Il presidente Fausto Bertinotti annulla la due giorni sul Monte Athos
ROMA La crisi di governo spinge il presidente della Camera Fausto Bertinotti ad annullare il suo viaggio ai Monasteri di Monte Athos, in programma oggi e domani.
«Vista la situazione venutasi a creare con le dimissioni del governo Prodi - riferisce una nota della Presidenza di Montecitorio - il presidente della Camera, Fausto Bertinotti ha annullato il viaggio ai Monasteri di Monte Athos previsto per oggi, 23 febbraio, e sabato».
La visita rientrava in un percorso di approfondimento spirituale iniziato da tempo da parte del presidente della Camera Fausto Bertinotti.
Sarebbe stata una tappa inusuale dopo il lungo e proficuo viaggio in Sudamerica dove Bertinotti ha fatto a suo modo una svolta: contrapponendo Allende a Che Guevara.
l’Unità 23.2.07
Nel gioco dei veti incrociati c’è un primo bersaglio: i Dico
di Andrea Carugati
«I Dico vanno tolti dall’agenda, questo deve essere chiaro e credo sia stato capito». Clemente Mastella liquida così il ddl Bindi Pollastrini sulle unioni di fatto approvato pochi giorni fa dal Consiglio dei ministri. E tocca uno dei temi più delicati di questa crisi che si è aperta a sinistra e che ora si gioca soprattutto al centro. Con i teodem della Margherita, a partire da Enzo Carra, che attaccano la scelta del partito a favore dei Dico: «Come si fa ora a dialogare con i settori cattolici del centro?». L’uscita di Mastella irrita il socialista Boselli, che giudica il ddl Bindi-Pollastrini «una base minima di compromesso» che non si può ridiscutere. Mentre il ds Franco Grillini già pensa di tornare ai testi depositati alla Camera: «Magari verrà fuori una legge migliore di quella modestissima del governo». E l’ex dipietrista De Gregorio annuncia: sostegno al governo se cancella i Dico.
Poche ore dopo il voto del Senato che ha affossato il governo, loro due l’avevano già detto. Franco Grillini e il teodem Enzo Carra, da sponde diametralmente opposte, avevano subito messo in relazione questa crisi con i Dico: il primo a ricordare «lo schiaffo di Ruini» al governo per mano dei senatori a vita, a partire da Andreotti; il secondo a rallegrarsi per l’«affossamento» del mai digerito ddl Bindi-Pollastrini. Ieri il timbro è arrivato dal Guardasigilli Mastella: «I Dico vanno tolti dall’agenda, questo deve essere chiaro e credo sia stato capito. Del resto non è certo il momento di andare allo scontro». Una pietra tombale che fa sorridere Francesco Storace: «Ho avuto una notizia riservata da palazzo Chigi», ha detto, «hanno cambiato il nome della legge: non più Dico ma Dicevo...».
Mastella già fa infuriare il socialista Boselli: «Quel testo è una base di compromesso non più discutibile». Più pragmatico Grillini, che pensa di ripartire dai testi sulle unioni di fatto già depositati alla Camera, così «almeno potrà venir fuori un testo migliore di quello modestissimo del governo: più che sui diritti dei conviventi era sui diritti dei coinquilini».
Affossati anche da Grillini, per i Dico firmati Bindi Pollastrini il futuro appare davvero nero. E sempre più intrecciato con l’esito della crisi. Tanto che l’ex dipietrista Di Gregorio, consultato ieri al Quirinale dal presidente Napolitano, ne ha fatto l’ago della bilancia per un suo assai eventuale rientro nei ranghi del centrosinistra: volontà di «cooperare per la stabilità» in cambio di una «variazione di rotta sulla famiglia e sulle coppie di fatto». Il tema, insomma, si insinua sempre di più in questa partita che, grazie ai “puristi” della sinistra radicale, si è spostata tutta al centro, così come il baricentro di un eventuale Prodi-bis o, ancor più, di un governo istituzionale. Al centro «ci sono contatti», confermano importanti dirigenti della Margherita, da Castagnetti a Soro, «bisogna muoversi, persuadere, fare politica, fare tutto il possibile». Eppure Casini, tra i motivi del suo no a un appoggio a un Prodi bis, cita subito i Dico: «Come si concilia la nostra posizione con quella di questa maggioranza?», si chiede fumando il sigaro nel cortile di Montecitorio. Enzo Carra, teodem della Margherita, un’idea ce l’ha: «Se nelle settimane scorse avessimo avuto un ruolo attivo sui Dico ora saremmo credibili verso i settori cattolici del centro: invece i 60 col loro documento hanno voluto narcotizzare tutto, siamo diventati un partito-Lexotan. E oggi con quale faccia andiamo a chiedere a Follini e all’Udc di unirsi a noi? Ci risponderebbero: “siete state aggrediti voi che eravate dentro, figuriamoci noi...”». Carra chiede a Rutelli un colpo d’ala: «Prenda un’iniziativa al centro, si smarchi, se non li cerchiamo noi nuovi voti al centro chi lo può fare? Purtroppo i 60 hanno portato il partito all’irrilevanza».
Dunque la timida primavera dei diritti civili sembra già colpita da una rigida gelata. E anche il Dc Rotondi, che pure aveva aperto sui Dico, oggi spiega: «Il governo ha sbagliato a presentare un proprio disegno di legge: ha politicizzato la questione, anzi l’ha militarizzata». E così il probabile tramonto del più moderno e “trasgressivo” dei provvedimenti del governo Prodi contribuisce all’«effetto-macchina del tempo» che si respira in Transatlantico. Dove sembrano di colpo cancellati 15 anni di Seconda Repubblica: con le consultazioni al Quirinale partito per partito, dopo anni in cui leader salivano al Colle per Poli, correnti e sottocorrenti che si riuniscono a crocchi ridendo delle disavventure dei vicini di banco, bipolaristi convinti costretti a dichiarare, arrossendo, di voler raccattare singoli senatori dell’opposizione. E ancora: il protagonismo di Andreotti e Cossiga, gli ex Dc che giganteggiano e sorridono, abituati a crisi assai più complesse e assai meno comprensibili per l’opinione pubblica. Come Mastella che ieri si divertiva sul divano di pelle rossa raccontando che in mattinata «mi hanno chiamato dal Senato per dirmi di sbrigarmi che altrimenti si andava sotto». Risate. O De Michelis che ai suoi spiegava: «Ma come fanno a non capire che questo bipolarismo con dentro le ali estreme non funziona? Non siamo mica in Inghilterra! Anche Berlusconi, che pure aveva quella maggioranza che aveva, in cinque anni non è riuscito a fare niente». E allora? Indietro tutta. «C’è chi vuole mettere indietro le lancette dell’orologio e della politica. Noi non lo permetteremo», si sfoga Franco Giordano. Ma forse è tardi.
l’Unità 23.2.07
INGRAO: «Sostenere il governo Prodi per difendere il pacifismo italiano»
ROMA «Sostenere il governo Prodi per difendere il pacifismo italiano nel mondo».
È questo, in sintesi, l'invito fatto da Pietro Ingrao che ha partecipato, insieme a Franco Giordano, ad una affollata manifestazione in un circolo culturale romano. «La sconfitta del Senato - ha detto l'ex presidente della Camera - cade in un momento estremamente delicato e rischia di spostare il baricentro della battaglia che i pacifisti stanno conducendo in tutto il mondo».
Ingrao ha riconosciuto al governo Prodi di avere aperto una «partita nuova» nel campo della politica estera. Ha in più occasioni citato l'articolo 11 della Costituzione contrapponendolo alla «guerra preventiva» inventata e voluta dagli Stati Uniti: «quell'articolo 11 è fatto di lacrime e sofferenze perché è nato sulla tragedia della II guerra mondiale. Gli americani vorrebbero strapparcelo».
Per Ingrao «non bisogna correre il rischio di far tornare Berlusconi al potere perché questo restituirebbe il nostro paese alla pratica della guerra preventiva».
Nel suo appassionato intervento Ingrao ha fatto una «tiratina di orecchie» a Giulio Andreotti: «Mi è sempre stato un po’ antipatico. Al Senato ha fatto un altro colpo gobbo, semmai poi va anche in chiesa a confessarsi. È un personaggio che può anche ingannare. Chissà che calcolo ha fatto, chissà a che cosa gli è servito quel voto».
Un'altra tiratina di orecchie, anche se più benevola, a Massimo D'Alema del quale apprezza l'intelligenza: «Un uomo acuto, molto calcolatore, ma è stato battuto da un furbone democristiano che ha fatto la mossa cruciale al momento giusto». «Credo che D'Alema abbia sbagliato un po’ i tempi, sulla politica estera si è mosso tardi, doveva vedere prima lo scoglio verso il quale il governo stava andando».
Un accenno Ingrao lo dedica al senatore Sergio Pininfarina: «Io con gli imprenditori c'ho avuto sempre a che fare, come con quel tizio che mi chiedeva sempre “che ti serve qualche cosa?”». Poi parla di Gianfranco Fini, che ha partecipato a “Porta a porta”: «lo guardavo in tv e un po’ lo compativo. È proprio un pagliacciotto».
l’Unità 23.2.07
PRC. Volantinaggi e sit in, domenica in piazza per dire: «Prodi, vai avanti»
L’iniziativa è ancora in fase di organizzazione, ma la segreteria nazionale di Rifondazione ha già invitato tutte le federazioni locali per organizzare manifestazioni, sit-in, punti di ritrovo per domenica mattina in tutte le piazze italiane. La parola d’ordine è «parlare, parlare, parlare», spiegare ai cittadini che cosa è accaduto e ribadire il pieno sostegno di Rifondazione Comunista a Romano Prodi. E stabilire un contatto diretto con il «popolo dell’Unione».
Dialogo aperto con cittadini e elettori, dunque, che segue l’iniziativa «Parla con noi», il forum online che ha ricevuto tanti contatti che, appena poche ore dall’apertura, ieri pomeriggio, si è trovato fuori uso.
Sempre domenica si terranno anche diverse conferenze di organizzazione territoriali in vista di quella nazionale di fine marzo.
«Garantisco sui miei 27 senatori»
Giordano, Rc: basta con l’autismo istituzionale. «Turigliatto? Non lo perdoneremo... »
di Eduardo Di Blasi
Oggi la direzione di Rifondazione deciderà l’espulsione del senatore «dissidente»
«NON PERDONEREMO mai Franco Turigliatto». L’epitaffio è di Franco Giordano, segretario del Prc, il giorno seguente la caduta del governo Prodi a Palazzo Madama. «No, perché se c’è una rabbia che io ho in corpo, e che trasmetto sia quando vado nei programmi televisivi che quando sono a incontri o riunioni, è determinata dal fatto che su questo governo erano apposte le nostre speranze, e adesso il rischio è tornare indietro».
Vi portate sempre addosso il fantasma del ’98...
«Il ’98 non c’entra nulla. Oggi condividiamo un programma, e abbiamo sempre sostenuto il governo in tutti i suoi passaggi parlamentari. Lo abbiamo fatto liberamente per non tradire la fiducia riposta dai nostri elettori, gli elettori dell’Unione».
Lei afferma che non c’è stata una volontà politica del suo partito, ritiene di non avere comunque una responsabilità politica nella caduta del governo?
«Al Senato tutta la coalizione incontra una difficoltà per quello che riguarda i numeri. Mercoledì un solo nostro senatore (ne abbiamo 27, e anche grazie a questo contribuiamo all’esistenza della maggioranza) non ha partecipato al voto. E noi lo abbiamo dichiarato fuori dal partito. Anche se Turigliatto e Rossi avessero votato, poi, saremmo caduti lo stesso, perché non avevamo la maggioranza. E certo che io reputo entrambi gente irresponsabile, affetta da autismo istituzionale. Per quello che è successo mercoledì, però, ritengo che su quel voto si siano concentrate tensioni derivanti da tante sollecitazioni provenienti da settori esterni al governo. E poi, a ben vedere, un solo senatore della maggioranza ha votato con l’opposizione, e non l’abbiamo candidato noi: Sergio De Gregorio».
Qualche problema sulla politica estera il suo partito l’ha posto...
«Abbiamo sostenuto con grande lealtà la politica estera di D’Alema. Anche perché il ministro ha espresso una visione innovativa che è entrata in contatto con il popolo della pace».
Dopo la battuta d’arresto, votereste nuovamente il governo Prodi?
«Io credo che oggi ci siano le condizioni per riproporre la fiducia. Abbiamo il dovere di verificare la possibilità del prosieguo del governo Prodi. Anche per portare a termine quella stagione riformatrice auspicata dalla nascita di quell’esecutivo».
Prodi chiede garanzie. E i numeri al Senato restano in bilico. Il suo partito cosa può garantire?
«Io credo che dovremmo puntare sulla collegialità tra di noi. Rifondazione garantisce quello che ha sempre garantito, vale a dire la totale lealtà al programma dell’Unione».
Sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, per fare un esempio, il senatore Fosco Giannini ha già dichiarato che non voterà...
«Io garantisco che dei 27 senatori che rappresento, voteranno tutti. Su quella proposta, indicata anche dal ministro D’Alema, c’è stato il nostro lavoro di mediazione. Condividiamo profondamente l’idea di una conferenza internazionale sull’Afghanistan, e quella di una politica estera autonoma. Per questo voteremo per il governo».
Dopo la caduta di Palazzo Madama non sembra si possano tirare indietro le lancette. Mastella afferma già che i «Dico» devono essere messi da parte...
«Vede, allora, che il problema non è Rifondazione? Io credo che questo governo e questo programma siano gli unici possibili, e faremo ogni sforzo perché ciò accada».
Se la maggioranza di governo si allarga verso il centro vi toccherà ingoiare rospi un po’ più grossi...
«Io non credo che dovremo avere in questa circostanza un atteggiamento mercantile. Credo invece che si debbano fare due cose: garantire la fiducia al governo Prodi al Senato e verificare l’appoggio al programma di governo. Sulla base del rispetto del programma non sono contrario ad un allargamento della maggioranza».
Non vi sentite in una posizione debole?
«No. Siamo sempre stati una forza leale. E riteniamo che il governo Prodi possa essere riconfermato. È possibile anche una campagna parlamentare per arrivare ad una nuova legge elettorale per contrastare le terribile legge elettorale fatta da Berlusconi. Questo lo può fare un governo dell’Unione».
Un governo per la legge elettorale?
«Non ci può essere un governo che nasca sulla legge elettorale. Io non penso ad un Prodi II, ma alla riproposizione di un Prodi I. Un governo che porti avanti le riforme avviate sulla lotta alla precarietà, lo stato sociale, le libertà individuali».
Franco Turigliatto resterà a Palazzo Madama?
«Oggi riuniamo la direzione del partito. Proporremo l’incompatibilità politica. Lui ha già detto che vuole dimettersi. Io mi auguro che questo succeda, perché non ha risposto al mandato che gli elettori ci hanno dato. Noi non possiamo rimuoverlo, nè fucilarlo, ma quest’ultima cosa non la scriva».
l’Unità 23.2.07
«Io, ex Potere Operaio e Fiom: 20 anni nel mirino dei terroristi»
Per la prima volta parla Antonio Romito, teste chiave del processo a Negri e Scalzone: «Come me tanti altri uomini dimenticati»
di Gigi Marcucci
PER DODICI ANNI è stato un fantasma. Per altri sei ha vissuto guardandosi le spalle. Quasi quattro lustri trascorsi da latitante. Senza aver fatto niente di male. Antonio Romito si materializza nell’atrio di un albergo padovano. Giacca, cravatta, una stretta di mano micidiale, che non può essere quella di uno spettro. Oggi ha 55 anni, fa l’imprenditore. Per la prima volta racconta la metà sommersa della sua vita. Gennaio 1979, Guido Rossa, operaio all’Italsider di Genova, con in tasca la tessera del Pci e quella della Cgil, viene assassinato dalle Brigate Rosse. Passano cinque giorni, a Milano un commando di Prima linea uccide il giudice Emilio Alessandrini, il magistrato che sta indagando su piazza Fontana.
Negli anni di piombo si muore così. Ogni giorno ci si chiede chi sarà il prossimo a cadere. A Romito, dirigente della Fiom padovana iscritto al Pci, uno che chiude le manifestazioni senza dare la parola ai violenti di “Autonomia organizzata”, glielo chiede proprio uno di loro: «Hai visto Rossa e Alessandrini? Indovina chi sarà il terzo». Padova è da anni nell’occhio del ciclone. È lì che nel ‘74 le Br compiono il famoso «salto di qualità», uccidendo per la prima volta. Le vittime sono due giovani missini, Giuseppe Mazzola e Graziano Girallucci. Nel marzo del ‘79, il professor Guido Petter viene ferito gravemente a colpi di spranga. A organizzare il pestaggio è Claudio Latino, arrestato due settimane fa come appartenente alle nuove Br. Due giorni dopo tocca al preside di Lettere, Oddone Longo. A settembre, sparano al professor Angelo Ventura, che aveva pubblicamente denunciato Autonomia.
«Il clima era quello. Io dentro di me pensai: se proprio devono ammazzarmi, almeno che si sappia chi è stato». Il giorno dopo Romito è davanti a Pietro Calogero, il magistrato che indaga sui collegamenti tra l’Autonomia e le Br, quello che per alcuni diventerà il teorema «7 aprile». Il pm lo ascolta per tre giorni e tre notti. Romito ha una lunga storia da raccontare. Prima di entrare nel sindacato e nel Pci ha fatto parte di Potere Operaio, il gruppo più oltranzista e compartimentato della sinistra antagonista. Ha conosciuto e frequentato il professor Toni Negri, Carlo Fioroni (il professorino del rapimento Saronio), Emilio Vesce. «Ho ricostruito tutto dall’interno: le scissioni, il passaggio alla lotta armata. Calogero aveva capito tutto, mi creda».
Tutto comincia nel 1969, l’anno dell’autunno caldo. Romito, 18 anni, indossa da poco la tuta di metalmeccanico all’Utita, una fonderia che ha 810 dipendenti. È uno dei pochi assunti a non essere passato attraverso il “collocamento parallelo” gestito dalla Cisnal, il sindacato vicino al Movimento sociale. «Avevo la passione politica di quell’età. Un specie di fiamma che mi catapultava giù dal letto alle tre del mattino, quando dovevo volantinare o fare i picchetti. A quell’età cerchi continuamente le emozioni, l’ebbrezza: ha presente quella che Toni Negri diceva di provare quando si calava il passamontagna?». All’epoca Negri è un professore di filosofia e ha alle emozioni affianca la teoria. «Il tipo di lotta che noi proponiamo è indubbiamente fondata su obiettivi di appropriazione - dichiara nel ‘71 -. Ed è su questo piano che non avrebbe credibilità di fronte alle masse un progetto che non fosse di appropriazione armata». Il tema della «militarizzazione del movimento» è obliquamente lanciato. Se il professore non vaneggia, sta parlando di lotta armata.
«Io sapevo cos’era Potere Operaio. Dentro di me lo giustificavo, anche perché per molto tempo le azioni illegali erano state solo dimostrative», dice Romito. Capireparto sequestrati, qualche macchina incendiata. Poi però, proprio a Padova, c’è il famoso “salto di qualità”, con l’uccisione di Girallucci e Mazzola. «A sinistra si diceva che fosse stata un regolamento di conti tra neofascisti, ma noi di Potop sapevamo che erano state le Br. A me ovviamente i fascisti non sono mai piaciuti, ma uccidere era troppo».
Romito comincia a lavorare a tempo pieno nel sindacato dei metalmeccanici, la Fiom Cgil. Anche perché, tra uno sciopero per il contratto e un’altro per l’accordo integrativo, è stato licenziato. Alla fine del ‘74 entra nel Pci e fonda una sezione di partito dentro la sua fabbrica. Il ‘78 vede Romito alla testa delle lotte sindacali padovane, proprio mentre si consuma definitivamente la rottura con Potop e Autonomia, nata da una costola dell’organizzazione. Cominciano le minacce: «Romito marchi male», «Stai attento, noi non promettiamo invano».
Il 7 aprile, quando scattano gli arresti chiesti da Calogero, Romito sta occupando delle terre incolte. «Calogero, dopo avermi interrogato, mi aveva detto: “Cerchi di guardarsi le spalle”. Io però ero tranquillo, non mi preoccupavo per le scritte sui muri. Poi arrivò un compagno da Roma e mi disse: “Con le buone o le cattive, decidi tu, ma adesso vieni via con me”». Per due anni rimane nascosto vicino a Roma, poi a Modena e a Bologna. «In casa di compagni, che non chiedevano mai perché ero lì, ma mi accudivano come un figlio, organizzavano le ronde sotto casa per controllare che non succedesse niente. Lo facevano semplicemente perché ci credevano. Persone che normalmente non hanno voce, mentre chi ha ucciso, come la brigatista Susanna Ronconi, diventa consulente di un ministro».
Al processo 12 anni a Negri, 8 a Scalzone
Fu subito battezzata «Teorema», ma non si può dire che l’inchiesta avviata dall’allora pm Pietro Calogero sia finita nel nulla. Almeno a giudicare dalle condanne definitive dalla Cassazione: 12 anni a Toni Negri, 8 a Oreste Scalzone, per citare solo i nomi più rappresentativi. L’inchiesta fu detta anche «7 aprile», perché in quel giorno del 1979 scattarono 81 arresti: in carcere, oltre a Scalzone e Negri, finirono molti capi dell’Autonomia. Le accuse andavano dalla costituzione di banda armata alle rapine. A Roma, dove il processo fu trasferito dopo pochi mesi, i giudici contestarono l’insurrezione armata, accusa che non resse al processo. Molti degli imputati, scarcerati per decorrenza dei termini, ripararono in Francia. Da lì, in anni recenti, anno chiesto l’amnistia. Negri è stato condannato perché coinvolto nel concorso dell’omicidio del carabiniere Andrea Bombardini, ucciso vicino Bologna.
l’Unità 23.2.07
TESTIMONIANZE Dalla cacciata di Luciano Lama al rapimento di Aldo Moro, la giornalista ricorda in un libro quell’anno che segnò la fine della prima Repubblica
1977: l’anticomunismo del movimento rimane attaccato alla penna di Lucia Annunziata
di Luca Canali
Secondo l’autrice il Pci, con la paura di compromettere la sua potenza, avrebbe tradito le forze giovani e antagoniste
L’agile libro 1977 di Lucia Annunziata (Einaudi, pp. 147, euro 14,50), appassionato (forse troppo, con l’uso eccessivo della parola «adrenalina») e di incisiva lettura (peccato qualche brutto refuso, come ad esempio quello sgradevole «avvallo» per «avallo», a p. 54, e persino una svista grammaticale: «si alligna sui volti» per «alligna sui volti», a p. 14), ci aiuta a ripercorrere la drammatica sequenza di eventi che dopo il ’68, in un crescendo di tensioni ideologiche e politiche, sfociarono nella svolta del ’77, con l’episodio clamoroso della cacciata di Luciano Lama dall’Università «La Sapienza» di Roma occupata dagli studenti e dai vari movimenti della sinistra radicale, e dell’inizio del ’78 con quello tragico del rapimento di Aldo Moro. Date che, secondo quanto forse giustamente pensa e scrive l’Autrice, segnarono la fine della prima Repubblica, ma non la nascita - e questo è forse ancora oggi l’aspetto preoccupante dell’attuale e conclamata crisi di tutti i valori, e della stessa identità politica e culturale del nostro paese - di un’attendibile e autorevole seconda Repubblica.
Questo libro è una sorta di testo gemello del più vasto studio-narrazione, La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda, con una sostanziale differenza però: Rossanda articola il suo volume secondo un serrato, rigoroso, e freddamente razionale impegno, sempre sul filo di un combattivo antagonismo, prima dall’interno, poi dall’esterno, nei confronti della linea ufficiale del Pci, e coinvolgendo solo marginalmente i diversi raggruppamenti «alternativi» alla sinistra istituzionale. Annunziata, al contrario, sposta l’epicentro del suo narrare proprio sulle battaglie di questi gruppi, facendo del Pci il «bersaglio grosso» dei suoi affondi, troppo spesso sommariamente enunciati più che argomentati con sfondi storici di maggior respiro. Il partito comunista, secondo l’Autrice, con il suo «timore» e con le sue cautele, anzi con la «paura» di compromettere la propria stessa potenza, e sopravvalutando il rischio di un’ondata di destra e magari addirittura golpista, e infine con il «compromesso storico» voluto da Berlinguer e vòlto a costituire un’alleanza dialogante ma anche operante con le forze progressiste cattoliche, avrebbe in tal modo tradito la Resistenza in contrasto con le forze giovani e antagoniste che premevano verso la Rivoluzione (le maiuscole sono dell’Autrice). Tutto ciò avrebbe dovuto essere spiegato e, ancora meglio, problematicamente argomentato. In proposito, cosa intende l’Autrice? Forse la Resistenza - che era stata sanguinosamente armata - doveva, per non essere tradita, continuare estremizzando la lotta fino all’eventualità di un nuovo sbocco politico-militare? Ma contro questa visione dei compiti del partito comunista si era da sempre battuto Togliatti in favore di una larga politica di alleanza per le riforme di struttura, specie con gli ambienti cattolici progressisti, fin dai tempi dei suoi frequenti contatti con un intellettuale del livello di Franco Rodano, leader della Sinistra Cristiana, e del suo scontro con l’estremismo del vice-segretario del partito, Pietro Secchia. Mentre non è chiara la prospettiva dell’A. quando esorta a «ingranare una marcia in più» nelle lotte sociali, per poi dare una «spallata» decisiva. Ecco, vorremmo sapere cosa intende l’A. con questa parola, di cui lei stessa si era in precedenza beffata inserendola tra le locuzioni topiche dell’élite del partito.
Comunque si tratta di un libro stimolante e, in certi momenti, addirittura coinvolgente, con la sua continua tensione in difesa della creativa libertà individuale e l’esigenza chiaramente affermata di uscire dalle angustie diplomatiche del Palazzo per incontrarsi con le aspirazioni del popolo vivo e «pulsante» delle strade. Peccato, tuttavia, che questi indubbi meriti siano guastati da una conclusione del libro scritta all’insegna di un rancoroso anticomunismo viscerale.
Repubblica 23.2.07
IL RETROSCENA. "No comment" ufficiale delle alte gerarchie, il ruolo chiave di Andreotti
Vaticano soddisfatto sui Dico ora si spera nel Grande Centro
Il Papa: "La vera fede è radicata tra gli italiani ma anche minacciata"
di Marco Politi
CITTA' DEL VATICANO - «In Italia la fede è minacciata». Così Benedetto XVI al clero romano. E´ stato il filo conduttore dell´atteggiamento del Vaticano e della dirigenza Cei nei confronti del governo Prodi e vale ancor più in queste ore. Si tratti del caso Welby o della proposta di riconoscere le convivenze omosessuali, le massime gerarchie ecclesiastiche sono convinte che l´Italia sia la linea del Piave su cui il cattolicesimo deve resistere e imporsi. Ecco perché le leggi «sensibili» - nell´ottica vaticana - devono portare il timbro della Chiesa.
L´Unione lancia un segnale preciso circa la direzione in cui si potrebbe spostare il secondo governo Prodi: dai 12 punti approvati ieri il termine Dico scompare. La regolamentazione delle coppie di fatto, annunciava ieri il ministro della Giustizia e leader dell´Udeur Clemente Mastella, «diventa materia parlamentare» e non più iniziativa di legge del governo, dunque i Dico «non mettono in discussione il governo in quanto tale».
«Non desidero commentare»: il cardinale Bertone si infila nella macchina dopo aver presentato all´Istituto Sturzo un volume sulla diplomazia pontificia. E´ un segno della discrezione della Santa Sede. Ma dietro le quinte emerge con chiarezza che il cattolico Prodi non piace perché «poco osservante». L´alta gerarchia non lo vuole. «Prima o poi il governo doveva cadere: o sulla politica estera o sui Dico», commenta un cardinale di Curia. L´ideale, prosegue il porporato, sarebbe il «frantumarsi della maggioranza e la nascita di un raggruppamento che comprenda l´Udc e il centrosinistra senza l´ala radicale». Giudizi rigorosamente anonimi. Lo stato d´animo prevalente, spiega un monsignore, è imperniato su tre "no". No a Prodi, no a Berlusconi, no a elezioni anticipate per evitare terremoti. Per il resto le correnti sono variegate. C´è chi preferisce l´opzione centro-Ulivo e chi è fautore delle larghe intese: «Perché non fare come in Germania?», sostiene un altro cardinale di lungo corso.
Nel frattempo il cardinale Ruini torna al centro del gioco più forte che mai. Nessun altro può tessere i rapporti politici nella fase, in cui la Chiesa si prepara a porre le sue condizioni al nuovo governo: qualunque esso sia. Ruini - secondo voci insistenti - dovrebbe ora rimanere in carica fino all´assemblea dei vescovi a maggio. La manifestazione di massa «in difesa della famiglia» si farà. Domani si riunisce il Forum delle famiglie per decidere la piattaforma della dimostrazione. Quanto alla Nota in preparazione sui Dico, i primi appunti contenevano pari pari la citazione di un documento del cardinale Ratzinger del 2003: «Nel caso in cui si proponga per la prima volta all´assemblea (parlamentare) un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro». Votare a favore «è un atto gravemente immorale». Ratzinger dixit.
La rinuncia ai Dico, sancita dalle trattative sulla nuova coalizione, era la condizione posta dalla gerarchia ecclesiastica sul tavolo del prossimo candidato premier. L´enigmatico voto contrario di Andreotti al Senato acquista il valore della paletta di un agente della Polstrada. «La vera fede è ancora profondamente radicata in Italia, ma è anche minacciata», ha detto ieri papa Ratzinger, mentre Ruini ribadiva il suo impegno «per la famiglia e per i giovani». L´Avvenire parla chiaro. «I Dico sono da ripensare», sottolineava ieri il giornale dei vescovi, spiegando che la Chiesa si rivolge «alla ragione dei legislatori quanto alla loro coscienza». Mentre il cardinale Caffarra ribadisce che la Chiesa si batte per la «promozione della dignità del matrimonio, la sua protezione e la sua difesa».
il manifesto 23.2.07
Terapia Ludwig
Questioni sulla bilancia del libero arbitrio
La questione riguarda la libertà, che per la scienza non trova spazio, perché noi saremmo del tutto determinati delle leggi di natura. Ma quando si entra nel campo della morale, quelle leggi di causa e effetto non hanno più asilo Due brevi testi di Wittgenstein, «Causa ed effetto» e «Lezioni sulla libertà del volere», pubblicati ora da Einaudi, riaprono a distanza di vent'anni una questione a suo tempo liquidata nel «Tractatus»
di Mario De Caro
Prendiamo in prestito, per perimetrare l'ambito di un problema di difficile risoluzione com'è quello del libero arbitrio, le immagini di un film che tutti conosciamo: quelle di Arancia meccanica in cui la scelleratissima gang di Alex procede di stupro in stupro, di omicidio in omicidio, mentre le note sublimi della Nona Sinfonia del «vecchio amico Ludwig», accostate a quelle immagini, creano in noi un brechtiano effetto di straniamento. Il senso di questa geniale operazione filmica è duplice. Da una parte (come Sade, Genet o Mishima) Kubrick ci parla del fascino suscitato in noi dalla violenza - tanto più se assurda come quella dei 'drughi' del film - implicitamente alludendo al tema delle pulsioni più indicibili che covano nell'essere umano, meglio se è un elevato prodotto della civilizzazione. Più o meno nascosto - ci rammenta Kubrick - c'è qualcosa di Alex in ognuno di noi. D'altra parte, però, lo stridore tra quelle immagini portatrici di una violenza belluina e la musica sovraumana che le accompagna allude anche a un altro tema, ancora più profondo e misterioso, quello relativo all'enigma del libero arbitrio, «la più controversa delle questioni metafisiche», come la definiva il saggio David Hume, che sul tema non era certo l'ultimo arrivato.
Una macchina per fare il bene
Alex, dunque (ma anche noi con lui, nella misura in cui partecipiamo della sua mefistofelica natura), trae gran piacere sia dall'esperienza della sofferenza altrui sia dall'ascolto delle travolgenti note dell'Inno alla gioia. Tuttavia, sia l'esperienza dell'arte che quella della violenza, non sono per lui frutto del caso: con piena consapevolezza, infatti, ricerca sia l'arte che la violenza come le sole vie a lui accessibili per fuggire le costrizioni e lo squallore dell'esistenza metropolitana. In quelle esperienze Alex si sprofonda liberamente; e, così facendo, può finalmente determinare in autonomia la propria esistenza: sta esercitando, in questo modo, ciò che i filosofi chiamano «libero arbitrio». Ed è per questo, e solo per questo, che di quelle esperienze porta, nel bene e nel male, la responsabilità morale.
Che la questione del libero arbitrio sia uno dei temi centrali del film (così come del romanzo di Anthony Burgess da cui deriva) viene in chiaro nel discorso dello stralunato cappellano del carcere in cui Alex viene rinchiuso. In quel luogo egli verrà sottoposto all'invasiva cura «Ludwig» (nel senso di Beethoven), che ne farà finalmente un cittadino modello; ovvero, secondo il disegno del governo, un essere fisicamente impossibilitato a compiere il male. Ma a questo progetto il prete obietta con fermezza: «Il ragazzo non ha una vera scelta! Se cessa di fare il male, cessa anche di esercitare il libero arbitrio. Quando un uomo non ha scelta, cessa di essere uomo». Meglio, molto meglio, dunque, che un individuo sia lasciato libero di esprimere comportamenti devianti ma consapevoli, piuttosto che si faccia di lui un irresponsabile autonoma, una macchina per la produzione del bene.
Lungo la tradizione filosofica
Sullo sfondo delle parole pronunciate dal prete messo in scena da Kubrick c'è una enorme tradizione filosofica, tanto religiosa quanto laica, che va da Agostino d'Ippona a Kant, da Kierkegaard a Sartre. Così, per esempio, il sapiente dei sapienti, Pico della Mirandola, scriveva che gli esseri umani sono il miracolo della creazione proprio perché liberamente possono elevarsi al livello degli angeli o inabissarsi a quello delle bestie più immonde. La libertà, insomma, è l'essenza stessa dell'umano. O almeno così ha sostenuto un'ampia parte della filosofia.
Una parte quasi altrettanto ampia, di nuovo sia religiosa che laica, ha però affermato il contrario: ovvero che il libero arbitrio non esiste affatto. Secondo questo punto di vista, noi - come Alex dopo la terapia «Ludwig» - siamo tutti automi irresponsabili, che si cullano nell'illusione della loro autonomia. Una concezione, questa, chiaramente espressa, per esempio, da Lutero e da Calvino, i quali sostennero, in un quadro teologico totalizzante, che l'idea stessa della libertà umana è assurda: Dio, infatti, ha determinato la storia dell'universo nei minimi particolari, senza lasciare agli esseri umani spazio alcuno perché decidano e agiscano liberamente. D'altra parte, l'assunzione di una prospettiva laica e naturalistica non è necessariamente più consolante. Secondo Einstein, per esempio, «tutto è determinato, dall'inizio alla fine, da forze sulle quali non abbiamo nessun controllo. Esseri umani, vegetali e polvere cosmica, tutti quanti danziamo al suono di una misteriosa melodia, intonata in lontananza da un flautista invisibile». Per Einstein, ovviamente, il flautista la cui melodia annichilisce la nostra libertà non è il Dio perfettissimo della tradizione giudaico-cristiana, ma l'inflessibile determinismo delle leggi di natura; ovvero il fatto che esse non lasciano spazio alcuno alla contingenza. (A garantire il libero arbitrio, peraltro, non può certo bastare l'indeterminismo che sembra emergere dalla meccanica quantistica. In quell'ambito, infatti, si manifesta soltanto la pura casualità; e la libertà, come diceva sempre Hume, è l'opposto della casualità).
L'idea che le leggi di natura rendano impossibile la nostra libertà è oggi estremamente diffusa e molti la giustificano richiamandosi ai formidabili risultati ottenuti dalle neuroscienze. Un ottimo esempio in questo senso è offerto da una celebre serie di esperimenti condotti in California, alcuni anni fa, dal neurofisiologo Benjamin Libet. Il più famoso è quello in cui Libet chiedeva ai soggetti sperimentali di attendere un po' prima di flettere la falange di un dito, facendo però attenzione al momento esatto in cui la decisione di compiere quell'azione veniva presa. Ebbene, l'esperimento sembrava mostrare che, in realtà, la decisione conscia arrivava un terzo di secondo dopo che erano cominciati i processi neurofisiologici, ovviamente inconsci, che portavano alla flessione della falange.
Molti interpretano l'esperimento di Libet, e altri analoghi, come prova dell'illusorietà del libero arbitrio, ovvero dell'idea che in alcuni casi noi possiamo consapevolmente determinare ciò che facciamo. In realtà, ci sarebbe molto da dire sia su questo esperimento che sul corretto modo di interpretarlo (probabilmente, per esempio, mentre è rilevante per discutere l'affidabilità delle esperienze coscienti, lo è molto meno per la questione del libero arbitrio).
C'è però un punto più importante. Secondo alcuni, per respingere gli attacchi contro il libero arbitrio basati su esperimenti come quello di Libet, si potrebbe ricorrere a una strategia di carattere generale, che contesta la possibilità stessa di utilizzare i risultati delle scienze naturali nell'affrontare questo tema. Già Kant lo aveva sostenuto, e in versione aggiornata torna su questo punto uno dei massimi filosofi del '900, Ludwig Wittgenstein, in due brevi ma importanti scritti da poco pubblicati per Einaudi, Causa ed effetto e Lezioni sulla libertà del volere. Se la strategia proposta da Wittgenstein funzionasse, l'idea della nostra libertà potrebbe trovare nuova legittimazione: insomma, se in Arancia meccanica la terapia Ludwig (nel senso di Beethoven) privava Alex del libero arbitrio, un'altra terapia Ludwig (nel senso di Wittgenstein) ci restituirebbe fiducia in esso, nonostante quel che dicono le neuroscienze. Ad un primo sguardo, il volume che raccoglie questi scritti di Wittgenstein suscita nel lettore due impressioni molto nette, come succede peraltro alla lettura di molti altri suoi testi. La prima impressione si risolve in un enorme fascino intellettuale, generato dall'incalzante prosa epigrammatica e frammentaria, dal rincorrersi di esempi suggestivi, dall'alternarsi ininterrotto di frasi apodittiche e di dubbi irrisolti. Ma, immediatamente dopo, segue l'impressione che, in effetti, in questi testi non si capisca nulla (il che, paradossalmente, contribuisce a aumentarne il fascino).
Per fortuna, però, l'editore italiano ha pensato bene di farci venire in soccorso uno dei massimi studiosi italiani di Wittgenstein, Alberto Voltolini, che oltre a avere tradotto il volume vi ha scritto un'introduzione dotta e illuminante, da utilizzare come bussola allo scopo di verificare se la nuova «terapia Ludwig» che si trova sviluppata nel testo sia in grado di rilegittimare la nostra intuizione del libero arbitrio.
Anche Voltolini ci conferma sul fatto che la tesi fondamentale di Wittgenstein ha un sapore kantiano. L'idea, in sostanza, è che il vocabolario delle scienze della natura e quello del libero arbitrio siano incorporati in due pratiche che hanno modi e finalità del tutto differenti; ovvero che, per dirla nel tipico linguaggio wittgensteiniano, tali vocabolari servano a giocare «giochi linguistici» diversi. Così, le descrizioni scientifiche dei comportamenti umani, facendo essenziale riferimento alla leggi di natura, servono per spiegare e predire quei comportamenti a partire dalle cause da cui derivano. Quando invece si spiegano le azioni attribuendo volontarietà, consapevolezza, intenzionalità agli agenti che le compiono (ovvero quando si riconosce il loro libero arbitrio), allora si entra nel campo della valutazione morale, che secondo Wittgenstein nulla ha a che vedere con la causalità e con le leggi di natura. Insomma: da una parte c'è il punto di vista della scienza, in cui la libertà non trova spazio; dall'altra, c'è il punto di vista della moralità, che al contrario presuppone l'idea di libertà. L'importante è tenere separati i due punti di vista.
Secondo alcuni, però, tenere separati questi due punti di vista non è affatto possibile. Ricordiamo, per esempio, Einstein e i fautori delle neuroscienze sopra citati, secondo i quali in realtà tutte le nostre azioni (anche quelle morali, dunque) sono determinate e, pertanto, in linea di principio perfettamente prevedibili. Se costoro hanno ragione, noi ci comportiamo sempre come automi, con buona pace dell'idea intuitiva della libertà e della moralità: e, così, il conflitto tra visione scientifica e visione morale, lungi dall'essere facilmente evitabile, incombe pesantemente su di noi. A questo scenario minaccioso, in realtà Wittgenstein aveva già pensato quando scriveva la sua opera più celebre, il Tractatus Logico-Philosophicus, dove si legge che «il libero arbitrio consiste nell'impossibilità di conoscere ora azioni future». In quel libro, insomma, l'idea era che siccome di fatto noi non possiamo prevedere ciò che facciamo, allora siamo legittimati a continuare a considerarci liberi - e questo anche se la scienza ci dice che tutto ciò che facciamo potrebbe in realtà essere previsto. Una tale difesa della libertà, però, è molto debole. Se ha ragione Einstein, infatti, il fatto che non possiamo predire le nostre azioni dipende soltanto dalla nostra ignoranza. E l'idea di libertà ci è troppo cara per accontentarci di fondarla sulla mera ignoranza.
Nei due testi su causalità e libero arbitro, scritti alla fine degli anni Trenta (quindi quasi venti anni dopo il Tractatus), Wittgenstein assume però, per difendere l'idea di libertà, una posizione più prudente e articolata. In primo luogo, ammette che se scoprissimo che tutte le nostre azioni sono interamente prevedibili, in effetti avremmo la tendenza psicologica a cambiare la nostra autopercezione: ovvero ci verrebbe naturale smettere di considerarci liberi. Ma pur ammettendolo non si chiude così la discussione.
I limiti delle nostre previsioni
In primo luogo, infatti, se ci pensiamo bene, la possibilità stessa di prevedere interamente le nostre azioni è difficile da concepire. Se qualcuno prevede interamente le azioni di Tizio e gliele comunica, non è forse vero che Tizio può agire in modo da falsificare quelle predizioni? Questo punto è interessante; ma Wittgenstein aggiunge ancora qualcosa di più. Come avevamo già ricordato, a suo giudizio se scoprissimo di essere interamente determinati, avremmo la tendenza psicologica a non considerarci più liberi. Una tendenza psicologica, però, non è invincibile: seppure scoprissimo che le nostre azioni sono prevedibili, potremmo ancora sperare di autoconvincerci a non abbandonare l'idea di libertà. Un tale autoconvincimento potrebbe derivare, per esempio, dalla constatazione che le leggi di natura non vanno pensate come costrizioni, obblighi o vincoli sul nostro agire, ma solo come mere regolarità che descrivono ciò che accade nel mondo.
È su questo sfondo teorico che Wittgenstein presenta l'idea secondo la quale il gioco linguistico della scienza e quello della libertà sarebbero entrambi legittimi, e potrebbero convivere, perché svolgono funzioni diverse nella nostra forma di vita. L'idea, insomma, è che seppure scoprissimo che il nostro agire è prevedibile, potremmo sempre continuare a giocare sulla duplice percezione di noi stessi, in funzione dei diversi contesti di discorso.
Nell'ambito della vita quotidiana - in cui è rilevante la valutazione morale delle azioni - potremmo insomma continuare a ritenerci liberi e responsabili delle azioni che compiamo. Nei contesti scientifici (come quello fornito dall'esperimento di Libet descritto prima), potremmo invece guardare a noi stessi come ad automi privi di responsabilità morale. Il punto, nota ancora Wittgenstein, è che - a parte casi eccezionali cui non si deve dare troppa importanza - i due scenari in realtà non interferiscono.
Un annoso rompicapo
Riassumendo. La cura Ludwig - nel senso di Wittgenstein - non sembra escludere del tutto il nichilismo antropologico suggerito della terapia Ludwig - nel senso di Beethoven. Forse noi siamo interamente determinati come lo è Alex dopo la cura o forse no. Sia come sia, potremo sempre serbare uno spazio per la nostra libertà, legandolo ai contesti non scientifici, dunque alla nostra vita quotidiana. Dobbiamo però riconoscere che questa proposta di scioglimento dell'enigma del libero arbitrio ha un carattere compromissorio, non definitivo. E per questo, forse, può non apparire del tutto convincente.
D'altra parte, fu proprio Wittgenstein a sostenere che la tipica struttura di un problema filosofico è del tipo «non mi ci raccapezzo», e non a caso sono migliaia di anni che sulla questione del libero arbitrio non ci raccapezziamo. D'altra parte, se così non fosse, ai filosofi cosa rimarrebbe da discutere?
Bibliografia
Titoli dalla fortuna editoriale del filosofo austriaco
La fortuna editoriale di Ludwig Wittgenstein è molto alta, considerando, per di più, che in vita ha pubblicato un solo brevissimo libro. Continuano, infatti, a uscire volumi tratti dai suoi appunti inediti e dalle sue lezioni. Tra gli ultimi, «L'esperienza di un sogno» (a cura di Ranchetti, Quodlibet, 2006), «Il metodo della filosofia» (a cura di Marconi, Donzelli, 2006), «Esperienza privata e dati di senso» (a cura di Perissinotto, Einaudi, 2007). Ancora più numerosi, gli studi dedicati al suo pensiero: di Massimo De Carolis è uscito «Una lettura del Tractatus di Wittgenstein» (Cronopio, 2002) e di Pasquale Frascolla «Il Tractatus logico-Philosophicus di Wittgenstein» (Carocci 2006), mentre di Alberto Voltolini «Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein» (Laterza 2002) e di Annalisa Coliva «Moore e Wittgenstein» (Il Poligrafo 2003) che ne hanno approfondito il pensiero della maturità. Infine, per una collocazione del pensiero di Wittgenstein nel quadro filosofico del secolo scorso, si possono consultare «Wittgenstein e il Novecento» (a cura di Egidi, Donzelli, 2002) e «Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di Wittgenstein» (a cura di Borutti e Perissinotto, Carocci 2006).
il manifesto 23.2.07
Un convegno
La psicoanalisi guarda al corpo mediatore di emozioni
Al corpo come mediatore di comunicazioni emotive è dedicata una giornata, sabato, al centro di psicoanalisi romano di via Panama. Il tema - spiega Giuseppe Moccia nella sua introduzione ai lavori - è quello relativo al rapporto che corre tra la mente e il soma. Si partirà dall'evidenza per cui, quando l'articolazione verbale delle esperienze interpersonali precoci è insufficiente, le spinte e gli stati corporei restano tuttavia registrati a un livello preverbale, come memoria del corpo, come azione apparentemente senza senso, come sintomo, come stato d'angoscia accompagnata da una potente attivazione neurovegetativa. Il setting psicoanalitico è uno spazio privilegiato per l'espressione di comunicazioni arcaiche, che trovano nell'analista un soggetto preparato e sensibile alla loro ricezione non ché alla loro attribuzione di significato. Le donne del XIX secolo spesso esprimevano il loro disagio facendolo transitare per una organizzazione sintomatica di tipo isterico. Allora, la psichiatria rappresentata soprattutto da Charcot, attribuiva all'isteria il significato di una simulazione: nelle paresi, nelle convulsioni, negli spasmi che agitavano le donne, più che un significato si leggeva una debolezza morale. Freud fu il primo a ricondurre il sintomo isterico a motivazioni inconsce e a riconoscergli l'espressione di una vita soggettiva non immediatamente traducibile in parole. Oggi l'isteria, soprattutto femminile, conosce forme diverse di espressione, e il corpo parla accusando disturbi del comportamento alimentare. Nella anoressia, il corpo viene disinvestito, soprattutto come oggetto sessuato, e le anoressiche tendono a identificarsi in una mente ideale e onnipotente. Tra le domande che verranno poste nel corso della giornata di sabato - in cui interverranno, tra gli altri, Riccardo Lombardi, Claudio Arnetoli e Marta Capuano, oltre a Giuseppe Moccia cui è affidata l'introduzione - c'è quella relativa a cosa sia, nel corpo, a dovere venire cancellato; e quella sulle trasformazioni sociali che sembrano favorire questi tipi di sofferenza mentale.
il manifesto 23.2.07
Un manifesto
Il prezzo dell'anoressia per gli ideali di bellezza imposti dalla moda
di Laura Dalla Ragione
A proposito del dibattito sul manifesto nazionale di autoregolamentazione della moda italiana contro l'anoressia.
Espressa o taciuta, in ogni vita esiste una domanda di bellezza. Come rispondiamo, e a chi ne rispondiamo, è una questione che decide di noi, sia individualmente che socialmente. Il bello è di per sé crudele, la bellezza come ricorda Adorno, non è l'inizio di una platonica purezza ma scontro e dialettica. Proprio i problemi posti dai disturbi della condotta alimentare, come ricadute degli ideali corporei proposti dalla moda, ci porta a riflettere sul come realizzare i nostri ideali estetici. L'aspirazione alla bellezza, nelle forme richieste dalla nostra società, è priva di quella dialettica e di quello scontro che dovrebbero esserle proprie, e l'indagine sul perché della bellezza ha lasciato posto a una estenuate ricerca sul come.
In nome di questo come sono sempre più numerosi i corpi volutamente affamati, gravemente sottopeso, ossessionati dall'idea di entrare in una taglia socialmente invidiabile. E i disturbi della condotta alimentare da anni costituiscono una vera e propria emergenza sanitaria, che riguarda milioni di giovani nel mondo: sono la principale causa di morte psichiatrica, prima ancora della depressione e del suicidio. Un paese civile ha il dovere di impegnarsi perché anche solo una di queste morti possa essere evitata: a questo scopo, un manifesto nazionale di autoregolamentazione della moda italiana contro l'anoressia è stato firmato dal ministero per le politiche giovanili. Resta inteso che i disturbi della alimentazione non si possono liquidare come una patologia indotta dagli ideali corporei della moda, perché sono ben altre e più profonde le dinamiche che investono il rapporto delle anoressiche con il loro corpo e con l'articolazione della propria identità. Tuttavia, è anche vero che il sintomo assume le sembianze dettate da ideali corporei condivisi, e per questo la moda deve essere ricondotta a interrogarsi seriamente sulla ricerca della bellezza
Laura Dalla Ragione, responsabile del Centro per i Disturbi del Comportamento Alimentare Palazzo Francisci Usl 2 di Todi