Corriere della Sera 17.9.10
Due linee diverse e forse insanabili
di Massimo Franco e Alessandro Trocino
Fra Pier Luigi Bersani e Walter Veltroni si è aperta una dinamica simile a quella tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Con un processo imitativo involontario, il maggior partito d’opposizione sta seguendo e copiando lo smottamento del Pdl. Lo smarcamento deciso ieri dall’ex segretario segna l’inizio di un fuoco di sbarramento contro la candidatura di Bersani a Palazzo Chigi: un epilogo che, senza l’iniziativa della minoranza del Pd, sarebbe stato scontato o per convinzione o per forza di inerzia. Non è escluso che alla fine il centrosinistra si orienti comunque su questo leader, che ha ancora la maggioranza del partito. Ma certamente la scelta passerà attraverso momenti di tensione. Perfino il linguaggio polemico ricorda la rissa Berlusconi-Fini. Gli uomini di Bersani accusano Veltroni di avere fatto un autogol proprio mentre la maggioranza di governo è in grande affanno. I veltroniani replicano che con il loro movimento vogliono aiutare il partito, non romperlo. Il segretario si irrita e dice che il Pd non è il Pdl. E dunque Veltroni non può fare «come Fini» e dire «sto dentro e sto fuori». Sembra di ascoltare gli scudieri del Cavaliere che parlano del presidente della Camera. Anche se non è prevedibile una cacciata della minoranza come quella decisa contro i ribelli finiani: il Pd è effettivamente diverso. Ma il rischio di un incattivimento dei rapporti già è scritto.
Per paradosso, però, quanto sta accadendo nel centrosinistra non deve sorprendere: è la conseguenza speculare e prevedibile della crisi del centrodestra. Nel momento in cui la leadership di Silvio Berlusconi è rimessa in discussione, traballa l’intero sistema che il premier ha di fatto plasmato in questi anni; e dunque anche l’opposizione che sull’antiberlusconismo ha costruito le sue vittorie e ultimamente le sue sconfitte. L’offensiva veltroniana è resa possibile proprio perché tutti cercano una posizione di partenza privilegiata in vista di un eventuale voto. Sui motivi che hanno spinto l’ex segretario a riprendersi la minoranza del Pd, spostando la maggioranza degli ex popolari dalla sua parte, circolano molte ipotesi. Ma le più convincenti sono quelle che raffigurano un Veltroni impaziente di tornare in gioco e rompere lo schema non solo bersaniano, ma di Massimo D’Alema: il tentativo di compattare il Pd su un’identità socialdemocratica, come se fosse un Pci postcomunista; tentare di agganciare l’Udc e comunque quanti si oppongono al bipolarismo e vogliono una riforma elettorale che ne riduca la portata; e dopo eventuali elezioni anticipate far pesare il ruolo del maggior partito d’opposizione in uno schema diverso, ed in un Parlamento che ritorna il cuore delle alleanze. Non a caso Veltroni vuole un «Papa esterno» che si candidi come Romano Prodi nel 1996 e nel 2006. E Bersani, invece, si percepisce come «nuovo Prodi».
Sono due logiche diverse ed in contraddizione insanabile: aggravate da una buona dose di risentimento veltroniano per il modo in cui è stato defenestrato dalla leadership dei democratici; e dalla determinazione di Bersani a far valere le regole della maggioranza del Pd, e ad accreditare Prodi come «il Papa più interno» che l’Ulivo abbia avuto. Ma il segretario sa bene che da ieri la minoranza ha messo un macigno sulla sua marcia verso la candidatura a presidente del Consiglio; e che il prossimo terreno di scontro saranno le mitiche primarie chiamate a benedire la leadership da opporre a Berlusconi se si va a votare.
Ma Bersani è anche consapevole che un’eventuale caduta di questo governo cambierebbe tutto. E spera in Umberto Bossi, in Gianfranco Fini: in chiunque tolga il Pd ed il centrosinistra dalla subalternità nella quale si è cacciato negli ultimi anni.
Corriere della Sera 17.9.10
Scatta l’assedio agli ex popolari L’arma delle liste per trattenerli
di Maria Teresa Meli
Marini li convoca, D’Antoni forse «premiato». E torna la tentazione dei gruppi autonomi
ROMA — Non ci voleva quasi credere, Walter Veltroni, quando ha letto le parole di Pier Luigi Bersani sulle agenzie: «Perché tutto questo fastidio per il pluralismo? È una sindrome che scatta quando si è in difficoltà. E che avrei dovuto dire io che ho ricevuto una quantità incredibile di contumelie? Non ho capito ma mi sono adeguato».
Già, l’ex segretario è basito perché in questa ennesima polemica in casa Pd ci si è dimenticati che i documenti che l’hanno scatenata sono due. E il primo, in ordine di tempo, non è quello di Veltroni, Fioroni e Gentiloni. È un altro il trio che ha dato il via alle danze: quello composto dal bersaniano di ferro Stefano Di Traglia e dai dalemiani Matteo Orfini e Roberto Gualtieri. I tre hanno promosso il documento dei cosiddetti «giovani turchi», i quarantenni del Pd di rito ortodosso. Nato per rispondere a Matteo Renzi, per strada si è trasformato in un attacco a Veltroni. È stata questa offensiva nei suoi confronti che ha spinto l’ex leader a rompere gli ultimi indugi.
E ora che lo accusano di voler candidare alle primarie un «papa straniero» e che c’è chi crede di averlo individuato nel presidente della Confindustria siciliana Ivan Lo Bello, a Veltroni non resta che reggere botta. A lui, e agli altri. Soprattutto a Beppe Fioroni, perché è sugli ex popolari che si scatena la vera offensiva. Se la maggior parte di loro andasse con l’ex leader e con il responsabile del Welfare sarebbe un guaio: la dimostrazione che, alla fine della festa, il partito di Bersani non è il Pd, ma, piuttosto, qualcosa di più simile ai Ds, con una spruzzatina di cattolici. E allora ecco che partono gli sms: Franco Marini e Pierluigi Castagnetti convocano una riunione di ex popolari, Dario Franceschini li contatta uno a uno. Fioroni non sa se ridere o piangere: «Quando mai è stato convocato un incontro simile quando Bindi e Letta si sono schierati contro Franceschini? Allora l’unità degli ex ppi evidentemente non valeva, ora stranamente sì».
Le pressioni sono fortissime. Si comincia con l’accusa di tradimento, a cui replica Enrico Gasbarra: «Noi siamo coerenti e stiamo sempre dalla stessa parte, al contrario di qualcuno che per opportunismo si è spostato». Il riferimento è a Franceschini. Si prosegue con il far ventilare a Fioroni l’ipotesi che Bersani, per premiare gli ex ppi buoni che sono passati con lui, possa nominare come responsabile dell’organizzazione Sergio D’Antoni. Mettere in un posto chiave l’ex sindacalista della Cisl significa cercare di svuotare il pacchetto di consensi cattolici di Fioroni. Si finisce con la più forte arma di pressione: le candidature. Visto che si andrà alle elezioni con l’attuale legge elettorale sarà Bersani a decidere chi mettere in lista e chi invece bocciare. Questo discorso viene fatto in modo nemmeno tanto velato a molti ex ppi. Nell’offensiva che si è scatenata è lo strumento più efficace. E infatti le firme al documento che in teoria dovevano essere 80, potrebbero essere di meno. «Si vuole spaventare la gente — dice Fioroni —, ma che Pd è un Pd che mette paura, invece di essere un partito aperto dove si discute normalmente?».
Già, che Pd è? Se lo chiede più di un esponente vicino all’ex segretario. E il desiderio di costituire dei gruppi parlamentari autonomi aumenta. Anche perché adesso le parti si sono rovesciate. Prima erano i veltroniani a volersene andare, ora sembra quasi che siano gli altri a creare le condizioni perché se ne vadano. «Eppure io non ho rotto le scatole a nessuno», si lamenta l’ex segretario. Non la pensa così Bersani, che voleva correre da premier, ma che adesso quasi certamente non potrà più farlo. E ormai nel partito è lotta senza quartiere contro i veltroniani e gli ex popolari di Fioroni.
Corriere della Sera 17.9.10
Da rifare la procedura per Sgarbi sovrintendente
di Pierluigi Panza
La Corte dei Conti ha eccepito sull’iter seguito dal ministero per i Beni culturali per portare alla nomina di Vittorio Sgarbi a sovrintendente del Polo museale di Venezia. La Corte non ha contestato i titoli di Sgarbi a ricoprire il ruolo, bensì la procedura: per la Corte si sarebbe dovuto prima fare un concorso di pubblica evidenza per i candidati interessati al ruolo. Specie i candidati «interni». Poi ricorrere all’esterno con i requisiti richiesti. Dunque, dopo tre mesi dal suo insediamento in Laguna, tutto è da rifare. Almeno formalmente. Perché, dal canto suo, il ministro ha già telefonato ieri al critico ferrarese ribadendogli la fiducia e compiacendosi del fatto che la Corte non abbia discusso il suo merito e i suoi titoli per ricoprire il ruolo. Il ministero fa saper di aver preso atto e deciso di voler procedere rapidamente alla regolarizzazione della nomina di Sgarbi, seguendo le indicazioni della Corte dei Conti sul piano procedurale e della legittimità formale. Ma per «regolarizzare» bisognerebbe passare dalla valutazioni anche degli «interni» interessati a ricoprire il ruolo, e per fare tutto questo ci vorranno, in teoria, un concorso e almeno 20-30 giorni di iter. Durante i quali la sovrintendenza al polo museale entrerà in una sorta di «vacanza». Sgarbi, nonostante le minacce anonime ricevute, appare contento. «Io ne esco a testa alta», afferma, «perché la Corte ha totalmente confermato la mia legittimità nell’incarico, discutendo soltanto quella della procedura adottata dal Mibac per la nomina. Adesso spetta al ministero mettere a posto le carte e la telefonata di Bondi era proprio per confermarmi che lo faranno. Restano da chiarire — ha concluso — i tre mesi di attività che ho svolto senza ricevere lo stipendio». Secondo Sgarbi, il ministero potrebbe scrivere alla Corte dichiarando di voler procedere alla nomina di un esterno e di averlo già individuato, senza stare a procedere a concorso. Ma su questo valuteranno gli avvocati del ministero. Nei tre mesi d’azione alla sovrintendenza veneziana, Sgarbi rivendica l’apertura di Palazzo Grimani e l’incremento delle visite alla Ca’ d’Oro.