Repubblica 24.2.07
Appello shock dell'erede al trono Naruhito per la moglie Masako affetta da depressione
"Giapponesi, vi prego aiutate la principessa"
"Mia moglie si sta curando, le serve la vostra comprensione"
Mai un membro della casa imperiale si era rivolto al popolo da pari
di Renata Pisu
L´erede al Trono del Crisantemo, il principe, Naruhito, ieri ha squarciato il velo di riservatezza che ha sempre protetto la famiglia imperiale nipponica: nel corso di una conferenza stampa svoltasi in occasione del suo quarantasettesimo compleanno, ha pregato il popolo giapponese di dimostrare comprensione nei confronti della sua sposa Masako, la quale "è affetta da una grave forma di depressione, ma sta riprendendosi, lentamente, si sta curando, la psicoterapia alla quale si è sottoposta sembra giovarle".
Naruhito si è rivolto ai sudditi come un pari si rivolge a dei pari, implorandone l´indulgenza con parole semplici, non ricorrendo al linguaggio aulico in genere usato dai membri della famiglia imperiale. Sono corsi brividi lungo le schiene dei funzionari della Agenzia dell´Imperial Casa i quali non si aspettavano che il Principe ereditario osasse tanto, cioè portasse clamorosamente a conoscenza di tutti il fatto che la Principessa soffre di quella che per la mentalità conservatrice giapponese è la più ignominiosa della malattie, la malattia mentale. La Principessa Triste, così viene definita Masako, ora rischia di passare alla cronaca, se non alla storia, come la Principessa Pazza, un´onta per la dinastia più antica del mondo che in un Giappone in fase di mutazione, fatica a trovare una propria linea di condotta. Il Giappone era ancora fino a pochi anni fa, un paese dove la psicanalisi non veniva accettata come terapia per risolvere i nodi esistenziali del paziente ma, quando vi si faceva ricorso, serviva a "riadattarlo" all´accettazione delle convenzioni. Ora non è più così, anche se questa è ancora la mentalità prevalente. Per giustificare le "stranezze" di Masako, il fatto che per tre anni non fosse mai apparsa in pubblico, l´Agenzia dell´Imperial Casa aveva infatti accennato a "disturbi di adattamento", e la stampa si era sbizzarrita in pettegolezzi e spesso fondate illazioni sulle pressioni alle quali era continuamente sottoposta per il fatto che non generasse un figlio. Sembra che le sue telefonate venissero tutte controllate, che non le fosse permesso di frequentare gli amici e colleghi di un tempo - Masakoè diplomata a Oxford e era, prima delle nozze, diplomatica di carriera - che la sua vita fosse quella di una condannata agli arresti domiciliari all´interno del Palazzo Imperiale, sorvegliata a vista da una suocera, l´Imperatrice Michiko, come Masako una borghese, che a sua volta era stata vittima del suocero, quell´Hirohito che ancora, nel 1945, si credeva un essere divino.
Poi, quando cinque anni fa, Masako diede al mondo il tanto desiderato erede, nacque una femmina. Si parlò allora di cambiare la costituzione, di permettere l´ascesa al Trono del Crisantemo di una donna, la piccola Aiko, e sembrò che la Principessa Triste sorridesse. Ma quando nel settembre dell´anno scorso, la cognata di Masako, moglie del fratello minore di Naruhito, mise al mondo un maschio, non si parlò più di revisione della costituzione, il maschio c´era, il Trono del Crisantemo era salvo. Non era però salva Masako. Ancora cattiverie, ancora chiacchiere su una sua presunta rivalità con la principessa Kiko, madre del futuro imperatore, le due figure di donne contrapposte, una esaltata, Kiko, perché non interessata alla sua personale felicità ma tutta dedita al senso del dovere: dare un erede al Trono, anche se già era arrivata alla quarantina. L´altra, Masako, instabile, caratteriale, troppo "cosmopolita", quindi non "vera giapponese", troppo moderna, troppo - come ha ripetutamente scritto la stampa giapponese dedita al gossip - simile a Lady Diana, anche se di suoi amori extra-coniugali mai si è parlato e mai ci sono stati. Disastroso forse anche il suo rapporto con il marito, il timido Naruhito, incapace di fecondare la sposa, al punto che nella biografia del giornalista australiano Ben Hills, appena uscita e intitolata "Principessa Masako, prigioniera del Trono del Crisantemo" si dice chiaramente che Masako, sottoposta a lungo a pesanti cure ormonali, alla fine ha dovuto far ricorso all´inseminazione artificiale. Altra onta, altra vergogna per la dinastia imperiale nipponica, e non stupisce che il libro di Ben Hill sia stato proibito in Giappone dove non vige nessuna censura. Comunque, pare che il seme fosse quello di Naruhito, erede al trono, uomo che Masako non amava e al quale disse tre volte di no prima di essere costretta a accettare di entrare in un´anacronistica dimensione, quella dell ‘Impero del Sol Levante. Sembra che abbia accettato soltanto dopo che Naruhito le giurò che l´avrebbe sempre protetta. E ora Naruhito si è rivelato il miglior amico e protettore di Masako, ha mantenuto fede alla promessa svelando la verità.
Repubblica 24.2.07
GRAMSCI LO STRANIERO
Ormai ignorato in Italia, è studiato nel resto del mondo. La sua fortuna a settant'anni dalla morte
Intervista a Joseph A. Buttigieg su un classico assai presente nella cultura internazionale
Quasi scomparso da noi, negli Usa è la bestia nera della destra
I "subaltern studies" dall'India al Brasile, dall'Africa alla Cina
di Simonetta Fiori
Gramsci, chi era costui? Nel settantesimo anniversario della morte (27 aprile 1937), il profilo di un classico del Novecento, l´autore che Benedetto Croce acclamò come «patrimonio di tutti», appare piuttosto sfocato se non totalmente oscurato, almeno nel paese che gli ha dato i natali. Ed è questo il primo paradosso nel trarre un bilancio della sua fortuna: oggetto di accurati studi in tutto il mondo - dall´Australia a Israele, dagli Stati Uniti all´India, dal Giappone al Brasile -, tuttora bestia nera dei polemisti conservatori nordamericani, in Italia la sua immagine appare un po´ impolverata, un busto ammaccato ormai da tempo riposto in soffitta, salvo restauri e lucidature dell´ultima ora, quando proprio non se ne può fare a meno. È quel che in fondo accade in questo settantennale, in un tripudio di iniziative promosse dall´Istituto-Fondazione Gramsci, opportunamente destato da una protratta letargia (vedi box qui sotto).
Anche nel linguaggio politico, il lessico gramsciano talvolta rimbalza nella sua versione caricaturale (le "casematte" evocate dall´inquilino di Arcore o "la guerra di posizione" annunciata dall´inventore del mito padano). Mentre a sinistra dopo una stagione di feroci lotte su letture opposte e contrarie (Gramsci comunista o critico ante litteram del comunismo? Gramsci liberaldemocratico o cominternista?) la rimozione appare diffusa o la rievocazione generalmente pasticciata, con rare eccezioni. Eppure l´Italia può vantare una famiglia di gramscisti nobili, discesa dal decano Valentino Gerratana. Non sono mancati negli ultimi anni contributi importanti come il volume postumo di Antonio A. Santucci (Sellerio) o il fondamentale Gramsci storico di Alberto Burgio (Laterza), insieme a Le parole di Gramsci a cura di Fabio Frosini e Guido Liguori (Carocci), animatore quest´ultimo della vivace sezione italiana dell´International Gramsci Society, la rete che raccoglie i massimi specialisti del mondo. Recenti anche i saggi di Chiara Daniele ed Angelo d´Orsi. Ma è come se si trattasse di una comunità conventuale, operosa e dedita, ma sostanzialmente separata dal dibattito pubblico. Sacerdoti un po´ eccentrici di un classico ingiustamente condannato alla muffa o talvolta improvvidamente rianimato da talenti romanzeschi che ne riscrivono la morte (Massimo Caprara arrivò a ipotizzarne il suicidio) o invocano fantasiose carte occultate dal perfido Togliatti (Il Giornale qualche settimana fa).
Gramsci dimenticato? Se il suo profilo politico appare inesorabilmente estinto insieme alla storia del comunismo italiano e internazionale, non esiste forse un Gramsci intellettuale da continuare a interrogare? Il nostro paese sembra smentire la profezia di Hobsbawm che, solo qualche anno fa, citava Gramsci come l´unico pensatore marxista sopravvissuto alla chiusura nei ghetti dell´accademia. «Un classico italiano generalmente ignorato in Italia», dice ora Joseph A. Buttigieg, figura di massimo prestigio dell´International Gramsci Society (ne è il segretario) e traduttore americano dei Quaderni. «E dire che per un quarantennio - dalla prima edizione delle Lettere nel 1947 fino all´89 - è stato una presenza molto vitale nel dibattito pubblico e nelle correnti culturali italiane. Ricordo che ancora negli anni Ottanta ci si chiedeva se Gramsci sarebbe diventato un classico. Il fatto è che ovunque lo è diventato, e si continua a dialogare con lui. Mentre in Italia - con la sola eccezione dei gramscisti della Igs - appare per lo più consegnato al museo dell´antichità».
Professor Buttigieg, dove le appare più forte la presenza di Gramsci nel mondo?
«Direi nel campo dei cultural studies, una corrente di studio ispirata inizialmente dagli scritti di Raymond Williams e Stuart Hall, oggi diffusa in tutto il mondo anglofono. Il concetto chiave è quello gramsciano dell´egemonia, del potere culturale».
Il consenso ricercato sul terreno della cultura.
«Nelle sue analisi dello Stato moderno Gramsci mostrava che il potere dei governanti non è basato sulla capacità coercitiva dello Stato ma piuttosto sulla capacità di coltivare il consenso dei governati. Il consenso è creato appunto sul terreno della cultura. Allora per capire uno Stato moderno non basta studiare i partiti politici e la struttura economica, ma è necessario analizzare quell´insieme di fenomeni che Gramsci chiamò "l´organizzazione della cultura": la scuola, le chiese, i giornali, le riviste, il cinema, il romanzo d´appendice. Solo in questi ultimi anni i cultural studies hanno cominciato a destare un certo interesse anche in Italia».
Ma c'è una relazione con i subaltern studies, altro campo d'influenza gramsciana?
«Questi nascono da un´altra riflessione di Gramsci, raccolta nel Quaderno 25: Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni. I primi studi uscirono a Calcutta nei primi anni Ottanta, su iniziativa di Ranajit Guha. Nel decennio successivo un altro gruppo di studiosi ha esteso la riflessione di Guha e di altri teorici asiatici all´America Latina. Il campo di indagine ha continuato ad allargarsi: numerosi sono i saggi che trattano della subalternità in chiave gramsciana lungo territori diversissimi, dall´Africa alla Cina, dall´Irlanda alla Palestina. Molto spesso le teorie sulla subalternità si sono intrecciate con gli studi su colonialismo e post-colonialismo. Tra i massimi studiosi che hanno usato categorie gramsciane in questo campo va ricordato l´americano palestinese Edward Said».
In tutte le maggiori università americane, ma anche in Cina o in America Latina, non manca qualche corso sui cultural studies o postcolonial studies.
«Sì, una moda molto contagiosa. È curioso che nessuna di queste correnti sia nata in Italia».
E nel campo delle scienze politiche, qual è il riferimento a Gramsci più frequente?
«Gramsci è considerato uno dei maggior teorici della società civile, categoria oggi assai studiata nel mondo anglosassone. Egli più di altri pensatori ci fa capire che non è un terreno completamente neutro, come invece sostiene il liberalismo classico, il quale teorizza una netta separazione tra il governo e la società civile. Le note gramsciane sulla formazione dell´opinione pubblica e sulle connessioni tra società civile e società politica - scritte settantacinque anni fa - sono valide tuttora».
Colpisce che negli Stati Uniti Gramsci sia così presente nel dibattito pubblico.
«Sì, in forme talvolta minacciose. Recentemente il suo nome è riecheggiato insieme a quello di Hugo Chavez, la nuova bête noir dell´amministrazione Bush. Per certi pubblicisti conservatori il fatto che il leader venezuelano citi Gramsci nei suoi discorsi è una conferma della pericolosità dell´autore dei Quaderni. Che cosa leghi Gramsci a Chavez è tutto da dimostrare, ma il clima intorno al pensatore sardo è quello evocato da Michael Novak in un celebre articolo del 1989: The Gramscist are coming, ovvero le orde barbariche di Serse alle porte... ».
Gramsci come l´uomo nero?
«Più o meno. È interessante l´uso che ne viene fatto nei media più popolari. Il più noto commentatore conservatore alla radio, Rush Limbaugh, ha scritto in uno dei suoi libri che Gramsci è "l´ultima speranza per chi odia l´America". Secondo Pat Buchanan, candidato alle elezioni del Duemila, la minaccia d´una rivoluzione gramsciana è un pericolo reale. Un´immagine muscolare dell´autore delle Lettere affiora anche nei saggi prodotti recentemente dall´Heritage Foundation, una sorta di "think tanks" della destra. Una "Grasmscifobia" diffusa, che rivela la confusione ideologica della destra statunitense».
In compenso Amartya Sen, economista premio Nobel, sceglie Gramsci come oggetto d´indagine.
«Sì, quattro anni fa è comparso sul Journal of Economic Literature un suo importante saggio che mette in relazione i Quaderni con Wittgenstein e Sraffa. È questo un altro aspetto di Gramsci che va acquistando rilievo negli studi internazionali: la sua riflessione sulla lingua e sul rapporto tra lingua e politica. Naturalmente quello gramsciano è l´approccio d´un materialista storico: la prassi linguistica non può essere analizzata indipendentemente da ogni altra attività sociale. Esiste oggi un´amplia bibliografia - tra Canada, Stati Uniti e Inghilterra - che traccia un raffronto tra Gramsci e Michail Bachtin, Walter Benjamin, la Scuola di Francoforte».
A fronte di questi fermenti, lei come spiega la sua rimozione in Italia?
«Direi che da voi Gramsci è sostanzialmente ignorato, specie nel dibattito pubblico. Intendiamoci: è di massimo valore il lavoro degli specialisti italiani della Igs - penso soprattutto al grande progetto del Lessico gramsciano - ma è altrettanto indubbio che questo lavoro finisca per interessare solo poche persone. Ed è un peccato, perché il testo gramsciano ha ancora da molto da dire, sul terreno della società civile come su quello del potere culturale. Forse Gramsci non è più ascoltato perché il clima prevalente è ostile alla serietà, al pensiero sobrio, alle analisi intellettualmente rigorose. Mi auguro che questo anniversario serva a correggere una colpevole distrazione».
Le iniziative per l´anniversario: saggi e convegni
dai Grimm a Marx le traduzioni inedite
NUMEROSE le iniziative programmate per l´anno gramsciano. In aprile è annunciato il primo volume dell´Edizione Nazionale delle opere di Antonio Gramsci (un progetto messo in cantiere nel 1990 e vivacemente discusso all´interno della cittadella gramsciana). Si tratta del Quaderno di traduzioni (1929-1932), a cura di Giuseppe Cospito e Gianni Francioni, con le traduzioni dal tedesco, dal russo e dall´inglese (quasi interamente inedite). I testi tradotti sono di natura eterogenea, dalle favole dei fratelli Grimm alle pagine di Marx. Tra i libri in preparazione, un lavoro di Chiara Daniele da Feltrinelli e il primo volume dell´Annuario gramsciano diretto da Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru presso Il Mulino. Numerosi i convegni, a cominciare dal seminario internazionale dell´Istituto Gramsci il 27 aprile: Gramsci, le culture e il mondo. Dal 2 al 5 maggio si terrà in Sardegna un convegno itinerante della International Gramsci Society. Previsto in primavera alla Normale di Pisa un seminario su Gramsci settant´anni dopo. Dal 4 al 6 ottobre appuntamento a Berkeley, con Gramsci´s Theory of intellectuals in North America. Di nuovo a Sassari in autunno, con il seminario La lingua / le lingue di Gramsci. In novembre un convegno a Buenos Aires. Si chiude a Bari il 13 dicembre con Antonio Gramsci nel suo tempo.
Repubblica 24.2.07
Anticipazioni. Un incontro dopo il crollo del comunismo
Il pianto di mio fratello Maurizio
di Giovanni Ferrara
Lui volse il viso per guardarmi Teneva in mano un fazzoletto bagnato e nascose il viso
È finito tutto, diceva, una vita intera dietro a questo mondo. Non c´è rimasto niente
Mi chiamò mia cognata Marcella Vieni, disse, forse solo tu puoi parlargli, ti prego
Uscirà fra qualche settimana Il fratello comunista (Garzanti), l´ultimo libro di , una specie di testamento spirituale. Ne anticipiamo un brano
Un pomeriggio d´estate, seduto al tavolo presso la finestra che dà sulla strada e sul porto e, oltre il molo, sul mare disteso fino ai Monti della Tolfa, scrivevo e leggevo tranquillo. Alzavo ogni tanto gli occhi dalle scritture che avevo davanti, e guardavo lo specchio d´acqua del porto, immobile come sempre, il paese vecchio, la Rocca Spagnola. (...) «Giovanni!», sentii chiamare dalla strada. Non vi badai subito, concentrato com´ero, ma poi il richiamo si ripeté, non più forte, forse anzi più basso e ne fui attratto. Riconobbi la voce di Marcella, mia cognata. In quei giorni, mio fratello Maurizio e sua moglie Marcella erano a Porto Ercole, nella loro casa vicinissima alla nostra. Ci si vedeva praticamente ogni mattina, quando s´andava al mare insieme, alla Feniglia o alla Giannella, da Marisa o da Ulisse. M´alzai e m´affacciai alla portafinestra. (...) Non mi lasciò il tempo di chiedere e disse: «Per favore, vieni da Maurizio, forse solo tu puoi parlargli, ti prego». Si voltò, risalì lentamente la brevissima strada fino al suo cancello, e sparì (...).
Dovevo parlare con Maurizio, ma perché? Com´era possibile che Marcella chiedesse un aiuto per parlare con Maurizio - loro due che da più di cinquant´anni, dagli incontri furtivi nella Roma clandestina dei tedeschi e dei fascisti, avevano sempre parlato, e talvolta, pensavo, magari anche gridato, come accade nei legami sorti dall´amore, lunghi tanto da tendersi, inevitabilmente, e torcersi e annodarsi fin quasi allo strappo, poi sempre evitato? Eppure, mentre rientravo nella stanza e m´avviavo alla porta di casa, mi pareva come se Marcella avesse, come si dice, gettato la spugna. Ma quali argomenti potevo avere io, che valessero più dei suoi? (...) Per rasserenare Maurizio con le parole, non credevo d´essere la persona più adatta. Forse per qualche caso insignificante, in cui la mia cosiddetta saggezza poteva giovare. Però quella chiamata non era rivolta a una saggezza quotidiana, sembrava piuttosto dire e quasi imporre: «Ora tocca a te».
Entrai nella cucina. Marcella era sparita, sentii i suoi passi al piano di sopra. Maurizio doveva essere nella stanza accanto, "il salotto", la stanza con lo scaffale grande, il televisore, il divano-letto le poltroncine e la poltrona grande di legno, con lo schienale mobile, detta "la poltrona dello zio Antonio", un resto delle varie minime eredità lasciate dai tanti fratelli e sorelle di nostra madre (ora, quella poltrona l´ho io, è sempre a Porto Ercole, resiste bene al tempo).
Maurizio, era lì, sulla poltrona di zio Antonio. Volse il viso per guardarmi, aveva gli occhi rossi e le guance umide, teneva in mano un fazzoletto bagnato e ripeteva il gesto che, ricordai, faceva quando morirono nostro padre e poi nostra madre, e lui piangeva: passava il fazzoletto pieno di lacrime appallottolato dalla mano destra alla sinistra e poi dalla sinistra alla destra, e ancora e ancora, e così via. Chiamò il mio nome, a voce bassa, poi riprese a guardare davanti a sé, chinando un poco il capo, come per nascondere il viso.
Sedetti sulla poltroncina accanto al televisore spento, e stavo zitto. Lui mi guardò con occhio assente, abbozzò un sorriso ma non diceva nulla. Fu quello un momento del tutto nuovo, per me. Non m´ero mai trovato accanto a mio fratello così, in silenzio, guardando lui che piangeva tacendo. (...) A tratti, nel suo silenzio, Maurizio mi fissava con uno mite sorriso come d´imbarazzo. Forse non per i pensieri che lo tormentavano e non si decideva a rivelare, ma piuttosto per quel pianto che rivelava una stanchezza infinita, quasi la rinunzia al portamento virile che in lui tanto spesso era imperioso. Sparita l´eterna gioventù del suo spirito testardo e coraggioso, nella catastrofe d´una vecchiaia morale e fisica piombata su di lui inesorabile. Appariva esaurito, quasi non avesse più parole, come se il colloquio con Marcella, forse lungo e certamente agitato, lo avesse stremato e ammutolito. Doveva parlare con me ma riusciva solo a piangere e, a tratti, frenando il pianto, a sospirare come se riflettesse e tornasse a riflettere e riflettere ancora, ostinatamente e invano. Non sapevo che fare, che dire, poi un pensiero mi colse, semplice, nudo: «È crollato». Ma in che senso, perché? Con uno sguardo lui mi capì, e con voce sommessa ma chiarissima disse: «Caro mio, è tutto finito, finito».
Tacemmo ancora. Lui sembrava fissare un quadro appeso sopra il televisore, una litografia che aveva portato dalla Russia quando tornò dal suo lavoro d´inviato dell´Unità a Mosca. Una litografia che in certo senso ricordava quel famoso disegno di Steinberg, dove in prospettiva è rappresentata l´intera America, dalle vie di New York fin laggiù laggiù, la Cina. Ma questa nella sua ingenuità popolare aveva ben altro senso: si vedeva tutta l´Urss, campagne e città, monti, fiumi e boschi, ciminiere e fabbriche, campi di grano e laghi, il mare intorno e lontano e sopra tutto un quadrimotore Tupolev che sorvolava trionfante l´intera Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. La sintesi d´un mito della terra e della Rivoluzione, della tradizione e della modernità. Una litografia minuziosa e allegra, con i suoi colori chiari e una sorta d´ottimismo - non un solo angolo oscuro, non un solo successo proletario trascurato. Ero abituato da anni a vedere quell´immagine strana e familiare, senza quasi più notare in alto, tra i cieli azzurri e di bianche nuvole, in un ovale intrecciato di frutta e fiori, i tre profili: Marx, Lenin, Stalin.
«È tutto finito, tutto cancellato, non resta niente, niente di niente», così disse. S´asciugò di nuovo gli occhi, ormai il gesto era automatico, non aveva più lacrime. «È stato tutto inutile», riprese. «Non ha significato niente, non c´era niente che valesse la fatica... tutta la vita... una fatica inutile... Marcella dice che non è vero, non è del tutto vero, ma sa benissimo che non è così, che è vero, è inutile discutere. Tutta una vita, sessant´anni dietro a questo lavoro, a questo mondo, a questo scopo, non c´è rimasto niente. Anzi, non c´era niente neanche prima, forse. Io l´ho sentita venire, questa fine, è una specie di morte, ma soltanto ora, non so perché, ho visto le cose in faccia. Ma è peggio della morte, quella riguarda le persone, o anche milioni di persone, ma sempre persone, questa è come la morte del significato di ogni cosa, ogni cosa ha perso il suo significato, restano solo quelli là, quelli che hanno sempre avuto ragione! Non è che prima avessero torto e poi sono riusciti ad aver ragione, hanno sempre avuto ragione, noi abbiamo sempre avuto torto, abbiamo sbagliato tutto fin dall´inizio, fin dal ´17!».
È strano, sono passati almeno dieci anni, il fratello Maurizio, il mio fratello comunista è morto, e così Marcella, la mia cognata comunista, tutto quel mondo è perduto, forse non interessa più nessuno e io stesso ne sono ormai quasi dimentico. Eppure, ricordo tutto di quel pomeriggio, quasi ne avessi fatto un verbale, e ora lo rileggessi dentro di me. Come se quella conversazione - niente di straordinario, in fondo, cose scontate, tipiche della tragica banalità che è del nostro tempo - abbia segnato la fine non soltanto della sua storia, ma in qualche modo anche della mia.
il Riformista 24.2.07
Vescovo ratzingeriano:
asili nido? Non potetis
I piani del governo per costruire più asili-nido sono «micidiali per i bambini e per le famiglie»; le donne vengono trasformate in «macchine da riproduzione» e la politica del ministro della Famiglia non ha nulla a che vedere con il bene dei bambini, ma è «volta innanzitutto a reclutare giovani donne come forza lavoro di riserva per l’industria». Toni simili, da parte di un vescovo cattolico, in Germania non si erano mai sentiti e un attacco tanto pesante al governo non si era mai visto. La chiesa bavarese, notoriamente assi vicina a papa Ratzinger, sembra intenzionata ad adottare i metodi di un nuovo, micidiale Kulturkampf contro lo stato laico.
Si capisce, perciò, lo stupore (e la preoccupazione) con cui sono state accolte le dichiarazioni esplosive del vescovo di Augusta Walter Mixa, uno dei massimi esponenti delle gerarchie ecclesiastiche del meridione tedesco. Tanto più che questa furia era indirizzata contro la pia Ursula von der Leyen, la ministra più “cristiana” del gabinetto guidato dalla cristiano-democratica Angela Merkel. La ministra che, sia detto per inciso, meno può essere accusata di volere il male dei bambini, visto che ne ha messi al mondo ben sette.
L’attacco del vescovo Mixa ha seguito a ruota una sequela di polemiche che si erano già abbattute sul programma messo a punto dal ministero della Leyen, che era stata accusata dalla destra più conservatrice di insistere troppo nell’intenzione di sottrarre le madri al loro “dovere” di educare i figli in casa. Una polemica decisamente reazionaria, la quale riecheggia però certi scrupoli che sono presenti nello spirito pubblico tedesco a causa del ricordo del nazismo, i cui piani educativi prevedevano proprio la sottrazione dei minori alle famiglie e il loro affidamento a strutture educative statuali. La povera von der Leyen, tuttavia, con la sostanza di questi scrupoli non ha nulla a che vedere. Il suo piano per la realizzazione degli asili-nido (attualmente del tutto insufficienti in molti Länder tedeschi dell’ovest, proprio per il motivo accennato sopra) è teso semplicemente a rendere più facile la vita alle tante donne che lavorano e non sanno a chi affidare i figli. E tutto si aspettava meno che di diventare il bersaglio di un furibondo tiro a segno che la considera strumento del demonio.
Tanto è apparsa dura e immotivata la sortita del vescovo Mixa che lo stesso capo del gruppo parlamentare della cattolicissima Csu nella dieta bavarese, Joachim Hermann, ha sentito il bisogno di prenderne polemicamente le distanze, richiamando oltretutto alla coerenza coloro i quali, a parole, si dicono favorevoli a politiche che aiutino la famiglia. Con un po’ di malizia, Hermann ha ricordato anche al vescovo Mixa che fra le donne che lavorano e che, per farlo, hanno la necessità di affidare i figli alle strutture pubbliche, ce ne sono moltissime le quali, specie in Baviera, sono al servizio proprio della chiesa e delle organizzazioni cristiane come la Caritas. Assai più duri i giudizi degli esponenti della Spd: il capo dei deputati socialdemocratici bavaresi Florian Pronold ha accusato Mixa di usare toni da «caccia mediatica alle streghe», mentre la responsabile federale per le questioni ecclesiali Kerstin Griese ha invitato la chiesa bavarese a non seguire le rudezze del vescovo di Augusta.
Al di là delle polemiche sollevate dall’incredibile presa di posizione di Mixa, si coglie comunque una preoccupazione più generale della chiesa cattolica tedesca (e un po’ anche di quella evangelica). I rapporti con Roma in materia di politiche della famiglia e di morale sessuale non sono mai stati facili, specialmente per quanto riguarda le comunità ecclesiali di base e quelle, anche ufficiali, della Renania. L’insofferenza dei cattolici più aperti per le chiusure che arrivavano dal Vaticano (per esempio sulla somministrazione dei sacramenti ai divorziati) hanno indotto tensioni e divisioni anche all’interno della Germania, con i bavaresi tradizionalmente più “fedeli” alle direttive romane. Una accentuazione delle intolleranze, come quella segnalata dalla sortita del vescovo di Augusta, potrebbero aprire un conflitto davvero esplosivo.
il Riformista 24.2.07
I dodici bocconi amari che
Rifondazione deve ingoiare
di Ettore Colombo
Il Prc fa quadrato attorno a Prodi al punto da manifestare in nome della prosecuzione del suo governo, domenica prossima, in tutte le piazza d’Italia. Deferisce il senatore dissidente Franco Turigliatto, già espulso dal gruppo, al collegio di garanzia, che dovrebbe deciderne il definitivo allontanamento dal partito. E, soprattutto, manda giù, con molti mal di pancia, tutti e 12 i «punti» usciti dal vertice dell’altra sera con il premier.
La direzione straordinaria del partito, che si è riunita ieri mattina, ribadisce la fiducia al premier e «una collaborazione leale e fattiva» al suo governo. Però l’oggetto del contendere non è l’appoggio al governo, ma i 12 punti. Apertamente, dissentono solo le minoranze, in realtà i dubbi permeano anche pezzi della maggioranza. Per Giordano non ci sono se né ma: riconosce che alcuni temi sono delicati (Dico, Tav, rigassificatori) ma il sì convinto ai 12 punti è frutto di tre questioni cardine (centralità dell’Unione, conferma del governo Prodi, centralità del programma). Poi usa un virtuosismo dialettico: «le modalità d’inveramento le discuteremo nel confronto parlamentare». Eppure molti tra i punti restano controversi, a partire dalla richiesta di metodo del premier, quella di esprimere in maniera unitaria la posizione del governo perché si rischia un deficit collegialità. Lo ammette la senatrice Rina Gagliardi: «i 12 punti sono una piattaforma emergenziale e preannunciano un secco spostamento al centro del governo. In particolare l’ultimo punto nega alla radice il potere di contrattare». Non è l’unico punto di sofferenza, anche se tutti sanno, nel Prc, che dopo Prodi c’è il nulla. O il caos. Quello che non va lo enumera lo stesso ministro Paolo Ferrero, l’altra sera, a caldo, nel corso della trasmissione Controcorrente su Sky. «Lotta alla precarietà, all’evasione e alla povertà, che sono elementi di società importanti, non compaiono, nello schema i livelli di emergenza sociale restano sullo sfondo». Poi, ieri, precisa: «Il programma elettorale dell’Unione non è cancellato dai 12 punti». Giordano tira un sospiro di sollievo: «Ferrero è stato equivocato».
Il responsabile economico Maurizio Zipponi si attesta sulla linea di difesa che «fa fede il programma né potevamo scriverne uno nuovo. Lotta alla precarietà e al lavoro nero e sommerso sono lì e in Finanziaria, poi per imporli serve vincere nei rapporti di forza reali». Ma il sottosegretario allo Sviluppo economico Alfonso Gianni chiede chiarimenti sul punto 7: «riduzione dei costi della politica va bene; della spesa sociale no, vorrei almeno capirne di più. Abbiamo perso consensi proprio sulla politica economica e qui rischiamo di più, nel rapporto con il nostro popolo». Poi c’è il problema che «il governo è caduto da destra, non da sinistra. All’allargamento a destra ci dobbiamo stare, ma come?». Giordano difende con puntigliosità l’accordo, i capigruppo di Camera e Senato (e colonnelli in seconda del Prc) Migliore e Russo Spena fanno quadrato. Per Migliore, che pure avrebbe chiesto «più attenzione» al punto della spesa sociale, «non c’è nessuna sofferenza: i 12 punti sono una estrapolazione del programma e la nostra adesione è totale. Nello specifico, i Dico sono già incardinati in Parlamento, la parte sociale è nel programma, sulle pensioni i segnali sono positivi. Dimostreremo che è possibile governare con una maggioranza plurale, l’unica possibile, questa». Russo Spena ammette che «sulla Tav vedremo le soluzioni tecniche, il punto va approfondito, mentre sulle pensioni c’è l’accento su pensioni basse e giovani, per il resto non ci sono punti di sofferenza, nemmeno sulla politica estera, dove si richiamano diversi emendamenti già presentati dal Prc, a partire dalla conferenza di pace». Russo Spena garantisce sulla compattezza dei suoi 26 senatori, poi con Migliore (e naturalmente Giordano) sale al Quirinale. Dove viene confermata al Colle «la totale fiducia del Prc al governo Prodi e la contrarietà a qualsiasi altra forma di governo, istituzionale o di larghe intese», ma soprattutto è sicuro che «la maggioranza sarà autosufficiente e completa sia alla Camera che al Senato, i numeri ci sono», dice Giordano.
Intanto però i senatori sono diventati uno in meno perché Turigliatto entrerà nel gruppo misto: per ora «sospende il giudizio», sulla fiducia, anche se difficilmente lui e il suo compagno di corrente (Sinistra critica) Salvatore Cannavò, che - annuncia - assumerà su di sé le stesse decisioni che graveranno su Turigliatto fino all’espulsione, negheranno la fiducia a Prodi. La chiamano «pausa di riflessione», per ora, ma ribadiscono il loro no secco sull’Afghanistan e rischiano di finire ai margini, malissimo tollerati, se non fuori, entro breve, dal Prc, con un voto contrario sulle missioni, anche se Cannavò annuncia una «campagna di solidarietà» a Turigliatto. Certo è che, dalle minoranze, la sensazione che i 12 punti siano «un arretramento secco», rispetto al programma, è netta. Claudio Grassi, leader dell’altra e più grande minoranza, l’Ernesto, che pure non vede alternative alla riconferma di Prodi ed ha criticato il comportamento di Turigliatto, giudica i 12 punti «un passo indietro» rispetto al programma su vari temi (accentramento di poteri in mano al premier, Tav, pensioni) e ammette che «il prezzo da pagare sta diventando alto», ma riconosce che «un quadro più avanzato di questo non è dato». Grassi, tra gli iniziali dissidenti, voterà per Prodi, come pure farà «per impedire il ritorno delle destre più antipopolari e pericolose d’Europa» un altro irriducibile, il senatore Fosco Giannini, che pur ribadendo le sue «critiche profonde» al governo Prodi su politica economica e politica estera fa capire che si adeguerà alle decisioni del suo gruppo. Ma sull’evoluzione (in peggio) dei rapporti interni è netto: «L’ipotesi del congresso di Venezia in base alla quale i movimenti avrebbero spostato a sinistra l’ago della bilancia di un governo con noi dentro non si è verificata. I movimenti non ci sono e il partito vive un’impasse terribile». A proposito di movimenti, si fa sentire anche la voce, nettamente critica, di Giorgio Cremaschi, leader della sinistra interna alla Cgil e iscritto al Prc: «dalla guerra in Afghanistan alla base di Vicenza alla Tav all’innalzamento dell’età pensionabile alle privatizzazioni, con i 12 punti il governo assume orientamenti che contrastano profondamente con le richieste di tanti movimenti di questi anni. Così si apre una fase di conflittualità a livello sociale». Per ora, però, Vicenza è già un ricordo, la sindrome del ’98 insegue il partito fino ai piani più alti (Bertinotti compreso) e per Giordano «il popolo del Prc» vuole solo che «il governo Prodi vada avanti», 12 punti compresi. La sinistra radicale spera che ci sarà tempo per limarli, migliorarli e soprattutto farli digerire, da quel popolo. Come scriveva ieri su Liberazione Russo Spena, la linea è una sola: «non svendere nulla, non dimostrare inutili rigidità».
l'Unità 24.2.07
I Dico dell'anno 400
di Gian Carlo Caselli
Scherza coi fanti e lascia stare i santi. So bene che queste parole sono un condensato di prudenza e saggezza. So anche che in un clima di forte tensione su «Pacs», «Dico» e «unioni di fatto» (caratterizzato da ferme prese di posizione d’Oltretevere e preoccupate reazioni dei difensori della laicità dello Stato) affrontare temi così arroventati con propositi di leggerezza e distacco - senza indossare questa o quell’altra armatura - può essere rischioso per le tante suscettibilità in agguato. Tutto vero. Per cui fin da subito mi pento e mi dolgo se mi permetto di dire che non so se esista davvero una lobby contro la famiglia nel riconoscere le coppie di fatto. Ma se mai esistesse, la si potrebbe ricollegare ad un autorevole precedente storico. Un singolare precedente: quasi un cavallo di Troia in terra... fidelium. Perché si tratta del canone di un Concilio. Per la precisione il canone 17 del primo Concilio di Toledo (anno 400 d.C.) Dunque, un precedente da sgranare tanto d'occhi, da non crederci: perché sono stati addirittura dei Vescovi in Concilio a stabilirlo. Nel canone 17 del primo Concilio di Toledo si legge: «Si quis habens uxorem fidelis concubinam habeat, non communicet: ceterum is qui non habet uxorem et pro uxore concubinam habeat, a communione non repellatur, tantum ut unius mulieris, aut uxoris aut concubinae, ut ei placuerit, sit conjunctione contentus; alias vero vivens abijciatur donec desinat et per poenitentiam revertatur». È un latino facile. In sostanza dice che la convivenza sessuale è lecita soltanto quando sia con una sola donna. Ma precisa che la convivenza sessuale con una sola donna è consentita (e perciò non comporta scomunica) non solo quando si tratta di «moglie», ma anche quando si tratta di «concubina tenuta come fosse moglie». In altre parole, per la Chiesa del 400 c'erano alcune unioni di fatto, non costituenti matrimonio, considerate legittime perché sostanzialmente assimilabili al matrimonio. Impossibile, ovviamente, trarne insegnamenti vincolanti o anche solo utili per la stagione che stiamo oggi vivendo in Italia. Dopo milleseicento e passa anni tutto cambia. Uomini, leggi, canoni, principi, rapporti fra Stato e Chiesa, dottrine e prassi. La «flessibilità» di una quindicina di secoli fa potrebbe oggi apparire semplicemente anacronistica. Ma ricordarla si può. E chissà che non possa contribuire - anche solo per un attimo - a svelenire il dibattito, preferendo ai toni da guerra di religione quelli di un più pacato confronto. Magari ironizzando sul fatto che in Spagna un po' di «zapaterismo» - si direbbe - sembra aleggiare già nell'anno 400. Addirittura in un Concilio.