l’Unità 20.10.10
Bersani accusa: «Un mostro giuridico. E da Futuro e libertà un grosso deficit di coerenza»
Il Pd insorge: «Vergogna Faremo le barricate»
Dure le reazioni di Pd e Idv al voto del Senato sul Lodo Alfano retroattivo. Bersani: «Una vergogna. Faremo le barricate». Di Pietro: «Pronti per un referendum». Casini annuncia che l’Udc si asterrà dal voto in Aula.
di Maria Zegarelli
Un «mostro giuridico», un altro tra i tanti figlio di un Parlamento nominato dall’alto, che deve rendere conto del proprio operato non agli italiani ma a quelli giuridici del Presidente del Consiglio. È durissima la reazione di Pd e Idv all’approvazione del Lodo Alfano retroattivo approvato ieri dalla Commissione Affari costituzionali del Senato con il voto di Fli. Pier Luigi Bersani annuncia le «barricate» e definisce «vergognosa» la retroattività. «Viaggiamo ai limiti dell’assurdo commenta con i giornalisti a Montecitorio -. Credo che sia indecoroso e vergognoso pensare di procedere alla soluzione per via parlamentare e costituzionale. Daremo battaglia con tutte le nostre forze».
COERENZE
Quanto al voto dei finiani, Bersani lo definisce, «un grosso deficit di coerenza», perché «una norma del genere fatta nel bel mezzo di una vicenda processuale che riguarda una persona, è una legge ad personam. Evidentemente Fli non ha fatto questa valutazione e a me sembra un elemento di incoerenza». Non va per il sottile Antonio Di Pietro, secondo cui il voto di ieri «smaschera il finto ritorno alla legalità di Fli. È squallido continua l’ex pm non ciò che ha fatto la maggioranza berlusconiana ma l’apprezzamento della maggioranza finiania», quella stessa che a Mirabello «aveva detto di non poter più seguire Berlusconi sui temi della moralità». Di Pietro ritira fuori anche il milione di firme raccolte la scorsa estate per il referendum e, dice, stavolta saranno gli italiani «ad assumersi la responsabilità» di vivere in una democrazia «o in un regime».
Più misurato Pierferdinando Casini, Udc, che definisce «una scelta sbagliata» il voto in Commissione, ma aggiunge anche che il suo partito non si metterà di traverso sulla strada del Lodo, «al Senato ci asterremo». Seguendo il filo logico dei suoi pensieri l’ex presidente della Camera parte da una constatazione: l’«anomalia italiana», cioè un premier che nel cassetto ha diversi procedimenti a suo carico, e tira le somme le somme: «Si tratta appunto di un’anomalia e quindi la retroattività è un errore, ma non metteremo veti sul Lodo Alfano, perché la nostra intenzione è di dare un segnale di stabilità e tentare di rimuovere il macigno dei processi del premier una volta per tutte».
Dice «no» Pino Pisicchio, dell’Api, secondo il quale discutere di «uno scudo processuale per i vertici dello Stato», non può tradursi di fatto in un’«immunità sempiterna». L’emendamento approvato ieri Pisicchio lo legge come «un grazioso cadeau nella lunga serie dei provvedimenti “berlusconiani”», mentre per la presidente dei senatori Pd, Anna Finocchiaro, «è l’ennesimo schiaffo alla giustizia del nostro paese».
Il portavoce Idv Leoluca Orlando, chiama in causa il presidente Napolitano: «Trovi il modo per non coinvolgere la presidenza della Repubblica in questa immorale proposta. Credia-
mo e chiediamo che Napolitano sappia trovare le forme più opportune per tenere il Quirinale fuori da questa norma scellerata». Dal Colle parte una nota nella quale tra l’altro si ribadisce che «la Presidenza della Repubblica resta sempre rigorosamente estranea alla discussione» di qualunque proposta di legge o di una sua norma. Giulia Bongiorno, fedelissima di Fini, respinge le accuse, non è cambiato nulla nel Lodo, era già decisa la linea di Fli. Sarà anche così, ma oggi il suo gruppo è nella bufera.
l’Unità 20.10.10
Bersani chiama le parti sociali «E l’anno prossimo saremo al governo»
Mentre cala la fiducia degli italiani nel premier, ormai al 37%, Bersani convoca le parti sociali per illustrare le proposte del Pd per far ripartire il Paese. E brinda:«Il prossimo compleanno a Palazzo Chigi».
di Maria Zegarelli
Silvio Berlusconi avrà fatto gli scongiuri quando gli hanno riferito di quel brindisi di ieri mattina al Nazareno. A stappare lo spumante italiano davanti ai suoi collaboratori, Pier Luigi Bersani, il segretario del Pd che lavora all’alternativa ma anche al governo di transizione. «Il prossimo compleanno lo festeggeremo al governo», ha detto il leader Pd festeggiando con tre settimane di ritardo il suo compleanno perché il 29 settembre alla Camera si votava la fiducia al premier e certo non era aria.
SILVIO MAI COSI “SFIDUCIATO”
Ottimista Bersani, nel giorno in cui l’ultimo sondaggio Ipr marketing per «Repubblica.it» registra un ulteriore calo di fiducia nei confronti di Silvio Berlusconi, mai così in basso: 37%, due punti sotto rispetto ad un mese fa, una caduta vertiginosa rispetto al 53% del 2009. Male lui, male il Pdl, meno 5% e male il governo, gli italiani si fidano sempre meno. Stabile il Pd al 27, un po’ meno l’Idv.
Ma adesso il segretario deve fare un salto oltre le polemiche nate per la manifestazione di sabato scorso della Fiom che hanno coinvolto non solo il Pd al suo interno, ma ancora una volta i sindacati. Bersani è convinto l’unità sarà raggiungibili soltanto rimettendo al centro del dibattito i temi del paese reale: per questo ha convocato per il 16 novembre le parti sociali alle quali presenterà la piattaforma Pd su fisco e crisi. « Ai piani alti della politica non c’è idea di cosa sta succedendo. Arriverà un altro colpo all’occupazione e ai servizi pubblici, c’è una preoccupazione molto forte e bisogna dare concretezza alla politica», ha detto ieri dopo l’incontro con i segretari regionali. Il 16 ci saranno Cgil, Cisl, Uil, Confindustria, Abi, Rete Imprese Italia, Lega Coop, Confcooperative, Cia e Confagricoltura. «Noi siamo impegnati a fare ogni sforzo per riportare l’agenda politica sui temi reali, altrimenti lo scollamento tra politica e società si allarga», spiega Bersani, che continua a sperare nella riunificazione del mondo del lavoro e del sindacato e della rigidità che arriva dalla Cisl. Ieri Beppe Fioroni è andato con una trentina di parlamentari a portare la solidarietà a Raffaele Bonanni, il sindacalista ha apprezzato molto, «è stato un sasso nello stagno», ma non ha risparmiato critiche.
Parlando da Chianciano, ha anche rincarato la dose, verso il segretario Pd: «Qualcuno che è stato molto indulgente con la piazza di sabato è lo stesso che ha fatto liberalizzazioni con le Ferrovie, con le Autostrade, con la telefonia, che non hanno mai tenuto conto dell’universalità dei servizi e quindi dei diritti dei lavoratori. Mi meravigliano i riformisti della domenica, coloro che sono democratici e riformisti, che danno un colpo al cerchio e uno alla botte». Nessuna risposta dal Nazareno, la linea di Bersani resta quella di non fomentare le polemiche, ma in segreteria ha ricordato che compito di un partito non è quello di aderire o meno alle manifestazioni sindacali, il Pd è partito di governo e si definisce per il patto sociale che propone.
l’Unità 20.10.10
Le ricette della sinistra? Sono scadute da un secolo
La gestione delle economie non è più in mano ai governi nazionali: per questo non ha senso oggi proporre soluzioni che andavano bene nel Novecento. La crisi globale impone risposte nuove
di Vincenzo Visco
Delusione globale
Le politiche delle sinistre negli anni
Novanta erano basate sull’ipotesi che
la globalizzazione fosse un processo
vantaggioso. Purtroppo le cose sono
andate in maniera diversa
Combattere la paura
Rimettere al centro la questione del
lavoro e dell’occupazione. E parlare
con la gente per evitare una ulteriore
regressione nella paura. Le forze per
farlo ci sono: sta a noi attivarle
Non sembra proprio che le sinistre riformiste – il centrosinistra – godano di buona salute nei Paesi avanzati dell’occidente. Peraltro neanche le sinistre più radicali stanno molto meglio, né sembrano aver molto da dire. Il processo dura da alcuni anni e ha trovato il suo culmine nelle crescenti difficoltà della amministrazione Obama e nella esplosione di movimenti populisti radicali in tutti i Paesi. Anche le difficoltà del Pd vanno iscritte in questo contesto. Il dibattito interno ai diversi partiti mostra il tentativo di aggiustare il tiro rispetto alle politiche tradizionali che hanno prevalso negli ultimi dieci anni: in questa direzione vanno l’annunciato abbandono di Summers negli Stati Uniti e la vittoria di Ed Miliband nella contesa per la leadership del partito laburista inglese, ma le stesse tematiche sono in discussione in Francia, in Germania e, forse in modo meno esplicito e consapevole, anche nel Pd italiano. L’orientamento che oggi prevale – a fatica – indica quello che secondo definizioni tradizionali potrebbe essere definito un leggero spostamento “a sinistra”.
All’origine di tale evoluzione vi è il fatto che la crisi finanziaria, la recessione, i problemi posti dalla immigrazione, la disoccupazione, la delocalizzazione crescente di imprese e produzioni, hanno messo in discussione i fondamenti delle politiche delle sinistre degli anni ’90 che, piaccia o no, erano basate sull’ipotesi che la globalizzazione fosse un processo, non solo inarrestabile, ma potenzialmente vantaggioso per tutti: un gioco a somma positiva, insomma; e che la costruzione di società multietniche e pacifiche fosse possibile, anzi a portata di mano. Le sinistre hanno quindi adottato in quel periodo politiche di risanamento finanziario, di liberalizzazione dei mercati, di privatizzazioni, nella convinzione che la globalizzazione potesse essere governata e portare benefici consistenti e generalizzati.
E non è un caso che l’esempio più importante di un processo di integrazione economica regolata, “virtuosa”, l’Unione Europea e l’euro, fu sostenuto fortemente dalle classi dirigenti, dai governi (di centrosinistra) e dalle opinioni pubbliche di tutti i paesi europei.
Purtroppo le cose sono andate in modo del tutto diverso: l’integrazione politica dell’Europa si è arrestata per l’opposizione di Blair e Aznar, e per il nazionalismo dei Paesi ex-socialisti, ammessi con troppa rapidità nell’Unione. La gestione economica di Bush ha accentuato la crescita di enormi interessi finanziari che hanno condizionato la politica degli Stati Uniti all’interno e all’estero prima di sfociare nella catastrofe del 2007-2008. Ma l’incapacità delle sinistre di cogliere per tempo la direzione effettiva dei processi e i rischi connessi è stata evidente, e in qualche modo persiste tuttora.
La conseguenza all’interno dei singoli Paesi sviluppati è stata che, a fronte della crescita economica dei cosiddetti “BRICS” (effetto positivo della globalizzazione), le disuguaglianze interne sono aumentate, le classi medie sono state drasticamente ridimensionate, i salari e le retribuzioni sono cresciuti poco o hanno stagnato, i lavori precari si sono diffusi, i sindacati hanno perso peso e funzione, e i tradizionali spazi democratici si sono ridotti. Il tutto è l’effetto della illusione, frutto della cultura economica prevalente, che i mercati potessero fare il lavoro da soli e che non vi fosse bisogno di una direzione politica di un processo così complesso e contraddittorio, a cominciare da un nuovo sistema monetario internazionale, e dalla regolamentazione delle grandi banche.
Siamo così passati da una bolla ad un’altra, da una crisi finanziaria all’altra, fino al recente crollo, mente l’incertezza e la paura si diffondevano nei nostri Paesi, creando reazioni irrazionali, localismi inconcludenti e lo sfarinamento delle forze politiche tradizionali.
È tutto questo che sta dietro la crisi della sinistra. Con un rischio ulteriore: quello di regredire sulle posizioni tradizionali delle sinistre (ma anche dei partiti di ispirazione cristiana) del ‘900, posizioni e soluzioni che andavamo bene allora, ma che non possono essere replicate oggi, proprio perché la gestione delle economie non è più in mano ai governi nazionali. Siamo quindi in una empasse politico-culturale evidente, che fa sì che alcuni ripropongano anche oggi i precetti e i paradigmi del blairismo, della terza via, del liberismo economico, del superamento del binomio destra/sinistra, come se queste posizioni non dovessero fare i conti con quanto accaduto negli ultimi tre anni. Dall’altra parte, viceversa, l’elaborazione è tuttora limitata e carente: negli anni ’30 del secolo scorso c’erano Keynes e le sue teorie, oggi frammenti di pensiero e di proposte. Qui sta la difficoltà che si riflette anche nella faticosa ed incerta ricerca di alleanze sociali e politiche.
Al tempo stesso le autorità economiche e finanziarie del Fondo monetario internazionale alla Commissione Europea, continuano ad avanzare proposte e ipotesi iper-ortodosse che potrebbero portare le economie dell’occidente a un lungo periodo di stagnazione, al riemergere di posizioni protezionistiche, e a svalutazioni competitive. A tutto ciò in Italia si devono aggiungere i nostri problemi strutturali specifici che si trascinano senza soluzione ormai da 30 anni, e che hanno prodotto il berlusconismo e la crisi della nostra democrazia.
Si tratta quindi di fare i conti con una situazione molto complessa. Tuttavia l’attuale afasia della sinistra non può far dormire sonni tranquilli alle destre che si trovano a dover affrontare una situazione molto seria con strumenti e ricette datati e di più che dubbia efficacia. È necessario un forte impegno di studio ed elaborazione, senza nostalgia delle ricette passate, ma guardando avanti, cercando di dare un contributo al dibattito sugli assetti economici internazionali per facilitare una sua evoluzione positiva. È giusto rimettere al centro la questione del lavoro, e dell’occupazione. Al tempo stesso bisogna anche saper parlare con la gente non solo per capirne i bisogni reali, ma anche per evitare una ulteriore regressione nella paura e nella chiusura. Le forze disponibili per questo lavoro ci sono: sta a noi attivarle.
l’Unità 20.10.10
Il delitto di Maricica e i ragazzi del muretto figli dei pregiudizi
Poche ore dopo la morte di Maricica Hahaianu, il sindaco di Roma Alemanno annunciava l’intenzione del Comune di Roma di costituirsi parte civile, aggiungendo che si deve superare «ogni pregiudizio» verso la comunità rumena. Nel vicino quartiere di Cinecittà, gli amici di Alessio Burtone, l’aggressore di Maricica, esprimevano solidarietà ricorrendo a maldestre difese, come quelle riportate da questo giornale: «che dovremmo dire noi che i mariti delle romene stuprano le nostre ragazze” oppure “quella poteva avere nella borsa un ombrello”. Intendiamoci: bene ha fatto il sindaco di Roma a offrire solidarietà; così come appaiono per quello che sono le parole dei giovani di Cinecittà: pregiudizi, talmente inefficaci come attenuanti da rivelarsi paradossalmente aggravanti, qualora assunti come difesa. Quello che colpisce è, piuttosto, il richiamo all’ombrello, vale a dire alla vicenda di Doina Matei, la giovane rumena responsabile – di nuovo la scena è il metrò di Roma – della morte di un’altra giovane, Vanessa Russo. Nello spazio temporale (2007-2010) tra i due episodi, accomunati da evidenti somiglianze (l’irreparabilità della morte, la rovina dei due responsabili “preterintenzionali”) ci sono le tante parole pronunciate da istituzioni, autorità pubbliche, esponenti della politica, compreso il sindaco di Roma. Un tempo durante il quale l’intera comunità rumena (o buona parte di essa) è stata dipinta come causa di degrado, insicurezza, pericolosità sociale. Così come insicura e aggressiva è stata dichiarata la città nella quale sono avvenuti i due episodi. Difficile, poi, far capire ai ragazzi del muretto di Cinecittà, quanto poco quei pregiudizi possano aiutare Alessio Bur-
tone.
il Fatto 20.10.10
Maricica? “Colpa dei romeni”
Il giorno dopo l’arresto di Burtone il quartierecontinua a difenderlo
La stampa di Bucarest: “Gli italiani applaudono un assassino che per giunta rideva”
di Luca De Carolis
Quartiere Don Bosco, il giorno dopo. Sono passate solo poche ore da quando il 20enne Alessio Burtone è stato coperto di applausi all’uscita del suo palazzo mentre i carabinieri lo portavano nel carcere romano di Regina Coeli (dove è in isolamento), perché reo di aver sferrato un pugno all’infermiera romena Maricica Hahaianu, morta venerdì scorso. Poche ore che sembrano un mese, perché in questo pezzo di periferia est di Roma il tempo scorre molto più veloce. La gente ha voglia di lasciarsi alle spalle una brutta storia e chi si ostina a raccontarla. “Abbiamo già detto tutto, lunedì voi giornalisti eravate un esercito e c’avete stressato” ti rispondono le signore con la sporta e l’aria di chi ha altro a cui pensare.
CINECITTÀ, con il suo nome che evoca il film di Fellini e sogni in produzione industriale, è a pochi passi. Ma nei quartieri popolari il tempo per fantasticare non abbonda. E i giri di parole sono materia sconosciuta. Un gruppo di ragazzi, radunato in un bar vicino alla basilica di Don Bosco, mette subito le cose in chiaro: “Lunedì siete venuti in tanti e poi avete scritto tutte cose false. Come facciamo a fidarci di te?”. Uno sibila: “Voi giornalisti siete solo degli infami”. Ma dietro agli insulti c’è la voglia di parlare e di non essere traditi. E allora raccontano: “Noi siamo amici di Alessio, lunedì siamo andati ad applaudirlo per fargli capire che gli siamo vicini. Lui non voleva uccidere quella donna, ne siamo sicuri, è stato sfortunato. Quello non era un pugno, le ha dato solo una manata. E poi lei l’aveva provocato e gli aveva sputato, lo dicono pure i testimoni. Eppure a prendere Alessio sono venute cinque volanti: sembrava che venissero ad arrestare Totò Riina”.
Si informano, i ragazzi di Don Bosco. Citano i giornali da cui si sentono ingannati. Precisano: “Hanno scritto che gridavamo ad Alessio ‘ammazzane un’altra’, ma non è vero, non l’ha detto nessuno”. Il ragazzo però sorrideva, sotto il cappuccio della felpa. Replica in coro: “Non rideva perché è cattivo, rideva perché ci ha sentito, ha visto i suoi amici. A te non farebbe piacere?”. E la donna romena? “Non siamo contenti, ma i romeni che stuprano le ragazze escono di galera dopo due mesi. Ti pare giusto?”.
La casa dei Burtone è poco più avanti. Il palazzo ha l’intonaco scrostato e tante scale, da classico “alveare”. Al citofono, diversi cognomi stranieri. Il bar all’angolo, Dolcitalia, è gestito da un egiziano, Esam. “Io conosco bene Alessio, l’ho visto crescere, è un bravissimo ragazzo e la sua è una buona famiglia” assicura, per poi aggiungere: “Lui e quella donna sono stati sfortunati. Mi dispiace per la signora, ma è stata una lite, Alessio non voleva uccidere”. Pochi attimi, ed Esam si sfoga: “Gli applausi? Non so che dire, ma so che i romeni qui si comportano come i padroni. Non sono civili: quando entrano nel mio bar non dicono neanche buongiorno”.
ALLA FINE, l’ostilità contro gli immigrati dalla Romania è il filo conduttore che tiene assieme i commenti di giovani e signore, di immigrati e padri di famiglia. “Ti danno una botta in autobus e manco chiedono scusa” si accalora una donna. L’ennesima conferma che i romeni sono ancora sinonimo di minaccia, nella Roma multietnica. Casi come quello di Vanessa Russo, la ragazza uccisa con un ombrello in metropolitana da una romena, o di Giovanna Reggiani, violentata e uccisa dal rom Nicolae Mailat a Tor di Quinto, hanno scavato un altissimo muro di rancori e sospetti. Il presidente del X Municipio, Sandro Medici, giornalista, sospira: “Gli applausi a Burtone mi hanno sorpreso. Non tanto quelli dei ragazzini, che hanno un immaginario da stadio, ma quelli degli adulti. Il messaggio era: il ragazzo avrà anche fatto un grande errore, ma lei era pur sempre una romena. Trabocca un razzismo latente, quasi ossificato”. Domani Medici e la maggioranza di centrosinistra proporranno in Consiglio di dedicare a Maricica il piazzale dell’Anagnina, a pochi metri da dove è crollata a terra. Il capogruppo del Pdl in Municipio, Pino Antipasqua, non è contrario: “Ma preferirei un luogo più educativo, come un parco o una scuola. Gli applausi? Sono il segno della mancanza di valori, qualcosa su cui riflettere a lungo”. Intanto dalla Romania rimbalza la rabbia di giornali e blog: “Gli italiani applaudono un assassino, che per giunta rideva”. C’è chi fa notare come “dopo ogni delitto attribuito ai romeni le loro foto sono ovunque, mentre nel caso di Maricica non è successo”. Alcuni parlamentari del Pd hanno presentato un’interrogazione sugli applausi. Telegrafico il sindaco di Roma, Alemanno: “Comprendo che ci sia una solidarietà che prevale su considerazioni oggettive, ma il ragazzo è in carcere e non c’è nulla da dire”.
Corriere della Sera 20.10.10
«Eterni stranieri, quindi colpevoli»
Il sociologo polacco Zygmunt Bauman su diaspore e Stato contemporaneo
di Maria Serena Natale
Precarietà esistenziale, migrazioni incrociate, paura dello straniero. Zygmunt Bauman, l’eminente sociologo polacco teorico della «modernità liquida» nata dalla fine delle «grandi narrazioni», inquadra il caso rom nella riflessione sull’«età delle diaspore e il sentimento d’incertezza che caratterizza le nostre società, diventato fonte di legittimazione alternativa per lo Stato contemporaneo».
Professor Bauman, quali meccanismi vede dietro la linea dura di Sarkozy?
«Additare lo straniero come responsabile del malessere sociale sta diventando un’abitudine globale. Nel caso delle espulsioni è in gioco il conflitto inseriti-outsider esaminato mezzo secolo fa da Norbert Elias: più di amici e nemici, gli outsider sono imprevedibili, il senso d’impotenza che deriva dall’incapacità di intuire le loro risposte ci umilia». Con i rom la dinamica è amplificata? «Sì, perché sono percepiti come perpetui stranieri, colpevoli fino a prova contraria, preceduti da storie di criminalità più o meno accertate ma assenti dai luoghi deputati alla formazione delle opinioni, privi di élite capaci di promuovere le ragioni delle comunità».
Le ansie legate ai flussi migratori sono un tratto dominante di quella che lei descrive come una diaspora universale.
«Oggi assistiamo a ondate migratorie organizzate per arcipelaghi planetari e interconnessi di insediamenti etnici, religiosi, linguistici. Ogni Paese è virtualmente bacino di emigrazione e meta di immigrazione, le rotte non sono più determinate da legami imperial-coloniali: queste diaspore frammentate e trasversali ci impongono di ridefinire il rapporto tra identità e cittadinanza, individuo e luogo fisico, vicinato e appartenenza». Come risponde la politica? «Lo Stato contemporaneo proclama come primo compito del potere la rimozione dei vincoli alle attività orientate al profitto. Diventa così prioritario per i governi trovare al senso di vulnerabilità dei cittadini cause non riconducibili al libero mercato ma a rischi di altra natura. La priorità è la sicurezza, minacciata da pericoli per la persona fisica, la proprietà e l’ambiente che possono venire da pandemie, attività criminali, condotte anti-sociali di sottoclassi, terrorismo globale ma anche da gang giovanili, pedofili, stalker, mendicanti, regimi alimentari insani».
Uno stato d’allerta permanente. «Nel quale è impossibile sapere dove e quando le parole diventeranno carne. La mancata materializzazione di una catastrofe paventata è presentata come il trionfo della ragione governativa su un fato ostile, risultato di vigilanza e cura delle autorità».
Come va ridefinito il patto sociale?
«La migrazione universale porta in primo piano e per la prima volta nella storia l’arte del convivere con la differenza. Un’alterità non più concepita come transitoria richiede un ripensamento delle reti sociali, più tolleranza e solidarietà, nuove abilità e competenze».
E come s’innesta questa differenza radicale sul terreno del multiculturalismo?
«Forme di vita antagoniste si fondono e separano in una generale assenza di gerarchie: non valgono più ordini di valori consolidati né il principio di evoluzione culturale ma si sviluppano battaglie per il riconoscimento interminabili e non dirimenti». In che modo risponde la democrazia? «Ha abdicato alla funzione di scoraggiare il ritrarsi dei singoli nella sfera privata, rinunciato a proteggere il diritto delle minoranze a una vita dignitosa. La democrazia non può fondarsi sulla promessa dell’arricchimento. Il suo tratto distintivo è rendere servizio alla libertà di tutti. Ha di fronte una sfida senza precedenti: elevare i principi della coesistenza democratica dal livello degli Stati-nazione a quello dell’umanità planetaria».
Repubblica 20.10.10
Quell'applauso ad Alessio che ferisce i romeni
di Chiara Saraceno
Non ho dubbi che Alessio Burtone non intendesse uccidere l´infermiera romena quando le ha sferrato un pugno nel metrò di Roma. Ma lo stesso vale forse per la giovane romena che qualche anno fa colpì con l´ombrello un´altra giovane donna, italiana, perforandole un occhio e causando così un´emorragia violenta che provocò una morte quasi immediata.
Eppure, la reazione dell´opinione pubblica, dei politici, persino dei cosidetti "esperti" è stata molto diversa. Gli applausi ad Alessio Burtone quasi che fosse un eroe vendicatore e gli insulti ai carabinieri che lo portavano in carcere sono speculari al modo in cui fu invece trattata la giovane rumena diventata assassina per un gesto maldestro: accusata di essere una belva violenta e assetata di sangue. E l´episodio fu subito inquadrato come esempio della pericolosità dell´immigrazione, in particolare rumena, di "loro" contro "noi. Tantomeno ci fu chi, tra politici e penalisti, sollevò la questione della giovane età, della vita rovinata per un gesto inconsulto, nonostante la dura condanna della giovane donna a molti anni di carcere privasse una bambina della presenza della madre. Sono assolutamente d´accordo: un omicidio preterintenzionale va considerato diversamente da un omicidio intenzionale. E a chi è giovane deve essere lasciata aperta la via per recuperare, per non perdere del tutto la propria vita, specie se le conseguenze sono andate molto al di là delle intenzioni. Ma ciò deve valere per tutti. Nessuno invece ascoltò a suo tempo la giovane rumena. Nessuno prestò fede al suo sbalordimento e al suo pentimento. Perché era una rumena, per definizione pericolosa e soprattutto estranea: facile capro espiatorio di tutte le paure e insicurezze.
Sbaglia Fini a considerare l´episodio della solidarietà scomposta al giovane romano solo un esempio della violenza urbana, senza connotati etnico-razziali. Non si tratta solo dell´omertà con cui sono stati protetti gli aggressori del tassista milanese. La solidarietà qui è provocata innanzitutto dalla nazionalità della vittima: immigrata, rumena, che non sapeva stare al proprio posto. Più simile, nell´immaginario distorto continuamente alimentato da un discorso pubblico troppo spesso irresponsabile, alla giovane assassina preterintenzionale di qualche anno fa, che non alla sua vittima.
Questo discorso pubblico, che usa scientemente la paura e la stereotipizzazione dell´altro, che distingue vittime e carnefici a seconda della nazionalità, sta lentamente corrodendo il senso comune civile ed ha effetti devastanti su chi manca di adeguati strumenti di auto-controllo.
Repubblica 20.10.10
La proposta shock di un deputato: "Sono ostili allo Stato d´Israele" Polemiche e marcia indietro. Ma quella legge è soltanto congelata
"Fermate le guide arabe" e Gerusalemme si divide
di Alberto Stabile
Ma lui tenta di difendersi: "Presentano spesso posizioni anti-israeliane ai turisti che accompagnano"
Bufera sul primo firmatario, l´ex ministro dell´Interno Gideon Ezra. Le ong accusano: "È una discriminazione"
Col turismo in Città vecchia ci campano tutti, da sempre, amici e nemici, israeliani e palestinesi. Ma adesso sembra arrivato il momento che le guide arabe di Gerusalemme est debbano rinunciare alla loro fettina di torta turistica. Perché così ha deciso Gideon Ezra, deputato di Kadima, opposizione di centro, autore di una proposta di legge che vieta agli arabi di accompagnare i turisti in uno dei più bei "suq" del Medio Oriente. Forse che le guide arabe non sono qualificate? No. Semplicemente, opina Ezra, «sono ostili allo stato d´Israele».
Anche se ha già trovato numerose adesioni tra i deputati della Knesset, la proposta è di quelle destinate a suscitare polemiche e divisioni. È evidente il suo significato discriminatorio nei confronti di una categoria di cittadini che ha l´unico torto di essere nata nella parte sbagliata di Gerusalemme. Tuttavia, almeno nell´immediato futuro non diventerà una legge, dal momento che lo stesso Ezra, in un soprassalto di cautela, ha deciso di "congelarla" per non turbare il difficile, moribondo negoziato di pace tra israeliani e palestinesi.
Un ulteriore motivo oggettivamente a favore del "congelamento" della progetto di legge, sta nel fatto che oggi si apre a Gerusalemme il vertice dell´Organizzazione per la Cooperazione economica e lo Sviluppo (Ocse), cui lo Stato ebraico è stato ammesso a far parte soltanto dal maggio scorso. Guarda caso, il tema dell´incontro è centrato sul "turismo verde".
Forse anche il deputato di Kadima ed ex ministro dell´interno, s´è lasciato trascinare dal desiderio di protagonismo che sembra colpire di questi tempi più d´un esponente politico della destra. Come, ad esempio, il ministro del Turismo, Stas Meseznikov, che ha quasi mandato a monte l´esordio d´Israele al vertice dell´Ocse, dichiarando che il sito prescelto per la riunione dell´Organizzazione rappresentava di per sé il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d´Israele. Riconoscimento che, come è noto, non c´è mai stato da parte della stragrande maggioranza dei paesi. Smentita è correzione, prontamente rese note, non hanno impedito a Inghilterra, Spagna di annunciare la loro non partecipazione al vertice.
Sta di fatto che, a leggere l´introduzione alla proposta di Gideon Ezra, c´è da pensare che sia più un testo unico di polizia che una legge sul turismo. Israele, vi si dice, ha un imponente patrimonio turistico. E va bene. Spesso vi sono disaccordi su come illustrare questi siti dal punto di vista storico, religioso, culturale. E Gerusalemme è uno di questi luoghi controversi. Ok, questa è la culla del conflitto. Ma subito dopo, ecco il giudizio (o pregiudizio) fulminante: alcuni dei residenti d´Israele, come quelli di Gerusalemme Est (la parte araba della città) hanno «una doppia lealtà», dal momento che votano alle elezioni dell´Autorità palestinese.
Ora, a parte il fatto che soltanto a una frazione degli abitanti di Gerusalemme est è stato permesso di votare, cosa c´entra la presunta "doppia lealtà" con il turismo? «Questi residenti spesso presentano posizioni anti-israeliane ai gruppi di turisti che guidano», dice il testo. Ragion per cui, «per assicurare che i turisti stranieri siano esposti al punto di vista nazionale israeliano noi suggeriamo che i gruppi siano accompagnati da guide che siano cittadini israeliani ed abbiano una lealtà istituzione verso lo stato d´Israele». Cioè, per esseri sicuri al cento per cento, ci vogliono delle guide in uniforme, o quasi.
Intanto, può bastare chiedere alle agenzie turistiche di offrire a tour operator soltanto guide israeliane con tanto di certificato di cittadinanza così, in sostanza, impedendo agli "arabi" di accompagnare i turisti in città vecchia. Ma, già che ci siamo, perché, non applicare la stessa discriminante anche contro i proprietari dei negozi di tappeti, o i ristoratori, o i venditori di spremute, al 90 per cento cittadini arabi di Gerusalemme est?
«Mi è molto chiaro - ha spiegato il primo firmatario della proposta - che vi sono guide turistiche ostili allo stato di Israele e a Gerusalemme. Tra l´altro, loro sono gli accompagnatori più a buon mercato. Ma non voglio urtare i colloqui e non proporrò il progetto nel prossimo futuro».
Seppure messa momentaneamente in congelatore, la proposta di Ezra ha già suscitato le prime reazioni contrarie. "Ir Amin", una ong di Gerusalemme che predica la coesistenza, ha dato voce alle 300 guide arabe, tutte regolarmente autorizzate dal Ministero del Turismo, le quali temono di perdere il lavoro. Ma c´è anche chi vede nel disegno di legge, un ulteriore passo verso la completa "israelizzazione" di Gerusalemme est, assieme all´emarginazione della minoranza araba.
il Fatto 20.10.10
Piazza grande
La Piazza Fiom: cosa viene dopo
di Paolo Flores d’Arcais
I mass media non hanno potuto disconoscere il successo, ma ne hanno oscurato sapientemente le dimensioni, che sono state invece del tutto fuori dell’immaginabile
Maurizio Landini ha fatto un discorso da leader sindacale tutto concretezza e sono ritornate parole ormai scomparse da anni presso i vertici della Cgil, come “ribellione” e “sfruttamento”
Per capire se la manifestazione della Fiom di sabato sia stata solo un grande successo o costituisca invece una potenziale svolta storica per la vita politica e sociale del paese è necessario approfondire cinque punti: dimensioni numeriche della partecipazione, strategia sindacale radicalmente alternativa avanzata dal segretario Fiom Landini, capacità o meno di unificare lavoratori occupati con disoccupati e precari, capacità di unificare lotte sociali e lotte civili, implicita necessità di una proiezione politica di tutto ciò.
COMINCIAMO dai numeri. I mass media non hanno potuto disconoscere il successo, ma ne hanno oscurato sapientemente le dimensioni, che sono state invece del tutto fuori dell’immaginabile. Eppure tutti i giornalisti hanno visto quello che Luca Telese ha puntualmente raccontato ai lettori de Il Fatto: dopo quattro ore di manifestazione, quando durante l’ultimo discorso, quello di Epifani, molta gente cominciava a tornare a casa, via Merulana era gremita dal corteo, la cui coda doveva ancora muoversi da piazza Esedra. Ma gli altri giornalisti si sono ben guardati dal riferire la circostanza ai rispettivi lettori e telespettatori. Perché ciò avrebbe implicato il riconoscimento che neppure il Circo Massimo sarebbe stato sufficiente per quel mare di dimostranti. E poiché la manifestazione di otto anni fa al Circo Massimo con Cofferati era stata riconosciuta come la più grande nella storia della nostra Repubblica... Quella dei numeri non è dunque questione filologica o maniacale. Se la dimensione della manifestazione non fosse stata occultata, se ci fosse stata una diretta, con le canoniche riprese dall’alto, tutti sarebbero oggi costretti a discutere sulla “scandalosa” capacità di consenso di una forza sindacale data come “isolatissima” e sul carattere di punto di riferimento generale e nazionale che la sua piattaforma “radicale” si è conquistato.
PERCHÉ è verissimo che Maurizio Landini ha fatto un discorso privo di divagazioni ideologiche, da leader sindacale tutto concretezza, ma proprio in questa concretezza sono ritornate parole ormai scomparse da anni presso i vertici della Cgil, come “ribellione” e “sfruttamento”, ed è stata delineata una linea sindacale organica e alternativa su almeno tre questioni: primo, la contrattazione deve sempre più andare in direzione di grandi contratti nazionali, addirittura per compartimenti produttivi (industria, commercio, ecc.) anziché per categorie (metalmeccanici, chimici, tessili, ecc.). Questo significa che un contratto nazionale dell’industria è il minimo vincolante per tutti gli imprenditori, senza possibilità di deroghe, poiché le uniche ammesse saranno quelle migliorative dei contratti integrativi settoriali o locali. Con il che siamo agli antipodi del modello Pomigliano, siamo allo scontro frontale con Finmeccanica e Confindustria, siamo alla rottura con Bonanni che grida “dieci, cento, mille Pomigliano”.
SECONDO , la proposta di un salario “di cittadinanza” per tutti, che dunque vada oltre la cassa integrazione, che tuteli in radice il disoccupato. Novità radicale nelle strategie sindacali italiane, fin qui sempre sospettose sul tema, che invece in gran parte dei Paesi d’Europa è conquista storica irrinunciabile (accettano solo che si discuta come rafforzarla evitando al contempo alcuni possibili effetti perversi di “disoccupazione volontaria”). Proposta accompagnata a quella del salario minimo per tutti i comparti produttivi, alla impossibilità che il lavoro precario venga remunerato meno di quello fisso, alla distruzione della frammentazione contrattuale nella stessa fabbrica tra chi dipende dall’azienda, dalla “cooperativa” di un subappalto, ecc. Anche qui siamo esattamente agli antipodi del modello che invece governo e padroni (parola che alla Fiom si usa ancora) pretendono venga accettato come necessità “obiettiva” imposta dalla globalizzazione.
TERZO , l’obbligo (addirittura per legge) della democrazia contrattuale, cioè del voto della base dei lavoratori su qualsiasi contratto, nazionale o integrativo. Il che significa l’impossibilità di firmare contratti separati con Cisl e Uil e il dovere di lasciare ai lavoratori l’ultima parola anche per vertenze concluse con la firma unanime dei sindacati. Una vera e propria “rivoluzione copernicana” che ricrea le premesse per una unità dal basso, radicata negli interessi dei lavoratori e che batterebbe in breccia gli interessi di burocrazie sindacali troppo impegolate con l’establishment. È questa strategia alternativa ad essere stata consacrata dall’inaudito successo della manifestazione di sabato. È su queste posizioni di sindacalismo innovativo che è stato “incoronato” Maurizio Landini. Non perché “radicali” ma perché le posizioni del gruppo dirigente Fiom hanno dimostrato di essere le uniche a poter unificare tutto il mondo del lavoro occupato (non a caso a riconoscersi nella lotta dei metalmeccanici c’erano dalle tessili dell’Omsa ai chimici di Porto Torres), cioè a realizzare come dirigenti metalmeccanici quello che dovrebbe essere il compito della Cgil.
MA LA STRATEGIA della Fiom si è dimostrata anche l’unica capace di parlare ai precari e ai disoccupati, compiendo quello che sembrava un impossibile miracolo: colmare tra lavoratori “garantiti” e non, un fossato che sembrava destinato inesorabilmente ad accrescersi fino a diventare baratro anche esistenziale. Questa è forse la novità più carica di conseguenze e la meno evidenziata: il sindacato storico dell’industria più “fordista” che si dimostra capace di unificare sotto la sua egida (“egemonia”, verrebbe da dire, ma di tipo davvero nuovo) i lavoratori del precariato post-moderno, raccontati come individualisti strutturalmente refrattari alla dimensione delle lotte solidali.
LA CAPACITÀ di difendere “interessi generali” proprio dando respiro strategico alla difesa dei lavoratori che direttamente si rappresenta è da sempre il “salto mortale” che a pochissime organizzazioni sindacali storicamente riesce. Ma la Fiom sabato è riuscita a fare perfino di più: ha dimostrato come possano essere unificate le lotte sociali, di cui il sindacato è istituzionalmente protagonista (o almeno dovrebbe), con le lotte per obiettivi di civile progresso, per diritti civili individuali e collettivi. Aprendo con ciò una prospettiva davvero inedita, che non era riuscita neppure alla Cgil di Cofferati nel suo momento di massima capacità rappresentativa. Non si tratta solo di avere dato spazio al movimento per l’acqua pubblica e al pacifismo attivo di Emergency, ai movimenti contro le mafie e al dovere dell’antirazzismo nella sinistra ufficiale completamente edulcorato (per usare un eufemismo), alle lotte degli studenti e alle necessità della ricerca scientifica, ma di averlo fatto indicando una serie di obiettivi irrinunciabili per il movimento sindacale in quanto tale e che – radicate nella concretezza sindacale – costituiscono già una SFIDA POLITICA. Di questo infatti si tratta, quando il segretario del sindacato metalmeccanico decide di porre DIGNITÀ e LEGALITÀ come temi cruciali della rivendicazione operaia e li correda con la richiesta che meno tasse per i salari dei lavoratori dipendenti vengano compensati da “più tasse per i ricchi”.
ECCO PERCHÉ , nella manifestazione più inequivocabilmente OPERAIA da molti anni a questa parte, si è avuta la partecipazione massiccia di settori consistenti di piccola e media borghesia, di quel mondo “moderato” che tutti dicono di voler rappresentare, scambiando l’essere moderati con l’essere affascinati dalla nullità dei Montezemolo o dai politicantismi dei Casini (che i voti li prendeva grazie ai Cuffaro).
LA LEZIONE ella Fiom è dunque anche quella di uno straordinario realismo, che conferma come solo la strategia della intransigenza rispetto ai valori costituzionali sia capace di allargare le alleanze sociali. Fino ad ora avevamo una riprova per negativo: ammiccando alla destra i consensi dei “moderati” non si conquistavano affatto. Ora abbiamo, grazie alla Fiom, la cartina di tornasole in positivo: una politica bollata come “radicale” o addirittura “estremista” non isola affatto, anzi consente di trascinare con sé strati sociali che si stavano perdendo nell’apatia e nella rassegnazione. Per dirla nel modo più semplice, il gruppo dirigente della Fiom ha dimostrato cosa voglia dire praticare davvero una “vocazione maggioritaria”.
QUALSIASI politica sindacale ha necessità di una sua proiezione politica. Quella della manifestazione di sabato più che mai, visto che entra in rotta di collisione con la pretesa “oggettività” della globalizzazione e dunque esige una sovranità popolare che non sia succube della “libertà” di derubare la famosa “azienda Italia” di interi impianti industriali, trasferiti in qualche Serbia per avidità di iperprofitti aggiuntivi. Ma con ciò arriviamo all’ultima questione, che dovrà essere affrontata in un altro articolo. Qui possiamo solo fissare i termini ineludibili dell’interrogativo: dai partiti del centrosinistra attualmente esistenti non può venire la risposta politico-elettorale non solo necessaria ma ormai improcrastinabile. E meno che mai potrà venire dal qualunquismo con cui Beppe Grillo sta ibernando nell’avvitamento del “vaffa” le energie giovanili degli elettori “cinque stelle”. Bisognerà che le forze più consapevoli della società civile, in primo luogo le testate giornalistiche della carta e del Web, riescano a inventare modalità fin qui inesplorate per risolvere l’equazione della democrazia.
Repubblica 20.10.10
Pillola abortiva, Italia a due velocità boom in Liguria e nel Lazio niente
A 6 mesi dall´introduzione del farmaco, ecco l´impiego che se ne fa
Tecnica utilizzata in pochi ospedali In alcune regioni le ordinazioni sono pressoché nulle
Dove la Ru486 è in uso, la maggior parte delle donne rifiuta il ricovero e torna a casa
di Michele Bocci
In alcune regioni l´aborto farmacologico è negato alle donne. E anche in quelle dove si può fare, spesso è praticato solo in pochi ospedali. La Ru486 ha spaccato, una volta di più, la sanità italiana. In questo caso non è solo un problema di qualità dell´assistenza ma anche di scelte politiche. In certe realtà la pillola non è gradita. In Calabria e in Abruzzo, ad esempio. Oppure nel Lazio, dove fino a ora sono state ordinate 15 confezioni, cioè 5 ciascuna in tre strutture: l´ospedale di Ostia e il Pertini e il Forlanini di Roma. Probabilmente non sono nemmeno state usate tutte visto che il distributore, la Nordic Pharma, non ha ricevuto altre richieste.
Sono passati sei mesi da quando è stata avviata la commercializzazione del medicinale più discusso della storia del nostro Paese. Un primo bilancio racconta che il sistema non viaggia ancora a pieno regime. Fino a oggi sono state ordinate 3.304 confezioni dagli ospedali italiani, e ovviamente non sono ancora state usate tutte. Difficile che il numero raddoppi nei prossimi sei mesi. In molti infatti hanno fatto un solo ordine, segno che l´utilizzo non ha preso il via. È il caso della Sardegna (52 confezioni), dell´Abruzzo (15), dell´Umbria (11), della Calabria e delle Marche (5). Ma anche le 120 confezioni della Sicilia sono poche, come le 129 del Veneto. In Italia ogni anno si fanno circa 30mila interruzioni di gravidanza prima della settima settimana, cioè il tempo massimo entro cui può essere somministrata la Ru486. A questi ritmi difficilmente l´aborto farmacologico sostituirà quello chirurgico in buona parte del Paese, come ad esempio è avvenuto in Francia.
Dove la Ru486 si usa, la maggior parte delle donne dopo averla presa non resta in ospedale, disattendendo le indicazioni di ministero e Consiglio superiore di sanità che hanno chiesto il ricovero ordinario. In Emilia e in Toscana perché queste regioni hanno previsto il day hospital; in Piemonte, Liguria, Lombardia, Puglia perché le pazienti firmano e tornano a casa. «Abbiamo usato 400 pillole - spiega Silvio Viale, ginecologo radicale del Sant´Anna di Torino - Solo 16 pazienti, il 4%, sono rimaste in ospedale tra somministrazione e espulsione. Abbiamo fatto in tutto 24 revisioni chirurgiche perché la Ru486 non è bastata. Siamo in linea con i dati francesi». Nicola Blasi, primario al policlinico di Bari, resta praticamente l´unico al sud a usare la pillola abitualmente: «Su 200 donne trattate, ne sono rimaste qui una o due». A spiegare quello che sta succedendo nel Lazio è Mirella Parachini, ginecologa dell´associazione Luca Coscioni del San Filippo Neri di Roma. «La Regione ha previsto un percorso complesso, tra ricovero e letti particolari. Si tratta di un ostracismo. Alle tante donne che ci chiedono di usare la Ru486 consigliamo Bologna. Si nega un farmaco che potrebbe essere utile anche per gli aborti terapeutici dopo il terzo trimestre. Quelli di chi ha fortemente voluto un figlio ma ha scoperto malformazioni gravissime». Quirino Di Nisio è il responsabile della ginecologia di Pescara. In Abruzzo sono state ordinate solo 15 confezioni. «Userei molto volentieri la pillola ma non abbiamo strutture per fare il ricovero e la Asl non ce le mette a disposizione - spiega - Il fatto che altrove le donne firmino per andarsene è un´irregolarità. La nostra Regione, poi, non ha le linee guida, c´è un boicottaggio del farmaco. Del resto qui l´istituzione è piuttosto latitante».
Repubblica 20.10.10
Fecondazione assistita in Polonia la Chiesa minaccia scomuniche
Nel mirino chi vota la legge. Il governo: "È un ricatto"
di Andrea Tarquini
Lo scontro avvelena il clima tra il liberal Tusk e il clero. Ieri un attentato al partito di Kaczynski
BERLINO - Nella cattolica ma moderna Polonia esplode un conflitto Stato-Chiesa senza precedenti da quando, con la rivoluzione non violenta del 1989, Varsavia conquistò la democrazia. La conferenza episcopale minaccia di scomunica i parlamentari che voteranno qualsiasi legge a favore della fecondazione in provetta. «Denunciamo questo ricatto», ha replicato ieri Pawel Gras, portavoce del governo del premier liberal Donald Tusk. Nelle stesse ore, un grave fatto di sangue sconvolgeva il paese: un uomo, probabilmente squilibrato, armato di pistola e coltello, ha assaltato una sede del PiS, il partito nazionalpopulista e cattolico-conservatore d´opposizione, e ha ucciso una persona ferendone gravemente un´altra. «È il risultato della campagna d´odio contro di noi ispirata da Tusk», ha detto con pesanti accuse il leader del PiS, Jaroslaw Kaczynski.
Lo scontro sulla fecondazione assistita avvelena il clima tra il governo liberal di Tusk e la Chiesa. In una lettera aperta i vescovi definiscono la stessa fecondazione in vitro «una sorellina dell´eugenetica». Una durissima allusione alla politica nazista di selezione razziale con l´eliminazione delle persone ritenute "inferiori" dal Terzo Reich. I prelati mettono in guardia contro «l´adozione di ogni legge non compatibile sia con gli argomenti scientifici sull´inizio della vita biologica dell´essere umano, sia con le indicazioni morali dei Comandamenti e del Vangelo».
Pochi giorni fa, in un´intervista, il presidente della Conferenza episcopale, Henryk Hoser, aveva apertamente minacciato la scomunica: «Chiunque voterà leggi a favore della fecondazione in provetta - aveva detto - si metterà automaticamente fuori dalla Comunità della Chiesa». Per il premier Tusk, che non è anticlericale ma è deciso a continuare a passo di corsa la modernizzazione del paese, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. «Sono sorprendenti le minacce e i tentativi di pressione messi in campo per fermare quella legge», ha fatto dire al suo portavoce. Secondo il quale «ovviamente la Chiesa ha il diritto di esprimere la propria posizione, ma non dovrebbe mai farlo con toni così drastici».
In Polonia la fecondazione in vitro è già ampiamente praticata dalle coppie che non hanno altra scelta per mettere al mondo figli, ma non è regolamentata da leggi. Questa settimana il Sejm (Camera dei deputati) esaminerà alcune proposte di legge in merito. «Queste minacce - ha detto il portavoce di Tusk replicando alla Chiesa - accelereranno anziché fermare il processo legislativo».
In una società sempre più moderna, investita da un impetuoso sviluppo economico, la Chiesa ha perso terreno dopo la fine della guerra fredda e la morte di papa Wojtyla, e reagisce a volte al disagio del suo indebolimento con posizioni radicali. Contemporaneamente, a Lodz, un uomo armato, al grido di «morte a Kaczynski», ha assaltato una sede del PiS. Ha ucciso un politico 62enne, ferendo gravemente l´assistente di un deputato europeo. Kaczynski ha subito accusato il governo Tusk parlando di "campagna d´odio che equivale all´incitamento all´omicidio".
Corriere della Sera 20.10.10
«Ma che cos’è la verità?» E i filosofi iniziarono a litigare
di Armando Torno
Da sempre la domanda di Pilato divide i pensatori
È nota la domanda che Ponzio Pilato rivolse a Gesù nel pretorio: «Che cos’è la verità?». Dal Vangelo di Giovanni (18, 37-38) sappiamo che non ci fu una risposta. Forse perché mancò il tempo a causa dell’affanno del magistrato romano («E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei...») o perché quell’uomo che di lì a poco verrà crocifisso aveva già detto tutto. Fatto sta che la storia della filosofia, che dovrebbe essere anche la ricerca della verità, ha continuato per due millenni a rispondere al quesito. Senza trovare un accordo.
Certo, la domanda era già vecchia e intorno ad essa si erano azzuffati i greci. Ad Atene Platone, qualche secolo prima, aveva cercato in alcuni dialoghi, come il Cratilo e il Sofista, di stabilire cosa sia la verità; Aristotele, nella Metafisica, enunciò anche due teoremi sulla questione, ormai diventata complessa. Del resto, già tra i seguaci di Socrate circolavano rompicapo e paradossi, come quello di Eubulide di Mileto, noto come «sofisma del mentitore». Nella prima formulazione si presentava in questo modo: «Se menti dicendo di mentire, nello stesso tempo menti e dici la verità». Lo hanno ripreso anche i logici del Novecento. Intanto, stoici ed epicurei non stettero zitti e misero in campo questioni non proprio semplici; a Roma in molti credevano di saperlo, e taluni, qualche anno prima dell’era volgare, grazie a Lucrezio sostenevano che questa benedetta verità si dovesse cercare nelle sensazioni, che sono il manifestarsi stesso delle cose. Pilato, uomo da accampamento più che da biblioteca, pronunciò la domanda probabilmente senza accorgersi, anche se è diventata la più celebre della storia sull’argomento. E i pensatori ripresero sia i ragionamenti dei greci, sia il quesito evangelico.
Ora, un’Enciclopedia Filosofica come quella che stiamo presentando offre decine di voci che parlano della verità, forse perché in un mondo come il nostro non è facile stabilire cosa sia. Chi la dice? La televisione? I politici? Il Vaticano? I professori? La mamma? Quelli che credono di avere sempre ragione? Ci possiamo avvalere della facoltà di non rispondere, ma forse vale la pena ricordare che pur prescindendo dalle risposte dei Padri della Chiesa e dei teologi medievali, già tra la fine del XVI secolo e l’inizio del successivo Francis Bacon riprese il quesito evangelico nel saggio Della verità e sostenne che Pilato proferì le parole «scherzando», senza «aspettarsi una risposta». Tra i molti che ritornarono sull’argomento c’è Friedrich Nietzsche, il quale non poteva perdere un’occasione tanto ghiotta. Puntuale, nell’Anticristo, dopo aver sottolineato che «in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata», e questa è appunto Pilato, si scaglia contro la verità. In essa, diciamocelo senza infingimenti, egli non credeva, ritenendola un’invenzione della dialettica, della morale, di deboli e schiavi, insomma un prodotto che si sarebbe dovuto rottamare, e dell’episodio evangelico apprezza «il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola...». Søren Kierkegaard, qualche anno prima, aveva già rovesciato il problema nel suo Esercizio del cristianesimo: «Che a Pilato venga in mente di interpellare Cristo a quel modo, in quel momento, questo prova che egli non aveva assolutamente l’occhio fatto per la verità». Poi, con efficacia, parla della «confusione fondamentale della domanda», la quale non avrebbe potuto «essere più sciocca».
Se ne occuperà anche Oswald Spengler nella sua celebre opera Il tramonto dell’Occidente, vasto e ancora discusso lavoro che faceva venire il bruciore di stomaco a Benedetto Croce. Egli dirà con una frase che non lascia dubbi: «Nella famosa domanda... è contenuto tutto il senso della storia». Hans Kelsen, il giurista austriaco tra i più apprezzati del secolo scorso, esamina la scena ne I fondamenti della democrazia e, dopo aver notato che quel magistrato romano era un «relativista scettico», scrive: «Agì con assoluta coerenza, rimettendo la decisione al popolo». Insomma, Pilato si comportò da «democratico». Che dire? Innanzitutto che una risposta di Gesù a Pilato si legge in un apocrifo, il Vangelo di Nicodemo, e che sulla verità si è continuato a discutere e riflettere, da Machiavelli a Pinocchio, compreso un litigio che scoppiò alla fine del Settecento tra Constant e Kant su come e quando dirla. Per il primo si poteva fare qualche eccezione, per il secondo si doveva proferire sempre, anche davanti a un assassino. Come finì? La disputa non è ancora terminata. La verità va sempre in scena, con o senza Pilato.
Corriere della Sera 20.10.10
«Uno spettro si aggira per il mondo: sono io»
Salvatore Veca “intervista” Karl Marx
Veca — Buongiorno, signor Marx. E, prima di tutto, un grazie di cuore per aver alla fine accettato l’intervista. Confesso che è stato molto faticoso, e a un certo punto mi sembrava fosse proprio una mission impossible. In ogni caso, come mi ha chiesto, ho predisposto una decina di domande. Ma, se è d’accordo, mi piacerebbe cominciare con una sua battuta.
Marx — Se lei è convinto che sia una buona idea, la mia battuta preferita resta: Je ne suis pas marxiste. Mi ci sono proprio affezionato, perché in fondo mi è servita in molte circostanze imbarazzanti. E di circostanze imbarazzanti, com’è noto, ne ho vissute più d’una. Una delle ragioni del ritardo e del laborioso lavoro per arrivare alla sua intervista è appunto legata a circostanze francamente imbarazzanti. Mi creda, negli ultimi due anni, ho cominciato a ricevere una richiesta quotidiana di interviste. Mi sono dovuto documentare e ho scoperto che il mio faccione è tornato in giro per il mondo. Uno spettro s’aggira per il mondo e ha il nome di Marx. Di Karl, non di Groucho...
Veca — Qual è la massima fra le tante, che raccomanderebbe ancora oggi, nell’avvio ingarbugliato del ventunesimo secolo?
Marx — Non ho problemi a rispondere e sarò conciso. Infelicità è vivere nella necessità, ma non è necessario vivere nella necessità. Questo ci ha insegnato uno dei miei eroi classici, Epicuro. Solo un’avvertenza, in proposito. Non ho mai inteso questa superba massima in senso morale e tanto meno moralistico. L’ho sempre considerata come un invito perentorio al realismo, all’analisi concreta della situazione storico-sociale determinata e concreta. E così, continuo a pensare, dovrebbe essere considerata da qualsiasi essere umano, chiunque sia o ovunque gli accada di avere una vita con tanti altri.
Veca — Veniamo alla faccenda dei tempi della storia...
Marx — La questione è importantissima. Molto più della pappa dei nostri sentimenti morali. Il materialista storico è uno che ha il dovere intellettuale e scientifico di scrutare i segni dei tempi, con un fiuto particolare per la loro stratificazione ed eterogeneità. Altro che la presunta mancanza di immaginazione del materialista storico, di cui mi ha accusato il critico critico Karl R. Popper. Il critico critico, un professore che insegnava dalla cattedra della London School Metodo scientifico, continuando a ripetere con convinzione che la sua fosse una materia evanescente, anzi inesistente, sostiene che la miseria del materialista storico, la miseria dello storicismo coincide con la mancanza di immaginazione. Lo storicista, dice il critico critico, non è capace di immaginare un cambiamento nelle condizioni del cambiamento. Bene. Rimando la critica al mittente. Quando ho enunciato la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ho indicato un po’ pedantemente e, in ogni caso, scrupolosamente un gran numero di controtendenze. Un materialista storico prende sul serio la storia. Dopo tutto, questo in fondo è l’unico punto in cui ho criticato il grande maestro Hegel. Ora, la cosa si fa seria, indipendentemente dalle critiche del critico critico che lasciano il tempo che trovano, quando la teoria deve misurarsi con la prassi.