giovedì 16 settembre 2010

l’Unità 16.9.10
La scuola e le due Italie
di Marco Rossi-Doria

La posta in gioco per l’istruzione in Italia è altissima. Per capire la partita in corso, bisogna partire dal fatto che accade sempre che due modi di considerare la scuola si confrontano. Da un lato c’è la scena educativa concreta, la vita vera a scuola. Dall’altro ci sono le cornici sistemiche: rapporto tra bisogni e organici, spesa, organizzazione generale. Sono due mondi, con due linguaggi che in ogni sistema d’istruzione vanno messi in una relazione virtuosa. E’ proprio questa relazione “il governo della scuola”. E poiché ogni contesto locale tende a auto-centrarsi, è bene che vi sia il contraltare di una visione generale. Per esempio i temi della verifica dei risultati delle scuole, l’esigenza di una semplificazione degli indirizzi, l’opportunità di decentrare le decisioni sono cose che chiamano a fare i conti con vincoli, doveri di verifica, assunzione di responsabilità diretta. Ma l’anomalia politica che ha luogo in Italia è che da anni la destra fa una propaganda vergognosa e ripete che le forze di centro-sinistra non hanno accolto questa prospettiva. E’ una menzogna. Questi temi sono, anzi, stati posti dal centro-sinistra: stabilimento del fabbisogno generale e proposta di allocazione delle risorse con risparmi veri ma anche sostenibili in termini di tenuta educativa delle scuole (libro bianco), piano di rientro dei precari al fine di riprendere i concorsi pubblici, piano per la sicurezza delle scuole, avvio del sistema di valutazione. La verità è un’altra. La destra non mette in relazione la vita vera delle scuole e il sistema, ha una visione dirigista del sistema e, soprattutto, lo fonda sul risparmio come unico criterio.
Perciò la destra va battuta con la ripresa della priorità educativa rispetto a quella fondata sul budget. E poi ci si misura sul come reperire i fondi. Questo approccio, nella storia italiana, ha una forte tradizione. Ne hanno fatto parte, in modi diversi, la destra storica, Giolitti, per certi versi lo stesso fascismo, i governi centristi del dopoguerra e, con un salto in avanti, il primo centro-sinistra che, con la scuola media unica, applicò la Costituzione e aprì la via al successivo difficile cammino, ancora in corso, dell’istruzione per tutti e ciascuno. Il governo Prodi, con l’elevamento dell’obbligo, stava in questo solco. In questa tradizione ci sono stati anche errori e limiti. Da correggere. Ma è questo il solco delle politiche pubbliche unitarie del Paese. L’attuale governo rappresenta una grave frattura in questo indirizzo di responsabilità verso le nuove generazioni di tutte le classi sociali. Infatti, la priorità assoluta data ai tagli rivela qualcos’altro. Rivela un’idea di scuola in cui chi è protetto perché ha a casa persone istruite può permettersi poco tempo-scuola e gli altri faranno quel che possono con quel tempo. Così, la scelta di indirizzo fondata solo su criteri di bilancio sancisce il principio di ineguaglianza: dare poche cose uguali a chi uguale non è. E smentisce l’articolo 3 della Costituzione che chiama la Repubblica a rimuovere le cause dell’ineguaglianza. Nessuna riparazione per chi sta indietro. Inoltre il criterio del risparmio fa sì che l’educare non è più una funzione della scuola.
Che è limitata all’istruire e dunque i grandi temi della comunità a scuola, della relazione scuola-famiglia, della gestione delle difficoltà dell’adolescenza sono “esternalizzati”, non finanziabili se non con risorse altre. Chi le trova bene, chi no è lasciato solo. Si tratta di una politica che consolida la divisione, nel Paese, tra popolazione protetta e poveri e tra Nord e Sud. E che sta portando alla chiusura delle scuole di montagna, all’accorpamento nelle mani di pochi dirigenti di molte scuole, con relativo annullamento delle funzioni di coordinamento pedagogico a favore di quelle meramente burocratiche, all’affollamento ingestibile delle classi, al decadimento pericoloso del patrimonio edilizio. E’ l’approccio contrario a mettere insieme scuole e sistema.
L’alternativa a questa politica sulla scuola pone, invece, l’intelaiatura di sistema al servizio di chi fa scuola, di chi deve mantenere le promesse della scuola perché risponde ogni mattina alle persone e ai compiti educativi: trovare risposte, caso per caso, classe per classe, alla crisi dei modelli educativi e alla caduta generale delle regole, affrontare la grande fragilità di un’ adolescenza sottoposta ai richiami di consumo e di comportamento dominanti e promuoverne, al contempo, le immense vitalità, integrare davvero i bambini e ragazzi stranieri, fare i conti con il fatto che i modi di apprendere nella rete e nei media vanno ricondotti a un senso, contrastare gli effetti, spesso devastanti, della povertà e dell’illegalità in intere aree del Paese dove la scuola è il solo presidio democratico. Dunque: l’agenda sulla scuola ce la fornisce la vita vera e complessa che già avviene a scuola. Altro che l’aritmetica delle ore cattedra per risparmiare! Ma la situazione si è così aggravata che, per rimettere in piedi una politica per la scuola, un governo alternativo dovrà affrontare, insieme, le questioni di cosa e come si impara e le due prime emergenze, che sono: fornire le condizioni necessarie per una scuola del ventunesimo secolo e dare di più a chi parte con meno. Dunque, mettere in sicurezza le scuole oggi non a norma e degradate e fornirle dei mezzi per garantire manutenzione ordinaria, mense e luoghi comunitari aperti tutto il giorno, palestre, laboratori scientifici, multimedialità costantemente aggiornata. C’è da fare – federalisticamente! – un grande patto stato-regioni su questo. E poi: dare subito di più a quel 20 percento di bambini poveri, ovunque e soprattutto nel Sud. Più asili nido nelle aree metropolitane del Mezzogiorno. Fornire le scuole d’infanzia di un monte ore ulteriore per la mediazione con le famiglie povere e soprattutto con le mamme delle zone a forte rischio che chiedono sostegno a una genitorialità difficile. Dare il tempo lungo e un organico funzionale a tutto la scuola del nuovo obbligo, fino ai sedici anni, ma a partire dalle aree più difficili, sul modello delle zone di educazione prioritaria francese, assicurando l’effettiva alfabetizzazione irrinunciabile – in primis solide basi precoci in italiano e matematica che non possiamo garantire, in quei contesti, con il tempo corto e l’organico ridotto. Fornire scuole di seconda occasione per chi è già “disperso” a dodici o tredici anni. Il governo dell’alternativa è queste cose qui, da verificare con rigore.

Repubblica 16.9.10
Scuola, la grande protesta
Verso un autunno di fuoco prof e presidi, migliaia in assemblea
Rossi agli studenti: "La crisi impedisce di volare"
di Gaia Rau

Migliaia di lavoratori della scuola hanno invaso il Saschall, ieri mattina, per l´assemblea provinciale indetta dai sindacati. Insegnanti, presidi, custodi, personale amministrativo: tutti in prima linea contro i tagli all´istruzione per un appuntamento che si annuncia come il primo di un autunno bollente. Con loro anche gli assessori Di Fede e Di Giorgi, mentre il presidente toscano Rossi ha inviato un messaggio agli studenti: «La scuola deve ritrovare le ali»
Le prime stime parlano di 3 mila persone. Ma per i sindacati sono stati molti di più - sette, ottomila, dicono dalla Cgil - i lavoratori della scuola che ieri mattina hanno invaso il Saschall per l´assemblea provinciale indetta da Cgil, Cisl, Gilda e Cobas. Quindicimila quelli che hanno partecipato a riunioni analoghe in tutta la Toscana. Insegnanti di ruolo e precari dalle materne alle superiori, presidi, bidelli e personale amministrativo in arrivo da ogni parte del territorio a bordo dei pullman organizzati dai sindacati per un appuntamento che si annuncia come il primo di un autunno bollente. Insieme a loro anche gli assessori all´istruzione della Provincia Giovanni Di Fede («siamo al fianco degli insegnanti, e pensiamo che da questo governo non ci possiamo attendere niente di buono», ha detto dal palco) e del Comune Rosa Maria Di Giorgi, la quale si è rivolta agli insegnanti: «La vostra lotta è assolutamente la nostra lotta».
«Un´esperienza fantastica, evidentemente abbiamo colto il bisogno delle persone che lavorano nella scuola di veder rappresentato il loro disagio - commenta a caldo Alessandro Rapezzi della Cgil - Adesso dobbiamo fare i conti con una responsabilità spaventosa, quella di dare seguito a tante aspettative». Mentre a chi ha criticato la scelta di un´assemblea proprio il primo giorno di scuola risponde Antonella Velani, della Cisl: «In pochi l´hanno giudicata inopportuna, a giudicare dai numeri che ci sono qui». In effetti l´affluenza è tale che, a metà mattina, nel teatro non c´è più un posto libero: c´è chi siede per terra, in tanti sono costretti ad ascoltare gli interventi dai giardini, attraverso gli altoparlanti.
Tanti i richiami alla carta costituzionale. A cominciare dallo striscione «Rispettare la Costituzione, garantire il diritto allo studio», appeso sotto al palco, insieme a un altro con una frase di Derek Bock: «Se pensate che l´istruzione sia costosa, provate l´ignoranza». Ma l´articolo 34 sul diritto all´istruzione è stato citato anche in tanti interventi che si sono alternati nell´arco della mattinata. «La nostra è un´assemblea per la legalità», dice dal palco un´insegnante di Signa, travolta dagli applausi. «Gelmini e Tremonti vogliono una scuola della miseria, ma noi abbiamo la forza per reagire», le fa eco Alidina Marchettini dei Cobas. Al centro delle critiche i provvedimenti del ministro all´istruzione: in tanti ne chiedono le dimissioni, altri invocano «l´abrogazione di tutte le controriforme che hanno fatto tagli alla scuola». Una delle richieste centrali è il ritorno a una protesta unitaria: «Docenti e non docenti, ma anche studenti, universitari e famiglie, come nel 2008». A tutti i presenti, infine, i sindacati hanno distribuito un «Vademecum della legalità» con le norme relative, ad esempio, alla sicurezza negli edifici, al limite di affollamento nelle aule, agli orari di lavoro. Fra le prossime iniziative un´assemblea dei precari, il 5 ottobre e un´altra, il 21, con le rsu delle scuole di tutta la provincia. Mentre i Cobas propongono uno sciopero per il 15.
Intanto il presidente della Regione Enrico Rossi ha inviato un messaggio agli studenti toscani: «La scuola, che dovrebbe volare e aiutare a volare, è costretta a fare i conti con una crisi che ne frena il volo - ha scritto - Ma le ali vanno ritrovate, o ricostruite, proprio nei giorni di depressione economica: e uno fra i modi migliori per ritrovarle è proprio puntare sulla scuola perché è anche grazie alla scuola che si dà concretezza ai principi della nostra Costituzione».

l’Unità 16.9.10
Dall’inizio 2010 le vittime sono 23, che si aggiungono alle 19 registrate l’anno scorso
Ancora suicidi in France Telecom Cinque nelle ultime due settimane
di Luca Sebastiani

Le vittime non si conoscevano e lavoravano in posti differenti, indistinguibili tra i centomila dipendenti complessivi del gruppo. La riforma che innalza l’età pensionabile è vista come un sopruso tra i lavoratori.

I cambi al vertice nel colosso delle tlc e i piani antistress non hanno interrotto la catena

Ancora suicidi, e ancora France Telecom. Cinque solo nelle ultime due settimane. Nonostante lo sdegno dei francesi, i cambi al vertice dell’azienda e l’interessamento del governo, un anno di piani per migliorare le condizioni di lavoro nel colosso della telefonia non sono stati in grado di arrestare il virus strisciante dello stress che dall’inizio dell’anno ha già fatto 23 vittime. Più delle 19 dell’anno prima, quello che ha acceso i riflettori su France Telecom. Terribile bilancio. Evidentemente hanno ragione i sindacati, che denunciano una situazione stagnante, con una direzione che non ha fatto abbastanza. «Nessuno è vicino ai lavoratori più fragili», dicono.
Delle ultime cinque vittime si sa poco. I familiari, l’azienda, ma anche i sindacati hanno voluto mantenere il riserbo su nomi e biografie. Di loro si sa solo che non si conoscevano e lavoravano in posti differenti: uno nella regione di Parigi, due nei pressi di Rennes, uno a Lille e un altro a Tolosa. Ai cinque angoli della Francia, lavoratori indistinguibili tra i centomila di France Telecom. Lavoratori più fragili degli altri però, che i piani antistress non sono riusciti a salvare. Anche loro deboli come Michel Deparis, il dipendente che lo scorso anno prima di levarsi la vita aveva scritto una lettera in cui accusava l’azienda dei nuovi capitani, che arrivati alle redini del colosso delle telecomunicazioni hanno piegato l’azienda ad un’esclusiva logica finanziaria.
Da ormai un decennio il mercato delle tlc è tra i più concorrenziali e gli azionisti (tra cui il principale è lo Stato col 27% del capitale) reclamano sempre più dividendi: a loro bisogna rispondere e dunque bisogna fare profitti riducendo la massa salariale. In pochi anni la realtà degli impiegati di FT è diventata un inferno. Obiettivi di produttività irraggiungibili, valutazioni continue e richiami, concorrenza sfrenata tra colleghi e individualizzazione.
PRESSIONE
I manager fanno pressione e gestiscono i servizi col solo fine di ridurne gli effettivi. Bersaglio privilegiato, il grosso del personale, proprio quei cinquantenni entrati ai tempi del monopolio pubblico. Nel 2005 l’ex amministratore delegato Didier Lombard fissa in 22mila la quota di posti da tagliare. Inizia una girandola di riorganizzazioni e razionalizzazioni senza fine: decine di siti vengono chiusi in Francia, 15mila lavoratori sono obbligati alla mobilità e spostati verso i settori prioritari (Adsl, cellulari, funzioni commerciali). Le missioni diventano sempre più brevi e l’ex impiegato abituato alla sicurezza del posto viene sballottato in una flessibilità estrema che sembra fatta apposta per spingerlo ad andarsene. Molti infatti decidono di farlo, e oggi i dirigenti di FT si possono vantare che per ridurre di 16.800 unità l’organigramma del colosso non hanno fatto ricorso a piani cruenti. Chi ha voluto è stato riaccompagnato alla porta con appositi piani di sostegno. Sul tappeto però sono rimasti i lavoratori intrappolati tra il rifiuto ad andarsene e la ferocia dei manager.
Lo scorso anno di questi tempi la stampa aveva acceso i riflettori sul problema e allo sdegno dei francesi era seguita la sostituzione dei vertici. Lombard, ad che ha sempre sostenuto che le cause dei suicidi vanno trovate fuori dell’azienda, aveva dovuto lasciare il posto a Stephane Richard. Quest’ultimo si era dato da fare e a luglio si era spinto fino a riconoscere il suicidio di Michel Deparis come incidente di lavoro. Ma il morale a FT è sempre basso, dicono i sindacati. Nonostante un dividendo di 11 miliardi le prospettive lavorative non sono rosee; Lombard è ancora presidente, e la riforma sarkozista che innalza da 60 a 62 l’età pensionabile è vista come un sopruso dai lavoratori diFT,il 50%deiquali hapiùdi 50 anni e aspettava con ansia il momento di andarsene.

Europa 16.9.10
Se il Nuovo Ulivo esclude i Radicali
di Pier Paolo Segneri

Il più grande pregio per un politico è saper ascoltare. Avere la forza, la pazienza, l’intelligenza di ascoltare gli altri e anche ciò che accade tutto intorno. Soprattutto nell’apparente caos della politica italiana, oggi, in mezzo a tanto rumore e inutili schiamazzi, chi sa ascoltare è un po’ un piccolo principe. Chi più riesce a sentire quel che accade oggi, più riesce a vedere ciò che accadrà domani o sta per succedere tra pochi minuti. Infatti, l’attenzione verso l’individuo e la collettività, verso la persona e il rispetto delle persone, nei confronti degli altri e verso l’insieme, è spesso un modo per partecipare attivamente al dialogo, al contraddittorio, all’azione. Agire senza agire. Mentre tutti si agitano, chi sa ascoltare è poi l’unico a muoversi davvero, a cogliere la memoria che vive nel presente e si muove verso il futuro. Perché ascoltare è un modo per vedere oltre.
Insomma, bisogna saper ascoltare il vento che tira, il suono e la voce della fase politica che stiamo vivendo. Bisogna saper ascoltare, se si vuole cogliere la trasformazione già avvenuta e quella in corso. Mentre sono in molti, ancora, anche nel Pd, a non aver compreso che la Terza Repubblica è già iniziata. Si parla di Nuovo Ulivo e giustamente si dimenticano i Radicali di Emma Bonino che hanno sempre avuto, negli ultimi quindici anni, un progetto politico differente. Anzi, hanno sempre proposto un progetto in dichiarata antitesi con quello dell’Ulivo.
Si sta lavorando, quindi, al Nuovo Ulivo che non prevede l’alleanza con i Radicali e con la lista del più antico partito italiano, quello di Marco Pannella. È questo il grande progetto per il futuro? Un progetto anti-liberale? Se questi sono i presupposti, c’è da essere molto preoccupati. L’Ulivo è un progetto del passato, appartiene alla Seconda Repubblica. Se l’Ulivo fosse un progetto politico “nuovo”, che bisogno vi sarebbe di aggettivarlo come “nuovo”? Un’idea è nuova quando non ha bisogno di definirsi come tale. Bisogna saper ascoltare, se si vuole prevedere il futuro. Bisogna saper ascoltare, se si vuole governare il cambiamento.
Bisogna saper ascoltare chi non ha voce, chi non ha parola, chi non ha potere, chi vive costretto nel silenzio, chi ha scelto di stare zitto, chi viene silenziato, chi non ha soldi, chi non ha spazio, chi ha paura, chi è emarginato, chi è rimasto ammutolito, chi trema, chi viene imbavagliato. Bisogna saper ascoltare, se si vogliono promuovere soluzioni, idee, proposte. Bisogna far circolare orecchie capaci di sentire l’oltre e l’alterità che i politici ignorano o disdegnano, invece che continuare a rompere i timpani con grida ormai spente. Forse chiamiamo caos ciò che non sappiamo comprendere del nostro tempo politico e che non riusciamo ad ascoltare, quindi a capire. La Terza Repubblica è già qui, ma i dirigenti del Pd non lo hanno ancora capito. E il Cavaliere nemmeno. Naviga a vista.


Repubblica 16.9.10
L’internazionale della paura
di Adriano Prosperi

Uno spettro si aggira per l´Europa: un altro. Non quello rosso del comunismo che nel 1848 allarmò la Santa Alleanza. Oggi lo spettro veste gli stracci colorati e si muove sui carrozzoni di un popolo di nomadi. È questo lo spettro che ha spinto Sarkozy a rispondere sgarbatamente alla commissaria europea Viviane Reding e che gli ha guadagnato l´immediato appoggio di Berlusconi.
Oggi nasce in Europa una nuova internazionale: quella della paura. Ne tengano conto gli storici del futuro. Abbiamo avuto finora diverse Europe, quella cristiana, quella degli umanisti, quella illuministica. È stato battuto il tentativo di dar vita a un´Europa nazifascista nel segno della romanità antica e della svastica che nel 1934 portò a Roma per annunciarne la creazione l´ideologo del razzismo nazista Alfred Rosenberg. Ci fu, invece di quella, l´Europa rinata dalle rovine grazie all´intelligenza e al coraggio di uomini come Federico Chabod che concluse le sue lucidissime lezioni sulla storia dell´idea d´Europa lasciando Milano per unirsi alla Resistenza in Val d´Aosta.
Ma quella che oggi ha preso forma nelle dichiarazioni di Sarkozy e per la quale il nostro presidente del Consiglio si è affrettato a dichiarare che esiste «una convergenza italo-francese» è un´Europa dominata dalla paura, dalla volontà di chiudere le porte agli immigrati e di cacciare via i rom.
Notiamo di passaggio la differenza di stile tra le due dichiarazioni, quella di Sarkozy e quella di Berlusconi. Quella di Sarkozy è una rispostaccia pubblica, da litigio di condominio: quella di Berlusconi è un avvertimento di metodo: di queste cose si deve parlare privatamente. Ma ambedue partono da un unico presupposto: quello che i rom siano spazzatura. Anzi, qualcosa di meno. Sul mercato internazionale della spazzatura il prezzo dei rimpatri francesi dei rom - 300 euro un adulto, 100 un bambino - è decisamente a buon prezzo se confrontato con quello dei residui speciali che attraversano l´Europa su carri blindati per andare a nascondersi in qualche miniera abbandonata o a farsi bruciare negli impianti tedeschi.
Accomuna le due dichiarazioni lo stesso disprezzo per gli esseri umani in gioco. Ci si chiede se siamo giunti davvero al punto di dover riconoscere che l´Europa ha dimenticato l´epoca in cui i trasferimenti forzati di popolazione e l´eliminazione fisica degli indesiderati presero avvio proprio dai rom. Sbaglieremmo a trascurare le ragioni di questa rapida convergenza dei due presidenti nella costruzione di un´Europa della paura.
Il ministro Maroni ci aveva già informato all´inizio dell´estate che stava preparando la sua campagna d´autunno col rilancio del tema degli immigrati. E non è certo da oggi che la politica della paura costituisce la risorsa alla quale si appella una dirigenza politica senza idee e senza risultati da presentare al paese. È una ricetta a suo modo infallibile. Ma la censura della commissaria europea Viviane Reding ha fatto suonare l´allarme in casa leghista e ha spinto Berlusconi a coprirsi dietro le spalle di Sarkozy per la semplice ragione che la Francia è sempre la Francia.
Sarà bene che l´opinione pubblica democratica si svegli: non si dimentichi che si sta discutendo della sorte di esseri umani mercificati e venduti a un tanto il chilo. Che cosa contino sul mercato di una coalizione che si presenta a mani vuote davanti al paese in cerca di rilanci elettorali lo abbiamo capito dal commento del governo all´episodio della sparatoria partita da navi vedetta italiane in mani libiche: pensavano forse che si trattasse di immigrati clandestini? Perché evidentemente in questo caso si sarebbe trattato di una causa giusta. Che i libici, con l´aiuto e l´avallo dell´Italia, sparino sui pescherecci dei disperati o li chiudano nei campi di concentramento viene considerato un successo politico del nostro paese.
Comunque il risultato è quello di una brusca svolta storica: nell´idea d´Europa, nella immagine della Francia paese della libertà e rifugio per chi non trova libertà in casa sua; anche nella realtà storica di un´Italia che, pur nella fragilità delle sue istituzioni statali, aveva trovato nel solidarismo cristiano e in quello socialista le risorse ideali e pratiche per assicurare assistenza e conforto ai diseredati.

Repubblica 16.9.10
L'ombra della pedofilia sul viaggio del Papa
di Marco Ansaldo

Oggi Benedetto XVI in Inghilterra e Scozia tra le polemiche. Il cardinale Kasper rinuncia alla visita, è giallo
Gaffe dell´alto prelato che aveva detto: arrivi a Heathrow ed è Terzo Mondo
L´appello sul Corano: il rispetto della libertà religiosa prevalga sulla violenza

CITTÀ DEL VATICANO - Comincia oggi il difficile viaggio di Benedetto XVI in Inghilterra e Scozia. Quattro giorni di discorsi, riunioni e momenti di riflessione nei quali il Pontefice affronterà argomenti delicati, fra l´incontro ecumenico con la Chiesa anglicana e il colloquio con la Regina. Ma nei media e tra alcuni intellettuali è il caso della pedofilia nella Chiesa a tenere banco.
Addirittura Foreign Policy in un articolo-provocazione si chiede: «Può la Gran Bretagna arrestare il Papa?». L´onda delle polemiche sullo scandalo, corroborata dalle ultime rivelazioni sugli abusi compiuti da alcuni preti belgi, si allunga impietosamente sul viaggio. In Irlanda - dove pure Benedetto XVI non andrà - è ancora viva l´impressione dei due rapporti governativi Ryan e Murphy che alzarono il velo sulle violenze compiute per decenni da religiosi, e portarono il Pontefice a scrivere una lettera ai fedeli irlandesi. Le tappe nelle diverse città del Regno Unito verranno costantemente affiancate da proteste e iniziative, fino a una marcia per le vie del centro di Londra sabato 18 settembre. Nel mirino non c´è solo la pedofilia. Chi accusa contesta anche la posizione di Joseph Ratzinger sui preservativi nella prevenzione dell´Aids, oltre ai milioni di sterline che il governo di Londra ha stanziato per la visita proprio mentre varava un programma di tagli e sacrifici durissimo. È molto probabile comunque che Benedetto, così come fece negli Stati Uniti, in Australia e a Malta, incontri durante questo soggiorno alcune vittime di quello che lui stesso ha definito «un odioso crimine ma anche un grave peccato che offende Dio». Il viaggio ha conosciuto alla vigilia anche un «giallo». Il cardinale tedesco Walter Kasper, che doveva far parte del seguito papale, si è infatti ritirato dalla visita. Motivazione ufficiale: ragioni di salute. I media britannici legano però la rinuncia del porporato, ex presidente del Pontificio Consiglio per l´Unità dei cristiani, a una sua intervista al settimanale tedesco Focus in cui parlava dell´«aggressivo nuovo ateismo» del Regno Unito, aggiungendo che «quando atterri a Heathrow sembra di arrivare in una nazione del Terzo Mondo. Se indossi una croce sulla British Airways vieni discriminato». Ragioni negate dalla Sala stampa vaticana il cui direttore, padre Federico Lombardi, ha spiegato che la rinuncia è «assolutamente per motivi di salute e non c´entra nulla con l´intervista». Il Papa ieri non è tornato a parlare del viaggio, come aveva accennato all´Angelus di domenica scorsa. Ma ha affrontato il tema degli assalti alle chiese e alle scuole cristiane avvenuti in vari Paesi asiatici dopo le profanazioni del Corano negli Stati Uniti. «Il rispetto della libertà religiosa - ha detto all´udienza generale - e la logica della riconciliazione e della pace prevalgano sull´odio e sulla violenza. Seguo con preoccupazione gli avvenimenti verificatisi in questi giorni in varie regioni dell´Asia meridionale, specialmente in India, in Pakistan e in Afghanistan. E prego per le vittime».

Repubblica 16.9.10
E ora Londra lo accusa di non aver rimosso gli "orchi" della Chiesa
La rabbia delle vittime: i preti condannati ancora al loro posto
di Enrico Franceschini

Molti biglietti per le messe che dirà durante il viaggio sono andati invenduti
Alcuni dei sacerdoti condannati ricevono ancora ospitalità e assistenza dal clero

LONDRA - Un nuovo scandalo accoglie il papa al suo arrivo in Gran Bretagna. Un documentario di Channel Four, uno dei canali privati televisivi nazionali, anticipato ieri dal quotidiano Guardian in prima pagina, accusa il Vaticano e la chiesa cattolica inglese di non avere mantenuto le promesse di fare pulizia tra i preti colpevoli di pedofilia in Inghilterra e in Galles. L´inchiesta della tivù esamina gli effetti del rapporto Nolan, un´indagine sugli abusi commessi da religiosi cattolici nel Regno Unito pubblicata nel 2001. In quel documento, i vertici cattolici inglesi si impegnavano a privare del sacerdozio i preti condannati per abusi sessuali, ma Channel Four ha scoperto che invece più di metà di essi continuano a fare parte del clero. Alcuni ricevono perfino ospitalità e assistenza finanziaria dalla chiesa. Messe di fronte all´evidenza, le autorità della chiesa cattolica d´Inghilterra affermano che in alcuni dei casi contestati il procedimento punitivo è stato avviato, ma spetta al Vaticano emettere la decisione di estrometterli dal sacerdozio: e tale decisione non è ancora arrivata. Come se non bastassero l´indifferenza della popolazione (solo il 14 per cento dei britannici guardano con favore alla sua visita), i biglietti invenduti per le messe che dirà durante il viaggio, le critiche dei media (un editoriale del Guardian riconosce che è dubbio se sia lecito stendere il tappeto rosso per il papa, ma poi osserva che "tutti i tipi di tiranni sono stati accolti a Londra" e dunque lo si può fare anche per "il più grande autocrate della terra"), la visita di Benedetto XVI incontra così un nuovo ostacolo già in partenza: ancora prima degli incontri "segreti" in programma tra il pontefice e un selezionato gruppo di vittime dei preti pedofili, ancora prima della possibile iniziativa di associazioni laiche di incriminarlo per complicità nella vicenda degli abusi sessuali e delle coperture per insabbiarli, come chiede un celebre avvocato e difensore dei diritti civili, Geoffrey Robertson, nel libro "The case against the pope" (Il caso contro il papa), che la Penguin, maggiore casa editrice britannica, ha pubblicato proprio in coincidenza del suo arrivo, anche questo è un apparente segno di ostilità al pontefice.
L´inchiesta di Channel Four rivela che 14 dei 22 preti inglesi condannati a un anno o più di prigione per pedofilia sono tuttora parte del clero cattolico d´Inghilterra e Galles; 10 di loro compaiono nell´elenco ufficiale dei sacerdoti cattolici del Regno Unito. Soltanto 8 dei 22 sono stati esclusi dal sacerdozio. Uno dei preti pedofili ancora in attività smascherato dal documentario è padre John Coughlan, arrestato e incarcerato nel 2005. Sebbene non conduca più la messa, padre Coughlan è ancora un prete e vive in una casa di proprietà della chiesa, presso la diocesi di Westminster amministrata dall´arcivescovo Vincent Nichols, la più alta autorità cattolica in Gran Bretagna. Richiesto di spiegare la sua permanenza nella chiesa a dispetto delle norme stabilite quasi dieci anni fa dalla commissione Nolan, padre Coughlan dichiara di essere "in un limbo" e afferma che altri preti sono nella sua stessa situazione. Nel difendersi dall´accusa di avere violato gli impegni presi, un portavoce della chiesa cattolica d´Inghilterra dà l´impressione di volersi "lavare le mani" da ogni responsabilità: «Un vescovo deve rivolgersi a Roma per ricevere l´autorizzazione a laicizzare un prete e né la durata, né il risultato di questa richiesta sono sotto il controllo del vescovo». La responsabilità, lascia capire, è dunque di Roma. E intanto le associazioni delle vittime della pedofilia affermano che gli incontri con il papa hanno solo l´obiettivo di "manipolare" le vittime e spingerle a esprimere sostegno al pontefice.

Repubblica 16.9.10
Il ruolo dell’irrazionalità nelle ideologie e nell’azione pubblica
Quando la politica affronta il caso
In Machiavelli emerge lo sforzo per fronteggiare la Fortuna
di Carlo Galli

Al caso, all´accadere, è stata prevalentemente opposta la necessità; all´instabilità della contingenza la stabilità di un ordine, all´imprevedibilità la prevedibilità, alla molteplicità l´unità, al non senso il senso. È la ragione che ha avuto il ruolo principale nello sforzo di neutralizzare l´intrattabilità del caso.
Soprattutto nell´ambito politico la ricchezza dell´esperienza è stata percepita come minacciosa, come caos; e così nella potente prosa di Machiavelli è scolpito lo sforzo di fronteggiare con la Virtù – con l´operare efficace – la non umanità e la non razionalità del mondo, la Fortuna; lo sforzo di elevare argini contro quel fiume in piena che è il corso degli eventi, e la consapevolezza che prima o poi verranno travolti, nonostante l´intelligenza e il coraggio che si possano profondere (il che peraltro è raro) nell´attività politica. Ma il lucido e appassionato disincanto di Machiavelli – la sua lotta a viso aperto contro la Fortuna e contro la sua intrinseca necessità – non è il mainstream del pensiero moderno. Che si è invece adoperato – a partire da Hobbes – per eliminare, per uniformare e disciplinare, ogni evento abnorme, ogni contingenza. Se il caso è necessariamente costitutivo della natura e della natura umana, gli si deve opporre una necessità non naturale ma costruita dall´uomo: quell´artificio indispensabile che è l´ordine politico moderno, che vuol essere una sorta di compagnia assicurativa contro gli incerti della vita. Un ordine che non lascia nulla al caso, e che anzi tende a eliminarlo come anomalia, irrazionalità, mostruosità.
Nel corso della modernità l´effetto-necessità è progressivamente aumentato: il bisogno moderno di sicurezza non si concepisce come avventura della ragione, come esso stesso contingente, ma come necessario, inevitabile e garantito: ha così generato le ideologie, sistemi di pensiero – e di pratiche – che fanno della politica lo spazio di realizzazione di un ordine necessario, già scritto nella natura, nella storia, nella tradizione o, più spesso, nel progresso. E anche quando, giunta agli estremi della sua efficacia, la politica moderna riscopre la forza della contingenza, la crucialità del caso, lo pone pur sempre al servizio di un progetto d´ordine, lo iscrive dentro le logiche di una statualità lanciata oltre la propria forma razionale: Carl Schmitt, con la teoria della sovranità come decisione sul caso d´eccezione, costituisce il migliore esempio di una riscoperta del caso che al contempo ne sfigura la potenziale ricchezza.
Certo, l´età moderna ha anche conosciuto altre modalità di trattazione del caso: da quella di Spinoza – che elimina la nozione stessa di contingenza per affermare la necessità di tutte le modalità dell´essere – a quella di Nietzsche, con la sua gioiosa accettazione del destino, col suo dire Sì all´eterno ritorno, a quella di Heidegger, con la sua sottolineatura della dimensione della possibilità, della rischiosa fuoriuscita dallo spazio metafisico della "salvaguardia". Si deve inoltre aggiungere la vitalità letteraria dell´occasione, cuore della poetica di Montale, e anche l´avventura, che continua a permeare l´immaginario occidentale. Eppure, la dimensione dell´avventura fatica a farsi autonoma, e si riduce ad un´esistenza marginale, a fuga, a compensazione del meccanismo moderno della necessità.
Invece che esserne la contestazione, il caso scaturisce piuttosto dall´interno della stessa necessità, come intrinseca irrazionalità, come mostruosità, della moderna razionalità ordinativa. È la casualità dei meccanismi della politica totalitaria che travolge ogni vita come inutile e deviante; è l´incomprensibilità del mondo della tecnica e dell´economia, che da guscio protettivo della soggettività è diventato – e ne facciamo quotidianamente esperienza – un ambiente ostile e selvaggio, una giungla in cui può succedere di tutto, in cui i progetti di vita invece che essere liberamente e razionalmente perseguibili sono davvero affidati al caso (e a quel caso particolare che è la nascita in questo o quello strato sociale, in questa o quella parte del mondo). È questa vita nella casualità – a cui si aggiunge la morte nella casualità, a opera del terrorismo o di qualche bomba intelligente – l´altra faccia della moderna lotta razionale contro il caso; una casualità che si presenta come cieca necessità, come Fortuna bendata che fa vivere o fa morire individui che non hanno più alcun controllo razionale sulle proprie vite. Ma questo nuovo e paradossale connubio fra caso e necessità ha un nome ben decifrabile: ingiustizia. Il che lo mostra non necessario, e anzi contingente. E, chissà, forse anche rimovibile, in una nuova appassionata lotta contro il ripresentarsi, dopo la necessità del caso, della casualità della necessità. Una lotta in nome, questa volta, della libertà e della contingenza; un´Avventura alla ricerca non della Ragione ma delle molteplici ragioni dell´umanità.

Repubblica 16.9.10
La società dell’incertezza
di Zygmunt Bauman

Oggi, nell´epoca liquida, ci sono infinite ragioni, più che 50 anni fa, per sentirsi insicuri
La maggior parte di noi non possiede le risorse per innalzarsi al rango di individui di fatto

La modernità è arrivata come una promessa, ben determinata a sfidare e conquistare l´incertezza, a condurre contro quel mostro policefalo una guerra totale di logoramento. I filosofi dell´epoca spiegavano l´improvvisa abbondanza di crudeli e terrificanti sorprese - prodotte dalle forze sprigionate da lunghissime guerre di religione, fuori controllo e tali da sfuggire alla presa e al freno di pesi e contrappesi - con il fatto che Dio si era ritirato dalla supervisione diretta e dalla gestione quotidiana della Sua creazione, oppure con il cattivo funzionamento della creazione in quanto tale, ossia con i capricci e i ghiribizzi cui la Natura è soggetta finché, non venendo imbrigliata dall´ingegno umano, resta aliena e sorda rispetto ai bisogni e ai desideri degli uomini. Vi potevano essere differenze tra le spiegazioni preferite, tuttavia gradualmente emerse un ampio accordo relativo al fatto che l´attuale amministrazione degli affari mondani non reggeva alla prova e che il mondo aveva bisogno di essere urgentemente sottoposto a una nuova gestione (umana, questa volta) indirizzata a chiudere i conti una volta per tutte con i più terribili demoni dell´incertezza: la contingenza, la casualità, la mancanza di chiarezza, l´ambivalenza, l´indeterminazione e l´imprevedibilità. (...)
Quando tale compito sarebbe stato portato a compimento, gli esseri umani non sarebbero più stati dipendenti dai "colpi di fortuna". La felicità umana non sarebbe più stata un dono del fato, ben gradito, ma non richiesto, bensì il regolare prodotto di una programmazione fondata sulla conoscenza scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche.
In realtà la gestione umana non è stata in grado di corrispondere alle aspettative popolari, alimentate dalle assicurazioni generosamente concesse dai suoi dotti progettisti e dai suoi poeti di Corte. È vero che molti dispositivi ricevuti in eredità e accusati di saturare d´incertezza la ricerca umana erano stati smantellati e gettati via, ma il volume d´incertezza prodotto dai modelli che li avevano sostituiti non era inferiore al precedente. (...)
Per i primi cento o duecento anni della guerra contro l´incertezza si è minimizzato il fatto che non si fosse registrata una convincente vittoria. I sospetti che l´incertezza potesse essere una compagna permanente e inseparabile dell´esistenza umana tendevano a venire negati come essenzialmente sbagliati, o quanto come non sufficientemente dimostrati, dunque prematuri: nonostante le crescenti prove in contrario, era ancora possibile pronosticare che, dopo aver corretto questo o quell´errore e dopo aver superato o aggirato questo o quel rimanente ostacolo, si sarebbe potuta conseguire la certezza. (...)
Durante gli ultimi cinquant´anni, tuttavia, si è fatto largo un drastico cambiamento nella nostra visione del mondo, che ne condiziona adesso parti ancor più fondamentali rispetto alla concezione che avevano i nostri antenati riguardo al ruolo della contingenza negli itinerari congiunti della storia umana e della vita degli individui, e alle loro idee di come si poteva mitigarne l´impatto grazie al progresso della conoscenza e della tecnologia. Nelle nuove narrazioni delle origini e dello sviluppo dell´universo, della formazione del nostro pianeta, delle origini e dell´evoluzione della vita sulla Terra, così come nelle descrizioni della struttura e del movimento delle unità elementari di materia, gli eventi casuali – cioè eventi essenzialmente imprevedibili, indeterminati o del tutto contingenti – sono stati promossi e innalzati dal grado di marginali "fenomeni di disturbo" a quello di attributi primari della realtà e sua principale spiegazione.
La moderna idea di ingegneria sociale fondava la sua affidabilità sull´assunzione di ferree leggi che governavano la Natura e avrebbero reso l´esistenza umana ordinata e pienamente regolata, una volta spazzate via le contingenze responsabili delle turbolenze. Negli ultimi cinquant´anni, però, si è arrivati a mettere in questione e sempre più a dubitare dell´esistenza stessa di tali "ferree leggi" e della possibilità di concepire ininterrotte catene di causa-effetto. Oggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani. (…)
Detto questo, si noti che nella nostra epoca liquido-moderna ci sono infinite ragioni, più che cinquant´anni fa, per sentirsi incerti e insicuri. Dico "sentirsi", perché il volume delle incertezze non è aumentato: lo hanno fatto invece volume e intensità delle nostre preoccupazioni e ansie, e ciò è accaduto perché le lacune tra i nostri mezzi per agire efficacemente e la grandiosità dei compiti che ci troviamo di fronte e siamo obbligati a gestire sono divenute più evidenti, più ovvie e in verità più minacciose e spaventose rispetto a quelle di cui hanno fatto esperienza i nostri padri e i nostri nonni. A farci sentire un´incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile. (…)
Man mano che il potere di agire in modo efficace gli è scivolato via dalle dita, gli Stati, indeboliti, sono stati costretti ad arrendersi alle pressioni dei poteri globali e ad "appaltare" alla cura e alla responsabilità degli individui un numero crescente di funzioni in precedenza da loro erogate. Come ha mostrato Ulrich Beck, oggi ci si aspetta che siano donne e uomini singolarmente a cercare e trovare risposte individuali a problemi creati socialmente, ad agire su di essi utilizzando le loro risorse individuali e ad assumersi la responsabilità delle loro scelte, nonché del successo o insuccesso delle loro azioni. In altri termini, oggi siamo tutti "individui per decreto", cui si ordina, presupponendo che ne siamo capaci, di progettare le nostre vite e di mobilitare tutto ciò che serve per perseguire e realizzare i nostri obiettivi di vita. Per la maggior parte di noi, tuttavia, questa apparente "acquisizione di capacità" è in tutto o quanto meno in parte una finzione. La maggior parte di noi non possiede le risorse necessarie per innalzarsi dalla condizione di "individui per decreto" al rango di "individui di fatto". Ci mancano la conoscenza necessaria e la potenza richiesta. La nostra ignoranza e la nostra impotenza nel trovare e attuare soluzioni individuali a problemi socialmente prodotti hanno come esito perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione. Tutto ciò concorre all´esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l´incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti.
Traduzione di Daniele Francesconi

Corriere della Sera 16.9.10
L’analisi del cervello entra nel diritto
A convegno sul rapporto fra biologia e comportamento
di Luigi Ferrarella

Finirà che i condannati a morte americani guarderanno a Milano-Pavia come alla loro Mecca? Forse. Il Tribunale di Milano e il «Centro europeo per il diritto, la scienza e le nuove tecnologie» dell’Università di Pavia assumono domani, con il convegno «Le neuroscienze nella pratica giuridica europea e nordamericana» (nel Palazzo di giustizia milanese dalle 9 alle 17.30), il coordinamento internazionale degli studi che scienziati e giuristi soprattutto di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda e Belgio stanno conducendo sulle ricadute giuridiche delle nuove tecniche di analisi del cervello volte a definire le basi neurologiche delle attività e degli stati mentali.
Con la promessa di riuscire a correlare sostrato biologico e attività mentale, le neuroscienze applicate al diritto si candidano a stabilire un nesso anatomico (solo in termini di «predisposizione» a determinati comportamenti in presenza di specifiche condizioni ambientali) tra l’attivazione di una determinata area cerebrale e una certa elaborazione mentale giuridicamente rilevante.
Ancora fantascienza? Non proprio: a Udine due anni fa un condannato per omicidio si è visto ridurre in Appello la pena di un anno perché un’indagine genetica, proposta dai consulenti di parte, ha riscontrato alcuni polimorfismi genetici idonei a rendere l’imputato più incline a manifestare aggressività se provocato o socialmente isolato. E negli Usa, in Illinois, un processo per un omicidio del 1983 è stato deciso con una condanna a morte anche sulla base di una tecnica che ha misurato l’afflusso di sangue al cervello, misurazione peraltro contestata perché tarata qui e ora ma su un fatto di 27 anni fa.
Di questi due casi discuteranno già questa sera alle 21, in un divulgativo «Caffè scientifico dell’Ateneo» a Pavia nel Cortile dei Tassi, alcuni dei relatori del convegno milanese del giorno dopo, quali gli americani Nita Farahany (consulente di Obama) e Kent Kiehl, il giudice di Corte d’Appello milanese Amedeo Santosuosso, il professor Gilberto Corbellini, la studiosa pavese Barbara Bottalico.