giovedì 21 ottobre 2010

Il Sole 24 Ore Domenica 17.10.10
Dante e Einstein nella tre-sfera
La struttura dell’universo descritta nel Paradiso è la stessa suggerita dal grande fisico della relatività. Ed è coerente con le più recenti misure cosmologiche
di Carlo Rovelli

Salito fino alla sfera più esterna dell’universo aristotelico, Dante, invitato da Beatrice, guarda verso il basso. Vede tutti i cieli, e, giù in fondo, la , piccola Terra, che gli sembra girare lentamente sotto i suoi piedi. Poi Beatrice lo invita a guardare verso l'alto, fuori dall'Universo aristotelico, là dove secondo Aristotele non ci sarebbe più nulla di nulla, perché per Aristotele l'Universo ha un bordo dove tutto finisce.
Dante guarda e ha la straordinaria visione di un punto di luce circondato da nove immense sfere di angeli. Dove stanno questo punto di luce e le sfere angeliche, che sono fuori dall'Universo aristotelico? Dante lo dice in maniera incantevole: «questa altra parte dell'Universo d'un cerchio lui comprende, sì come questo li altri». E nel canto successivo: «parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude».
Il punto di luce e le sfere di angeli circondano l'Universo e insieme sono circondati dall'Universo. Che significa?
Per la maggior parte dei lettori, l'immagine di due insiemi di sfere concentriche ciascuno dei quali "inchiude" l'altro è solo un'oscura immagine poetica. I libri di testo dei licei disegnano il punto di luce e le sfere di angeli semplicemente fuori dall'universo aristotelico. Ma per un matematico o un cosmologo di oggi, la descrizione della forma dell'Universo data da Dante è perfettamente trasparente, e l'oggetto descritto da Dante è inconfondibile. Si tratta di una "tre‑sfera", la forma che nel 1917 Albert Einstein ha ipotizzato essere la forma del nostro universo, e che oggi resta compatibile con le più recenti misure cosmologiche. La sfrenata fantasia poetica e la straordinaria intelligenza di Dante Alighieri hanno anticipato di sei secoli una geniale intuizione di Albert Einstein sulla forma che il nostro universo potrebbe avere.
Che cos'è questa "tre‑sfera"? E una struttura matematica, una figura geometrica, che non è facilissima, ma in fondo neanche difficilissima, da concepire. La difficoltà sta nel fatto che non la si può disegnare dentro lo spazio a cui siamo abituati, per lo stesso motivo per cui la superficie della Terra non può essere disegnata fedelmente su una carta geografica piana. Per capire, consideriamo il seguente problema: se camminiamo sulla Terra sempre nella stessa direzione, dove arriviamo? Incontriamo il bordo della Terra? No. Arriviamo in paesi sempre nuovi all'infinito? Neppure. Come ben sappiamo, dopo avere fatto il giro della Terra, torniamo al punto di partenza. Un'idea difficile da digerire per gli antichi, e che fa ancora ridere i bambini alle elementari, ma alla quale abbiamo finito per abituarci, e trovare ragionevole. Questo perché la terra è una “sfera”. I matematici, precisi, dicono piuttosto che la "topologia", cioè la "forma intrinseca”, della Terra è una “due-sfera” ("due", perché sulla Terra si può camminare in due direzioni principali: nord‑sud, o esto-vest). Poniamo la stessa domanda per l'universo in cui siamo: immaginiamo di poter viaggiare su un’astronave velocissima sempre nella stessa direzione. Dove arriviamo? Incontreremo il bordo dell'universo? Poco credibile. Troveremo spazi sempre nuovi all'infinito? Anche quest'idea è poco attraente e forse poco credibile. E allora? Allora c'è la terza possibilità: dopo avere fatto il giro intero dell'Universo, ritorneremo al punto di partenza, sulla Terra. Questo è ciò che avviene se l'Universo è una tre‑sfera.
C'è un modo abbastanza semplice di disegnare questa tre‑sfera. Torniamo alla superficie della Terra. Una tecnica ben nota per disegnarla su una carta geografica, consiste nel disegnare due dischi: uno con i continenti dell'emisfero nord e il polo nord al centro, e l'altro analogo per l'emisfero sud. L'equatore è disegnato due volte, come il bordo di entrambi i dischi. Se partiamo dal polo sud e camminiamo verso nord, a un certo punto attraversiamo l'equatore: nella nostra rappresentazione in due dischi, "saltiamo" da un disco all'altro. Ovviamente nella realtà non facciamo nessun salto, perché nella realtà l'emisfero nord, visto da chi viene dal polo sud, "circonda" l'emisfero nord, così come l'emisfero sud "circonda" l'emisfero nord, per chi guarda da nord. La tre-sfera può essere rappresentata in maniera del tutto analoga, disegnando due "palle". Una palla è "l'emisfero nord" della tre‑sfera, l'altra è l'emisfero sud. La sfera "equatoriale" che separa e connette i due emisferi è disegnata due volte: come il bordo delle due palle. Un viaggiatore che partisse dal centro della prima palla e salisse "di sfera in sfera", come Dante, fino a questo equatore, vedrebbe sotto di sé un insieme di sfere concentriche, che si richiuderebbero intorno a un punto. Quest’altro emisfero, allo stesso tempo “circonderebbe” e “sarebbe circondato” dalla prima palla. In altre parole, la migliore rappresentazione della tre-sfera è esattamente quella che ne dà Dante. È stato un matematico americano, Mark Peterson, il primo a scrivere nel 1979 un bell’articolo sottolineando la chiarezza con cui Dante descrive la tre-sfera, ma oggi ogni fisico o matematico riconosce facilmente la tre-sfera nella descrizione dantesca dell’Universo.
Come ha potuto Dante anticipare einstein di sei secoli? Innanzitutto l’immaginazione spaziale di Dante, nel tardo medioevo, non era ancora ingabbiata nel rigido immaginario newtoniano per il quale lo spazio fisico è euclideo e infinito. Per Dante, come per Aristotele, lo spazio è solo la struttura della relazione tra e cose, e una tale struttura può avere forme peculiari. In secondo luogo, l’idea che la divinità risieda “oltre” il bordo dell’Universo aristotelico si trova già nel Lì Tresor, il bellissimo libro di Brunetto Latini, maestro di Dante, che compendia il sapere medioevale.
In terzo luogo, l’immagine di Dio come un punto di luce circondato da sfere di angeli è anch’esso già presente nel Medioevo, come ci mostrano diverse immagini del tempo. Dante ha messo insieme i pezzi del puzzle.
A me piace pensare che sia stata un’immagine precisa a ispirare Dante. Dante lascia Firenze nel 1301, mentre si stanno completando gli straordinari mosaici della cupola del Battistero. Se entrate nel Battistero e guardate in alto, vedete un punto di luce (la presa di luce dalla lanterna sulla sommità della cupola) circondato da nove ordini di angeli, (con il nome scritto per ciascun ordine: Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini e Serafini) esattamente come nel Paradiso. Se immaginate di essere una formica sul pavimento del Battistero (il polo sud) e iniziare a camminare in una qualunque direzione, notate come da qualunque direzione saliste sui muri, arrivereste poi allo stesso punto di luce circondato da angeli (il polo nord): il punto di luce e suoi angeli "circondano" e insieme "sono circondati", dal resto delle decorazioni interne del Battistero. L'interno del battistero è una due‑sfera, ovviamente. Dante, come ogni cittadino della Firenze della fine del Duecento, sarà certo rimasto impressionato dalla grandiosa opera architettonica che la sua città stava completando. (Il bellissimo e terrificante mosaico del Battistero che rappresenta l’Inferno, opera di Coppo di Marcovaldo, maestro di Cimabue, è comunemente considerato una sorgente d'ispirazione per Dante). Non potrebbe Dante avere trovato ispirazione anche nella "topologia" del Battistero? Il Paradiso ne riproduce con esattezza la struttura, compresi gli angeli e il punto di luce, traducendola da due dimensioni a tre, e ottenendo così la tre‑sfera einsteiniana.
Che sia questa o altra l'origine dell'idea, resta il fatto che la straordinaria immaginazione di Dante ha saputo trovare una soluzione consistente all'antico problema di conciliare l'idea di un mondo finito con l'idea dell'assenza del "bordo del Mondo". La soluzione è la stessa che Einstein escogiterà sei secoli più tardi. E che forse è la soluzione giusta.
Perché ci piace tanto Dante? Per molti motivi, ma forse anche per un motivo che chi come me si occupa di scienza vede particolarmente bene: Dante è uomo non solo di grandissima cultura, ma anche di straordinaria intelligenza, anche matematico‑scientifica. Sentire una persona colta di oggi che scherza e quasi si vanta della sua ignoranza scientifica è altrettanto triste che sentire uno scienziato che si vanta di non avere mai letto una poesia. Poesia e Scienza sono entrambe creazioni dello spirito che creano nuovi modi di pensare il mondo, per farcelo meglio capire. La grande Scienza e la grande Poesia sono entrambe visionarie, e talvolta possono arrivare alle stesse intuizioni. La cultura italiana odierna che tiene Scienza e Poesia separate è sciocca, perché si rende miope alla complessità e alla bellezza del mondo. ‑che sono rivelate da entrambe.

Il Sole 24 Ore Domenica 17.10.10
Prima traduzione italiana
La linea diretta Lenin-Stalin
Il pensiero. «Dell'uomo si può fare quel che si vuole», diceva Lenin
Sergej Mel'gunov protagonista a Mosca negli anni della Rivoluzione d'Ottobre denunciò subito le degenerazioni smascherando la logica del «terrore rosso»
di Goffredo Fofi

Quando negli anni venti dello scorso secolo cominciarono ad aver corso, insieme a elogi entusiasti, anche le prime motivate critiche delle scelte economiche e politiche del nuovo potere sovietico, l'attenzione del pubblico era grande: la rivoluzione sovietica aveva aperto nuovi inediti scenari europei, che avevano risonanza mondiale, e sapere e capire era necessario per poter giudicare. Ma quelli che davvero volevano sapere e capire, e che non erano prevenuti a favore o contro, furono ben pochi. Gli intellettuali che amavano considerarsi "al disopra della mischia" dimostrarono, come sempre o troppo spesso, una grande superficialità, e più cecità che lungimiranza: o paura o esaltazione, quasi mai lucidità o freddezza nell'analisi. Fu solo con gli anni trenta ‑ e cioè col consolidarsi dello stalinismo e la messa punto di un sistema di dominio, di un'organizzazione sociale ferrea e dittatoriale che, nel mentre proponeva risultati economici e militari enormi (i piani quinquennali che fecero in poco tempo dell'Urss la seconda potenza mondiale), precisava un controllo sociale e culturale implacabile ‑. che voci di critica e dissenso ebbero un grande effetto sull'opinione pubblica, da Istrati a Gide a Celine passando per gli emigrati ed esuli come Souvarine e più tardi VictorSerge. Ma basterebbe rileggere il viaggio nell'Urss degli anni Trenta del nostro Corrado Alvaro, che non era particolarmente prevenuto, e che non poté non notare certe somiglianze tra il regime bolscevico e quello fascista, per vedere come si oscillasse tra ripudio e ammirazione, tra riconoscimento dei risultati raggiunti e spavento per l'organizzazione che li aveva imposti.
Oggi, a distanza di quasi cent'anni dalla Rivoluzione, i discorsi dovrebbero essere chiari, le analisi oggettive. La bibliografia che riguarda quegli anni è immensa, ma si direbbe, almeno in Italia, che le passioni non si siano placate. Qui da noi si oscilla in particolare, in modi dirado interessanti, tra un anticomunismo di tradizione consolidata che vede dell'esperienza sovietica tutto il nero e una nostalgia piuttosto ottusa e di pochi, poiché i comunisti italiani hanno scelto da tempo la strada del capitalismo nei fatti come nelle parole. Più impressionante è la nostalgia del sistema comunista che si riscontra in Russia, che è nostalgia di un'epoca d'ordine e di consenso, un consenso basato, per una vasta parte della popolazione, su indubbi progressi nelle condizioni di vita. Oggi c'è in Italia perfino chi sostiene che il regime zarista ‑ «un impero autocratico con i suoi boia, i suoi pogrom, i suoi galloni, le sue carestie, le sue galere siberiane, la sua vecchia iniquità», come scrisse tra mille altri Victor-Serge ‑ avrebbe potuto portare progressivamente, per sua interna evoluzione, ai benefici del benessere e della democrazia, e anche nell'analisi del libro di Mel'gunov, che fu tra i primi a denunciare le storture e le violenze, le repressioni e le intolleranze del nuovo regime, si dimentica che egli che era stato tra l'altro uno stretto collaboratore di Tolstoj, e che era membro di uno dei molti raggruppamenti politici, dichiaratamente socialista, che avevano preso parte attiva alla rivoluzione e che ne furono emarginati dal golpe bolscevico ‑nella rivoluzione era stato coinvolto direttamente e non ne disconosceva certamente le ragioni e le cause. Se un effetto finirà per avere l'anticomunismo di certa stampa e di certa politica, sarà presumibilmente, in Italia, quello contrario a ciò che i suoi rappresentanti se ne aspettano, di fronte alla crisi evidente del modello capitalista‑ almeno di quello che ha dominato negli ultimi decenni, che non era il solo possibile ma è stato quello che ha dominato sugli altri.
L'aspetto più importante del saggio-denuncia di Mel'gunov è la sua denuncia del "terrore rosso", documentata e serissima, corredata da statistiche impressionanti, e che va dalla disamina delle decisioni politiche prese dal partito vincente al resoconto particolareggiato di ciò che accadeva nelle prigioni sovietiche e nella deportazione. E come in altri casi si resta sconcertati dal ritardo con il quale l'editoria italiana si è accorta di libri come questo ‑ e si è grati a Paolo Sensini che l'ha efficacemente introdotto e commentato e a Sergio Rapetti che ha ricostruito un'esauriente biografia dell'autore, evocando tutte le sue tribolazioni.
Mel'gunov, "socialista‑popolare" e democratico, fece politica attiva e fu tra i primi a denunciare i colpi di mano comunisti, l'instaurazione immediata di un sistema di controllo poliziesco nei confronti degli avversari di altre correnti e partiti, e la condotta della guerra civile. Tra il 1918 e il 1922 venne arrestato più volte dalla Ceka. Processato nel 1920, venne rilasciato grazie alle pressioni di vecchi rivoluzionari ancora intoccabili, come Kropotkin, ancora vivo e ancora intoccabile, o Korolenko, e quella Vera Figner eroina decabrista le cui memorie assai belle - un’altra rimozione! ‑ non mi pare siano mai state tradotte in italiano.
D'accordo, «la rivoluzione non è un pranzo di gala», ma come dice un motto più antico e di maggior saggezza, il buongiorno si vede dal mattino. L'aspetto più appassionante del libro di Mel'gunov è la sua denuncia della politica di Lenin, che permette di considerare gli elementi di continuità e solo quelli, più spesso studiati, di discontinuità tra Lenin e Stalin. Al tempo di Kruscev, fu Vasiij Grossman, ex bolscevico convinto, a dirlo sconcertando molti lettori in Tutto scorre (edizione italiana Adelphi 1987). Nel 1967 mi capitò di recensire il libro ‑ peraltro bello e importante ‑ di Evgenija Ginzburg, Viaggio nella vertigine (Mondadori) - sui "Piacentini" e di indicarne i limiti proprio nel fatto che ella si fosse resa conto di cos'era il regime stalinista soltanto quando colpì direttamente nel suo ambiente, tra i suoi vicini e conoscenti stessa, ignorando il prima o volendolo ignorare, non rispondendo alla domanda: quando era cominciato?
Sergei P. Mel'gunov, «Il terrore rosso in Russia 1918‑1923», a cura di Sergio Rapetti e Paolo Sensini, Jaca Book, Milan pagg. 306, €29,00.

La Stampa 18.10.10
Bertinotti e i Quarantamila
“Il Pci non fu mai riformista”
Intervista a Bertinotti di Riccardo Barenghi

All'epoca fu, insieme a Claudio Sabattini, il più deciso, diciamo anche il più duro nello scontro alla Fiat, quello dei 35 giorni di trent'anni fa. Oggi che si rievoca quel conflitto, finito con la sconfitta degli operai che occuparono Mirafiori e di coloro che li appoggiavano, Fausto Bertinotti ha qualcosa da dire in proposito. Parla a chi stava dall'altra parte, ossia quelli che venivano chiamati «padroni», ma soprattutto ai suoi compagni di allora, come Piero Fassino che era nel gruppo dirigente del Pci torinese e che in un'intervista al nostro giornale di pochi giorni fa ha dato una interpretazione sul comizio che il leader del Pci Enrico Berlinguer fece davanti ai cancelli della Fiat. Ossia che il Pci sarebbe, sì, stato sempre accanto ai lavoratori, ma anche che «le forme di lotta bisogna deciderle tutti insieme col sindacato».
Lei, Bertinotti, che era il segretario regionale della Cgil, ha lo stesso ricordo di Fassino?
«Prima vorrei sottolineare l'onestà intellettuale di chi stava dall'altra parte. Di Cesare Annibaldi, per esempio, che in un'intervista su queste pagine racconta la vicenda esattamente come si è svolta, riconoscendo le nostre ragioni con un'umanità che mi ha favorevolmente impressionato. Non a caso ha detto che dopo la lotta lui divenne amico di Claudio Sabattini proprio perché subì la sorte di capro espiatorio. Tutt'altra storia rispetto a quella che racconta Fassino: Claudio pagò la sua "colpa" con molti anni di esilio politico. Una punizione che tentarono anche di infliggere a me ma senza riuscirci per fortuna. Il Pci e la Cgil non erano così democratici e pluralisti come ricorda Piero, punivano, radiavano, cacciavano i dirigenti ai margini delle organizzazioni. Ma voglio sottolineare anche l'onestà di Cesare Romiti, che pur nella sua durezza riconosce il senso di quel conflitto e la dignità della sua controparte».
Fassino invece?
«Lui fa un'operazione puramente ideologica, ossia modifica quella storia in base alla sua ideologia attuale. Sostenere che il Pci era un partito riformista, dando a questo concetto quello che gli si dà oggi, è un falso storico. Il Pci, nonostante le sue divisioni interne, restò sempre legato al conflitto di classe. Non si piegò mai alle ragioni dell'impresa, né dal punto di vista politico né da quello culturale».
Ma quella frase di Berlinguer?
«Quella frase non ha alcuna importanza, basta ricordarsi la storia politica di quel periodo, col Pci che aveva rotto il governo di unità nazionale e col suo leader che aveva deciso di ricominciare dalla sua base sociale, ossia gli operai. Sfidando anche forti dissensi nel gruppo dirigente, tanto che Tonino Tatò, che era il suo segretario particolare, proprio quel giorno a Torino mi disse: "La venuta di Enrico è stata molto combattuta in segreteria". Però, nonostante quelli che allora venivano chiamati miglioristi, e cito per tutti il compagno Gerardo Chiaromonte, Berlinguer venne a Torino e disse agli operai che il partito sarebbe stato alloro fianco. Lo disse e soprattutto lo fece. Citò Solidarnosc, invitando il sindacato a fare come a Danzica un mese prima, trattative in piazza in modo che gli operai potessero parteciparvi. era un invito e insieme una critica al sindacato: più democrazia diretta. Insomma il Pci di Berlinguer non solo diceva che era accanto agli operai, ma lo imostrava con i fatti: e i fatti contano più delle frasi, dette o non dette».
Col senno di poi lei rifarebbe tutto?
«Tutto. Le battaglie non si rinnegano solo perché si sono perdute. Io penso che senza il valore del No, cioé dell’opposizione, non sarebbero esistite le lotte di emancipazione. Ieri come oggi».
Lei ha avuto come controparte Romiti. Chi pensa sia più duro tra lui e Marchionne?
«Con il rimo si lotta, si tratta e si può anche perdere. Col secondo, quello di Pomigliano, e non il primo Marchionne, l'uomo del discorso all'Unione industriali che avevo molto apprezzato, si può solo accettare o rifiutare il diktat».
Saltando in avanti di trent'anni, vede analogie tra quella lotta di allora e la battaglia della Fiom di oggi?
«Ce ne sono parecchie di analogie, nel metodo e nel merito, ma voglio citare solo quella negativa. Mentre allora tutta la sinistra e tutto il sindacato erano schierati a fianco degli operai, oggi non è così. Perché il Pd non è sceso in piazza con la Fiom mentre qualsiasi partito socialdemocratico o laburista europeo lo avrebbe fatto, come fanno i socialisti francesi? Perché nell'eredità del Pd ci sono enormi nodi ancora irrisolti, tanto che esso rifiuta una collocazione socialista senza però averne trovata un'altra altrettanto credibile. Semplificando, direi che se oggi non sei in grado di schierarti con la battaglia della Fiom, non sei nemmeno nelle condizioni per cominciare un qualsiasi discorso di sinistra».
A proposito, lei è d'accordo con la proposta di sciopero generale lanciata sabato in piazza a Roma?
«Lo sciopero generale è irrinviabile».

l’Unità 21.10.10
Ior, quei conti sospetti usati da «Maria Rossi» e don Bancomat
Il Riesame conferma il sequestro dei 23 milioni depositati al Credito Artigiano. Il Vaticano: sorpresi
Per i pm c’è stata omissione delle norme antiriciclaggio. E si usa un nome falso per le operazioni...
Sotto la lente. 143 milioni di euro movimentati senza causale nell’ultimo anno
Uno dei conti sospetti è intestato al famoso don Evaldo Biasini, soprannominato dai giornali “padre Bancomat” perché in una cassaforte segreta custodiva il “tesoretto” di Diego Anemone.
di Angela Camuso

Un conto Ior aperto in Intesa San Paolo e intestato al famoso don Evaldo Biasini, economo della Congrega del Preziosissimo Sangue, soprannominato dai giornali “padre Bancomat” perché in una cassaforte segreta custodiva il “tesoretto” di Diego Anemone, l’imprenditore al centro dell’inchiesta sugli appalti truccati della Protezione Civile. Più un altro deposito, presso l’Unicredit di via della Conciliazione a Roma, di cui risulta titolare un anziano reverendo e da cui nel 2009 hanno prelevato assegni, provenienti da fondi localizzati a San Marino, un avvocato di Roma che non esercita la professione e viene definito dagli investigatori, piuttosto, un “faccendiere”, e una donna misteriosa. Una donna che è stata presentata ai vertici dell’istituto di credito dallo stesso prelato titolare del conto, con un nome falso, “Maria Rossi”, nonché come la madre dell’intraprendente avvocato, quando in realtà la signora con quest’ultimo non è legata da alcun vincolo di parentela. Sono queste alcune delle operazioni definite “sospette” dagli investigatori del nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza di Roma, che su delega del procuratore aggiunto Nello Rossi e del pm Rocco Fava stanno monitorando le movimentazioni effettuate sui conti correnti aperti dalla banca della Santa Sede presso le agenzie delle più importanti banche italiane: movimentazioni sulle quali, com’è noto, secondo la procura lo Ior avrebbe omesso di applicare le norme antiriciclaggio previste dalle disposizioni in materia emanate dalla Ue nel 2007, tant’è che per violazione di quella legge sono stati indagati il presidente della banca vaticana, Ettore Gotti Tedeschi ed il direttore generale Paolo Cipriani.
In merito alla stessa inchiesta, proprio ieri è stato reso noto che il tribunale del Riesame ha confermato il sequestro disposto dal gip in via preventiva dei 23 milioni di euro dello Ior depositati su un conto del Credito Artigiano Spa, 20 dei quali destinati all'istituto di credito tedesco J.P. Morgan Frankfurt e i restanti tre milioni alla Banca del Fucino. E dell’esistenza delle operazioni sospette sul conto Unicredit del reverendo e riconducibili al faccendiere e alla sedicente Maria Rossi, nonché di quelle effettuate da “padre Bancomat”, hanno scritto, non a caso, i magistrati Rossi e Fava nella memoria presentata al tribunale del Riesame per motivare l’esigenza del mega-sequestro. «Queste operazioni sospette dimostrano che gli omessi controlli da parte dello Ior non sono affatto una questione pro-forma, come afferma la Santa Sede”, dichiarano in sintesi dalla procura, evidenziando, in particolare, l’entità delle movimentazioni di denaro finite nel mirino degli investigatori. Sul conto del reverendo, ad esempio, l’avvocato-faccendiere risulta avere incassato, in un’unica tranche, assegni per 300mila euro, mentre la sedicente Maria Rossi circa 50mila euro. E se invece il chiacchierato don Biasini ha incassato sul suo conto in Intesa San Paolo somme definite dalla procura poco ingenti, c’è da considerare che presso la medesima agenzia (sempre con sede a Roma, nei pressi della Santa Sede) la stessa banca vaticana, con i suoi conti, risulta aver movimentato, senza specificare causale alcuna, ben 143 milioni di euro nel solo ultimo anno solare. Di queste transazioni, proprio perché la causale è rimasta generica, soltanto una ovvero un prelevamento in contanti di 600mila euro, senza indicazione del beneficiario, indicato soltanto come correntista Ior è per ora finita all’attenzione della Banca d’Italia attraverso il sistema di segnalazione automatico delle operazioni sospette da parte della Uif (Unità Informazioni Finanziarie). Questo probabilmente perché, è il parere degli investigatori, c’è stata una svista da parte di qualche funzionario, il quale, a differenza della prassi, ha indicato il tipo di operazione di cui si trattava. Per questi motivi, l’indagine è destinata ad allargarsi: la Guardia di Finanza si appresta a scandagliare una valanga di giro-conti Ior su Ior senza indicazione degli effettivi beneficiari.
«I responsabili dello Ior ritengono di poter chiarire tutta la questione al più presto nelle sedi competenti», ha affermato il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, dopo avere espresso “stupore” per la conferma del sequestro.

il Fatto 21.10.10
Nei forzieri dello Ior i conti della “cricca”
Nelle carte dell’inchiesta spunta il nome di don Evaldo Biasini, il “Don Bakomat di Anemone
di Rita Di Giovacchino

Dalle carte    dell’accusa sul presunto riciclaggio di denaro allo Ior, spunta il nome di Evaldo Biasini, il famoso “padre bancomat”, presidente dell’ente missionario Congregazione del Preziosissimo Sangue, cui ricorreva il costruttore Diego Anemone quando aveva bisogno urgente di contanti (ed era meglio che non risultassero prelevati dal suo conto in banca). Non ci sono soltanto i 23 mln di euro prelevati dal conto del Credito Artigiano, nell’ottobre scorso (nonostante fosse già stato bloccato dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia) a dimostrare il disinvolto “modus operandi” dell’Istituto per le opere di Religione, o Banca vaticana, come viene definito. Per vincere il primo round di fronte al Tribunale del Riesame contro il ricorso, presentato dal presidente dell’istituto Ettore Gotti Tedeschi e dal direttore generale Paolo Cipriani (entrambi indagati per violazione della normativa antiriciclaggio della Ue, divenuta legge nel 2007) è bastata ai pm Nello Rossi e Stefano Rocco Fava una memoria in cui sono descritte in modo dettagliato tre operazioni sospette della “valanga” già accertata. La valutazione è di investigatore.
C’È, ad esempio, un’operazione del novembre del 2009, che fa riferimento ad assegni per 300 mila euro, negoziati su un conto Ior presso la filiale di Unicredit in via della Conciliazione, da tal Maria Rossi indicata dalla banca come la mamma di un anziano reverendo, titolare del conto medesimo. Peccato che la signora, per motivi anagrafici, non potesse essere la madre del prelato. Infatti le indagini hanno poi dimostrato che la donna usava un nome di fantasia e che i fondi provenivano da una una banca di San Marino. Il vero destinatario era un noto faccendiere, utilizzatore finale di ingenti somme che gli pervenivano presso lo stesso istituto.
LA SECONDA operazione riguarda invece un prelievo di 600 mila euro presso una sede di Intesa San Paolo, sempre nei pressi del Vaticano. Una somma non astronomica, comunque sostanziosa, di cui lo Ior non indicava la precisa destinazione fatto salvo un vago riferimento a missioni religiose. Non c’è da stupirsi perché sullo stesso conto, hanno poi scoperto gli investigatori, sono transitati con analoghe modalità nel solo 2009 ben 140 milioni di euro in contanti.
PER TORNARE a Don Evaldo Biasini, personaggio ormai noto dopo lo scandalo che ha travolto la Protezione civile, va ricordato che veniva indicato nell’inchiesta della procura di Perugia sui Grandi Eventi: come custode dei “fondi neri” del costruttore Diego Anemone. Anche se in questa vicenda non sembra coinvolto in operazioni sospette. Ma il fatto che sia stato citato è sospetto. Quasi un segnale ai giudici del Riesame, su cosa può emergere dal monitoraggio a tappeto che la Procura di Roma ha già disposto su tutti gli istituti bancari per rintracciare conti Ior e ricostruire tutti i movimenti finanziari che fanno capo alla Banca vaticana. Molti personaggi coinvolti nello scandalo, a partire da Angelo Balducci, disponevano di un conto presso la Banca vaticana o comunque di un corridoio privilegiato per operazioni finanziarie.
PADRE FEDERICO Lombardi, il portavoce della Santa Sede, ha manifestato grande stupore per la decisione presa dal tribunale del Riesame, che ieri nel respingere il ricorso di Gotti Tedeschi e Cipriani, ha confermato il sequestro cautelativo dei 23 milioni di euro sul conto del Credito Artigiano. “Certamente si tratta di un problema interpretativo informale”, ha spiegato padre Lombardi. Una linea di difesa ribadita anche in una nota ufficiale della Santa Sede. Insomma lo Ior non intende recedere da quanto ha sempre affermato: “Nessuna irregolarità, è soltanto un equivoco, chiariremo tutto”. Ma come abbiamo visto le cose non stanno così. E la decisione del collegio, composto dai giudici Claudio Carini, Giovanna Schipani e Alessandra Boffo, sembra preoccupare il presidente Gotti Tedeschi che al momento si trincera con un secco “no comment”.
Anche se, qualche ora dopo, parlando con i giornalisti, lancia un laconico messaggio: “Mi sento un po' depresso”.

Repubblica 21.10.10
Fondi Ior, si indaga per riciclaggio confermato il sequestro di 23 milioni
Spunta una pista sul sacerdote "cassiere" di Anemone
di Carlo Bonini


Il portavoce vaticano: stupore E il presidente della banca si dice "un po´ depresso"
Gli inquirenti: la vicenda di quei trasferimenti non è un incidente di percorso

ROMA - L´opacità di centinaia di operazioni per contanti disposte negli ultimi tre anni dallo Ior, la banca Vaticana, attraverso una dozzina almeno dei principali istituti bancari italiani, e buon ultimo il sequestro di 23 milioni su un conto del Credito Artigiano, non sono né «un equivoco», né una storia da niente di cavillosa burocrazia bancaria. L´indagine della Procura di Roma sulla cassaforte della Santa Sede coltiva un´ipotesi di reato che si chiama e si scrive «riciclaggio». Che oggi incrocia, solo per dirne una, l´inchiesta di Perugia sui Grandi Appalti e i conti di don Evaldo Biasini, "don Bancomat", e dunque le rimesse del costruttore Diego Anemone, di cui il reverendo era la "tasca", e di Angelo Balducci nella filiale della "Banca Marche" di Roma dove il missionario, economo della "Congregazione del Preziosissimo sangue", era cliente proprio insieme a Balducci e Anemone.
Che sia questa la sostanza dell´inchiesta sullo Ior, ora si ha certezza documentale. Nel giorno in cui il Tribunale del Riesame stabilisce infatti che i 23 milioni di euro congelati tre settimane fa dalla Procura di Roma su un conto della banca Vaticana presso la filiale del Credito Artigiano restino sotto sequestro preventivo per «omessa e incompleta comunicazione alle autorità di vigilanza della natura dell´operazione» cui erano destinati (due bonifici di 20 e 3 milioni alla Jp Morgan di Francoforte e alla Banca del Fucino), la notizia sono le ragioni per le quali quel denaro non può essere restituito. Con una parziale ma assai significativa "discovery" di parte del materiale istruttorio raccolto nella loro inchiesta "madre" sui conti dello Ior, il procuratore aggiunto Nello Rossi e il sostituto Stefano Rocco Fava annichiliscono l´insistita difesa di Oltre Tevere. Documentano perché la vicenda dei 23 milioni del "Credito Artigiano" non è né un incidente di percorso, né un inciampo in una condotta altrimenti virtuosa.
Non a caso, forse, mentre ancora ieri mattina, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, comunicava lo «stupore» con cui la Santa Sede aveva appreso la decisione del Tribunale del Riesame, «ritenendo che la vicenda altro non presenti che un problema interpretativo e formale», già a sera il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, confidava alle agenzie di stampa di sentirsi improvvisamente «un po´ depresso». E con buone ragioni. Nel sostenere di fronte al Tribunale del Riesame le ragioni del sequestro preventivo dei 23 milioni di euro al "Credito Artigiano", la Procura deposita infatti atti che svelano, a campione e a titolo di esempio, almeno tre operazioni condotte dallo Ior nel corso del 2009 che hanno l´odore del "riciclaggio" e le stimmate di "segnalazione di operazione sospetta" della Banca d´Italia. E, in ogni caso, che non hanno rispettato uno solo dei canoni di trasparenza "rinforzata" che, dal 2007, una legge dello Stato impone alla banca Vaticana.
Si scopre così che, nel novembre dello scorso anno, da un conto acceso in una filiale della banca Intesa-san Paolo, vengono prelevati, su disposizione dei vertici dello Ior (il presidente Ettore Gotti Tedeschi e il direttore generale, Paolo Cipriani), 600 mila euro in contanti per un´operazione di cui non viene comunicata né la natura, né i beneficiari. Per giunta, in perfetta sintonia con una prassi del "silenzio" che vede lo Ior movimentare su quello stesso conto, nel solo 2009, la somma complessiva di 140 milioni di euro. E ancora: si scopre che, sempre in quel 2009, vengono bonificati da una banca di san Marino 300 mila euro su un conto Unicredit intestato a un monsignore. É una somma importante di cui, anche tenendo conto della provenienza geografica, il reverendo non offre giustificazione. Ma, soprattutto, è una somma il cui reale beneficiario non è il prelato ma un imprenditore e una signora, tale Maria Rossi, entrambi cittadini italiani. A richiesta delle autorità di vigilanza, su entrambi, lo Ior fornisce risposte evasive E, a una prima verifica, false. Maria Rossi è infatti un nome di fantasia. E non risponde al vero la circostanza, come pure sostiene lo Ior, che sia la madre dell´imprenditore che risulta aver negoziato il denaro arrivato da san Marino.
C´è di più. Nel 2009, su un conto Ior di Banca Intesa versa due assegni, per un importo che non arriva a 50 mila euro, don Evaldo Biasini, la "tasca" di Diego Anemone. Ebbene, quei due assegni sono tratti da un altro conto che lo stesso Biasini ha acceso presso la "Banca Marche" di via Romagna 17. In quella stessa filiale è cliente di riguardo Angelo Balducci, il cui conto (dalla liquidità importante) è gestito direttamente dal suo commercialista Stefano Gazzani. Ma quel che più importa, appunto, è che in quella filiale siano clienti il costruttore Diego Anemone e, soprattutto, le sue società consortili che si sono aggiudicate gli appalti di cui Balducci è stato il "dominus". La "Imatec", la "Maddalena" e l´"Arsenale" (G8 della Maddalena), la "Cosport" e "Musport" (Mondiali di nuoto 2009), la "Consortile sant´Egidio" (aeroporto di Perugia). É solo una coincidenza? O don Evaldo, grazie allo speciale regime del "silenzio" dello Ior, e come farebbero sospettare anche quei due assegni, ha fatto da spallone del denaro di Anemone tra le due sponde del Tevere?

Corriere della Sera 21.10.10
I conti sospetti dello Ior
L’ipotesi dei pm: riciclaggio e prelati prestanome
di Fiorenza Sarzanini


La Procura di Roma ha scoperto una serie di operazioni bancarie sospette effettuate sui conti dello Ior aperti in banche italiane. Per i magistrati sono servite a riciclare il denaro di alcuni clienti dell’istituto di credito della Santa Sede. I pm ipotizzano l’esistenza di prelati prestanome. Restano sotto sequestro 23 milioni che dovevano finire in Germania. Indagini su altri 140 milioni. Il Vaticano: chiariremo

ROMA — Non solo i 23 milioni di euro depositati al Credito Artigiano. Nell’inchiesta sullo Ior la procura ha individuato altre tre operazioni sospette, cioè movimenti finanziari che potrebbero aver violato le norme antiriciclaggio. I trasferimenti in questione risalgono a ottobre e novembre dell’anno scorso: le verifiche sono concentrate su operazioni realizzate su conti Unicredit e Intesa San Paolo. Nella prima banca sono oggetto di verifiche alcuni assegni incassati dallo Ior per 300 mila euro. Nell’altra si indaga su un prelievo di 600 mila euro. E a Intesa San Paolo il Nucleo valutario sta accertando anche la regolarità di una transazione di don Evaldo Biasini, ribattezzato «don Bancomat» nell’inchiesta sulla «cricca» dei Grandi Appalti.
Il procuratore aggiunto Nello Rossi e il pm Stefano Rocco Fava hanno descritto le tre operazioni sospette in una memoria depositata al Tribunale della libertà per dimostrare che il caso del Credito Artigiano non è isolato. Ieri i giudici del Riesame hanno confermato il sequestro del gip Maria Teresa Covatta, che a settembre ha bloccato due bonifici diretti alla JP Morgan Frankfurt (20 milioni) e alla Banca del Fucino di Roma (tre milioni). In tutto sono 15 le banche al centro dell’inchiesta per violazione delle norme antiriciclaggio, in cui sono indagati il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, e il direttore generale, Paolo Cipriani. Ancora maggiore il numero dei conti correnti che potrebbero essere stati utilizzati per transazioni irregolari, poiché in alcune filiali l’Istituto per le opere di religione ha più di un deposito.
Ora è probabile che l’avvocato Vincenzo Scordamaglia ricorra in Cassazione. Intanto il Vaticano esprime «stupore» per la mancata revoca dei sigilli: «Si ritiene - sottolinea il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi - che si tratti di un problema interpretativo e formale». Tanto che, aggiunge il gesuita, «i responsabili dello Ior ritengono di poter chiarire tutta la questione al più presto nelle sedi competenti». Gotti Tedeschi (che ha preso possesso della presidenza dello Ior alla fine del 2009), ieri era all’Auditorium di Via Veneto, a Roma, per un convegno su «Etica e finanza» organizzato dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena e dall’Osservatore Romano: non ha voluto commentare la decisione del Tribunale della libertà. Però si è concesso una battuta: «Cercherò di fare un intervento anche spiritoso, perché stasera sono un po’ depresso». Il direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, presente allo stesso dibattito, l’ha difeso: «Quella di Gotti Tedeschi è stata una nomina innovativa».
Invece per il capogruppo dell’Idv in Senato, Elio Lannutti, «i giri di denaro e i movimenti finanziari che emergono dalle indagini dei magistrati romani sono inquietanti. Governo e Bankitalia devono dimostrarsi vigili ed effettuare i controlli previsti».

Corriere della Sera 21.10.10
«Prestanome e somme frazionate per il segreto sull’utilizzo dei soldi»
di Lavinia Di Gianvito


La relazione dei pm: da un conto prelevati 140 milioni in contanti

ROMA — Movimentazioni bancarie senza indicare né i beneficiari dei prelevamenti né le causali di ogni operazione, come invece prevede la legge. La scelta dei pubblici ministeri di Roma di consegnare al tribunale del Riesame una memoria con l’elenco di alcuni casi già verificati, aveva un obiettivo preciso: dimostrare che l’operazione per il trasferimento dei 23 milioni di euro dal Credito Artigiano a una banca d’affari tedesca non era affatto un episodio sporadico frutto di un equivoco», come hanno sostenuto i vertici dello Ior. Perché l’indagine più ampia avviata un anno e mezzo fa per riciclaggio ha consentito di scoprire decine di casi analoghi. Ma soprattutto ha fatto emergere il sospetto che i titolari dei conti aperti dello stesso Ior presso istituti di credito italiani siano in realtà dei prestanome di clienti ricchi e famosi.
Tra loro ci sono numerosi prelati. Come Evaldo Biasini, don Bancomat per la «cricca» dei Grandi Appalti, che ha spostato 50.000 euro da quello stesso conto che utilizzava tra l’altro per favorire il costruttore Diego Anemone. Oppure come il sacerdote che ha ricevuto e poi «girato» a un imprenditore 300.000 euro provenienti da San Marino.
La relazione firmata dal procuratore aggiunto Nello Rossi e dal sostituto Stefano Rocco Fava analizza proprio queste tre operazioni «a titolo esemplificativo» per mostrare il funzionamento del sistema. Si scopre così che nel novembre 2009, da un deposito dello Ior presso una filiale di Intesa San Paolo, sul quale era delegato ad operare il direttore generale Paolo Cipriani, sono stati prelevati 600.000 euro. I vertici della banca sollecitano chiarimenti, ma dallo Ior vengono fornite giustificazioni non ritenute sufficienti a comprendere per quale motivo siano stati movimentati quei soldi. Genericamente si parla di finanziamenti destinati alle attività missionarie: troppo poco per spiegare un prelevamento così ingente. E così scatta la segnalazione di operazione sospetta (Sos) per la Banca d’Italia. Vengono analizzati tutti gli «estratti» ed emerge che nel corso del 2009 da quel conto sono stati presi 140 milioni di euro in contanti. Una cifra immensa che avrebbe preso decine di rivoli e adesso sono in corso verifiche per scoprire dove sia finito il denaro.
(il pezzo continua sul cartaceo…)

l’Unità 21.10.10
Bersani: «Sul Lodo Alfano le barricate, poi il referendum»
di Maria Zegarelli

Il segretario del Pd va al Quirinale «Ci atterremo a quello che indica la Costituzione»
La straetgia a breve. «Fare le barricate vuol dire opporci con tutte le nostre forze in Aula»
Anche Di Pietro d’accordo sul ricorso al popolo. I percorsi per arrivare alla mobilitazione

Bersani sul Lodo Alfano: «Ostruzionismo in parlamento e poi il referendum. Legge inaccettabile». In un incontro con Napolitano assicura: «Seguiremo la via maestra indicata nella Costituzione».

Il Lodo Alfano retroattivo «è una legge inaccettabile e fare le barricate vuol dire che noi ci opporremo con tutte le forze che abbiamo in Parlamento e poi andremo al referendum perché noi non siamo disposti a risolvere i problemi di Silvio Berlusconi». Pier Lugi Bersani ieri ha annunciato che il partito democratico sosterrà il referendum sullo scudo per il premier se dal parlamento la legge costituzionale non uscirà con il quorum previsto dalla Costituzione, spiegando anche quel termine «barricate» che aveva suscitato qualche perplessità. Ostruzionismo in Parlamento, unica possibilità per l’opposizione di mettere i bastoni fra le ruote a quella che è evidentemente una delle priorità del governo e del Presidente del Consiglio.
L’INCONTRO AL COLLE
Bersani ne ha parlato anche con il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante un incontro al Colle avvenuto poco prima di pranzo e andato avanti per circa mezz’ora. Un colloquio a due, voluto dal segretario Pd, dunque non soltanto uno dei normali incontri che il Capo dello Stato ha abitualmente con leader politici o i rappresentanti delle istituzioni, quanto piuttosto la volontà del Pd di illustrare a Napolitano la propria «strategia d'autunno». Si è parlato ampiamente dell’agenda politica dei democratici per il paese dei democratici, in vista della sessione di Bilancio, a partire anche dalle proposte su Fisco e lavoro deliberate nell’ultima Assemblea nazionale a Varese. Napolitano ha raccomandato «la necessaria attenzione per rilanciare i temi del lavoro», ma è stato inevitabile soffermarsi anche sulla giustizia e il Lodo Alfano: il segretario ha ribadito il suo impegno ad attenersi «alla via maestra indicata nell’articolo 138 della Costituzione», laddove si prevede la possibilità di ricorrere al referendum e dunque ad una mobilitazione dei partiti fuori dal Parlamento. Il percorso tracciato dalla Carta costituzionale è chiaro: «le leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali». E dentro questo solco intende muoversi il Pd: «Fare le barricate vuol dire dare battaglia in Parlamento, fare ostruzionismo ma essere pronti subito dopo a mobilitarci per il referendum», ha ripetuto ai suoi il segretario aggiungendo che il Pd «è pronto a spostare questa battaglia nella società civile perché questa è una legge che riguarda una sola persona e non il Presidente del Consiglio in generale». Parlando a SkyTg 24 ha aggiunto che se «non fosse retroattiva non se ne vedrebbe il significato e la retroattività disvela l’intenzione, che non è quella di imbarcarsi in una astrattissima norma costituzionale: vogliono risolvere il problema di Berlusconi e noi non siamo disposti a fare leggi costituzionali per risolvere i suoi problemi».
L’IDV E L’UDC
Anche Antonio Di Pietro l’altro giorno ha evocato il referendum e ha cercato di chiamare in causa il Colle. È possibile che Bersani, ieri, annunciando di sostenere il referendum abbia voluto togliere la carta in mano all’Idv e in questo modo tutelare il Capo dello Stato. Il Quirinale, d’altro canto, sia la scorsa estate, sia l’altro ieri, con una nota ufficiale ha ribadito di essere del tutto estraneo all'elaborazione di leggi e soluzioni di scudi giudiziari per le alte cariche.Bersani mette anche nel conto che su questo fronte le posizioni dell’Udc sono altre: Casini ha annunciato l’astensione in parlamento e difficilmente sosterrà la consultazione popolare. Sull’altro fronte anche Fini qualche problema ce l’ha: la base di Fli non ha gradito il voto al Lodo Alfano.

l’Unità 21.10.10
Ilaria Cucchi denuncia
«Veniamo trattati come fossimo imputati»
Ad un anno dalla morte di Stefano: «Al processo pm e difesa sono ostili con noi. Oggi sento che questa giustizia non è per tutti»
intervista di Tullia Fabiani

Ècome se fossimo noi gli imputati. Io e i miei genitori, i colpevoli. L’atmosfera che abbiamo percepito in Aula è ostile, come se accusa e difesa fossero coalizzate contro di noi. Forse ci si dimentica che io e i miei genitori stiamo lì perché è morto mio fratello. O forse siamo quelli che stanno dando fastidio solo perché chiediamo, senza tregua, che venga riconosciuta la verità». Ilaria Cucchi è molto amareggiata: due giorni fa è stata scortata dai carabinieri fuori dal tribunale. Era in corso l’udienza del processo che vede imputate 13 persone tra agenti di polizia penitenziaria e medici dell’ospedale romano Sandro Pertini, dove suo fratello Stefano è morto un anno fa, il 22 ottobre, dopo una settimana di agonia. «Mi hanno detto che dovevo uscire dal tribunale per motivi di ordine pubblico e mai avrei immaginato di creare un simile problema. Mi sento umiliata e molto triste, anche perché dover sentire certe cose...» Quali cose?
«Ho sentito dire da uno dei legali della difesa: “Adesso oltre il libro faranno anche il film”. Ecco, questo è l’atteggiamento nei nostri confronti, come se nel raccontare quanto accaduto a mio fratello avessimo chissà quale secondo fine. Come posso sentirmi di fronte a certe affermazioni? È una grande mortificazione; ripeto, la sensazione è di essere gli imputati».
E dipende dal fatto che va in tv, rilascia interviste, scrive libri su quanto accaduto? «Si, anche. Penso che certi atteggiamenti, come l’allontanamento dal tribunale, dipendano dai miei interventi. Evidentemente non vorrebbero tutta questa attenzione mediatica».
Chi non la vorrebbe?
«I soggetti coinvolti: accusa e difesa. Però se i pm si sentono sotto pressione possono sempre farsi sostituire».
La procura ha chiesto comunque che dalla prossima udienza siano ammessi in aula stampa e tv. «Sì. Ci sarà un’udienza martedì 26 e vedremo cosa decide il gup. Per me non c’è alcun problema, anzi. È importante che i giornalisti possano seguire ciò che avviene in aula, vedere come procede l’udienza e qual è il rapporto tra le parti. Che ci sia o meno la stampa la mia impressione sull’atmosfera che respiriamo quando siamo lì non cambia». Ce l’ha con loro perché è stata respinta la vostra richiesta di una super perizia su Stefano?
«No, non è questo. So bene che ci sono motivazioni precise e che è stata rigettata non perché infondata, ma perché, come ha spiegato il nostro avvocato, è inammissibile in questa fase processuale. La questione è un’altra: l’episodio dell’altro giorno, venire allontanati dal tribunale, vietare a mia madre di andare sul piazzale per fumare una sigaretta e dare così tanto fastidio al pm da costringerlo a lamentarsene davanti al giudice. E poi subire ad esempio dichiarazioni da parte del pm che dice ai miei avvocati “Non santifichiamo questa famiglia”. Che significa? Che non siamo dei santi e allora non possiamo chiedere giustizia per la morte di mio fratello? È assurdo. Ed è la dimostrazione che la battaglia che stiamo portando avanti è una battaglia ímpari».
Perché ímpari?
«Oggi sento che questa giustizia non è per tutti. Sento una forte ostilità e un’ostinazione nel voler continuare a negare la realtà. Ma come si fa a continuare a parlare di lesioni lievi quando queste “lesioni lievi” hanno causato la morte di Stefano?.
La verità ci è dovuta e io la pretendo». Domani, 22 ottobre, sarà un anno dalla morte di suo fratello. Come passerete questa giornata e cosa vi aspettate dopo?
«Per i giorni che verranno vorrei solo che si mettesse finalmente fine all’ipocrisia. E che cominci un’altra storia. È stato un anno tremendo, ci siamo trovati a combattere una battaglia al di sopra delle nostre capacità e delle nostre forze, con la disperazione di non avere risposte. Abbiamo passato giornate drammatiche e solo oggi, dopo un anno, sembra che stiamo cominciando a realizzare l’assenza di Stefano. Domani ci sarà una messa nella nostra parrocchia, alle 15.30 a Santa Giulia Billiart, al Casilino. Poi seguirà un incontro, uno spettacolo teatrale, e la presentazione del libro “Vorrei dirti che non eri solo”. Perché al di là delle allusioni e delle mortificazioni per me anche un libro è un mezzo buono per denunciare l’uccisione di mio fratello e per continuare a chiedere ancora, un anno dopo, verità e giustizia».

l’Unità 21.10.10
Psicopatologia della famiglia
risponde Luigi Cancrini

Non credo che questo sia l’epilogo della triste storia di Sarah, storia dove c’è tanta ignoranza, disagiatezza e soprattutto troppo poco rispetto per la vita e per le donne, addirittura alla famiglia. Io sono ignorante e non so se esiste una patologia per questi comportamenti, so solo che procurare dolore in questo modo è abominevole. Rudi Toselli
RISPOSTA    Nella seconda metà degli anni ’50 i professionisti della salute mentale cominciarono a verificare il modo in cui la follia dell’individuo fa corpo con quella della loro famiglia. Nel caso delle schizofrenie, in cui lo smarrimento del paziente designato va collegato alla storia, dotata di senso, di una sofferenza almeno trigenerazionale e in quello dei disturbi gravi della personalità dove l’infelicità determinata dai comportamenti assurdi della persona si rispecchia in quello che questa ha vissuto nel corso della sua infanzia. Famiglie dolorosamente raccolte intorno a segreti o a miti famigliari molto più forti della volontà e delle aspirazioni individuali sono all’ordine del giorno nei centri di terapia famigliare e certo di un lavoro terapeutico con la famiglia ci sarebbe stato bisogno in casa Misseri tanti anni fa per prevenire i drammi che di una sofferenza antica sono oggi, probabilmente, il risultato. Così è per il cancro, malattia curabile all’inizio e mostro inarrestabile più tardi e così è per i bambini infelici che devono essere curati oggi per prevenire lo sviluppo degli orchi e dei mostri di domani.

il Fatto 21.10.10
Uomo a punti: pro e contro
Touadi scrive a Colombo: “Le idee del Pd sono nel solco dei laburisti europei”. Il nostro editorialista risponde: “L’ipotesi di una valutazione per gli stranieri è una svolta brusca che non mi trova d’accordo”

Caro direttore, in un’Assemblea che si chiama programmatica, non deve stupire che un partito, il Pd, che aspira a governare questo paese possa mettere in campo idee, proposte e percorsi concreti per affrontare i problemi della nazione. Certo con valori e principi “non negoziabili” (democrazia, diritti umani, solidarietà) ma con soluzioni praticabili, che declinano efficacemente i valori e i principi. Colpisce davvero la furia di Furio che si è riversata sulla proposta con – en passant – una gratuita cattiveria su Veltroni in Africa. Si ha la netta impressione che non si voglia leggere le proposte e criticarle sul merito, ma solo in riferimento a chi le porta avanti. Che c’entra l’odioso permesso di soggiorno a punti di matrice leghista con il documento che parla a monte dei criteri per l’ingresso? Si tratta di politiche praticate da governi laburisti tutt’altro che razzisti o xenofobi. Livi Bacci vi ha dedicato molti studi e, recentemente, un corposo articolo su Europa che consiglio di leggere. Anche Antonio Golino, esperto demografo non iscritto alla Lega Nord, in una pubblicazione curata dalla Fondazione ItalianiEuropei sulle “nuove politiche per l’Immigrazione” cita questa opzione come uno degli strumenti di regolazione dei flussi. Non riguarda ovviamente la grande schiera dei richiedenti asilo e dei rifugiati ai quali il nostro paese ha chiuso le porte con la politica dei respingimenti. Si tratta invece di passare dalle attuali quote quantitative, con un’opacità riscontrata da parte dei consolati che decidono chi sì e chi no a un sistema che dia ai consolati criteri obiettivi e trasparenti in base ai quali ammettere una pratica o respingerla. Certamente i criteri devono, possono essere discussi, ampliati e costantemente monitorati e aggiornati. Ma il sistema ha il vantaggio di ruotare intorno al progetto migratorio della persona approfondendo il suo profilo personale, professionale, le sue relazioni preesistenti in Italia, senza abbandonare il candidato all’immigrazione all’arbitrio burocratico, o alla corruzione. Le cose che scrive Furio Colombo sulla trappola dell’imitazione del linguaggio e dei metodi della destra sono giuste. Ma nella barca che affonda, sotto il peso della crisi economica e sociale, noi dobbiamo dare risposta alle due fragilità: quella dei cittadini stranieri e quella degli italiani per assicurare a tutti certezza dei diritti e speranza. Proprio per questo il documento parla di diritti, di cittadinanza in cinque anni, di diritto di voto amministrativo. Ma questa parte non ha fatto notizia...
Jean Leonard Touadi

CARO Jean Leonard Touadi ho letto con attenzione la tua lettera, di cui ti ringrazio, ma in essa non trovo alcun riferimento al mio articolo (Il Fatto, domenica 17 ottobre) tranne che al titolo. Come sai il titolo è l'unica cosa che sfugge del tutto al controllo di chi scrive su un giornale. Credo perciò di poterti dire, con amicizia e con un po' di stupore:
1) Nel mio articolo ho fatto riferimento preciso, con brani virgolettati, a testi di Enrico Letta e Walter Veltroni ricevuti dalle rispettive segreterie; e di Andrea Sarubbi, tratto dal suo blog. Sono testi chiari. Propongono senza equivoci la valutazione a punti degli immigrati sia come criterio di accettazione, sia come “accompagnamento” definito “realistico” e “pragmatico” dell'immigrato verso la cittadinanza. È una svolta brusca per il Pd e di questo ho discusso nel mio articolo e ho detto stupore e dissenso.
2) In luogo di una risposta trovo lo spostamento del discorso a un immaginario dialogo fra personale consolare italiano all'estero e “candidati” che vengono a presentare i loro titoli da misurare con punteggio. Ciò non avverrà mai sia per le condizioni deplorevoli dei consolati italiani privi di mezzi e di persone; sia per il terrore di coloro che fuggono nel deserto, in mare o legati sotto un tir, o semi-soffocati in un container per fuggire dal loro paese e dal loro governo. Perché fingere un mondo ordinato che non esiste e applicare il metodo di valutazione a punti a chi è a malapena sopravvissuto nel tentativo di vivere e di lavorare in Italia?
3) I diritti umani e civili a punti (ovvero il ricevere o perdere punti mentre vivi, lavori, produci, versi contributi in un paese ospite) non esistono. Dal sistema giuridico romano in avanti un diritto o
c'è tutto e subito e per sempre, o non c'è (salvo che per gli schiavi). Io credo che tocchi a noi riconoscere l'integrità assoluta dei diritti dei nuovi venuti contro l'incivile pretesa di un esame arbitrario e senza fine imposto da Lega e destra.
4) Noto che usi l'espressione “la furia di Furio”. Lo fanno sempre nei giornali del potere berlusconiano. Serve per screditare la riflessione, la critica e il suo autore. È esattamente il titolo che mi ha dedicato Panorama (20 settembre) per avere denunciato la copertina diffamatoria dello stesso settimanale contro i tre operai di Melfi, con foto in prima pagina e l'accusa di boicottaggio dell'impresa (9 settembre). Ti prego, non farlo. Sono sicuro che noi viviamo, sia pure attraversando tempi difficili, con rapporti, parole e sentimenti diversi. Con amicizia,
Furio Colombo

Corriere della Sera 21.10.10
Pronto il piano di Maroni per espellere i comunitari
Rimpatrio per chi non ha «reddito e dimora adeguati»
di L. Sal.


ROMA — Lo aveva annunciato quest’estate, nel pieno delle polemiche sulle espulsioni dei rom decise dalla Francia di Nicolas Sarkozy. E domani il ministro dell’Interno Roberto Maroni dovrebbe portare in Consiglio dei ministri le misure per l’allontanamento degli immigrati comunitari (compresi i rom), come già si fa adesso per gli extracomunitari. In realtà si tratta dell’ennesimo pacchetto sicurezza che dovrebbe contenere novità anche sull’accattonaggio, sulla prostituzione, con l’espulsione immediata per chi ha ricevuto il foglio di via, e sulla violenza negli stadi, con il ritorno dell’arresto per chi viene identificato con i filmati della polizia. I testi sarebbero stati illustrati al capo dello Stato lo scorso 5 ottobre. E dovrebbero essere due, un decreto legge (subito in vigore) e un disegno di legge da discutere in Parlamento.
La norma più delicata è proprio quella sull’espulsione dei comunitari. Il rimpatrio riguarderebbe chi viola la direttiva europea che fissa i requisiti per chi vive in un altro Stato membro: reddito minimo, dimora adeguata, non essere a carico del sistema sociale del Paese che lo ospita, ad esempio con una pensione. Maroni ci aveva provato già due anni fa con un altro pacchetto sicurezza che doveva essere approvato velocemente per decreto e che poi invece, dopo i rilievi di Giorgio Napolitano, imboccò la via normale del disegno di legge. La norma sulle espulsioni dei comunitari alla fine saltò del tutto. Anche per la bocciatura da parte della commissione europea che, con il francese Jacques Barrot, osservò come in base al diritto comunitario l’unica sanzione possibile potesse essere l’invito ad andarsene. Quando quest’estate aveva annunciato la sua intenzione di «tornare alla carica», Maroni aveva detto che la misura «non sarebbe stata discriminatoria» perché le «espulsioni sarebbero state possibili non solo per i rom ma per tutti i comunitari». È chiaro, però, che i requisiti fissati dalla direttiva comunitaria (reddito minimo e dimora adeguata) spesso sono violati proprio nei campi rom. Con una differenza importante rispetto alla Francia: molti rom che vivono nel nostro Paese sono cittadini non soltanto comunitari ma anche italiani. Nei loro confronti anche il nuovo pacchetto sicurezza non sarebbe applicabile.
Repubblica 21.10.10
La fuga dal diritto
di Carlo Galli


Dalle dichiarazioni che hanno accompagnato la prima approvazione del Lodo Alfano (che "lodo" non è perché non rappresenta un arbitrato super partes, ma l´espressione delle ragioni di una "parte") apprendiamo che la "serenità" delle alte cariche della Repubblica è un bene meritevole di tutela costituzionale. Mentre basta guardare fuori casa (ad esempio negli Usa, dove i presidenti vanno sotto impeachment per avere avuto –negandoli – rapporti fugaci con le stagiste) per accorgersi che di tale serenità una democrazia normale non ha bisogno.
Sbagliano però, tutti quelli che hanno votato l´emendamento in questione, se ritengono di poter sottrarre una siffatta disposizione alle censure di costituzionalità per il solo fatto che essa verrebbe approvata con la speciale procedura prevista dall´articolo 138 della Costituzione. Sbagliano perché le leggi costituzionali e di revisione costituzionale hanno il solo scopo – già chiaramente percepito dai filosofi politici del XVIII secolo – di integrare e di garantire la Costituzione "nel tempo" sia allo scopo di adeguarne pacificamente e gradualmente il contenuto alle nuove domande sociali sia per evitare modifiche effettuate violentemente o troppo frequenti.
Il disegno di legge costituzionale n. 2180 ha invece un contenuto "eversivo" della Costituzione. Infatti, qualora tale legge fosse definitivamente approvata, essa sarebbe una legge (in forma costituzionale) "in rottura della Costituzione", che, ancorché ammissibile in via di principio, come insegnava Carlo Esposito – un liberale autentico ed uno dei maggiori costituzionalisti italiani del secolo XX – , non sarebbe però mai ammissibile qualora provvedesse "nel caso singolo" per restringere la libertà di singoli individui o per incidere sullo status dei ministri o del Presidente della Repubblica.
E non sarebbe ammissibile anche perché tale legge, disponendo la temporanea immunità processuale per i reati comuni (extrafunzionali) del Presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio, contrasterebbe col principio costituzionale di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che la Corte costituzionale ha fatto rientrare nel novero dei "principi supremi dell´ordinamento", come tali immodificabili anche in forza di una legge costituzionale.
Ebbene, che il disegno di legge n. 2180 contenga una "norma singolare" di favore per l´attuale Presidente del Consiglio – un privilegio in flagrante violazione del principio costituzionale d´eguaglianza – deriva dal fatto notorio che l´unico beneficiario della sospensione dei processi penali «anche relativi a fatti antecedenti l´assunzione della carica» è, dei due "beneficati", il solo Presidente del Consiglio, non esistendo alcun processo penale a carico dell´attuale Presidente della Repubblica.
Tuttavia ciò costituisce un elemento di chiarificazione nel dibattito pubblico e in un eventuale giudizio di legittimità costituzionale. Essendo stati via via eliminati ora l´una ora l´altra delle cinque alte cariche inizialmente beneficate dal Lodo Schifani (il presidente della Corte costituzionale "scartato" dal Lodo Alfano, i presidenti delle Camere "scartati" dalla legge sul legittimo impedimento, il Presidente della Repubblica "scartato" anch´esso dalla legge sul legittimo impedimento a beneficio dei ministri ma ora "riapparso", al posto dei ministri, nel disegno di legge n. 2180), non si potrà più sostenere, neanche con riferimento alla titolarità della presidenza del Consiglio dei ministri, che questa carica implichi di per sé un impedimento temporaneo tale da giustificare aprioristicamente l´assenza del premier nei processi penali a suo carico per reati comuni. E ciò, non solo perché questo unicum già di per sé appare strano, ma anche perché l´interim del ministero dello Sviluppo economico, durato ben cinque mesi, ha dimostrato inequivocabilmente – e a fortiori – che la presenza del premier in qualche udienza è agevolmente compatibile con le sue funzioni, dal momento che il loro disbrigo si è, nei fatti, rivelato compatibile con i ben più gravosi impegni connessi al lungo interim.
Un´ultima notazione. Nella quarta puntata di questo deplorevole gioco "a nascondino" del premier – che sarebbe addirittura risibile se non coinvolgesse, a livello internazionale, la serietà delle nostre istituzioni e non preoccupasse per i possibili ulteriori più gravi abusi – è stato nuovamente coinvolto anche il Presidente della Repubblica, dopo essere stato lasciato "fuori" dalla legge sul legittimo impedimento.
Ebbene, questa spregiudicatezza legislativa è assolutamente deprecabile non solo perché non si trattano le istituzioni costituzionali come se fossero carte da gioco, ma anche per quel rispetto che si deve alla persona del Presidente della Repubblica, che andrebbe preliminarmente sentito per esprimere ufficialmente il suo parere su una modifica costituzionale che lo coinvolge. Tanto più che l´Assemblea costituente, il 24 ottobre 1947, si espresse esplicitamente in senso contrario negando l´immunità processuale del Capo dello Stato per i reati comuni.

Repubblica 21.10.10
Negazionismo
La Germania. Se cancellare la Shoah può diventare un reato
di Mario Pirani


Da anni storici e politici si interrogano sull´opportunità dell´uso di misure legislative per combattere questa degenerazione
In Germania è sanzionato per legge Il ricordo della verità di Auschwitz non può essere messo in dubbio né venire rimosso
Dopo la proposta del presidente della comunità ebraica di Roma, Pacifici, si è riaperto il dibattito su questo tema. Con opinioni molto diverse

Perseguire per legge il negazionismo, quella corrente pseudo storica che sostiene l´inesistenza della Shoah o, al massimo la riduce a una persecuzione secondaria, l´esito inevitabile delle malattie e degli stenti cui furono sottoposte durante la guerra le popolazioni ebraiche dell´Europa orientale? L´interrogativo si ripropone ogni tanto anche da noi – l´ultima volta ad iniziativa del presidente della Comunità ebraica di Roma – e puntualmente divide gli storici, scettici sull´uso di misure legislative per combattere una degenerazione, sia pure palese, della loro disciplina, dai politici di varie tendenze, propensi invece a emanare decretazioni che testimonino la loro buona coscienza, anche senza veruno effetto pratico. Pur non appartenendo né all´una né all´altra confraternita debbo dire che la penso come uno dei massimi storiogafi del fenomeno (Michael R. Marrus: L´Olocausto nella storia, Il Mulino 1994) che esclude volutamente dalla sua indagine sulle varie correnti di analisi del Genocidio «qualsiasi discorso sui cosiddetti revisionisti, quei balordi malevoli che sostengono che l´Olocausto non sia mai avvenuto. Purtroppo questa non è più una corrente insignificante e vi sono segni che coloro che fabbricano queste fantasticherie siano impegnati in un´impresa contro gli ebrei di ampiezza molto maggiore. Ma mentre è importante che la loro azione venga capita, non vedo per quale ragione persone come quelle dovrebbero determinare la direzione del dibattito degli storici: sarebbe come se i discorsi dei teorici della "piattezza" della terra condizionassero il corso degli studi degli astronomi».
Dunque, se l´attuale "impresa antiebraica", che va sotto il nome di negazionismo, è politica, anche la risposta deve porsi sulla stesso terreno. Da questo punto di vista l´arma della legge può essere giustificata laddove si dimostra efficace, altrimenti si trasforma in un placebo consolatorio della voluta assenza di una battaglia coerente sul piano politico più generale. Così sono apprezzabili le leggi tedesche dell´85 e del ´94 perché traggono linfa da quel grande dibattito sulla Storia – l´Historikerstreit – su cui le giovani generazioni e l´intellettualità della Repubblica federale s´impegnarono a fondo, come nessun altro in Europa e che indusse il presidente del Bundestag, Philipp Jenninger a pronunciare il 19 novembre 1988 un grande e contestato discorso di rievocazione della "notte dei cristalli". Il discorso culminò in questo passaggio: «Sul problema della colpa e della rimozione ciascuno deve rispondere per se stesso. C´è un aspetto però contro il quale tutti dobbiamo ribellarci ed è il dubitare della verità storica, è lo sbagliare i conti sul numero delle vittime e il negare i fatti. Questi sforzi non solo portano tendenzialmente a rinnegare le vittime ma sono anche inutili. Perché qualunque cosa accada in futuro e qualunque cosa finisca dimenticata, l´umanità fino alla fine dei tempi si ricorderà di Auschwitz come di una parte della nostra storia, della storia tedesca. Perciò è anche inutile la richiesta di "chiudere finalmente con il passato". Il nostro passato non avrà mai pace né mai passerà. E ciò indipendentemente dal fatto che le giovani generazioni non ne abbiano colpa».
È questa salda consapevolezza culturale e politica che ha reso le classi dirigenti tedesche, cristiano democratiche o socialdemocratiche, liberali o verdi a dimostrarsi del tutto vaccinate dalla tentazione di risolvere l´altalena bipolare, accettando l´appoggio dei gruppi di estrema destra, postnazisti, xenofobi, antisemiti e anti islamici. Diversa appare, di contro, la sorte dei partiti conservatori austriaci, scandinavi, olandesi ed altri, proclivi alla alleanza con le nuove destre nazionaliste e fasciste, malgrado in tutti quei paesi figurino leggi antinegazioniste. Persino il futuro francese non si delinea in questo senso del tutto certo.
E l´Italia? Come sempre il combinato disposto scelto da Berlusconi fra mantenere il potere ad ogni costo, lasciando mano libera alla Lega, da un lato, e raccattare, dall´altro, dopo la defezione di Fini, ogni rimasuglio dei gruppi di estrema destra, sta socchiudendo la porta della maggioranza, quasi senza farsene accorgere, ai miasmi peggiori dell´estremismo razzista. Gesti minimi e ignobili parlano ogni giorno a chi vuol vedere: la "lectio" di Moffa si sposa con gli scritti contro "la cricca bancaria ebraica" del sito ufficiale de La Destra di Storace, rialleatasi col premier; il convegno con i più noti esponenti dell´antisemitismo, da Blondet a Sinagra e, come sempre a Moffa, svoltosi ingiuriosamente nella Biblioteca del Senato, intitolata a Giovanni Spadolini, va all´unisono con lo scambio di messaggini su Facebook del professore di Teramo con il direttore di Rai Uno, Minzolini cui si rivolge, come a tutti quelli che "gli hanno chiesto l´amicizia" dopo la concione accademica, ringraziandolo «per avere prontamente risposto ad analoga richiesta, esprimendogli con l´occasione stima per il suo coraggio civile e la sua onestà professionale». Vien proprio da dire: Dio li fa e Berlusconi li accoppia.
È evidente che una legge anti-negazionismo non avrebbe in questa atmosfera effetto alcuno, come, del resto la condanna inserita dal 1967 nel codice penale, per chi giustifichi il terrorismo. Assai più importante sarebbe battersi per ottenere una disposizione amministrativa ferrea che vieti d´impartire un insegnamento negazionista o, comunque, razzista, dalle elementari all´università, sotto la responsabilità diretta del ministro e delle autorità scolastiche di ogni ordine e grado. Per la Gelmini sarebbe un sicuro titolo di merito.

Repubblica 21.10.10
Negare l´esistenza dell´Olocausto significa uccidere una seconda volta vittime innocenti. Cancellare la memoria è tipico dei regimi totalitari. Bisogna reagire contro queste pratiche con la massima energia
A favore. Una legge è necessaria
Quel crimine verso la storia
di Nicolai Lilin


Da quando scrivo romanzi e mi trovo a far parte dell´ambiente letterario, cerco di stare lontano dai discorsi che riguardano la politica. Per esperienza personale ho imparato quanto è difficile impedire che le proprie idee vengano strumentalizzate. Ma a volte è impossibile non intervenire. Non potrei non esprimermi su questioni fondamentali o lasciare che vengano messi in discussione quei valori in cui credo e sui quali si fonda il futuro dei nostri figli. Così, in questi giorni, di fronte alle polemiche nate intorno al professore di storia che nega la realtà dell´Olocausto, sento la responsabilità di intervenire in difesa della memoria delle vittime della Shoah, che nel mio cuore si uniscono a tutte le vittime di tutti i regimi totalitari e oppressivi del mondo. Negare l´esistenza dell´Olocausto è un crimine, così come lo è stato lo stesso sterminio. Chi cerca di nascondere la storia delle vite umane perse nelle barbarie dei regimi totalitari, non fa nient´altro che uccidere per la seconda volta. Non possiamo permettere queste offese contro la storia, contro la memoria, contro la dignità delle persone morte, persone che non potranno mai rispondere, usate come monete di scambio gettate con disprezzo sul bancone della politica.
Con grande tristezza ricordo come in Unione Sovietica si taceva sui crimini che accadevano nei Gulag, dove i boia del comunismo totalitario, proprio come i loro rivali nazisti, eliminavano un´intera classe sociale, politica, culturale ed intellettuale, semplicemente perché non abbracciava le idee del partito. La negazione di ogni crimine contro la libertà di ogni essere umano è nient´altro che la morte della democrazia, l´uccisione del pensiero libero, della cultura. Mi fa male vedere come i fondamentalisti al potere in alcuni paesi islamici, persone che sfruttano la debolezza delle proprie popolazioni e la situazione attuale del Medio Oriente per soddisfare interessi personali basati solo sulla sete di potere e su smisurate ambizioni economiche. In questo modo condizionano i nostri fratelli musulmani all´estremismo, seminano nelle nostre società la cultura dell´odio e la paura reciproca, ci allontanano dalla strada della condivisione e della pace, operano attraverso una brutale e cinica propaganda, spesso sfruttando l´ignoranza e la buona fede dei propri popoli, proponendo tra le altre cose, anche il rifiuto della storia della Shoah, trasformandola in una sorta di barzelletta, negando l´odio e le persecuzioni secolari contro il popolo ebraico.
Finché in questo mondo esiste qualcuno che ha la libertà di sminuire i delitti del potere nazista, finché qualcuno sarà libero di tentare di dare a quei crimini una forma diversa da quella reale, proponendoci una visione che richiama la possibilità della "comprensione" di quel regime brutale e barbarico, guidato da un dittatore pazzo e criminale, finché lo sterminio degli umani e i genocidi contro i popoli definiti "indegni" di vivere saranno giustificati, non potremo mai liberarci della natura diabolica della nostra storia, del nostro lato oscuro. Negando la Shoah diamo la possibilità a futuri tiranni, speculatori della politica e della propaganda, di avere potere sulla nostra libertà e di privare della speranza del domani le generazioni future. Oggi noi dobbiamo essere forti e decisi, dobbiamo fermare chi impugna le armi dell´infamia e dell´inganno e sostenere la legge contro il negazionismo.

Repubblica 21.10.10
È sbagliato interferire con normative nella ricerca intellettuale. E non si deve offrire a chi nega lo sterminio il pretesto per ergersi di fronte al mondo come paladino della libertà espressione
Contro. Ginzburg: i tribunali non possono decidere
La verità non è di stato
di Simonetta Fiori


«La verità storica non può essere certificata da un tribunale», dice Carlo Ginzburg. Il suo giudizio negativo sull´opportunità di una legge che punisca penalmente il negazionismo è una posizione condivisa dagli storici più autorevoli della comunità nazionale, al di là delle diverse ispirazioni politiche e culturali. Così come appare compatto il sì alla legge pronunciato da tutto il mondo politico, destra e sinistra insieme, con poche eccezioni. Da una parte le ragioni della ricerca, dall´altra le ragioni della politica. «Questa divergenza va sottolineata», sostiene Ginzburg, «ma non credo costituisca un sintomo negativo per la ricerca».
Perché è contrario alla penalizzazione del negazionismo?
«Perché si rende un servizio ai negazionisti, desiderosi di una notorietà mediatica e pronti a ergersi a paladini della libertà di espressione. La mia posizione non è cambiata rispetto a tre anni fa, quando insieme ad altri storici firmammo un manifesto contro il disegno di legge proposto dall´allora ministro della Giustizia Mastella. Ogni verità imposta dall´autorità statale rischia di minare la libera ricerca storiografica e intellettuale».
In quell´appello venivano ricordati gli esiti illiberali di alcune verità di Stato: il socialismo nei regimi comunisti, la negazione del genocidio armeno in Turchia, l´inesistenza di piazza Tienanmen in Cina.
«Soprattutto è sbagliato portare in tribunale le argomentazioni storiografiche. Si entra in un terreno difficile e delicato, con il rischio di offendere la verità ma anche le vittime dei genocidi. Prendiamo la formulazione della Decisione Quadro del 28 novembre 2008 adottata dall´Unione Europea, così come veniva riportata ieri su Repubblica. "Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché i seguenti comportamenti intenzionali siano resi punibili... l´apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l´umanità e dei crimini di guerra". La formula "minimizzazione grossolana" mostra immediatamente come scendendo su questo terreno possa cominciare una discussione infinita. Che cosa significa? Cosa intendiamo? Si entra in un gioco di distinguo e di sfumature assolutamente insensato».
Nella discussione intorno alla legge, qualcuno tra gli storici ha sostenuto che le argomentazioni dei negazionisti pur abiette possono essere di stimolo per la ricerca.
«No, sono ignobili e basta. Il documento sul negazionismo più profondo e più drammatico, anche per le sue implicazioni personali, è il saggio di Pierre Vidal-Naquet, Un Eichmann di carta, contenuto nella raccolta Gli assassini della memoria. I suoi genitori erano stati uccisi ad Auschwitz. Ho immaginato quanto gli fosse costato scrivere questo saggio. Devo dire che leggendolo al principio ho provato una profonda perplessità, che però è scomparsa quasi subito. Quel libro andava scritto, e solo Vidal-Naquet poteva scriverlo».
Più efficace Vidal-Naquet di una sentenza. Ma c´è il problema di come tenere i negazionisti lontani dall´insegnamento.
«Sono d´accordo con un vostro lettore: a proposito del professore negazionista di Teramo, invitava coloro i quali gli avevano dato la cattedra a riflettere sulle conseguenze della loro scelta. Il fatto che quel signore sia diventato docente è un sintomo dello stato vergognoso in cui è scivolata l´accademia italiana. Il negazionismo si combatte anzitutto moltiplicando la vigilanza critica e alzando gli standard delle nostre università».

Repubblica 21.10.10
Fournier-Facio ha raccolto gli scritti dedicati al grande musicista
Gustav Mahler passioni e rancori
di Antonio Gnoli


Finché fu in vita venne considerato più come direttore d´orchestra che come compositore

Nell´atmosfera decadente di Morte a Venezia Luchino Visconti inserì l´Adagietto della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. Quello del regista fu un omaggio al compositore austriaco e a Thomas Mann, lo scrittore che della musica aveva fatto la sua ossessione narrativa che culminerà in quel capolavoro che è Il Doctor Faustus. A quanto pare, Mann aveva seguito con apprensione le cronache che riferivano dell´agonia di Mahler e ne trasferì in Morte a Venezia la tensione e il dolore. Fu un modo per sdebitarsi nei riguardi di un compositore molto noto, ma anche poco amato. Capace di toccare profondità inusuali e insieme suscitare irritazioni veementi. Ascoltare il movimento finale dell´Ottava Sinfonia, che apriva alla seconda parte del Faust di Goethe, fornì a Mann l´occasione, nel 1910, per scrivere a Mahler una breve lettera colma di ammirazione.
Tra qualche mese ricorrerà il centenario della morte del compositore. Ma già ora si può utilmente entrare nelle celebrazioni con il libro Gustav Mahler. Il mio tempo verrà (il Saggiatore, pagg. 742, euro 45) che Gastòn Fournier-Facio ha curato con grande competenza. Si tratta di una raccolta di scritti che copre l´arco di un secolo (1901-2010) nella quale autori, provenienti da esperienze culturali più diverse, raccontano la musica e la vita del maestro. Ciascuno di questi scritti è preceduto da una introduzione colta e sobria di Fournier-Facio. Apprendiamo così che Stefan Zweig è sulla stessa nave che sta portando il compositore dall´America verso l´Europa. È l´ultima traversata di Mahler, prima della morte che avverrà a Vienna il 18 maggio del 1911. Zweig descrive il rientro in patria, racconta l´ingratitudine di Vienna e infine ritorna all´immagine vivida di un uomo – dallo slancio demoniaco - la cui musica non era stata capita. Egli fu più celebrato come direttore d´orchestra che come compositore, e questo gli provocò il senso di un dissidio tra le due arti (eseguire e creare), ma anche la convinzione che solo il tempo avrebbe ricomposto la frattura. «Il mio tempo verrà», auspicò di sé con la convinzione dell´uomo inattuale. Non sapeva quando, ma era certo che il "tempo messianico" sarebbe giunto. La sua musica avrebbe ancora aspettato a lungo. Il nazismo ne vietò la diffusione definendola "arte degenerata".
Con l´arrivo degli anni Sessanta assistiamo a una Mahler Renaissance, alla quale contribuiscono tra gli altri Bernstein, Kubelik, Solti, Boulez e Abbado. Tra i compositori saranno Schönberg, Casella, Berg, Shostakovich e Berio a fare di Mahler il grande precursore della musica del Novecento. Adorno, nel discorso celebrativo, che risale al 1960, ricorda che Mahler, come Karl Kraus, seppe rompere il conformismo imperante. «Se è vero che tutti i grandi progetti dell´arte sono in sé paradossali», scrisse Adorno, «quello mahleriano fu paradossale nella misura in cui gli riuscì di produrre grande sinfonismo in un momento che ormai ne dichiarava l´impossibilità».
In questa raccolta spicca un solo giudizio inequivocabilmente negativo, quello di Glenn Gould. Non fu il solo detrattore. Ma certo il più spietato. Definì Mahler «odioso, sfrenatamente opportunista e sovranamente indifferente alla fragilità del prossimo». Mahler, è vero, fu anche un uomo crudele. Come tale si comportò con la moglie Alma, «ponendo come condizione imprescindibile per il loro matrimonio», scrive Fournier- Facio, «di rinunciare a comporre musica per votarsi a lui soltanto». Lei accettò, amandolo con passione e narcisismo, tradendolo con Adolf Loos e infine ricordandolo, con qualche esagerazione, come l´artista che aveva reso più ricca la grande musica.

Corriere della Sera 21.10.10
Treblinka, rivolta contro l’orrore
di Corrado Stajano


Il reportage dello scrittore russo e l’allarme sempre attuale per la ricomparsa del razzismo
Una sommossa nel lager nazista narrata da Vasilij Grossman

Si crede di conoscere tutto sulla Shoah, la bibliografia è immensa, poi esce un piccolo libro come L’inferno di Treblinka, opera di un grande scrittore, Vasilij Grossman, pubblicato ora da Adelphi e si ha come un sobbalzo. Tra orrore e vergogna per il genere umano. Quasi fosse la prima volta, più di sessant’anni dopo, che veniamo a sapere ciò che accadde in Europa in quell’atroce secolo che è stato il Novecento.
Corrispondente di guerra dell’Armata Rossa, Grossman scrisse questo reportage subito dopo la liberazione del lager di Treblinka, una sessantina di chilometri da Varsavia: uscì allora sulla rivista «Znamja» (Bandiera).
Vasilij Grossman è l’autore di quel gran romanzo, Vita e destino, definito il Guerra e pace del secolo passato. Il manoscritto fu sequestrato nel 1961, la sua pubblicazione fu proibita, Grossman fu tormentato dal Kgb. Un amico che possedeva una copia del manoscritto riuscì a portarlo all’estero. L’Âge d’Homme di Losanna lo pubblicò in russo nel 1980. Morto nel 1964, Grossman non potè veder premiata la sua decennale fatica. Che cosa turbava i gelidi gerarchi sovietici? Il male — il nodo del libro — è il cancro del mondo. Nessun sistema politico può averne ragione, raccontò lo scrittore, soltanto la forza morale dei singoli. Una tesi che mandava in pezzi le fondamenta del regime sovietico.
Grossman, dunque, arriva a Treblinka nell’estate del 1944. Fa una minuziosa inchiesta, raccoglie le testimonianze dei pochi sopravvissuti e di qualche carnefice, ascolta gli abitanti del paese più vicino al lager, Wólka. Dalle loro case sentivano le urla strazianti delle vittime azzannate dai cani, martoriate, condotte nelle camere a gas. Fuggivano terrorizzati nei boschi.
Nello scrivere, Grossman usa una lingua il più possibile neutra, qualche volta non riesce a mantenere la tranquillità stilistica che si impone.
A pagina 19: «Caino, dove sono coloro che hai condotto qui?»
A pagina 20: «L’inferno di Treblinka in confronto al quale l’inferno di Dante è uno scherzo innocente di Satana».
A pagina 39: «Un SS di nome Zepf era specializzato in bambini. Dotato di una forza erculea, quel mostro pescava un bambino dal gruppo, lo brandiva come una clava e gli sbatteva la testa per terra, oppure gli spezzava la schiena».
A pagina 58: «Quanti esperti nel regime di Hitler. Esperti nell’uccidere i bambini, esperti di impiccagione, esperti nella costruzione di camere a gas, esperti nel distruggere scientificamente una grande città in un sol giorno. Si trovò anche un esperto di esumazione e incenerimento di corpi umani».
L’inferno di Treblinka non è propriamente un reportage, una narrazione, piuttosto, una cantata di morte. Grossman descrive la precisione teutonica, la pedanteria maniacale dei nazisti, racconta dei poveri ebrei mandati al macello, ricorda il colosso Stumpfe soprannominato «la morte che ride», ripercorre l’agghiacciante camminata dei prigionieri fino alla camera a gas: «Che cosa provavano in quei loro ultimi minuti?» Le camere a gas si moltiplicarono. Furono costruiti forni dall’aspetto di giganteschi vulcani. La vittoria dell’Armata Rossa a Stalingrado terrorizzò a un certo momento i nazisti, era la fine. A Treblinka arrivò Himmler: bisognava cremare i prigionieri, ordinò, spargere le ceneri sui campi e lungo le strade, non lasciare traccia. (Quasi un milione di morti, tra ebrei polacchi, greci, jugoslavi e zingari).
I prigionieri non restarono passivi come generalmente accadde. Si ribellarono — più di settecento — si procurarono asce, coltelli, bastoni, scavarono un tunnel sotto l’armeria tedesca, portarono via granate, una mitragliatrice, carabine, pistole, trovarono, chissà come, della benzina e diedero fuoco al lager: «Il dio del coraggio li assistette (...) il 2 di agosto il sangue marcio delle SS bagnò la terra di Treblinka, un cielo azzurro rovente di luce celebrò l’ora della vendetta».
Com’è potuta accadere la Shoah?, si domanda Grossman con angoscia. «Che cosa bisogna fare affinché il nazismo, il fascismo. l’hitlerismo non abbiano a risorgere in secula seculorum? »
È la stessa domanda che si pone ora Alberto Burgio, professore di Storia della filosofia contemporanea all’Università di Bologna in un libro intelligente, Nonostante Auschwitz, sul ritorno del razzismo in Europa, pubblicato da DeriveApprodi.
L’ossessione di Primo Levi, espressa soprattutto nel suo I sommersi e i salvati, era proprio questa: «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo».
Il presente non è sereno, la globalizzazione, i flussi migratori, le guerre sparse per il mondo fanno da incubatrici al razzismo, come la paura e l’insicurezza. Si è rivelata una grande illusione la speranza che la tragedia di Auschwitz avesse guarito per sempre il mondo dall’antisemitismo: «Si è risvegliato — scrive Burgio — perché appartiene al codice genetico della modernità europea e perché non vi è più nulla a contrastarlo nel deserto morale e culturale della nostra società soddisfatta e disperata».
Burgio scrive del passato e del presente. Fa un raffronto tra l’infuocata discussione avvenuta nella Germania degli anni Ottanta sulle colpe del nazismo e l’atteggiamento indulgente della società italiana sul fascismo considerato bonario, diverso dal nazismo, e sul razzismo nostrano di cui, venne detto, fu responsabile Hitler. Tutti assolti.
Oggi? «La Lega Nord — scrive Burgio — sin dai primi anni Novanta produce e diffonde ideologie identitarie di stampo "neo-etnico" e francamente razzista (un mix di razzismo coloniale e antislavo, antimeridionalismo e sessismo) per attivare conflitti, consolidare ed espandere la propria base elettorale».
In un rigurgito di antisemitismo i negazionisti rispuntano ancora oggi dagli anfratti dell’ignoranza. Ma — ha ragione Adriano Prosperi — non si combatte con la legge chi rifiuta la realtà. Per tutelare la memoria bisogna dare slancio alla ricerca e offrire così speranza di futuro ai giovani.
Spiegando, facendo capire i pericoli che incombono sempre. Da noi, per esempio, il nemico non è il mafioso, lo ’ndranghetista, il camorrista, come dovrebbe essere, ma il migrante che «normalmente delinque». Il nemico, l’altro, seguita a essere prezioso perché dà un volto alle nostre paure: anche l’ebreo, in quei tempi oscuri, lo era.

Corriere della Sera 21.10.10
Platone contro il Prozac: i filosofi in cerca della felicità
di Armando Torno


Che senso ha parlare di filosofia in un’epoca in cui la felicità ha smesso di essere l’obiettivo principale delle azioni umane per trasformarsi in un diritto? Chi si deve seguire? Platone o la fluoxetina, farmaco conosciuto come Prozac e capace di curare depressioni, disturbi ossessivo-compulsivi e bulimia nervosa? A prescindere dal fortunato libro di Lou Marinoff, Platone è meglio del Prozac (Piemme), ormai si cerca di recapitare felicità a sempre più esseri viventi attraverso iniezioni di botulino, personal trainer, interventi estetici et similia. Nel mondo anglosassone — e non soltanto — Happiness, la felicità, è un’industria consolidata. Anzi, Richard Layard, il più noto economista inglese in materia, afferma che si può misurare. In Happiness: Lesson from a New Science (Londra 2005), discetta sulle valutazioni possibili, comprese le misurazioni dell’attività elettrica di regioni importanti del cervello. Che senso ha, allora, ripetere oggi «Conosci te stesso», l’antico motto greco (gnôthi seautón) scritto sul tempio di Delfi, che riassumeva l’insegnamento dei sapienti e di Socrate?
Nel presentare la nuova edizione dell’Enciclopedia Filosofica questa domanda è d’obbligo. Ma siamo convinti che studiare, inseguire le mosse dei grandi, imparare a riflettere evitando ciarlatani e confusionari, magari non credere che basti la barba per trasformare qualcuno in filosofo, è un esercizio utile alla vita. Non saprà offrire immediatamente la felicità, come un farmaco, tuttavia riesce a indicare una strada dove cercarla senza l’aiuto chimico. Epicuro (341-271 a.C.), il filosofo greco che più di molti altri si occupò dell’argomento, inizia la sua Lettera a Meneceo con parole che fanno bene ancora oggi: «Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’anima». Sostenne che il piacere ne sia la chiave; per questo i suoi detrattori trovarono spazio, anzi un credito di secoli. Diogene Laerzio, nel decimo libro delle Vite dei Filosofi, riferisce qualche accusa e le calunnie circolanti. Ne ricordiamo due: Epicuro fu ritenuto un trasgressore e avrebbe organizzato orge con Leonzio e Mammario, due signore molto disponibili; inoltre Epitteto, quasi mezzo millennio più tardi, lo chiama cinedologo, ovvero predicatore di sconcezze. Era vero? La risposta conviene tentarla dopo aver ricordato che Epicuro riteneva il piacere come il segreto della felicità, ma lo intendeva non alimentato dai sensi bensì dall’assenza di desiderio. Insomma, non si è felici toccando, assaggiando o facendo altre cose che non è il caso di spiegare, lo si diventa conoscendo quella quiete che avvolge dopo la tempesta.
Inoltre la filosofia, come credeva anche l’arabo al-Ghazali (morto nel 1111), aiuta a trasformare i nostri vizi in virtù, al pari dell’alchimista i n grado di realizzare quel salto di materia che cangia i metalli vili in preziosi. Forse non opera con dei miracoli, ma ci mette in condizione di vivere meglio, di guardare la realtà e di prendere il giusto distacco da quanto non condividiamo. Insomma, ci insegna anche quella giusta dose di egoismo da mescolare alla vita (i credenti lo possono chiamare «amor proprio»). Un esempio, un autore? C’è l’imbarazzo della scelta. Se ne desiderate uno sicuro, possiamo suggerirvi Michel de Montaigne, che in pieno Cinquecento si ritirò nel suo castello, mandò al diavolo onori, inchini, cariche pubbliche e si mise a scrivere quel capolavoro assoluto che sono i Saggi. In essi non c’è pagina che non vi spieghi come il mondo sia basato sui capricci e non sulle virtù, che l’opinione è la più potente delle regine e che trionfa non sempre il migliore. Certo, può capitare, ma di solito è un incidente. Michel, chiuso nella torre del suo castello come Giona nel ventre della balena, si diverte a bombardare l’umanità con osservazioni, con proiettili intelligenti che colpiscono al cuore i problemi. E allora ecco che la grande farsa ogni giorno recitata nel mondo con cariche, sorrisi, onori e con la pregnante massa dei tangheri che arrivano in alto, è sbeffeggiata. Due esempi. Nel primo Montaigne ricorda che «più in alto la scimmia sale e più mostra il sedere»; nel secondo — si legge nell’ultima pagina degli Essais — che «anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo». È un riso inquietante, continuo, corrosivo. Già alla sua epoca aveva capito che «quando gli uomini si riuniscono le loro teste si restringono»; ovvero per quel filosofo disincantato i Meeting, o quelli che chiamiamo con questo nome, altro non sono che delle macchine per perdere tempo.
Il cattolico romano Montaigne si dichiarava scettico, mentre alcuni filosofi del Novecento che sostennero di credere in pochissime cose hanno preparato un nuovo bisogno di fede. Forse la lettura di Russell, di Carnap, Sartre, Heidegger o di altri non aiuta a essere più saggi o migliori, ma allena l’animo a osservare meglio i problemi che poi si vorrebbero risolvere con il Prozac. A tal proposito, vale la pena conoscere una battuta che Karl Popper lasciò scritta sul pensiero di Ludwig Wittgenstein, filosofo che è ancora di moda e del quale si dice tutto e l’esatto contrario: «Non seppe mostrare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia; anzi vedo nella mosca incapace di uscire dalla bottiglia un impressionante ritratto di Wittgenstein». Ricorda un velenoso epigramma di Søren Kierkegaard contro Hegel, maestro che — come a Schopenhauer — gli stava perennemente sullo stomaco. Leggiamo in Enten Eller, meglio conosciuta con il latino Aut aut: «Quando si sentono i filosofi parlare di realtà, si è tratti in inganno come dal leggere nella vetrina di un rigattiere la scritta "Si stira la biancheria". Ma invano porterete lì i vostri panni. Infatti si vende solo il cartello».
Forse più dei grandi sistemi, nei quali si codificano le massime questioni, la filosofia è maestra nelle demolizioni degli stessi per opera di altri pensatori. Sovente si impara vedendo crollare le certezze più che nell’osservare la loro magnificenza. Si possono inseguire, per esempio, le idee nella fascinosa prosa di Friedrich Nietzsche per capire il superuomo, ma forse si coglie meglio la sua intelligenza quando è intento a criticare Charles Darwin. Al filosofo che amava gli animali — le sue opere non mancano di allusioni simboliche in tal senso — e che impazzì a Torino abbracciando un cavallo, basta un frammento: «Le scimmie sono troppo buone perché l’uomo possa discendere da loro». E ancora: la stessa fede ha guadagnato da critiche e demolizioni. Se oggi leggiamo con maggior attenzione i testi sacri, ciò è dovuto al fatto che pensatori quali Thomas Hobbes o Baruch Spinoza osarono affermare che Mosè non poteva essere l’autore della maggior parte del Pentateuco, ovvero dei primi cinque libri della Bibbia. La tesi suscitò reazioni in tutta Europa e qualcuno tuonò sostenendo che la Scrittura era stata corrotta. Oggi, grazie al recente studio di Jean Bernier, Le critique du Pentateuque de Hobbes à Calmet (Honoré Champion, euro 65), sappiamo che quelle critiche aiutarono la fede più di talune opere teologiche.
La filosofia ha, insomma, le sue vie. La storia della felicità è infelice e quella delle certezze che pendiamo per vivere è piena di dubbi. Anche la saggezza non si lascia prendere. Ma è sempre delizioso insegurla.

Corriere della Sera 21.10.10
«Dicono che diventerò santo? Ma no, io sono uomo di potere»
Umberto Eco “intervista” Tommaso d’Aquino


Abbazia di Fossanova, 1274, vigilia della morte
ECO — Vi vedo sorridere, Maestro. Dunque non state così male.
TOMMASO — Sorrido perché sento che entro questa sera morirò. Forse domani mattina, ma le tenebre sono più propizie alla partenza. Ho dovuto arrestarmi presso questi cistercensi, mentre andavo a Lione, perché non mi sostenevo più in piedi. E, già debolissimo, con la mia povera mole avevo fatto tanta fatica a salire questa scaletta, stretta com’è, che mi viene da sorridere pensando agli sforzi che faranno questi buoni monaci a far discendere il mio corpaccio inerte.
ECO — Non siete magro, è vero, ed è curioso con la vita di penitenza e sacrificio che avete sempre condotto...
TOMMASO — Il mio male si manifesta, da anni, sotto forma di fame e sete incoercibili. E più ingrassavo, più per sottrarmi a questo stato di debolezza costante, che ora mi impedisce persino di scendere dal letto, mangiavo e bevevo. Ma siamo giunti al termine del viaggio. La mia urina, me l’ha fatta assaggiare ancora ieri il fratello erborista dell’abbazia, sa sempre più di miele. Mi si aprono piaghe sulla pianta del piede, i muscoli mi dolgono, ho crampi alle mani, e nausea. Mi sta sempre più scemando la vista e devo dettare tutto al mio segretario Reginaldo — e non sono sicuro di quello che scriverà, perché è volonteroso ma (detto fra noi, e non lo pubblichi) non è un’aquila. Insomma, tutti i miei sintomi — a detta dei medici — sono mortali... Certo, i miei quarantanove anni sono un’età ragionevole per morire. È vero che si va dicendo che la vita umana può arrivare sino a settant’anni, ma forse accadeva agli antichi, non a noi. Mi dicono che Abelardo o Riccardo di San Vittore hanno superato i sessant’anni, e persino il mio amato re Luigi ci è arrivato vicino, ma alla mia età è morto Severino Boezio, e più giovane ancora Ugo di San Vittore. E quanto ai maestri di noi frati mendicanti, san Francesco è vissuto quarantaquattro anni e san Domenico cinquantuno (né posso ardire di morire più anziano del fondatore del mio ordine). Non ricordo dove, credo in Francia, c’è una chiesa dove chi va in pellegrinaggio può ottenere di vivere sino a quarant’anni. Io sto appressandomi ai cinquanta senza esserci mai andato e dovrei ringraziare il cielo per questa indulgenza. Ma che guaio essere così grasso, vedete, non riesco a respirare.
ECO — In fondo a essere grasso vi siete abituato sin dalla giovinezza. I vostri condiscepoli a Colonia vi chiamavano il bue muto, non è vero?
TOMMASO — Il bue è un animale buono, ed è il simbolo di un evangelista.
ECO — Ma loro lo dicevano per beffarsi di voi. E prima ancora, nel convento dei domenicani, i novizi vi hanno fatto uscire un giorno dalla cella gridando che c’era un asino che volava, e poi si sbellicavano dalle risa vedendo che ci eravate cascato.
TOMMASO — Ma non hanno più riso quando ho detto che mi pareva più verosimile che un asino volasse piuttosto che un frate dicesse una bugia. Quando li ho visti così umiliati, ho capito che ero stato cattivo. Ma è la mia natura. Non so se andrò in paradiso, perché quando mi pare che qualcuno offenda la verità divento sferzante, mi batto sino a che non distruggo l’avversario.
ECO — Ne avete distrutti molti durante il vostro magistero.
TOMMASO — Pensavo fosse mio dovere. Ma ora mi chiedo se non fosse per orgoglio. ECO — Tutti vi ritengono un santo... TOMMASO — Suvvia, sono stato quello che si dice un uomo di potere. È difficile praticare l’umiltà quando ti accade, come mi è accaduto, di essere alla mensa di re Luigi, incapace di ascoltare quel che dicevano gli altri, e inteso ai miei pensieri, così che a un certo punto, colto da un’idea risolutiva, ho battuto il pugno sul tavolo come un ubriaco nella taverna, e ho gridato: «Questo regola il conto con i manichei!». Il priore di san Giacomo mi ha tirato per la tonaca e mi ha ricordato sottovoce che ero alla tavola del re, e già stavo arrossendo, quando il re ha chiamato un segretario e gli ha detto di portare da scrivere, perché se il Maestro, che ero io, aveva avuto un’idea così importante, occorreva prenderne nota. E voi fareste santo un uomo che poteva permettersi di dare un pugno sul tavolo alla tavola del re? Un uomo di potere non lo si fa santo, se non per ragioni politiche. Dio mi salvi da questa umiliazione. Ma poi, col mestiere che ho fatto, non era difficile passar per santo. Quando si dedica tutta la vita alla ricerca, non si ha tempo per mentire, ammazzare, commettere atti impuri, rubare, desiderare la donna e la roba d’altri. Ho sempre nominato il nome di Dio per ottime ragioni e mai invano, un domenicano ovviamente santifica le feste, ho onorato il padre e la madre anche quando volevano farmi violenza perché non mi facessi frate mendicante, perché loro mi volevano benedettino — sapete un figlio di famiglia nobile che diventa benedettino è destinato a divenire abate, vale a dire un’autorità, mentre un figlio mendicante è quasi una vergogna...

Repubblica 21.10.10
Scoperta nel cervello la fabbrica dei nostri sogni
Scienziati italiani scoprono la fabbrica onirica "Una base anatomica per le teorie di Freud"
Sogni. Bizzarri o spaventosi ecco come li influenza la "forma" del cervello
Le dimensioni di amigdala e ippocampo condizionano i "film notturni"
di Carlo Picozza


C´è un´officina nella parte arcaica del nostro cervello: produce gioia e paure, affetti, angosce e desideri e ora si sa che funziona anche di notte riempendo i nostri sogni di questi sentimenti. La scoperta, destinata ad aprire nuovi orizzonti nella stessa cura delle patologie neuro-psichiatriche, è firmata da un gruppo di neurologi dell´Istituto scientifico per la riabilitazione neuromotoria "Santa Lucia", dai dipartimenti di Psicologia della Sapienza, delle università dell´Aquila e di Bologna, ed è stata pubblicata sulla rivista Human Brain Mapping.
Sotto osservazione sono finite due aree profonde del cervello, l´amigdala e l´ippocampo, raggruppamenti di neuroni che presiedono alla regolazione delle emozioni (la prima) e alla formazione della memoria (il secondo) durante la vita diurna. Adesso si sa che sono responsabili notturne anche del grado di intensità emotiva dei sogni e delle loro bizzarrie. Due burattinai, insomma, tirano i fili di pupi e cose che si agitano nei nostri palcoscenici notturni.
Nelle due aree del sistema limbico del cervello è racchiuso il segreto dei comportamenti primitivi dell´uomo, dalla fuga di fronte a un pericolo alle emozioni più intense, ai ricordi. Ed è l´anatomia dell´amigdala e dell´ippocampo, la loro conformazione, a determinare la stranezza dei nostri film notturni. «La dimostrazione - spiega Gianfranco Spalletta, team leader dei neuropsichiatri della fondazione Santa Lucia - è arrivata dopo due anni di ricerche su 34 persone di età compresa tra i 20 e i 70 anni». «Abbiamo messo a punto una procedura di risonanza magnetica - continua - per misurare il volume e la densità dell´amigdala e dell´ippocampo, scoprendo che più destrutturata è la prima, più bassa è l´intensità di emozioni dei sogni». Scene oniriche prive di suspense, insomma. Le emozioni, invece, diventano più bizzarre nel sogno se l´amigdala è più piccola: a volte sono tanto strane da rasentare l´ilarità. «Anche la conformazione dell´ippocampo», ancora Spalletta, «è all´origine della bizzarrie di un sogno: più voluminoso è il primo, maggiori, nei nostri ricordi si presentano le seconde». «Sigmund Freud», per Spalletta, «ha colto l´importanza dell´analisi di bizzarrie ed emozioni dei sogni per la cura delle patologie psichiatriche». Voleva "catturare" gli aspetti neurologico-anatomici dei sogni per conoscere l´origine delle malattie della mente. «Un obiettivo mancato», commenta Spalletta, «perché allora non esistevano le tecnologie di imaging, oggi a nostra disposizione: la risonanza magnetica, con tecniche di neuro-immagine non convenzionali, ci ha permesso di chiarire i meccanismi neuro-anatomici che presiedono all´attività onirica dando una base biologica alle tesi del padre della Psicanalisi».
Anche se mezzi e tecniche per un monitoraggio dei parametri fisiologici valgono per il sonno più che per il sogno. L´elettroencefalogramma, le metodiche di neuro-imaging non possono essere applicate al sogno che per essere studiato richiede di essere interrotto: «Solo allora si può accedere ai ricordi», spiega Michele Ferrara dell´Università dell´Aquila. «Noi abbiamo saltato a piè pari questo aspetto - continua Ferrara - provando a immaginare che alla base delle differenze tra chi ricorda molti sogni e chi pochi, chi fa sogni vivaci e chi banali e, all´estremo, chi non ricorda affatto i sogni, non ci fossero solo aspetti della fisiologia del sonno ma anche quelli dell´anatomia del sistema nervoso». Si è accertato così che alla base delle differenze tra persone, tra qualità e quantità dei sogni, ci sono anche caratteristiche anatomiche diverse.

Repubblica 21.10.10
Luigi De Gennaro, direttore del Laboratorio del sonno della Sapienza
"Al risveglio restano o sfumano adesso potremo capire il perché"
di ca. pic.


«Sul sogno pesa l´eredità della nostra anatomia cerebrale, non solo la ragione psicologica, già individuata da Freud nella soddisfazione di desideri rimasti inappagati nella vita diurna». Parola dello psicologo Luigi De Gennaro, direttore del Laboratorio del sonno della Sapienza.
Quali saranno gli sviluppi della vostra ricerca?
«Tenteremo di chiarire perché a volte ricordiamo i sogni, a volte no, perché c´è chi li ricorda e chi no: i nostri dati ci dicono che l´attività elettrica della corteccia cerebrale, durante il sonno che precede il risveglio, permette di anticipare se ricorderemo o meno. E per un individuo sveglio, la predizione è la stessa. La memoria e l´oblio, insomma, sembrano essere controllati nella veglia e nel sonno da meccanismi analoghi».
Quali effetti avrà la ricerca sulla cura dei disturbi psichiatrici?
«Paradossalmente, in questa fase accadrà che saranno le patologie psichiatriche e neurologiche a fornirci elementi per capire i meccanismi normali del sogno. Stiamo studiando i sogni dei pazienti affetti dal morbo di Parkinson per dimostrare che esiste un rapporto tra un neurotrasmettitore, la dopamina, deficitario in questi malati, e la riduzione, se non proprio l´assenza di sogni. Quando si somministrano farmaci che accrescono la dopamina, ipotizziamo che si arricchisca quali-quantitativamente l´esperienza onirica».

Repubblica 21.10.10
Gustavo Charmet. Crescono i bulli in famiglia, oggi intorno al 10% "Serve un Telefono Azzurro anche per i parenti"
Quando i ragazzi picchiano i genitori
di Luciana Sica


La vittima preferita è la madre, ma il fenomeno riguarda i padri, i fratelli e anche i nonni
I dati disponibili sono solo la punta dell´iceberg: molti tendono a tenerlo nascosto

«Vivo nella paura di mia figlia. La prima volta, Giorgia aveva 17 anni. Io sapevo che fumava erba, ma un giorno scopro che ha preso un acido. "Basta", le urlo. "Basta con quel tuo ragazzo: è un balordo, lo capisci? Ti sta rovinando, non devi più vederlo!"». Mi giro, e lei mi tira un cazzotto in mezzo alla schiena. Io barcollo, cado, mi manca il respiro...». La mamma di Giorgia ha una figlia che sembra odiarla, che la insulta, la minaccia, e a volte la picchia. È una donna poco più che quarantenne, vive nei pressi di Roma con un marito affettuoso e un figlio più piccolo: si direbbe una famiglia come tante, di piccola borghesia. E invece è una famiglia devastata dall´infelicità, la rabbia, la delusione: sentimenti che prevalgono sull´amore, in questi casi estremi.
Sì, ma quanto estremi? Dice lo psichiatra Gustavo Charmet, il cantore dei "nuovi adolescenti": «Sempre più spesso incontro madri che con vergogna ammettono di essere saltuariamente picchiate dalle figlie. Mi sorprende, ma non tantissimo, perché mi sono abituato all´idea che alle pari opportunità corrispondano uguali rischi». Ragazze che si emancipano picchiando... «E poi la madre non è più la guardiana della verginità, la riduzione del conflitto appanna il suo potere sacro».
I bulli in famiglia: un fenomeno minoritario, ma in crescita. Sono ex bambini impotenti e ora onnipotenti che ingaggiano una loro guerra crudele in casa - una nuova versione dell´inferno domestico pochissimo quantificabile, perché raramente i genitori denunciano i loro figli. Ne sa qualcosa Francisco Mele, terapeuta di formazione lacaniana che - oltre all´attività privata - è in trincea con i ragazzi più in difficoltà, dirigendo l´"Istituto della famiglia" legato al nome di don Picchi. Il suo ultimo libro uscito da Armando (con un saggio di Luigi M. Lombardi Satriani) si chiama Mio caro nemico, un titolo anche spiritoso per il supplizio della "guerra quotidiana in famiglia".
Mele non teme l´allarmismo: «La situazione è molto grave. Credo che ormai siano intorno al 10 per cento i ragazzi pronti al "ceffone di ritorno". La vittima preferita è la madre, anche per l´eclissi non solo simbolica della figura paterna. Ma non vengono risparmiati gli stessi padri, i fratelli e addirittura i nonni... Tanto che ormai sarebbe necessario un Telefono Azzurro per familiari maltrattati dagli adolescenti, un call center che almeno li informi su quello che possono fare per difendersi».
Ma quali saranno i genitori che favoriscono l´aggressività dei figli? Si può azzardare un elenco: i genitori libertari che non vietano mai; quelli che non si assumono responsabilità e invertono i ruoli; quelli conflittuali che spingono l´adolescente nel ruolo del "giustiziere"; quelli violenti che insegnano a regolare i conflitti in modi brutali. E poi i genitori "incestuosi", picchiati perché nell´adolescenza il legame si rompe e il figlio non trova altri modi per uscirne.
Il dato sui bulli in famiglia che indica Mele sarà sovrastimato, ma ci sono altri indicatori eloquenti. Isabella Mastropasqua dirige l´ufficio studi del Dipartimento di giustizia minorile presso il ministero, ed è lei a dire: «A tutt´oggi le uniche statistiche disponibili, che si basano sull´elaborazione dei dati Istat, fotografano una realtà di piccoli numeri, ma allarmanti (riportati in alto, n.d.r.). Sono solo la punta dell´iceberg di un fenomeno senz´altro più diffuso, vissuto in gran segreto. Il prossimo anno, con la modernizzazione del nostro sistema informativo, potremo dire chi sono esattamente le vittime di questi reati».
In attesa che il dato venga "scorporato", le relazioni in famiglia sembrano precipitare a un punto molto basso. Per il terapeuta della famiglia Luigi Cancrini è credibile che i ragazzi "maneschi" siano tra il 5 e il 10 per cento: «Principini molto sedotti e manipolati nell´infanzia, sono rimasti invischiati in un rapporto di terribile dipendenza che non riescono a spezzare. Nella medio-alta borghesia, diventa poi sempre più esplosiva la negligenza affettiva coniugata al consumismo». E Luigi Onnis, studioso e clinico di prim´ordine, conferma: «Almeno il 5 per cento degli adolescenti va oltre l´aggressività verbale, che è invece all´ordine del giorno. Sono ragazzi che non hanno una guida». Genitori sempre meno competenti a definire delle regole, e figli che li maltrattano anche fisicamente - come in una deformazione grottesca del cinema di Van Sant su un´età che rasenta la psicosi.

Repubblica 21.10.10
Gruppo Espresso, balzo degli utili Repubblica prima in edicola e sul web
Ricavi stabili a 639,5 milioni mentre i profitti netti sono saliti a 36,3 milioni


MILANO - Crescono i margini e l´utile netto, tiene il fatturato mentre sale la raccolta pubblicitaria. I primi nove mesi dell´anno si sono rivelati positivi per il Gruppo Editoriale L´Espresso, così come evidenzia la terza trimestrale dell´anno approvata ieri dal cda presieduto da Carlo De Benedetti.
I ricavi netti sono pari a 639,5 milioni, in linea con il corrispondente periodo del 2009 (640,9 milioni). Al netto dei prodotti opzionali, i ricavi sono in crescita del 4%. «Tutte le principali testate del gruppo - si legge in una nota - stanno mostrando andamenti significativamente migliori di quelli dei rispettivi mercati di riferimento». Il quotidiano La Repubblica «si conferma come primo quotidiano italiano sia per copie vendute in edicola sia per numero di lettori». Le copie in edicola sono stabili rispetto al 2009 (+0,1%), contro un mercato di quotidiani che ha perso il 4,5%. I lettori medi giornalieri sono saliti a 3,3 milioni (+1,9%), portando il vantaggio sul secondo quotidiano al 20%. Il settimanale L´espresso cresce per diffusione (+1,3%) e mantiene 2,5 milioni di lettori medi settimanali.
I ricavi pubblicitari del gruppo sono saliti del 7,1% a 369,3 milioni. Risultato ancor più positivo se si tiene conto del contesto difficile, in cui gli investimenti pubblicitari in Italia sono saliti ad agosto del 4,8%, ancora ben lontani dall´avere recuperato il calo del 2009 (-16,4%). All´interno del gruppo, internet è stato il settore che è cresciuto pubblicitariamente di più (+21,7%), anche grazie al successo di Repubblica.it che si conferma il primo sito di informazione in Italia con un numero di utenti medi unici giornalieri pari a 1,5 milioni (+25%). Positivo il contributo delle radio del gruppo (+13,6%). La raccolta sulla carta stampata, pur in leggera flessione (-1,8%) presenta un dato migliore del settore (-3,8%).
Il margine operativo lordo è stato pari a 104 milioni (erano 60,7 nei primi nove mesi del 2009). «Tutte le principali attività del gruppo registrano un netto miglioramento della redditività da attribuirsi: per i quotidiani alla drastica riduzione dei costi conseguentemente ai piani di riorganizzazione e per radio e internet al significativo incremento dei ricavi».
Il risultato netto è salito a 36,3 milioni, contro l´utile di 1,2 milioni dello stesso periodo del 2009. L´indebitamento al 30 settembre è sceso a 136 milioni, dai 208,2 milioni di fine 2009. L´organico, in conseguenza dei piani di riorganizzazione, ammonta a 2.828 dipendenti, con una riduzione di 288 unità rispetto all´inizio dell´esercizio e di 584 nel corso degli ultimi due anni.