere l´incentivo al lavoro precario.
Per battere i cinesi, insomma, non possiamo diventare anche noi cinesi. Bisogna poi mettere il patto sociale dentro una politica economica industriale fatta di riforme a cominciare da quella fiscale. Certo, questo governo non la farà. Ma non possiamo aspettare che Tremonti apra il discorso solo perché si avvicinano le elezioni».
Anche lei definirebbe Marchionne un dittatore?
«No, semmai è diventato un po´ americano. Ma il problema è che non ha avuto un governo e un ministro. Nessuna interlocuzione, non hanno fatto niente. In questo contesto Marchionne fa un pò il battitore libero».

Repubblica 18.10.10
Divisioni anche nel Pd. D'Alema: un partito deve ascoltare, non criminalizzare la protesta
Fiom, è scontro Bonanni-Epifani


ROMA - La distanza tra i sindacati non si accorcia, anzi il solco si fa più profondo. All´indomani della manifestazione della Fiom, è Raffaele Bonanni, il leader della Cisl, a dirsi «deluso» e a parlare di un distacco di «anni luce», criticando il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani per non avere condannato nettamente gli attacchi a Cisl e Uil. Ma Epifani rivendica «la manifestazione grande, pacifica e non violenta... non come pensava Bonanni». Tra i due è scambio di reciproche accuse. «È buon costume attendere almeno 24 ore per commentare le manifestazioni degli altri; Bonanni può avanzare tutte le critiche che ritiene ma non può intromettersi nelle scelte interne della Cgil», osserva Epifani. Bonanni rincara: «Non è stata una piazza sindacale ma piuttosto politica che ricercava l´unità della sinistra e della Cgil». Aggiunge che «è scandaloso gettare benzina sul fuoco e ospitare in una manifestazione cartelli ingiuriosi e inviti alla violenza». Il segretario Cisl incalza perché nella stessa Cgil aprano gli occhi «su slogan e offese personali», e dissente dall´invito a un prossimo sciopero generale.
In questo clima sindacale anche le divisioni interne al Pd si accentuano. La destra ci va a nozze. Il Pdl sottolinea «il cumulo di contraddizioni» del partito di Bersani e il ministro Sacconi attacca: «I dirigenti del Pd dipendono da quella piazza». Nelle file dei Democratici del resto la polemica si allarga alla questione delle alleanze. Alcuni ex Margherita - tra cui Francesco Boccia, che aveva parlato di intellettuali milionari e politici con l´auto blu in corteo - avvertono che non possono esserci «derive a sinistra». Ma il giorno dopo, è Massimo D´Alema a dire: «Un partito non ha il compito di discutere se deve o non deve partecipare a una manifestazione ma deve sapere ascoltare. E deve farsi carico del malessere del mondo del lavoro, anziché criminalizzare la protesta come si è cercato di fare presentando la manifestazione come un pericolo per la città e il paese». Aggiunge il presidente del Copasir di essere «preoccupato per le divisioni del mondo sindacale» e per un governo che non governa: «Usi il trampolino per andarsene - ironizza - Il paese non ha bisogno di un governo tecnico ma di uno nuovo».
E critico sulla linea del Pd è Marco Follini: «Il nostro è un partito tricolore, non può essere un tripudio di bandiere rosse e neppure sembrarlo; basta collateralismo». Per chi nel Pd è più vicino alla Cisl - come Beppe Fioroni, Giorgio Merlo e lo stesso vice segretario Enrico Letta - gli attacchi a Bonanni e Angeletti nella piazza Fiom sono da condannare. Merlo rincara: «Sarebbe curioso sapere dagli esponenti del centrosinistra presenti alla manifestazione come pensano di costruire una alternativa di governo al centrodestra attorno a quegli insulti e alla delegittimazione degli altri sindacati».

Corriere della Sera 18.10.10
Casini: mai con questo Pd


«Se l’idea dell’opposizione è quella di creare un’alternativa partendo da piazza San Giovanni, allora siamo fritti. L’Udc non si allea con il Pd se queste sono le loro posizioni». In un’intervista al Corriere il giorno dopo i cortei della Fiom, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini delinea «l’alternativa a Berlusconi»: «Il Paese si rilancia mettendo assieme a governare le persone serie che nel Pd sanno che seguendo le piazze non si va da nessuna parte, e persone serie del Pdl che non ne possono più di dover sottostare a un patto in cui è la Lega che dà le carte». E proprio Bossi ieri ha rilanciato l’ipotesi delle elezioni anticipate: «Basta un "no" ad una legge, e si va a votare». ROMA — Sono oltre 640 mila i lavoratori in cassa integrazione a fine settembre. In questi primi 9 mesi il ricorso alla Cig per loro ha comportato una riduzione del reddito di oltre 3,5 miliardi di euro, più di 5.500 euro per ogni singolo lavoratore. Secondo l’Osservatorio Cig della Cgil il ricorso alle ore di cassa integrazione a settembre segna un aumento del 34,8% rispetto al mese precedente, per un totale di ore pari a 103 milioni di ore. Nel periodo gennaio-settembre l’aumento delle ore di Cig è stato del 50,5% rispetto allo stesso periodo del 2009, a quota 925,6 milioni di ore autorizzate. Quasi un miliardo. La cassa integrazione in deroga, anche se segna un calo dell’8,9% rispetto al mese precedente, registra un incremento molto forte nei primi nove mesi dell’anno (+344%). Crescono anche i contratti di solidarietà (77,3%) che rappresentano il 13,2% del totale dei decreti d’intervento.

Corriere della Sera 18.10.10
Così gli europei scoprirono il fascino di Costantinopoli
Dai dipinti di Ingres ai reportage di Fermor
di Luciano Canfora


Costantinopoli è stata a lungo, nell’immaginario novecentesco, il luogo geometrico delle trame internazionali. La anomalia strutturale di una città capitale europea di una grande potenza asiatica contribuì a tale ruolo, che non fu solo leggenda. Lo schieramento assunto dalla Turchia imperiale accanto agli imperi centrali nella Prima guerra mondiale e la scelta di neutralità sorvegliata e insidiata dalle grandi potenze in lotta nel corso della Seconda guerra mondiale ha reso concreto e tangibile quel ruolo. Destinare proprio a Costantinopoli un abile diplomatico come Roncalli non era scelta casuale da parte di Pio XII, così come non l o fu, da parte di Londra (1941-1945) l’insediamento a Istanbul del sommo filologo e storico Ronald Syme. Nel potenziare la valenza simbolica di Costantinopoli, un ruolo lo ha svolto anche la sua caratteristica di «porta» dell’Europa. E si potrebbe seguitare, risalendo nel tempo, all’epoca in cui le varie rappresentanze diplomatiche occidentali a Istanbul erano uno dei siti attraverso cui passava la diplomazia europea, anche delle potenze minori. Come ad esempio il regno di Sardegna, che, per scelta di Cavour, aveva sistemato a Istanbul, come console, il barone Tecco: il quale di lì teneva d’occhio il grande gioco sfociato ben presto nella guerra di Crimea, mentre intanto non disdegnava (forse anche per creare un diversivo) di accordare la propria protezione ad interessanti avventurieri come il falsario greco Simonidis (che forse già allora godeva di protezioni inglesi).
Ma c’è un’altra «leggenda di Costantinopoli», quella dei viaggiatori di ogni epoca e provenienza che hanno visto e descritto la «seconda Roma» mettendo in salvo, con le relazioni di viaggio, l’immagine autentica della capitale. Ed è a questo immenso tesoro di testimonianze che ha attinto, dedicandovi molte energie in un momento non facile, Silvia Ronchey. È nata, così, una imponente antologia ragionata: Il romanzo di Costantinopoli. Guida letteraria alla Roma d’Oriente (Einaudi, pp. 960, 28). È questo un sapiente repertorio che corona una lunghissima militanza dell’autrice (qui coadiuvata da Tommaso Braccini) come bizantinista, riconosciuta autorevole nella res publica litterarum.
L’impianto è per l’appunto quello di una «guida», che raccoglie i resoconti e le descrizioni di viaggiatori e storici da Procopio al tempo nostro. Ottimi indici agevolano la consultazione, di un libro che non solo si consulta ma assai piacevolmente si legge. È inerente al carattere obiettivo del libro il fatto che si tratti sempre di testimoni veri, non di viaggiatori immaginari, che pure — sull’onda dell’orientalismo — non sono mai mancati: basti pensare all’influentissimo Ingres, che — senza aver mai visitato terre d’Oriente — dipinge il bagno turco sulla base di una minuziosa, celebre, lettera di lady Montagu. Qui abbiamo, invece, testimoni diretti.
Frequentare quel mondo non era agevole. Ferma restando una sospettosità preventiva, tipica di chi avvertiva l’insofferenza «occidentale» nei propri confronti, spiccava anche — da parte dell’élite turca — una diversa percezione del tempo e, di conseguenza, una diversa organizzazione di vita, oltre allo sforzo di non piegarsi volentieri a parlare la «lingua degli altri». È l’esperienza fatta dal celebre falsario e cleptomane greco Minoide Mynas quando visita il monastero di Soumelà sul mar Nero (nei pressi di Trebisonda) e si trova davanti un elemosiniere di 110 anni parlante unicamente il turco (lo racconta nel suo diario, tuttora inedito, alla data del 14 novembre 1844). È l’esperienza di Karl Müller, il grande «dilettante» ed eccellente editore dei Geografi greci per Firmin Didot, inviato dal suo editore parigino a cercare nella Biblioteca del Serraglio un Tolomeo di cui si favoleggiava fosse «gonfio di aggiunte dei dotti bizantini», e che si scontra con l’immobilismo del bibliotecario, Ibrahim Efendi, e del suo entourage «talmente turco — protesta Müller in una lettera del 1867 — che non conosce neanche il francese»! Müller descrive anche la sua lenta «marcia di avvicinamento» ai manoscritti (rivelatisi, alla fine, deludenti): ha dovuto in primo luogo cercare l’ambasciatore francese, ma questi — ammalato di gotta — era in tutt’altra località; l’ambasciatore gli ha ottenuto un permesso di entrata, ma valido solo di lì a otto giorni; tempo prezioso è stato inoltre sprecato in stentate conversazioni e estenuanti bevute di tè; per terminare la collazione ha dovuto prolungare il soggiorno tanto da spendere fino all’ultimo «napoleone». Una esperienza che non ha certo rafforzato la sua simpatia per quel mondo...
Il viaggiatore competente non esiste a priori: lo diventa viaggiando, se ha stoffa e curiosità. Facciamo un esempio. Tra i molti protagonisti del libro vi è un memorabile e avventuroso Patrick Leigh Fermor, il cui racconto di viaggio in Grecia ( Mani) — risalente al 1958 — è un modello di dottrina «militante», acquisita cioè sul campo. È celebre il suo exploit, il viaggio a piedi fino a Costantinopoli (dicembre 1933) con pochissimo danaro nello zaino. E altrettanto celebre è la cattura ad opera sua (era allora maggiore dei paracadutisti della RAF) del comandante tedesco a Creta, generale Kreipe (1941).
Ma torniamo al racconto Mani. L’arte bizantina attrae ripetutamente l’attenzione di Leigh Fermor. Nel brano incluso in questa silloge, tratto dal XV capitolo («Icone») e felicemente intitolato dai curatori L’estate di San Martino dell’arte bizantina, egli segnala quello scatto, «morto sul nascere», di indipendenza dai rigidi canoni tradizionali che l’arte bizantina tentò (egli ritiene) dopo il rientro del legittimo imperatore a Bisanzio e la fine dell’impero «latino» (1204-1261). Dei rigidi canoni bizantini egli discorre sin dal principio del capitolo «Icone», e ne attribuisce la «codificazione» — così si esprime — a un «monaco pittore del XVI secolo, Dionigi di Furnà». «Questo — soggiunge — formalizzò una tradizione di secoli in un dogma iconografico, deviare dal quale diventò per così dire sinonimo di scisma. Fu lui che rese gli stuoli di santi, martiri e profeti identificabili all’istante». E si spinge a sostenere che quell’arte si poneva, o pretendeva di porsi, in rigida continuità rispetto alle matrici greco-ellenistiche, allo stesso modo che il pensiero patristico rispetto alla filosofia greca.
Leigh Fermor era caduto in trappola. Dionigi di Furnà infatti non è un «bizantino»: è un monaco vissuto all’Athos al principio del ’700. Il suo trattato era stato riscritto da uno che all’Athos era di casa, Costantino Simonidis, il quale rese più antica e più «pura» la lingua in cui quel trattato era scritto e vi inserì frasi che fissavano la stesura del Trattato di pittura sacra (è questo il titolo) all’anno 1458. E teorizzò che l’arte bizantina era la prosecuzione, senza influenze «asiatiche», recta via dell’arte ellenistica. Leigh Fermor era anche un grandissimo autodidatta, che di sicuro avrà letto il trattato di Dionigi nella traduzione francese di Durand (1845), fondata sulla copia che Simonidis aveva venduto a Durand. E dunque, senza saperlo, si era fatto propagatore, nelle sue ammirevoli pagine, delle teorie «patriottiche» del grande falsario. (E a fortiori non poteva sapere ciò che si è constatato da ultimo, che cioè il primo rigo del Trattato di Dionigi riappare «miracolosamente» nel primo rigo del famigerato pseudo-Artemidoro!).

Corriere della Sera 18.10.10
Dialogo con Parmenide
«La mente degli uomini sta errando nell’oscurità»
di Emanuele Severino


Anticipiamo un brano dell’intervista immaginaria di Emanuele Severino al filosofo Parmenide (515-450 a. C.) che uscirà con il «Corriere» il 18 novembre insieme al quinto volume dell’Enciclopedia Filosofica.

Severino — Anche tu, gli uomini, li chiami «mortali». Della loro mente dici che è plakton. Dovrebbero riflettere a lungo su questa parola. Di solito la si traduce con «errante». Non è sbagliato — purché si sappia che cosa spinge la loro mente a errare.
Parmenide — Infatti. Sono spinti a errare perché credono che l’esistenza della nascita e della morte, cioè l’uscire dal nulla e il ritornarvi, sia verità. Lo dico continuamente nel mio Poema. Ad esempio nei versi 39-40 di quello che voi chiamate «frammento 8».
Severino — Ma quando dici che la mente dei mortali è plakton rendi ancora più profondo il senso dell’errare che viene espresso da questa parola. Infatti plakton, che tu riferisci alla mente dei mortali (fr. 6), prima ancora che «errante», significa «colpita».
E chi è colpito patisce. Il colpo fa soffrire. Spinge nel dolore e nell’impotenza. Si è impotenti quando non si riesce a ottenere ciò che si vuole. Quando ciò accade si è preda del dolore, e allora si vacilla, si va di qua e di là, si va errando, appunto. La mente dei mortali è «errante» perché è «colpita». È colpita dalla convinzione non vera che nascita e morte esistano. E, preda di questa convinzione, patisce.
Parmenide — Sì, con la parola amechanie ho indicato appunto questa impotenza, angustia, mancanza, questo essere avvolti dal dolore quando non si segue — così lo chiamo — il «sentiero della Verità».
Amechanie indica l’assenza di mechané, ossia della «macchina» (nel senso originario di questa parola), ossia del «mezzo» che consente di liberarsi dall’impotenza angosciata. La frase completa dove parlo della mente errante dei mortali dice infatti: «Nei loro petti un’impotenza angosciata governa la mente colpita ed errante».
Severino — Dunque tu dici che credendo nell’esistenza della nascita e della morte, nell’essere e non essere di ciò che è, la mente dei mortali è colpita e va errando nell’oscurità dell’angoscia...
Parmenide — ...e che da questa «Notte» si esce andando «verso la luce» della Verità.
Severino — Nietzsche ha scritto che tutto il pensiero filosofico, prima di lui, è stato al tuo seguito. Non sono d’accordo, anche se tu stai indubbiamente al centro della storia dell’Occidente. Un celebre filosofo della scienza ha sostenuto non molto tempo fa che tu sei il padre di quella roccaforte della scienza moderna che è la fisica e che tutti i grandi fisici del nostro tempo sono stati parmenidei. Di nessun altro Platone ha detto quel che ha detto di te: «Venerando e terribile» — l’espressione che Omero riferiva agli déi. Sono d’accordo con Platone. Ma tu sei un grande dio bifronte...

Corriere della Sera 18.10.10
Filosofi, quei teorici dell’amore erano in realtà dei pasticcioni
Pico della Mirandola rapiva le amanti, Rousseau abbandonava i figli
di Armando Torno


Gran bel guaio l’amore. Per capire cosa sia, più che poeti o letterati è bene interrogare i filosofi; diffidate però dal seguirne i consigli pratici. Nelle faccende sentimentali furono, nei casi migliori, dei pasticcioni. Questa categoria, per ironia della sorte, sa teorizzare cose meravigliose in materia e le concretizza malamente. Certo, ci sono stati degli sciupafemmine, come Giacomo Casanova (si autoincluse tra i pensatori: «Ho vissuto da filosofo, muoio da cristiano»), ma aveva l’abitudine di comperare case per le conquistate e di offrire ai parenti un pranzo sontuoso: due elementi che avrebbero fatto crollare anche una castità ferrea. È pur vero che Giovanni Pico della Mirandola rapì l’amante, ma il simpatico gesto della mente più fascinosa di ogni epoca finì con una quindicina di morti. Ci volle l’intervento di Lorenzo de’ Medici per evitargli il carcere.
Tra i pochi coerenti c’è Arthur Schopenhauer: per lui l’amore va considerato un inganno della natura, indispensabile per perpetuare la specie. I sensi ci imbrogliano, facendoci vedere quello che non esiste; esaltano, turbano, alterano e noi procreiamo. Dopo, si sa, giungono noia e indifferenza o, come già ricordavano i latini, la «tristitia post coitum». I cacciatori di sciocchezze sentimentali possono frugare a volontà nelle opere dell’attento Arthur, ma da esse escono a mani vuote; riescono, caso mai, a trovare qualche frammento nelle lettere o nelle testimonianze dei suoi frequentatori. Conobbe tuttavia diverse signore. Il consigliere governativo Eduard Krüger — conversava con il filosofo negli ultimi anni francofortesi — riferisce che «era stato fidanzato a Firenze con una donna di alto lignaggio, ma che aveva rotto dopo aver appreso che costei era malata di polmoni». In una lettera alla sorella Adele (talmente brutta che non riuscì a trovare marito), Schopenhauer parla di una storia a Venezia; ma nella città lagunare egli frequentò tale Teresa Fuga, con cui ebbe in comune il solo sfogo dei sensi. Costei, nella primavera del 1819, gli invia una lettera per confermargli un incontro. Missiva sgrammaticata sino al comico, che rivela una disinvoltura di costumi: la vispa Teresa chiede ad Arthur di trascorrere un po’ di tempo con lei, anche se ha un amico, una relazione con un impresario e degli inglesi che vanno e vengono. Il traffico nella camera di madame ha delle pause e il filosofo potrà trasformare le sue teorie sul sesso in realtà.
Un altro che a Venezia si diede un gran da fare con le signore di larghe vedute morali fu Jean-Jacques Rousseau. Il pensatore che metterà i suoi cinque figli ai trovatelli dopo aver meditato la scelta su Platone, nelle Confessioni ricorda quel che combinò, e relative paure: a seguito di un amplesso con «la Padoana» chiama un medico, il quale lo cheta e gli assicura che è «conformato in modo particolare» e non può «essere facilmente infettato». Forse per non correre rischi di codesto genere, con un suo sodale compera «una bambinetta di undici o dodici anni», con cui però sembra che non abbia consumato («bisognava aspettare che si fosse sviluppata»). Il resto è il caso di risparmiarlo, ma non manca nemmeno una visita alle giovani fanciulle dei Mendicanti, tutte bruttine. Non è il caso di stupirsi. Sull’onda del ’68, e delle liberazioni dai vincoli borghesi, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Michel Foucault, Jack Lang, futuro ministro francese, firmarono una petizione in cui si chiedeva la legalizzazione dei rapporti sessuali con i minori.
Kant, invece, ebbe poca considerazione per donne, innamoramenti e matrimonio (anche per la musica, in verità: amava soprattutto le fanfare); Kierkegaard sublimò il rapporto con la fidanzata e riuscì a non sposarla; Nietzsche sapeva creare il superuomo, annunciare la morte di Dio ma per rispondere ai bisogni della natura si rivolgeva ai bordelli (e sovente non riusciva a placarli nemmeno lì). Gli piacevano «giovani, belle, alte, bionde» ma le dannate non ricambiavano con analogo ardore. Oltre le disavventure con Lou von Salomé — che riuscirà a irretire anche Rilke e Freud — Nietzsche, tra l’altro, per l’uscita della Nascita della tragedia ricevette una lettera da tale Rosalie Nielsen alla quale, per dirla in breve, fissò un appuntamento in un hotel di Friburgo. Entrato in camera, vide «una donna appassita, di una bruttezza ripugnante, vestita a sghimbescio, sudicia». Se la diede a gambe, urlando: «Mostro, mi hai ingannato!».
Si potrebbe continuare con le corna che fece (e subì) Heidegger, con gli antichi cinici che espletavano in pubblico i loro impulsi, con Sant’Agostino che prima della conversione la sapeva lunga e anche con le pensatrici. Ma sono storie infinite. E siccome stiamo presentando una nuova edizione dell’Enciclopedia Filosofica, preferiamo rimandarvi ai volumi in uscita.

Corriere della Sera 18.10.10
Provocazione dell'Economist
La fede fa bene o male al mondo?


Il settimanale inglese The Economist ha diviso i suoi lettori sulla domanda del nostro tempo: la religione è una «forza per il bene»? Solo il 25% ha espresso fiducia nella fede. Per il 75%, la religione non contribuisce al bene dell’umanità. All’Economist sono ben consapevoli che nella religione bene e male sono indissolubilmente intrecciati. Ma hanno voluto spingere i lettori a una posizione estrema. «Trovi che la fede sia pericolosa, che ispiri un truce dogmatismo da cui derivano conflitti, intolleranza e barbarie? Oppure che la fede sia positiva, che spinga la gente a vivere un’esistenza morale, virtuosa e ricca?». Entrambe le cose sono vere, ma cosa pensi in fin dei conti? Da che parte stai? Credi più nel bene di credenti come Madre Teresa e Desmond Tutu, o nel male di credenti come Bin Laden, Milosevic e Pinochet?
Mark Oppenheimer, editorialista del New York Times, si è fatto padrino dei pro religione in nome di tre idee. Primo: la religione educa alla ritualità; secondo: la religione organizza la ricerca di un senso, di un’etica, di un bene comune; terzo: «religion is fun», la religione diverte. Lo scrittore Sam Harris ha rappresentato gli anti religione in nome dell’assurdità della fede. Chi crede il falso non può fare il bene di ciò che è vero: «la religione dà alla gente cattive ragioni per fare il bene, mentre ragioni migliori sarebbero a portata di mano». Ha vinto lui, 75 a 25.
La società secolarizzata coltiva appartenenze ibride, identità confuse. Siamo un po’ tutto insieme. Increduli e credenti. Amici e nemici della fede. Per questo siamo tentati di trovare chiarezza in una scelta di campo, credenti di qua e non credenti di là, che cancelli la confusione e divida il mondo in bianco e nero. È questa la provocazione dell’Economist. Crediamo davvero che basti appartenere al campo dei credenti o dei non credenti per essere migliori? Che la fede o la non fede ci destinino a priori al bene o al male? In realtà non lo sappiamo e non possiamo saperlo. Sappiamo soltanto che nessuna ortodossia, nessun credo religioso o non religioso, giustifica una vita spesa male.

Repubblica 18.10.10
Il libro sascro che inventa la parola di Dio
Il Corano che nessuno in Italia conosce
di Pietro Citati


Secondo la tradizione, la rivelazione avvenne nel corso di una sola notte, detta "la notte del destino" e poi comunicata in ventitré anni
Esce una nuova traduzione con commento del testo che è alla base dell´Islam e che contiene il messaggio rivelato da Allah a Maometto. Molte le sorprese di questa edizione
Non obbedisce a una struttura logica, non segna un percorso continuo e rettilineo. È vagabondo, errabondo, labirintico. Procede ad onde
La scrittura è chiarissima e, stando al Profeta, essa porta alla luce ciò che stava celato nella Bibbia, nei Vangeli e nelle tradizioni apocrife

Gli italiani non leggono Il Corano. Le traduzioni italiane sono poche e cattive: i commenti non sono migliori. La traduzione di Ida Zilio-Grandi, che esce in questi giorni, è bellissima (Il Corano, a cura di Alberto Ventura, Mondadori, collezione Islamica, pagg. LXXII-912, euro 20,00): dal principio alla fine mantiene il tono giusto, quella semplicità sublime, con cui Maometto ha evocato la voce di Dio. Tutto il libro è eccellente: l´introduzione di Alberto Ventura, di squisita intelligenza, e i commenti di Mohammad Ali Amir-Moezzi, Alberto Ventura, Mohyddin Yahia, Ida Zilio-Grandi sono ampli e scrupolosi. Tra i commentatori, due appartengono alla tradizione islamica, sebbene vivano ed insegnino a Parigi; e questo conferisce al loro testo una qualità di maggiore vicinanza al libro sacro, senza offendere mai il rispetto per la verità scientifica. A partire da ora, dunque, gli italiani potranno leggere Il Corano, abbandonandosi a quell´onda solenne e tumultuosa. Credo che le sorprese saranno moltissime.
Il Corano è un singolarissimo libro sacro. Discorre di sé, si interpreta, si analizza, si descrive, dubita di sé, si esalta, con una eloquenza che non viene mai meno. Parla delle proprie origini. Il Corano non è soltanto il volume che oggi teniamo nelle mani, e nemmeno le fibre e le foglie d´albero sulle quali Maometto e i suoi amici incisero la rivelazione, ma è innanzi tutto il proprio archetipo celeste. Prima che il tempo avesse inizio, Dio incise le proprie parole, in caratteri di luce, su una materia incorruttibile.
Questa tavola è custodita: cioè sta al riparo di ogni minaccia di alterazione; non muterà né si deformerà mai, immutabile come i veri libri.
Mentre Il Corano stava lassù, fermissimo e invisibile, oltre il settimo cielo, cioè prossimo a Dio, cominciava la sua lenta ed incessante discesa, che da principio comprese la Torà e i Vangeli. La Torà e i Vangeli non sono Il Corano, ma lo contengono in potenza, e come in enigma. Il Corano comprende la Torà e i Vangeli, perché è il libro del ricordo: richiama innumerevoli luoghi della Bibbia ed esalta i profeti ebraici: ciò che là è racconto diventa qui predicazione divina; e viene interpretato, chiarito, confermato. «Il seme produce un germoglio che poi si rafforza, si irrobustisce e si alza saldo sul gambo».
Poi Il Corano si sposta verso il futuro e la fine. Comprende l´ultima ora, che verrà all´improvviso come nei Vangeli, e anzi è già avvenuta, nelle pagine di Maometto, dove echeggia il boato della tromba celeste, il cielo si spacca, rosso come cuoio lucidato, le stelle si offuscano, i monti sono rimossi, i mari ribollono, e le donne gravide abortiscono. Appaiono «i giardini alle cui ombre scorrono i fiumi», dove i fedeli resteranno in eterno: il Paradiso, che è il leitmotiv musicale del grande testo. Così Il Corano è sia il primo libro inciso nella luce prima dei tempi, sia l´ultimo libro, che noi leggiamo mentre crediamo di abitare nel presente. Niente, a rigore, potrebbe essere scritto dopo Il Corano: o infiniti commenti, chiose, analisi e interpretazioni, contenuti dentro Il Corano come il gheriglio dentro la noce.
* * *
Questo archetipo celeste, questa "tavola custodita", Dio la fece discendere su Maometto: sebbene fosse un uomo, nient´altro che un uomo, capace di mancanze e di errori. Come disse Aisha, l´ultima delle sue mogli, «la natura di Maometto era intera Il Corano». Dio gli rivelò tutto il libro nel corso di un´unica notte, detta "la notte del destino". Poi, via via che gli anni passavano, ripeté la sua rivelazione nel tempo, sotto la forma di versetti comunicati - soffio dopo soffio, tocco dopo tocco - durante ventitré anni.
Se usiamo le parole dei moderni, Maometto compì un´impresa prodigiosa, alla quale si rifiutarono sempre gli ebrei e i cristiani. I Vangeli non sono la trascrizione diretta delle parole di Gesù: sono immensamente più discreti, perché si accontentano di raccogliere le tradizioni, che avevano trascritto e ricordato le sue parole. Maometto, invece, ha inventato la parola di Dio, senza alcun timore di compiere un atto empio. Ha trasformato la sua voce umana in una voce dettata dal cielo. Così ora sentiamo, attraverso di lui, la parola di Dio, letta, proclamata, predicata ad alta voce. La sentiamo mentre si rivolge in primo luogo a Maometto, il suo "servo", il suo intermediario, e poi a tutti gli uomini, fedeli o miscredenti. La sentiamo vicinissima, come risuonasse, accanto a noi, sulla terra, nel tempo presente. Ne sentiamo il suono, il ritmo, il timbro, il calore, il movimento. Questo è il primo, straordinario effetto del Corano: sopratutto su lettori non musulmani, o che non hanno sensibilità religiosa.
Il Corano non obbedisce mai ad una struttura logica: non segna un percorso continuo e rettilineo. Esso è vagabondo, errabondo, labirintico. Procede ad onde, a balzi: avanza, si ritrae, si sposta, si contraddice, ritorna, arretra, accumula; questa struttura così discontinua è il segno, forse, del suo carattere intenzionalmente sacro. Dio, dice stupendamente, Maometto, «scaglia la verità»: non vuole farla conoscere o spiegarla, ma la scaglia come si può scagliare un fulmine, o la erutta e la fa esplodere come un vulcano. Tutto vi è frattura, intermittenza, abisso, formula apocalittica. Oppure Dio segue il metodo opposto: si ripete e torna a ripetersi. Quante volte ci parla dei fiumi del Paradiso. Quante volte ci dice: «Egli è colui che mi ha creato e mi guida. Egli è colui che mi nutre e mi disseta e quando mi ammalo mi guarisce. Egli è colui che mi fa morire e poi mi risuscita».
Qualche volta, Il Corano è chiarissimo e - dice Maometto - porta alla luce ciò che stava celato nella Bibbia, nei Vangeli e nelle tradizioni apocrife. È facile e semplice. Qualche volta, al contrario, è oscuro e misterioso: Maometto parla dei «rotoli di pergamena che fate vedere e in gran parte tenete nascosti». In ogni caso, Il Corano rifiuta di spiegarsi. Quando Maometto veniva interrogato sul suo significato, rispondeva: «Dio ha detto qui ciò che ha voluto dire». Con qualche eccezione, il tono è sempre lo stesso: anche dove parla di questioni giuridiche o di eventi politici, Il Corano raggiunge un tono sublime che lo Pseudo-Longino avrebbe ammirato: «la sublime lingua di verità». Questa lingua ha un effetto fisico-ipnotico fortissimo: tanto che, come dice un passo, la pelle di chi lo ascolta «si raggrinza e poi si raddolcisce».
Il Corano che noi leggiamo e sopratutto ascoltiamo, non è il vero Corano: quello che, alle origini del mondo, è stato scritto sulla tavola custodita. La parola di Dio, che è divenuta "linguaggio e suoni articolati", è stata avvolta da un tenuissimo e oscurissimo velo. Per scoprire "lo spirito e il significato profondo", che anima quei suoni e quei segni, dobbiamo risalire al mondo celeste, verso la tavola custodita. Questa operazione è insieme necessaria e impossibile: può compierla solo Dio, perché Lui solo sa cogliere nella sua essenza la "parola puramente interiore" che costituisce il cuore del libro. Così ogni lettura, che facciamo del Corano, anche quest´ultima che compiamo aiutati da una buonissima traduzione e da un buonissimo commentario, è un fallimento. Il Corano resta incomprensibile all´occhio e all´orecchio umani.
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Questo libro incomprensibile ruota attorno a un Dio egualmente incomprensibile. Dio è unico: "è colui che basta a sé stesso"; non ha eguali, né secondi, né compagni, né figli, né associati, né ministri. Non ha alcun bisogno degli uomini, delle loro opere, delle loro preghiere, e del mondo di animali e piante che ha foggiato. «Se non li avessi creati - Egli disse - non ne avrei alcun danno: ora che li ho creati, se non faranno quello che ho prescritto loro, e se non eseguono i miei ordini, non me ne viene alcun detrimento e, se obbediscono ai miei ordini, non me ne viene alcuna utilità». «Se volessi - Egli insiste - vi farei sparire, e vi sostituirei con chi voglio». Ciò che è tipico del mondo islamico è appunto questa ebbrezza, questa vertigine di unità, dalle quali sono nate meravigliose pagine teologiche e mistiche. Col suo concetto di Trinità alla quale si è aggiunta la divinità di Maria, il Cristianesimo è infinitamente più complicato. Anche il Divino e l´Uno, per noi, sono molteplici.
Siccome è unico, Dio è onnipresente, onnisciente, onnipossente. Comprende in sé tutte le opposizioni e le antitesi: il giorno e la notte, il morto e il vivo, il bene e il male. Quindi sa tutto per natura e per esperienza. «Egli conosce quel che è sulla terra e quel che è nel mare, non cade foglia senza che egli non voglia, e non c´è granello nelle tenebre della terra, nulla di umido o di secco che non si è registrato in un libro». Non c´è segreto che egli non conosca: quelli delle coscienze, del passato, dell´avvenire e dell´invisibile. Nulla, mai, gli è nascosto. Sebbene il suo linguaggio preferisca l´immenso, ha uno sguardo microscopico e molecolare: non gli sfugge il peso di una formica, né quello di un granello di polvere, o di un granello di senape, o di una tarma, o la pellicina del nocciolo di un dattero, perché nel minimo si cela il mistero. In qualsiasi momento del tempo, Egli ci spia: non è mai assente; non si distrae dall´osservare; e in qualunque situazione ci troviamo, Egli assiste a ciò che facciamo, diciamo e pensiamo. Se è dappertutto, vive anche nei corpi: a tratti è visibilmente antropomorfo; e noi abbiamo violenti rapporti fisici con lui, perché dobbiamo afferrarci tutti alle sue funi. Dunque Dio abita anche il male: ciò che fa Iblis, l´angelo della Tenebra, esce dalle sue mani.
Quando foggia la terra, la fantasia di Dio è immensamente creativa e feconda. È la Provvidenza. Rende stabili le terre, dispone i fiumi per irrigarle, dà loro cime montagnose, divide i mari con una barriera, manda i venti a portare le voci, fa discendere la pioggia per gli uomini, gli armenti, il frumento, l´ulivo, le palme, le viti, i melograni. Tutto è fresco, fertile e luminoso, come nei primi capitoli della Genesi. Se vuole creare una cosa, Dio pronuncia lo stesso Fiat della Bibbia. Oltre alla terra, crea altri mondi e altre città, che stanno ai piedi della smeraldina montagna di Qaf. Crea quelle cose trasparenti e stranissime che sono le ombre. E, se nella Bibbia, la creazione prende una fine, qui è continua: Dio può prolungarla e rinnovarla e moltiplicarla, perché - per Lui - nulla è difficile e definitivo.
Tutto ciò che noi vediamo è una immagine di Dio. La sterminata regione dei corpi, gli alberi, gli uomini, le luci, le ombre sono sembianze del suo unico volto. Dio è il chiostro dove si rifugia il monaco cristiano, il tempio dove vengono venerati gli idoli, il prato dove brucano le gazzelle, la Ka´ba dove si prostra il pellegrino, le Tavole dove è stata scritta la legge mosaica, Il Corano ispirato a Maometto. Ma il Dio islamico non si è incarnato come Gesù. Egli è soltanto entrato nelle forme create, come l´immagine entra e si riflette dentro lo specchio. Chi contempla le cose, non contempla la luce divina: la scorge deformata e trasformata, come la luce che penetra in un filtro di vetro colorato viene tinta dal giallo e dal rosso. Il nostro mondo è l´ombra rispetto alla persona, la figura specchiata rispetto all´immagine, il frutto rispetto all´albero. Così il credente, che si slancia verso le forme create per conoscere Dio, incontra la delusione: giacché il mondo è un velo che ci nasconde il suo volto. Non sappiamo se ce lo nasconde perché è un velo troppo spesso: o perché la manifestazione di Dio è così intensa, la rivelazione così luminosa da accecare i nostri occhi. Sebbene Dio si manifesti in tutte le cose, Egli è nascosto ed assente e noi seguiamo invano la sua rivelazione.
Il Corano comincia: «Nel nome di Dio, il Clemente». Clemente non è un aggettivo, un attributo del nome di Dio, ma un suo sinonimo. Dio e Clemente significano esattamente la stessa cosa. Così, se sfogliamo Il Corano, lo scorgiamo donare, senza badare a meriti umani (che non esistono), o a una qualsivoglia giustizia, ma obbedendo soltanto alla propria volontà e al proprio capriccio. Come sappiamo, Egli è l´Unico, che contiene in sé tutte le qualità; e quindi non dobbiamo meravigliarci se, sia pure in modo indiretto, egli compia il Male. Induce i miscredenti a farlo: "Dio ha sigillato loro il cuore e l´udito, e sui loro occhi c´è un velo", che li rende ciechi. Se qualcuno possiede "una malattia del cuore", Dio non la cura e non la mitiga, ma la accresce. Qualche volta travia, induce in errore, insidia, tende tranelli, trama inganni: come Zeus, il grande ingannatore della religione greca.
Travolto da questa forza divina troppo grande, l´uomo si copre di peccati, di cui è innocente. Eppure, egli ne è colpevole. Dio vuole appunto questo: un mondo tessuto di peccati e di peccatori, che gli permetta l´atto divino del Perdono. Ibrahim, un asceta, girava attorno alla Ka´ba: presso la porta del santuario si fermò e disse: «Mio Signore, preservami dal peccato, affinché io non mi ribelli al tuo desiderio». Una voce che proveniva dal cuore della Ka´ba gli sussurrò: «O Ibrahim, mi chiedi di preservarti dal peccato. Tutti i miei servitori mi chiedono questo. Ma, se ti preservassi dal peccato, voi sareste privati della mia misericordia. Se tutti gli uomini fossero innocenti, a chi accorderei la mia grazia?».

Repubblica 18.10.10
Lapidazione psicologica in chiave clericale
di Mario Pirani


Questa Italia triturata da un federalismo improvvisato sta producendo, tra gli altri fenomeni negativi, l´esplodere di eventi locali destinati a ripercuotersi su scala nazionale, senza alcuna considerazione della coerenza costituzionale e delle contraddizioni e controversie, per effetto riflesso, cui possono dar luogo. È stato il caso, tanto per fare un esempio, della scuola di Adro ricoperta di simboli leghisti. Decisioni improvvide che, se non rintuzzate sul nascere, si presterebbero a una moltiplicazione dirompente. Ancor più grave dei fatti succitati è la legge presentata al Consiglio regionale del Lazio da Olimpia Tarzia (Pdl) presidente del Movimento per la vita, legge che si propone di stravolgere i consultori familiari, quando non di privatizzarli, affidandoli in gran parte ad organizzazioni religiose (naturalmente finanziate dalla Regione) e sottraendoli alle Asl cui oggi fanno capo. Ricordo in proposito che i consultori vennero introdotti per legge nel 1975 da un governo di centrosinistra, presieduto da Aldo Moro, al culmine della stagione delle riforme (diritto di famiglia, aborto, divorzio, sanità). La loro caratteristica è consistita nel fornire in primo luogo alle donne un unico servizio socio- sanitario ad accesso libero e gratuito per la assistenza nella preparazione alla maternità, alla tutela della salute della donna in fase di concepimento, alla informazione, promozione e assistenza sul tema della gravidanza, della sterilità, dei metodi d´intervento e di aiuto nelle procedure per l´adozione e l´affidamento, ecc. È falso, quindi, quanto sostiene oggi la maggioranza di destra che si occupino solo di aborto (dai dati dell´Asp del Lazio risulta che nel 2009 5500 donne si sono rivolte ai consultori per consulenze pre-concepimento e 10790 hanno partecipato ai corsi pre – parto).
La legge controriformista mira invece ad imporre all´universo mondo i dettami del fondamentalismo ecclesiastico. La libera decisione della singola donna è cancellata e al centro della nuova legge campeggia «la dimensione sociale della famiglia fondata sul matrimonio». Donne singole e coppie di fatto sarebbero quindi fuori dal nuovo ordinamento regionale. I consultori, in buona parte non più organi pubblici, dipenderebbero dalle associazioni familiari e dalle organizzazioni senza scopo di lucro che «promuovono la stabilità familiare e la cultura familiare «. Una torsione ideologica anticostituzionale che non solo privatizza il servizio ma esclude qualsiasi apporto del volontariato laico. Non manca, inoltre, la legittimazione del «figlio concepito quale membro della famiglia», una definizione dell´embrione che oltrepassa quella dei vescovi.
Si impone anche la presenza negli organi di direzione di un esperto di bio-etica e di un «mediatore familiare» (figure professionali mai istituite e, peraltro, «inappropriate» come recita una nota in proposito del Servizio legislativo del Consiglio regionale che, inoltre, avverte come molte norme della legge prestino il fianco «a possibili censure di costituzionalità».) Basti ricordare l´introduzione di un incentivo di 500 euro per i primi 5 anni di vita del nascituro promessi alle donne a basso reddito che rinuncino alla decisione di abortire, una voce che graverebbe per 100 milioni di euro annui senza copertura, destinati a crescere perché di fronte a una simile offerta ogni donna gravida fingerebbe di voler abortire. Moralmente la cosa peggiore è, però, il doppio percorso, una «lapidazione psicologica della donna», come ha scritto Giulia Rodano (Idv) attraverso la quale in violazione della legge 194 si vuole imporre ad opera dei bioetici dei neo-consultori un trattamento persecutorio per dissuaderla dall´abortire, accompagnato dall´obbligo se non accondiscendesse alla «difesa della famiglia», a firmare una specie di «consenso informato» con la confessione del rifiuto all´aiuto prestato dal consultorio.
Credo che neanche nella Spagna cattofranchista si fosse giunti a questo punto.

Repubblica 18.10.10
Un ricerca Usa rivela: abbiamo le stesse ansie e paure Test su nuovi farmaci aiuteranno a curare anche noi
Cani. Sono i migliori amici dello psichiatra
di Elena Dusi


Soggetti ad attacchi di panico, si mordono fianchi e zampe fino a ferirsi o inseguono la coda roteando in modo ossessivo
Geni e sindromi in comune: gli scienziati californiani stanno cercando di sfruttare queste similitudini
Narcolessia, deficit di attenzione, comportamenti compulsivi o aggressivi più diffusi di quanto si creda

Fra cani e padroni l´intesa è al primo sguardo. Ma gli uomini e i loro migliori amici non condividono solo voglia di affetto, solitudine o ansia. Osservare il comportamento di Solo, un border collie di 11 anni arruolato in un progetto di ricerca dell´università della California, aiuta a capire il perché. Solo inizia a tremare, uggiolare e correre per rifugiarsi in un luogo protetto ogni volta che sente un tuono. I fuochi d´artificio gli provocano veri e propri attacchi di panico, simili a quelli osservabili negli uomini.
L´esperienza è stata vissuta da tanti padroni, che sorridono e rincuorano i loro amici con una dose extra di carezze. Ma lo psichiatra Steven Hamilton, docente all´università della California di San Francisco, osservando il comportamento degli animali ha pensato di studiarli per capire meglio come funzionano le malattie degli uomini. E trovare nuove vie per curarle.
Solo e gli altri esemplari arruolati nello studio vengono trattati con antidepressivi e ansiolitici. Le loro reazioni avverse o gli eventuali miglioramenti sono annotati con cura dai ricercatori. Il funzionamento dei due tipi di farmaci è infatti sovrapponibile in uomini e cani, così come le percentuali di successo del trattamento. «Le similitudini sono evidenti» commenta Hamilton in un dossier dedicato dalla rivista Nature al «nuovo miglior amico degli psichiatri». E questo è vero soprattutto per gli animali con un pedigree: la rigida selezione genetica cui sono stati sottoposti negli ultimi due secoli, da un lato, ha fatto nascere malattie sia fisiche che mentali sconosciute ai meticci, dall´altro, ha reso i genomi più omogenei, facilitando la ricerca dei frammenti di Dna legati ai vari disturbi psichici.
«I cani - spiega Guoping Feng, genetista del Massachusetts Institute of Technology - sono l´unico modello esistente in natura per studiare i disordini psichiatrici. E sono anche perfetti per essere mappati geneticamente».
Una statistica della Tufts University stima che il 40 per cento dei 77 milioni di cani statunitensi soffrano di un non meglio precisato «disturbo comportamentale». Cifre difficili da verificare, ma che bastano ad alimentare un marketing per gli psicofarmaci che coinvolge anche gli animali domestici e che dà un contributo importante ai 15 miliardi di dollari che ogni anno i proprietari Usa spendono per i loro cani.
Gli psichiatri della California hanno deciso di sfruttare le somiglianze fra uomini e animali da compagnia per fini di ricerca, forti della conoscenza del Dna dei quattro zampe e della corrispondenza che alcuni geni coinvolti nelle malattie psichiatriche hanno fra le due specie.
Cane e uomo, a livello genetico, si rispecchiano in malattie come la narcolessia (caratteristica dei dobermann), nei disturbi ossessivo-compulsivi (riscontrati nei bull terrier, pastori tedeschi, danesi e golden retriever, che a volte si mordono fianchi e zampe fino a ferirsi o inseguono la coda roteando in modo ossessivo) o nei deficit di attenzione che sono stati notati in alcuni labrador impiegati come guida per ciechi.
La decisione di affidare la ricerca ai cani - dove la diagnosi precisa di disturbi psichiatrici è ancora più difficile che negli uomini - è un sintomo di quanto stagnante sia la situazione nella cura delle malattie mentali. Un´inchiesta pubblicata da Science a luglio, intitolata "Is Pharma running out of brainy ideas?" raccoglie tutti i casi di grandi aziende farmaceutiche intenzionate a chiudere i loro laboratori per lo sviluppo di nuovi farmaci.
La GlaxoSmithKline secondo la rivista è pronta ad abbandonare i settori di analgesici e antidepressivi, mentre AstraZeneca avrebbe deciso di chiudere alcuni centri di ricerca per medicinali contro schizofrenia, disturbo bipolare, depressione e ansia.
«La realtà - spiega a Science Thomas Insel, direttore dell´Istituto nazionale per la salute mentale negli Usa - è che da anni in questo campo non ci sono farmaci o idee nuove. E quasi nulla dà speranza al settore delle malattie mentali». Spetta ora ai migliori amici dell´uomo smentire la tesi sconsolata dello psichiatra.

Agenzia Radicale 18.10.10
Psychépolis / Trattati come cani
di Flore Murard-Yovanovitch e Paolo Izzo


Dalla lettura di "Cani. Sono i migliori amici dello psichiatra" (Elena Dusi, "la Repubblica" 18.10.10) si evince che, oltre a chi vuole diventare una star di Hollywood, si potrebbe consigliare di andare in California anche a chi voglia intraprendere una brillante carriera in neuropsichiatria. I più avanguardistici studi sulla mente umana vengono da lì e l'ultimo in ordine di tempo è la rappresentazione di questo primato, conteso soltanto dai tedeschi di Jena.
Dopo le pecore sognatrici germaniche, infatti, e la scoperta californiana di un'attività neurale nei moscerini - entrambi gli animali molto liberamente associati all'essere umano - dalla patria di Schwarzenegger e Rambo adesso arrivano i cani pazzi: attraverso lo studio dei più fedeli amici dell'uomo, l'Università di San Francisco ha appena decretato che siamo come loro. Stesse malattie mentali, stesse cure farmacologiche. Così, proprio mentre le case psicofarmaceutiche americane rischiano la chiusura per l'inefficacia dei trattamenti organistici delle malattie mentali, ecco che nuova linfa potrebbe arrivare loro dall'osservazione di Fido e Pluto.
Questo, dunque, lo stato dell'arte della psichiatria mondiale: non potendo ammettere il fallimento pressoché totale del trattamento farmacologico nella cura della malattia mentale, non sapendo che pesci pigliare nemmeno da un punto di vista psicoterapeutico, ancora legati come sono a Freud e ai suoi derivati, gli scienziati del cervello si riducono a fare bau bau. Mentre sono i malati di mente, ancora e sempre, ad essere trattati come cani. (pi)

l’Unità 17.10.10
Mussolini, il Lenin di sua Maestà
La presa di potere e le contorsioni del Duce nell’ultimo libro di Donald Sasson che spiega la natura politica del fascismo
di Bruno Gravagnuolo


Negli ultimi decenni a causa di certi equivoci della storiografia defeliciana, la natura di destra, e anzi di di estrema destra, antioperaia connaturata al fascismo e a Mussolini è stata spesso oscurata. E ciò in virtù degli elementi populistici, statalisti e «sovversivi» del regime. Nonché delle ambiguità culturali di Mussolini stesso, passato dalla sinistra estrema via interventismo al ruolo di capo carismatico e nazionale di un’Italia «proletaria e in camicia nera». Con l’accordo di Confindustria, Corona e, da ultimo, Chiesa. Ora arriva un nitido saggio storiografico di marca anglosassone, scritto da Donald Sassoon, studioso tra l’altro di Togliatti, socialismo europeo, e anche del «mistero della Gioconda», che fa giustizia di tanti equivoci sulla natura politica del fascismo e del suo fondatore: Come nasce un dittattore. Le cause del trionfo di Mussolini. Come avrete capito da titolo e sottotitolo non si tratta di una disamina politologica, bensì di un vero e proprio dossier storiografico, nutrito di fonti e documentazione eccellenti (e tra i britannici Lyttelton, MackSmith e Petersen). Il quale va al cuore del problema, con una narrazione ben inquadrata nel tornio di anni che va dall’anteguerra al 1925.
E che ne viene fuori? Due cose fondamentali, indistricabilmente connesse. La prima è la crisi di legittimità e di governabilità che colpisce lo stato italiano tra anteguerra e dopoguerra, segnata dallo sfaldarsi del blocco sociale ed elettorale giolittiano e dall’irrompere in campo di nuovi protagonisti sociali. La seconda, interna alla prima, è invece quella che mostra il trasformismo d’assalto di Mussolini. Convertitosi da leader socialista in outsider e transfuga interventista. Che comincia a declinare la «rivoluzione» in termini nazionalistici, combattentistici e anarco-sindacalisti.
NEI MEANDRI PSICOLOGICI
Lo spostamento psicologico che avviene in Benito Amilcare Mussolini, figlio romagnolo di un fabbro piccolo possidente e di una maestra, è analogo a quello del paese: una parte della sinistra si stacca dalle sue radici e comincia ad inseguire «rivoluzione» e potere, cavalcando le masse in accordo coi ceti e i poteri dominanti. Certo Sassoon non scende nei meandri psicologici del Duce, ma in qualche modo ce li fa vedere tramite il racconto di uno slittamento di posizioni che condurrà il futuro Duce al centro degli eventi. Quegli eventi che né Giolitti, né i socialisti, né i neonati cattolici popolari seppero leggere e dominare. Un po’ come è capitato e capita al centro sinistra dinanzi all’anomalia Berlusconi e al suo blocco sociale. Giolitti dunque non riesce a coinvolgere i socialisti nel disegno di allargamento delle basi sociali dello stato liberale. I socialisti farneticano di rivoluzione senza poterla fare e senza darsi uno sbocco di governo (erano il primo partito ancora nel 1921!). Mentre i cattolici, sono succubi del Vaticano, divisi tra centristi e solidaristi, e non disposti ad allearsi con i socialisti. E qui si inserisce Mussolini, partito con un piccolo drappello di «sansepolcristi» nel 1919 e capace via via di calamitare ex combattenti, studenti, coltivatori, commercianti, impiegati, sbandati, ufficiali. Capace di far «blocco» dall’interno e dall’esterno dello stato e con la forza che gli viene da banche, industrie, estabilishment (anche intellettuale: con Croce ed Einaudi in prima fila oltre a Gentile). Quanto a Giolitti, Bonomi e Nitti, tentano in chiave suicida di «cooptare» Mussolini. Ma finiscono con il subirne la prepotenza politica, oltre che fisica sul territorio (le squadracce come è noto erano guardate con simpatia da esercito, prefetti e carabinieri).
Ecco allora il punto ben narrato da Sassoon: Mussolini, scimmiottando a parole Lenin, costrusce un «contropotere» nella società civile che arriva dentro lo stato. Ci arriva alla fine in vagone letto da Milano. E alla fine il sovrano, cauto reazionario, lo riceve a Roma, conferendogli l’incarico e spazzando via l’emergenza decretata da Facta, benché i fascisti alla camera siano solo 35. Pateticamente Giolitti, come racconta l’amante del Duce di allora, Margherita Sarfatti, tenterà di rimuovere Mussolini dalla postazione in cui lui stesso lo aveva proiettato. Promettendogli di «rimetterlo» nel ruolo di primo ministro, laddove il Duce si fosse dimesso dopo il caso Matteotti! E il tutto accade mentre i socialisti si dividono in tre. riformisti, massimalisti e comunisti. Con un’opposizione subalterna, cooptata o impotente fino al fatale caso Matteotti. Neanche allora, col fascismo alle corde, c’è uno straccio di politica davvero unitaria. Morale, il trasformista d’assalto Mussolini, mescolando retorica plebea, emergenza, galantomismo e furbizie, è quello che più intende d’istinto la crisi dello stato liberale, con le masse escluse. Perciò, non lesinando la violenza, le riorganizza su base nazionale e autoritaria, imprimendo un segno di massa e «governista» al suo regime reazionario in fieri. E così alla fine fu fascismo.

Bibliografia
I testi di cui parliamo in questa pagina

Donald Sassoon «Come nasce un dittattore. Le cause del trionfo di Mussolini» (pagine 189, euro 17,00, Rizzoli)
Enzo Golino «Parola di Duce. Come si manipola una nazione» (pagine 132, euro 9,00, Rizzoli)
Roberto Festorazzi «Margherita Sarfatti. La donna che inventò Mussolini Il Duce segreto tra mito e antimito» (pagine 431, euro 22,00, Angelo Colla editore)
Palmiro Togliatti «Corso sugli avversari Le lezioni sul fascismo» (a cura di F.M. Biscione, pagine 356, euro 13,00, Einaudi)

«… (il) distacco dalla fede, (…) si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo (…) una preoccupante perdita del senso del sacro (…) [Un]deserto interiore (…) nasce là dove l'uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose…»

L’Osservatore Romano 13.10.10
Il motu proprio con cui Benedetto XVI istituisce il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione
Ubicumque et semper. Il Vangelo sempre e dovunque

Lettera Apostolica  in forma di Motu Proprio del Sommo Pontefice Benedetto XVI con la quale si istituisce il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione

La Chiesa ha il dovere di annunciare sempre e dovunque il Vangelo di Gesù Cristo. Egli, il primo e supremo evangelizzatore, nel giorno della sua ascensione al Padre comandò agli Apostoli:  "Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28, 19-20). Fedele a questo comando la Chiesa, popolo che Dio si è acquistato affinché proclami le sue ammirevoli opere (cfr. 1 Pt 2, 9), dal giorno di Pentecoste in cui ha ricevuto in dono lo Spirito Santo (cfr. At 2, 14), non si è mai stancata di far conoscere al mondo intero la bellezza del Vangelo, annunciando Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, lo stesso "ieri, oggi e sempre" (Eb 13, 8), che con la sua morte e risurrezione ha attuato la salvezza, portando a compimento la promessa antica. Pertanto, la missione evangelizzatrice, continuazione dell'opera voluta dal Signore Gesù, è per la Chiesa necessaria ed insostituibile, espressione della sua stessa natura. 
Tale missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici. Nel nostro tempo, uno dei suoi tratti singolari è stato il misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo. Le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo. Si pensi ai giganteschi progressi della scienza e della tecnica, all'ampliarsi delle possibilità di vita e degli spazi di libertà individuale, ai profondi cambiamenti in campo economico, al processo di mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori, alla crescente interdipendenza tra i popoli. Tutto ciò non è stato senza conseguenze anche per la dimensione religiosa della vita dell'uomo. E se da un lato l'umanità ha conosciuto innegabili benefici da tali trasformazioni e la Chiesa ha ricevuto ulteriori stimoli per rendere ragione della speranza che porta (cfr. 1 Pt 3, 15), dall'altro si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell'uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale. 
Se tutto ciò è stato salutato da alcuni come una liberazione, ben presto ci si è resi conto del deserto interiore che nasce là dove l'uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose. 
Già il Concilio Ecumenico Vaticano ii assunse tra le tematiche centrali la questione della relazione tra la Chiesa e questo mondo contemporaneo. Sulla scia dell'insegnamento conciliare, i miei Predecessori hanno poi ulteriormente riflettuto sulla necessità di trovare adeguate forme per consentire ai nostri contemporanei di udire ancora la Parola viva ed eterna del Signore. 
Con lungimiranza il Servo di Dio Paolo vi osservava che l'impegno dell'evangelizzazione "si dimostra ugualmente sempre più necessario, a causa delle situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni, per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall'insegnamento ricevuto nella loro infanzia, e per molti altri" (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, n. 52). E, con il pensiero rivolto ai lontani dalla fede, aggiungeva che l'azione evangelizzatrice della Chiesa "deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo" (Ibid., n. 56). Il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo ii fece di questo impegnativo compito uno dei cardini del suo vasto Magistero, sintetizzando nel concetto di "nuova evangelizzazione", che egli approfondì sistematicamente in numerosi interventi, il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare nelle regioni di antica cristianizzazione. Un compito che, se riguarda direttamente il suo modo di relazionarsi verso l'esterno, presuppone però, prima di tutto, un costante rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da evangelizzata ad evangelizzatrice. Basti ricordare ciò che si affermava nell'Esortazione postsinodale Christifideles Laici:  "Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell'indifferentismo, del secolarismo e dell'ateismo. Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto Primo Mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta "come se Dio non esistesse". Ora l'indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio per i problemi anche gravi della vita non sono meno preoccupanti ed eversivi rispetto all'ateismo dichiarato. E anche la fede cristiana, se pure sopravvive in alcune sue manifestazioni tradizionali e ritualistiche, tende ad essere sradicata dai momenti più significativi dell'esistenza, quali sono i momenti del nascere, del soffrire e del morire. (...) In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d'essere disperso sotto l'impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà. Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni" (n. 34). 
Facendomi dunque carico della preoccupazione dei miei venerati Predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione. Essa fa riferimento soprattutto alle Chiese di antica fondazione, che pure vivono realtà assai differenziate, a cui corrispondono bisogni diversi, che attendono impulsi di evangelizzazione diversi:  in alcuni territori, infatti, pur nel progredire del fenomeno della secolarizzazione, la pratica cristiana manifesta ancora una buona vitalità e un profondo radicamento nell'animo di intere popolazioni; in altre regioni, invece, si nota una più chiara presa di distanza della società nel suo insieme dalla fede, con un tessuto ecclesiale più debole, anche se non privo di elementi di vivacità, che lo Spirito Santo non manca di suscitare; conosciamo poi, purtroppo, delle zone che appaiono pressoché completamente scristianizzate, in cui la luce della fede è affidata alla testimonianza di piccole comunità:  queste terre, che avrebbero bisogno di un rinnovato primo annuncio del Vangelo, appaiono essere particolarmente refrattarie a molti aspetti del messaggio cristiano. 
La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di "nuova evangelizzazione" non significa, infatti, dover elaborare un'unica formula uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della grazia. Infatti, non possiamo dimenticare che il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all'opera gratuita dello Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il cuore di coloro che ascoltano. Per proclamare in modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio. 
Come ho avuto modo di affermare nella mia prima Enciclica Deus caritas est:  "All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (n. 1). Similmente, alla radice di ogni evangelizzazione non vi è un progetto umano di espansione, bensì il desiderio di condividere l'inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita. 
Pertanto, alla luce di queste riflessioni, dopo avere esaminato con cura ogni cosa e aver richiesto il parere di persone esperte, stabilisco e decreto quanto segue: 
Art.1.
1. È costituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, quale Dicastero della Curia Romana, ai sensi della Costituzione apostolica Pastor bonus. 
2. Il Consiglio persegue la propria finalità sia stimolando la riflessione sui temi della nuova evangelizzazione, sia individuando e promuovendo le forme e gli strumenti atti a realizzarla.
Art. 2.
L'azione del Consiglio, che si svolge in collaborazione con gli altri Dicasteri ed Organismi della Curia Romana, nel rispetto delle relative competenze, è al servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione.
Art. 3.
Tra i compiti specifici del Consiglio si segnalano:  
1. approfondire il significato teologico e pastorale della nuova evangelizzazione; 
2. promuovere e favorire, in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate, che potranno avere un organismo ad hoc, lo studio, la diffusione e l'attuazione del Magistero pontificio relativo alle tematiche connesse con la nuova evangelizzazione; 
3. far conoscere e sostenere iniziative legate alla nuova evangelizzazione già in atto nelle diverse Chiese particolari e promuoverne la realizzazione di nuove, coinvolgendo attivamente anche le risorse presenti negli Istituti di Vita Consacrata e nelle Società di Vita Apostolica, come pure nelle aggregazioni di fedeli e nelle nuove comunità; 
4. studiare e favorire l'utilizzo delle moderne forme di comunicazione, come strumenti per la nuova evangelizzazione; 
5. promuovere l'uso del Catechismo della Chiesa Cattolica, quale formulazione essenziale e completa del contenuto della fede per gli uomini del nostro tempo.
Art. 4
1. Il Consiglio è retto da un Arcivescovo Presidente, coadiuvato da un Segretario, da un Sotto-Segretario e da un congruo numero di Officiali, secondo le norme stabilite dalla Costituzione apostolica Pastor bonus e dal Regolamento Generale della Curia Romana. 
2. Il Consiglio ha propri Membri e può disporre di propri Consultori. 
Tutto ciò che è stato deliberato con il presente Motu proprio, ordino che abbia pieno e stabile valore, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione nel quotidiano "L'Osservatore Romano" e che entri in vigore il giorno della promulgazione. 
Dato a Castel Gandolfo, il giorno 21 settembre 2010, Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, anno sesto di Pontificato.
BENEDETTO PP. XVI

Lo rivendicano... Ecco le radici della pedofilia cattolica
L’Osservatore Romano 14.10.10
L'incontro tra la paideia greca e il cristianesimo primitivo
E l'uomo fu rivelato all'uomo
di Leonardo Lugaresi


Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni tenute a San Marino in occasione del convegno "Pensiero classico e cristianesimo antico. A cinquant'anni dalla pubblicazione del volume di Werner Jaeger Cristianesimo primitivo e paideia greca (1961)" organizzato dalla Fondazione internazionale Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa. 


Il grande merito di un libro come Cristianesimo primitivo e paideia greca (1961) è quello di individuare nella paidèia il terreno di incontro e, più ancora, l'elemento fondamentale del rapporto tra cristianesimo ed ellenismo. L'idea fondamentale della paidèia greca - così come Werner Jaeger l'ha sentita in prima persona e mirabilmente illustrata nella sua opera principale, Paideia. La formazione dell'uomo greco - è che l'uomo diventa uomo solo grazie a un processo di formazione che si compie attraverso la cultura (sia essa cultura retorica, come in Isocrate, o cultura filosofica come in Platone, o la fusione di entrambe, come prevalentemente accade, ad esempio, nella Seconda Sofistica). "Nell'educazione", egli afferma sin dalla prima pagina del suo capolavoro, "opera quella medesima volontà di vita, plastica e generatrice, della natura, la quale spontaneamente tende a propagare e conservare ogni specie vivente nella sua forma; ma in questo gradino è portata alla massima intensità mediante il finalismo della coscienza e della volontà umana consapevoli". L'umanità, dunque, non è un dato naturale, biologico, ma un portato della cultura:  l'uomo è veramente e pienamente uomo solo grazie ai lògoi, alle humanae litterae.
Ora, la posizione del cristianesimo rispetto a questo assunto fondamentale della cultura greca (e poi greco-romana) è dialettica, e non presenta quella totale corrispondenza che sembra emergere dal libro di Jaeger:  sta in questo, a mio avviso, il suo limite principale. A Jaeger preme mostrare la corrispondenza tra cristianesimo ed ellenismo, e certo lo fa in modo profondo ed efficace, ma il suo corre il rischio di essere un approccio unilaterale, che finisce per vedere nell'ellenismo il momento di inveramento del cristianesimo. Quando, ad esempio, fa sua con entusiasmo l'affermazione di Droysen che senza l'ellenismo "sarebbe stato impossibile il sorgere di una religione cristiana universale", assume una posizione su cui, dal punto di vista cristiano, ci sarebbe molto da ridire. Non serve moltiplicare le citazioni:  questa è l'impostazione di Cristianesimo e paideia greca, la lente con cui legge tutta la vicenda dei rapporti tra cristianesimo e ellenismo, e va presa e apprezzata per quello che di importante può dirci ancora oggi, senza però dimenticare quello che non vede. È naturale, per fare un solo esempio, che da quel punto di vista a Jaeger risulti "veramente rivelatore" il profilo che di Origene fa Porfirio,  e  appaia  già risolta la complessa questione del rapporto tra il pensiero origeniano e la filosofia greca. 
Certo, è indubbio che il cristianesimo assume totalmente la prospettiva della centralità dell'educazione, ed è convinto, sin dalle origini, della necessità di un lavoro culturale perché l'uomo realizzi pienamente la sua umanità. Del resto, qual è la forma iniziale con cui la compagnia di Cristo e dei suoi si presenta nel mondo? Un maestro attorniato dai suoi discepoli. È questo un tratto distintivo che il cristianesimo ha sempre avuto, dagli inizi della sua vicenda storica, quando nel rapporto con il mondo greco-romano ha preso le distanze dagli altri culti e si è voluto piuttosto avvicinare alle filosofie, anzi si è posto come la "vera filosofia", fino ad oggi:  basti pensare a come il magistero di Giovanni Paolo ii si sia incardinato sulla convinzione che genus humanum arte et ratione vivit, secondo la nota formula tomista da lui richiamata sin dal suo primo discorso all'Unesco nel giugno del 1980, e a come tutto l'insegnamento di Benedetto XVI si sviluppi in un paziente lavoro di educazione della ragione dell'uomo contemporaneo. Si potrebbe quasi dire, come è stato argutamente osservato, che il cristiano è sempre, per definizione, un intellettuale, anche quando si tratta di un contadino analfabeta, perché gli è comunque richiesto - ovviamente nei limiti e nei modi appropriati alle sue capacità intellettuali - di conoscere e comprendere un credo. La fede, per darsi, deve in qualche modo comprendere ciò che crede, e questo esige da ciascun credente un vero e proprio percorso di conoscenza. Gli studiosi di storia del cristianesimo antico e di letteratura cristiana antica sono abituati, per deformazione professionale, a considerare l'omiletica e la catechetica cristiana dei primi secoli solo dalla parte degli autori, o al massimo a porsi il problema dei destinatari e dei modi di circolazione dei testi ma guardandoli sempre dall'esterno, come termini di un processo di cui conta soprattutto il punto di partenza:  non si pensa quasi mai all'ascolto e all'assimilazione di quegli stessi testi nei termini di un vero lavoro intellettuale. Certo, lo stato delle fonti non ce lo permette più di tanto, ma se un po' lo facessimo - anche solo come esercizio mentale - capiremmo meglio l'eccezionalità, e non solo relativamente a quel tempo, di una prassi catechetica che proponeva a tutti, anche alle categorie escluse dalla paideia classica, un vero e proprio percorso di apprendimento. Spunti preziosi, in questo senso, si potrebbero ricavare dalle omelie di Giovanni Crisostomo, dove non sono rari gli accenni che il predicatore fa, anche entrando nei dettagli, al lavoro di ripresa del suo insegnamento che si aspetta dai fedeli una volta tornati a casa. 
Il principio antropologico cristiano, però, è del tutto diverso da quello greco:  ciò che rende umano l'uomo è la "relazione creaturale", non la cultura. L'uomo è uomo non in quanto sa, ma in quanto ama, e può amare perché prima è stato a sua volta "creativamente amato". L'uomo è uomo perché è l'amore di Dio a costituirlo come tale. È l'amore creativo della Trinità che lo costituisce nella sua umanità, non la cultura. Si noti che questo principio rimane vero anche quando dal piano individuale si passa a quello collettivo, "politico":  non solo l'identità dell'uomo cristiano è costituita dalla relazione, ma anche quella del "popolo" cristiano, giusta la celebre definizione ciprianea della Chiesa come de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata (De oratione dominica, 23) ripresa nel quarto capitolo della Lumen gentium. Quella cristiana è dunque un'"etnia sui generis", per usare l'espressione cara a Paolo vi, perché trova il proprio criterio di identificazione non nel sangue o nella cultura, ma nella relazione trinitaria. 
Da questo assunto, tuttavia, non scaturisce affatto un atteggiamento anticulturale, nonostante la dichiarata preferenza di Gesù per i semplici rispetto ai sapienti e agli intelligenti (Matteo, 11, 25), la sottolineatura, spesso presente nell'apologetica cristiana, dell'ignoranza degli apostoli e della rozzezza del loro sermo piscatorius e nonostante una certa "posa" che a volte taluni cristiani assumono e che trova la più paradossale espressione nella famosa domanda di Tertulliano:  Quid ergo Athenis et Hierosolymis? quid academiae et ecclesiae? (De praescritione haereticorum, 7). Domanda retorica quant'altre mai, non solo perché contiene già la sua risposta, ma anche nel senso che è il frutto di una retorica raffinata, esibita proprio nel momento stesso in cui se ne rifiuta la pertinenza al cristianesimo. In realtà questa linea "anticulturale", se così possiamo dire, è prevalentemente combattuta dagli autori cristiani e bollata come agroikìa, cioè come rozzezza, e accusata di ostacolare l'approfondimento della fede in conoscenza. Come lamenta Clemente Alessandrino, "a quanto pare, i più di coloro che si fregiano del nome (di cristiani), come i compagni di Ulisse, coltivano il Lògos rozzamente:  essi passano oltre, non alle Sirene, ma al ritmo e alla melodia, essendosi turati le orecchie per ignoranza, giacché sono persuasi che non ritroverebbero più la via del ritorno una volta porto orecchio alle dottrine greche" (Stromati 6, 89, 1) 
Questa difesa della cultura non è un elemento accessorio o una conseguenza secondaria del cristianesimo, ma una sua esigenza vitale:  essa ha una motivazione di fondo, che costituisce anche il punto di incontro con la paidèia greca. Il fatto è che la relazione di Dio con l'uomo, di cui sopra abbiamo detto che è costitutiva dell'identità umana, nel cristianesimo è concepita e rappresentata essa stessa in termini di educazione. Quella relazione, cioè, è essenzialmente una relazione educativa, una pedagogia; e ciò è possibile perché il lògos, inteso come ragione (con i lògoi, cioè la cultura, che ne sono il frutto), è il termine comune tra Dio, che si rivela nel Lògos, e l'uomo. Questo è un aspetto che Jaeger coglie molto bene, in uno dei passaggi più felici del libro, quando, rifacendosi al lavoro di Hal Koch, Pronoia und Paideusis (1932), parla di Origene e della sua "concezione del cristianesimo come paideia del genere umano" e in quanto tale "adempimento della divina provvidenza". Questa fondamentale intuizione, che l'amore di Dio verso l'uomo si esplica in una paidèia dell'umanità, che comincia dalla creazione di Adamo ed Eva, prosegue nel rapporto con il popolo eletto e culmina nell'azione pedagogica del Lògos, rende possibile - anzi in un certo senso richiede - l'assunzione da parte cristiana della centralità del concetto di paidèia, come è perfettamente illustrato dal piano generale dell'intera opera di Clemente Alessandrino, che si presenta come omologa al piano di Dio, secondo la scansione del Lògos Protrettico, Pedagogo e Didàskalos. Diventa allora assai interessante riflettere sul rapporto tra il cristianesimo e la scuola, tema a cui Jaeger accenna più volte nel corso del libro, in particolare quando parla della scuola di Origene a Cesarea, dell'esperienza formativa ad Atene del giovane Gregorio di Nazianzo e del suo amico Basilio di Cesarea e del famoso Discorso ai giovani in cui quest'ultimo tratta del modo in cui gli studenti cristiani possono trarre profitto dalla lettura degli autori pagani.

Avvenire 14.10.10
Così i gemelli fanno amicizia già nel grembo
Uno studio pioneristico dimostra che i feti compiono movimenti specifici di interazione diretti verso i fratellini
di Andrea Lavazza


Per Aristotele siamo «animali politici». Per gli psicologi contemporanei siamo una specie dalla spiccata natura sociale, fin dalla nascita. Ora si è scoperto che l’interazione con i nostri simili può cominciare già nel grembo materno, quando ci si trovi 'in compagnia', come accade ai gemelli. Lo studio innovativo, pubblicato sulla rivista «PLos One», è stato realizzato da un gruppo di ricerca che ha unito tre università italiane, coordinato dal professor Umberto Castiello (docente di psicobiologia a Padova). Ne abbiamo parlato con lui, Vittorio Gallese (docente di fisiologia umana a Parma, tra gli scopritori dei neuroni specchio) e con Cristina Becchio (Università di Torino).
Sappiamo che i neonati fin dai primi istanti di vita sono predisposti all’inte­razione sociale. Dal vostro studio e­merge che la tendenza a socializzare si manifesta anche prima di nascere. Co­me siete riusciti ad appurarlo?
Per i feti singoli – risponde Castiello – l’utero materno è un luogo solitario, in cui non esistono le condizioni per un’azione sociale, intendendo per «azione sociale» un’azione rivolta verso un altro individuo. Per capire se una predisposizione all’azione sociale fosse presente anche prima della nascita, ci siamo quindi rivolti allo studio dei feti gemelli, che possono essere utilizzati come un perfetto 'esperimento naturale'. La domanda che ci siamo posti è se i feti eseguano movimenti specificamente diretti verso il gemello.
L’attività motoria dei feti nell’utero è piuttosto intensa e, a differenza di quanto si riteneva in passato, non comprende solo movimenti riflessi.
Studiando il movimento dei feti singoli, avevamo già dimostrato come le caratteristiche spaziali e temporali del movimento del braccio siano diverse secondo che il movimento sia diretto al proprio corpo oppure alla parete dell’utero. Questo studio estende per la prima volta l’analisi delle caratteristiche del movimento ai feti gemelli.
Chi tipo di relazione si instaura nell’u­tero tra le coppie di gemelli? C’è un’e­voluzione? Che tempi ha?
Nei primi mesi di gravidanza – spiega Becchio –, i feti sono troppo lontani per interagire. Con l’avanzare della gravidanza, il contatto tra gemelli diventa tuttavia possibile e presto quasi inevitabile. Quello che questo studio dimostra è che il contatto tra feti non è il risultato accidentale della prossimità spaziale, ma deriva da una pianificazione motoria. A partire dalla 14ª settimana di gestazione, i feti pianificano movimenti diretti verso il gemello. Questi movimenti hanno caratteristiche diverse rispetto ai movimenti diretti verso la parete uterina e verso se stessi e, tra la 14ª e la 18ª settimana, tendono a aumentare di frequenza.
Che tecnica è stata utilizzata? C’erano rischi per i bambini?
La tecnica che abbiamo utilizzato – dice Castiello – è molto innovativa e si basa sull’applicazione dell’analisi cinematica ai movimenti fetali. I movimenti dei feti sono stati ripresi utilizzando l’ecografia
Pquadridimensionale (4D), una recente evoluzione della normale ecografia che consente di osservare il movimento dei feti nel tempo. Utilizzando un software speciale, abbiamo quindi ricostruito e analizzato i paramenti di movimento, arrivando così a caratterizzare in termini quantitativi tre diverse tipologie di movimento: diretto verso se stessi, diretto verso la parete uterina e diretto verso il gemello. La registrazione dei movimenti è avvenuta in due diverse sessioni della durata di 20 minuti ciascuna: la prima a 14 settimane, la seconda a 18. L’ecografia 4D è una tecnica non invasiva che non comporta rischi, né per i feti né per la madre. Dato il livello di sviluppo cerebrale che hanno i bambini in gestazione che avete analizzato, che cosa si può infe­rire dal comportamento osservato? La socialità è innata, contrastata in segui­to da altre tendenze?
I risultati del nostro studio – risponde Gallese – dimostrano non solo un precoce sviluppo del sistema motorio, ma anche una sorprendente e precoce capacità di organizzare e controllare i movimenti in modo differente, in base a dove sono diretti. Sembra esistere già un’organizzazione funzionale motoria in grado di differenziare i movimenti diretti all’esterno, verso il proprio corpo o verso il corpo del fratello. Una delle conseguenze è che ogni feto si muove più 'delicatamente' quando lo fa verso il suo simile.
Probabilmente è qui che si pongono le basi per la futura costituzione di un Sè differente dall’Altro, che al tempo stesso ne rappresenta l’altra faccia. Non so se la socialità sia innata. I dati sembrano mostrare che siamo quantomeno predisposti ad essa. C’è un impulso motorio che diventa molto presto un impulso verso l’Altro. L’Altro è costitutivamente implicato dal nostro esserci, prima di tutto, a livello del nostro sistema motorio.
È pensabile che abbiano un ruolo i neuroni specchio?
Credo di no – spiega ancora Gallese –.
Quello che i dati aiutano forse a comprendere è come nasca il meccanismo neurale del rispecchiamento. Si può ipotizzare che il precoce sviluppo pre-natale del sistema motorio in termini di schemi differenti per differenti 'scopi' motori possa condizionare, forse grazie a connessioni predeterminate geneticamente, una particolare sensibilità di una parte del sistema visivo al movimento intenzionale.
Immediatamente dopo la nascita, l’osservazione da parte del neonato di atti motori come protrudere la lingua o muovere la mano compiuti dall’adulto ne evoca l’imitazione. Il suo sistema motorio è stato attivato dall’osservazione di un gesto mai visto prima, che però è processato come tale dal sistema visivo perché il sistema motorio gli ha insegnato a 'riconoscerlo'.