l'Unità 22.2.07
Lo sgambetto dell’eterno Belzebù
Senatori a vita, pendolo della maggioranza. Decisive le astensioni di Andreotti e Pininfarina
di Simone Collini
LA MAGGIORANZA BATTUTA? Qualcuno parla di asse Vaticano-Confindustria, qualcuno di rivincita di «Belzebù», qualcuno di pasticcio all’interno dell’Unione e qualcuno, ma solo nel centrodestra, di trappola riuscita alla Casa delle libertà. Come che sia,
anche questa volta i senatori a vita sono stati determinanti. In negativo, però. Sono stati i voti di Giulio Andreotti e Sergio Pininfarina di astensione (che al Senato equivale a contrario) a non far raggiungere il quorum necessario (160 voti) alla mozione di sostegno al governo. Se anche i due “dissidenti” Fernando Rossi e Franco Turigliatto avessero votato e avessero votato sì, ci sarebbe stato un pareggio (160 favorevoli, 160 tra no e astensione) ma la maggioranza non avrebbe comunque raggiunto il quorum (a quel punto salito a 161). E allora, cos’è successo? È successo che all’ora di pranzo i gruppi dell’Unione fanno i conti così: «155 nostri, più Ciampi sì, Levi Montalcini sì, Colombo sì, Andreotti sì, tra poco arriva anche Pininfarina, sì anche lui...». Insomma 160 voti, sufficienti nonostante il no annunciato da Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro bloccato a letto dall’influenza.
Conti senza l’oste? Non proprio, perché Andreotti lo aveva detto la sera prima del voto che avrebbe votato sì, anche se voleva prima sentire il discorso di D’Alema. E poi, dopo averlo sentito, a metà mattina interviene per dire che nella relazione del ministro degli Esteri trova «il dato positivo della continuità della politica estera» e auspica «un accordo» sull’ordine del giorno presentato dal leghista Roberto Calderoli, nel quale si fa cenno proprio alla «continuità». E poi? Poi ci sono gli interventi in aula, c’è la replica di D’Alema, l’Udc che annuncia l’astensione, Calderoli che ritira la mozione e infine c’è il voto, a questo punto su due documenti: quello dell’Unione e quello presentato dallo stesso Andreotti in cui si sollecita la liberazione dei soldati israeliani rapiti l’estate scorsa. Andreotti vede approvare praticamente all’unanimità la sua mozione (315 sì) e poi contribuisce ad affossare quella della maggioranza. Qualcuno dice che si è preso una rivincita per la bocciatura come presidente del Senato. Qualcuno parla di un più complesso disegno politico, non privo di collegamenti con la distinzione dell’Udc rispetto al resto della Cdl. Nel frattempo è successa anche un’altra cosa.
Poco dopo le 14 compare in aula Pininfarina, che non si vedeva a Palazzo Madama dal maggio scorso, quando votò la fiducia al governo Prodi. Chi lo ha convinto a venire? La Cdl, prima del voto, sostiene che sono state le pressioni del centrosinistra (in particolare di Piero Fassino); dopo il voto, si compiace di aver vinto con «la nostra arma segreta» (Renato Schifani dixit). Come che sia, Pininfarina entra in aula, si trattiene qualche momento a parlare con Cossiga e poi viene fatto sedere ai banchi di Forza Italia dai senatori Aldo Scarabosio e Roberto Antonione. Valerio Zanone, liberale e amico di vecchia data dell’ex presidente di Confindustria, prova ad avvicinarsi ma i parlamentari di Forza Italia glielo impediscono. Marini dichiara aperta la votazione. Zanone vede la lucina bianca sul tabellone in corrispondenza del posto del senatore a vita. «Ma cosa fai!», gli dice l’esponente della Margherita tentando ancora una volta di avvicinarlo. È qui che scoppia il putiferio. I senatori di Forza Italia fanno muro e intanto iniziano a urlare contro Zanone, a lanciargli addosso giornali appallottolati e altro. Chiusa la votazione. Marini legge il risultato, la Cdl esulta.
L’aula si svuota, Zanone assicura: «Pininfarina mi ha manifestato prima del voto la sua determinazione di votare a favore e mi ha invitato a sedere accanto a lui. Non avendo trovato una accoglienza garbata da parte dei senatori di Fi che lo circondavano, sono ritornato al mio banco abituale, ma della intenzione di voto del senatore Pininfarina è testimone con altri il senatore di Fi Scarabosio che, se è persona d’onore, non può certo smentire ciò che ha sentito». I testimoni rimangono silenti, in compenso Cossiga interviene per attaccare Zanone: «Prima di convertirsi alla carica di segretario del Partito liberale era già stato un giovane libertario che sfilava con il viso coperto con il fazzoletto rosso. Lo ricordo bene quando era ministro dell’Interno». Replica Zanone: «Forse Cossiga mi confonde con qualcun altro. Sono liberale dall’età di 18 anni e quando lui era ministro dell’Interno io ero già in Parlamento». Intanto Prodi va al Quirinale a presentare le dimissioni.
l'Unità 22.2.07
Welby, non fu eutanasia. La perizia assolve il medico
Non sono stati i farmaci iniettati dall’anestesista Riccio a provocare la morte del malato di distrofia
Sedativi e sospensione del respiratore sono stati quindi interruzione dell’accanimento terapeutico
di Anna Tarquini
NON FU EUTANASIA, aveva ragione Welby. E né l’anestesista Mario Riccio, né Marco Cappato potranno essere accusati di omicidio per avergli staccato il respiratore. Gli atti che la Procura di Roma si appresta a firmare sono una rivoluzione, una svolta, un
precedente che aprirà la strada a molte altre battaglie. Ieri è stata depositata la perizia che i magistrati che avevano chiesto nel procedimento avviato contro il medico e Cappato e dice che la dose di sedativo iniettata nelle vene di Welby non fu mortale.
È un particolare che segna la differenza. E per sempre. Perché per mesi si è discusso se staccare il respiratore così come chiedeva Welby potesse definirsi eutanasia (cioè un delitto) o fine dell’accanimento terapeutico (cioè un diritto costituzionalmente garantito). E il discrimine passava proprio per quella sostanza che avrebbe addormentato Welby per non farlo soffrire troppo mentre qualcuno lo staccava dalla macchina che lo teneva in vita. Si domandava: morirà per effetto dei barbiturici ingeriti o perché il polmone artificiale smetterà di funzionare? Nel secondo caso, va da sè, sarebbe stato un atto lecito, seppur controverso. Lo avrebbe potuto fare anche Welby, senza coinvolgere altri. Nel secondo no, perché l’eutanasia è appunto provocare attivamente la morte e iniettare un farmaco che causa la morte è eutanasia. E Welby chiedeva di essere aiutato a morire, cioè di essere posto in condizioni di non soffrire con l’aiuto delle medicine. La differenza era tutta qui. E per mesi se ne è discusso, per mesi se ne sono occupati politici e tribunali, medici e preti. Senza soluzione. La risposta che fa la differenza è arrivata ieri sul tavolo dei magistrati che hanno aperto l’inchiesta: i livelli di sedazione nel sangue erano nella norma, Welby è morto perché nessuna macchina si accaniva a tenerlo in vita. Il procuratore Giovanni Ferrara e il pm Gustavo De Marinis avevano chiesto ad un pool di esperti, tra cui la tossicologa Federica Umani Ronchi, di stabilire se la dose di benzodiazepina (un sedativo), fatta scorrere in una flebo nelle vene di Welby, avesse in qualche modo determinato, o meglio fosse stata concausa, del decesso del paziente diventato nei mesi scorsi simbolo della battaglia dei Radicali Italiani, e dell'associazione Luca Coscioni, sulla autodeterminazione e sulla scelta di interrompere o meno una terapia, anche salvavita, come la ventilazione assistita da una macchina. L'esame tossicologico hanno assolto il medico: i livelli della benzodiazepina non sarebbero stati tali da determinare una concausa per il decesso di Welby determinato invece dalla interruzione della ventilazione assistita così come chiesto dal paziente stesso. Adesso si va verso la richiesta di archiviazione che potrà formalmente essere chiesta dai magistrati solo nei prossimi giorni e che segue un analogo adottato dall'Ordine dei Medici di Milano proprio sul comportamento deontologico del dottor Riccio che non fu censurato dall'organismo professionale. «Abbiamo condotto, insieme all'Associazione Luca Coscioni e agli amici Radicali, il nostro impegno per percorrere la strada della legalità» è stato il commento del dottor Riccio. «Non è stata eutanasia, ma interruzione di un trattamento richiesto dal paziente Piergiorgio Welby» ha commentato il presidente dell'ordine dei medici di Cremona, Andrea Bianchi. Aveva ragione lui, e adesso sarà difficile per chi gli ha dato addosso anche da morto, sostenere il contrario.
l'Unità 22.2.07
Indagine sul «giallo» dell’autismo
di Cristiana Pulcinelli
INTERVISTA con Cammie McGovern, autrice del mistery Contatto visivo. «Non c’è solo l’autismo e ho cercato di far capire che le forme di isolamento sono molte»
Adam ha nove anni. In un normale giorno di scuola, durante l’ora di ricreazione, sparisce insieme ad Amelia, una sua compagna. Dopo alcune ore viene ritrovato nel bosco che confina con il giardino della scuola, accanto a lui il cadavere di Amelia, uccisa con una coltellata. Il bambino è stato testimone dell’assassinio, ma difficilmente potrà aiutare la polizia: Adam è affetto da autismo e, dopo lo shock, i suoi già rarefatti rapporti con il mondo si chiudono del tutto.
Contatto visivo (Garzanti, pp 314, euro 16,50) è un giallo avvincente, ma è anche un viaggio attraverso un mondo per lo più sconosciuto, quello dell’autismo. L’autrice, Cammie McGovern, è una signora americana dallo sguardo intelligente. Finora aveva scritto racconti pubblicati su riviste e un romanzo inedito in Italia ma che negli Stati Uniti aveva avuto un certo successo. In questo libro, però, per la prima volta è entrato anche un pezzo della sua vita privata: uno dei suoi tre figli è affetto da autismo.
Perché ha scelto il genere «giallo» per raccontare l’autismo?
«Il primo motivo è che i racconti del mistero mi piacciono. Il secondo motivo è che quando hai un bambino affetto da autismo, ti trovi quotidianamente di fronte a un mistero: lui stesso è un mistero che non arrivi a capire».
In realtà, nel libro non c’è solo l’autismo. Tutti i bambini che hanno un ruolo importante sono bambini problematici. Come mai?
«Ho cercato di far capire che le forme di isolamento possono essere molte. Non c’è solo l’autismo, ma molte altre condizioni con cui sono alle prese tante persone».
Esistono delle caratteristiche del comportamento comuni a tutti i bambini affetti da autismo?
«L’autismo non è una malattia sempre uguale a se stessa. È piuttosto un ombrello sotto cui si possono raggruppare forme di disagio diverse. Tuttavia, ci sono aspetti comuni a tutti i bambini autistici. Uno di questi aspetti è l’alterazione dell’esperienza sensoriale: questi bambini possono essere molto sensibili alla luce o ai suoni e reagire in modo eccessivo a questi stimoli. Un altro aspetto è l’alterazione dell’abilità linguistica. Il linguaggio è sempre compromesso, ma non lo è sempre nello stesso modo. Alcuni bambini, ad esempio, parlano moltissimo di fatti che stanno nella loro testa, altri non parlano affatto. Quello che è importante capire però è che questi bambini non sono chiusi in se stessi o disinteressati al mondo, ma piuttosto hanno un’esperienza del mondo diversa dalla nostra».
Esiste una componente genetica della malattia?
«Sicuramente sì, come dimostra il fatto che è più probabile avere un figlio autistico se ne hai già uno affetto da questo disordine. Quale sia questa componente genetica però ancora non si sa. Quello che oggi si pensa è che ci sia una vulnerabilità genetica a certi fattori ambientali scatenanti. I bambini autistici sarebbero particolarmente vulnerabili a tossine presenti nell’ambiente. A volte così vulnerabili che, si dice, il bambino è allergico al mondo. In effetti, molti di questi bambini hanno problemi gastrointestinali cronici. Mio figlio è uno di loro: ricordo che per anni curare il suo danno cerebrale era passato in secondo piano rispetto al problema di fargli assorbire ciò che mangiava».
Nel suo libro ci sono due temi fondamentali: l’incomunicabilità (che non affligge solo il bambino autistico ma anche gli adulti sani), e il bullismo (che nella scuola viene tollerato con gravi danni). Pensa siano collegati?
«Io credo di sì. Negli Stati Uniti, dove il fenomeno del bullismo è diventato un problema importante, sono anche nati dei programmi di comunicazione sociale: si cerca di insegnare ai bambini a esprimere i propri sentimenti verbalmente piuttosto che con la violenza».
Lei ha creato un’associazione no profit che si occupa di bambini disabili. Che cosa fate?
«L’associazione si chiama Whole Children (bambini interi) ed è nata 3 anni e mezzo fa dall’impegno di 5 mamme di bambini disabili. Oggi ci sono più di 300 bambini che vengono da noi. Sono affetti da autismo, ma anche ciechi, sordi, paralitici. Offriamo programmi ricreativi per il pomeriggio e per i fine settimana. Facciamo ginnastica, yoga, corsi di espressione artistica e musicale, falegnameria».
Quanti sono i bambini affetti da autismo?
«Vent’anni fa la probabilità che a un bambino venisse diagnosticato l’autismo era di 1 su 5000. Oggi di 1 su 166. Il fenomeno è cresciuto in modo impressionante».
Cosa vorrebbe che trovasse nel suo libro la mamma di un bambino autistico?
«La storia del libro è anche una storia di speranza. Solo una piccola parte dei bambini autistici guarirà grazie alla terapia. Tuttavia, molti potranno fare progressi notevoli perché le loro possibilità sono straordinarie. Dobbiamo imparare a celebrare le piccole vittorie. Questo vorrei comunicare a una mamma che si trovi nelle mie condizioni».
l'Unità 22.2.07
Il «dono del grembo»: maternità all’inglese
di Carlo Flamigni
La decisione del Governo inglese di consentire alle donne di vendere i propri ovuli per finalità di ricerca ha fatto discutere. Eppure, a differenza di quanto già avviene in altri Paesi i criteri di selezione sono molto rigorosi
Stefano Rodotà ha pubblicato (La Repubblica, 21.2.07) un interessante articolo nel quale esamina i rischi di un possibile (o, meglio ancora, probabile) libero mercato degli oociti, considerato alla luce della decisione del governo britannico di consentire alle donne di vendere i propri ovuli per finalità di ricerca. Come sempre l'analisi di Rodotà è lucida e completa, ma mi dà l'occasione per qualche commento e per rispondere ad alcune critiche, come sempre più maleducate che obiettive, che mi sono state fatte recentemente. Comincio da queste.
La decisione del governo inglese, intanto, non è così brutale come può sembrare a prima vista. L'Inghilterra ha già sperimentato con successo la via del «dono del grembo», che ha consentito ad alcune donne prive dell'utero o affette da malattie incompatibili con una gravidanza di avere un figlio ricorrendo a una «maternità surrogata», cioè all'aiuto di un'altra donna che ha accettato di custodire e crescere un loro embrione nel proprio utero. Nella maggior parte dei paesi nei quali questa maternità surrogata è consentita dalla legge, esiste un vero contratto tra le due donne e la definizione , in sé piuttosto volgare, di affitto d'utero è in realtà molto aderente al vero. Le critiche a questa «cessione temporanea di funzioni organiche» sono state naturalmente molto severe, ma non hanno impedito la comparsa, in varie parti del mondo, di organizzazioni commerciali che provvedono a reclutare le madri portatrici e a garantire (con molti limiti) che le parti tengano fede al contratto.
In questi caso, come è fin troppo evidente, entrambe le donne pagano un prezzo elevato: molti soldi la madre genetica, un po' di salute, un po' di bellezza e un anno complicato da molte possibili difficoltà la madre surrogata, senza contare il rischio concreto di un difficile distacco dalla creatura cresciuta nel grembo. In Inghilterra questo contratto è stato rifiutato e si è preferita la via dell'atto oblativo: può offrirsi come madre portatrice solo una donna che sa dimostrare, con prove insindacabili, di compiere quella scelta per affetto, il che è a dire un parente stretta o un amica di lunga data della madre genetica. Non ho esperienza diretta di questi eventi, che restano pur sempre avventurosi e complessi, e so che in alcune circostanze si è aperto un contenzioso tra le due donne, talora per motivi piuttosto volgari, quale può essere la definizione del cosiddetto «mancato guadagno», l'unico compenso che le madri surrogate possono ricevere: leggo però, in vari articoli pubblicati sui giornali scientifici, valutazioni complessivamente positive e sono tenuto a concludere che la norma funzioni, cosa che non mi sorprende, considero l'Inghilterra un Paese di straordinaria serietà.
Ebbene, la vendita degli oociti è stata organizzata in un modo abbastanza simile: non tutte le donne verranno accettate dai laboratori, che sono obbligati a considerare solo le offerte di quante tra loro hanno precise e documentate ragioni per sottoporsi al prelievo: si richiede infatti, ancora una volta, che il gesto sia, almeno parzialmente, oblativo e motivato dall'esistenza, tra i familiari di chi si propone, di persone ammalate di quelle affezioni degenerative che prime dovrebbero trovare beneficio dalle ricerche sulle cellule staminali per le quali viene richiesta la disponibilità di oociti umani (diabete Parkinson, Alzheimer.) È dunque molto improbabile che la «vendita» di questi gameti possa rappresentare una fonte di guadagno per «le povere donne immiserite da anni di comunismo reale» (così ho letto) e tenderei a non considerare le 250 sterline un incentivo, ma piuttosto un rimborso per mancato guadagno.
C'è, naturalmente, il problema della terapia di stimolo e di rischi connessi con il prelievo, cose vere e concrete che riguardano tutti gli interventi medici e che vanno esaminate con attenzione. Con attenzione, sì, ma , per cortesia, lontano da ogni tipo di fuoco ideologico. È bene ricordare che tutte le donatrici di ovuli vengono sottoposte a stimolazioni particolari, definite friendly, che non sollecitano la funzionalità dell'ovaio al di là di una certa misura e che in questi casi la selezione delle donne è certamente molto severa. Ho sentito una ricercatrice affermare che anche queste stimolazioni fanno le loro vittime (cioè hanno un quoziente di mortalità) e non posso che suggerire al suo direttore sanitario di chiedere un'inchiesta della magistratura, chissà quanti decessi la brava dottoressa ha provocato con le sue stimolazioni non friendly... In questi casi le sindromi da iperstimolazione ovarica dovrebbero essere molto vicine a zero, e gli unici rischi ai quali posso pensare sono quelle della breve analgesia necessaria per il prelievo.
Non ho quindi vere ragioni per non condividere la scelta degli inglesi e immagino pertanto che le varie critiche dovrebbero piuttosto rivolgersi ai molti paesi europei nei quali la compravendita degli oociti è ammessa senza altre motivazioni se non quelle che derivano dall'interesse economico di chi vende e dall'interesse morale (non so trovare una definizione migliore) di chi acquista. Credo ad esempio che in Spagna, un paese che accoglie una grande quantità di coppie italiane che cercano proprio una donazione di gameti femminili, a vendere siano soprattutto le studentesse, considerata la giovane età media delle cosiddette donatrici. In questi casi è certamente violato l'articolo 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, là dove vieta molto chiaramente di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro.
Il nostro Comitato Nazionale per la Bioetica si trovò ad affrontare un problema abbastanza simile molti anni or sono, chiamato in causa da un quesito del Ministero della Sanità. La questione riguardava pazienti italiani che soffrivano di gravi malattie renali e che andavano in India per sottoporsi a un trapianto renale: naturalmente il rene veniva acquistato, solitamente a prezzi stracciati, da un cittadino di quel Paese. La ragione del quesito era peculiare - i pazienti italiani chiedevano un rimborso al nostro Ministero - ma naturalmente la discussione si concentrò prevalentemente sulla liceità della commercializzazione di parti del nostro corpo.
Non ho intenzione di riprendere qui un argomento che è stato frequentemente dibattuto e che comunque richiederebbe molto spazio, ma voglio semplicemente ripresentare una obiezione che, allora, qualcuno di noi ebbe a muovere nei confronti della condanna quasi unanime che l'acquisto di quei reni suscitò. D'accordo sulla condanna se ci riferiamo a chi acquista, ma che dire di chi, invece, offre una parte del suo corpo o lafunzione di un proprio organo? In questi casi, è ovvio, la motivazione è quella del bisogno: immagino che vendendo un rene, un cittadino indiano abbia potuto sfamare la propria famiglia, o assicurare un minimo di istruzione per uno dei suoi figli. Ci si dovrebbe perciò chiedere se uno Stato che non è in grado di garantire una vita minimamente decente ai suoi cittadini - ma lo fa solo a una parte di loro - ha il diritto di proibire loro di assicurarsi il minimo vitale e di assicurare un po' di dignità alla vita della propria famiglia vendendo parte dell'unica cosa della quale, in fondo, sono proprietari, se stessi. Così, mi infastidisce l'idea che una ragazza spagnola venda i propri gameti per acquistare un ninnolo, ma so, e anche voi sapete, che ci sono motivazioni molto più serie di questa e che ad queste donne non può mancare la nostra compassione.
Debbo dunque per forza concludere che non mi piacciono le condanne degli atti oblativi e non mi piacciono le critiche delle società degli uomini ricchi ai comportamenti delle società degli uomini poveri. Né mi piace il continuo ricorso al truculento fantasma delle slippery slope, il pendio scivoloso: non condanno questa cosa per se stessa, ma perché aprirà inevitabilmente la strada a scelte sempre più opinabili e infine a opzioni moralmente eccepibili. A me sembra l'ultima risorsa di chi non ha argomenti seri da mettere in campo e, visto l'uso eccessivo che se ne è fatto, mi sembra tempo di lasciarla morire di consunzione, evitando ogni accanimento.
Repubblica 22.2.07
Rapporto Istat per il ministero delle Pari Opportunità: quasi il doppio il numero dei casi di molestie a sfondo sessuale
Violenza sulle donne, il nemico in casa
Le aggredite sono quasi 7 milioni, per il 70 per cento colpevole è il partner
ROMA - Oggi come ieri. Nonostante tutto. Come se il tempo non fosse passato. Violenze in casa, silenzio fuori. Il marito, l´amante, il partner che si trasformano in carnefici, in nemici, in persecutori. Botte, pugni, calci, quando non è l´olio bollente, il coltello puntato alla gola, o lo stupro reiterato. Sì, perché l´Istat non ha soltanto "censito" i numeri dei soprusi sulle donne, ma ne ha anche descritto le modalità, le forme, un vero catalogo degli orrori, dove l´aggressione più lieve è lo schiaffo, la più grave l´ustione. È davvero inquietante la fotografia che emerge dalla prima indagine sulla violenza contro le donne realizzata dall´Istat su commissione del ministero delle Pari Opportunità, che ne ha intervistate 25mila di età compresa fra i 16 e 70 anni. Un´indagine ricca, approfondita, curata da Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell´Istat e durata dieci mesi di dialoghi e colloqui con le donne.
Il primo dato è che sono 6 milioni 743 mila le donne tra i 16 e i 70 anni che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita e rappresentano il 31,9% della classe d´età considerata. Ma a queste si devono sommare le vittime dello "stalking", la molestia aggressiva e ripetuta (circa un milione) e l´enorme numero delle donne che denuncia di essere stata oggetto di abusi psicologici (6milioni). Un conteggio che fa schizzare a oltre 14 milioni il numero delle "vittime" complessive dell´aggressione a sfondo sessuale. Nella quasi totalità delle situazioni (96%) le violenze non sono denunciate, in particolare se l´aggressore è il partner. Il nemico infatti, denuncia il report dell´Istat, è ancora e troppo spesso dentro casa. Una vera escalation di violenza domestica se circa una donna su tre (il 34,5%) ha, infatti, dichiarato di aver subito dal partner una "violenza molto grave" e il 29,7% una "abbastanza grave".
Violenze fisiche a cui si sommano quelle sessuali: nella classifica delle aggressioni emerge che l´autore dello stupro, nel 70% dei casi è il proprio marito e compagno. Abusi e sevizie ben note a cui si aggiunge oggi un nuovo tipo di reato, previsto dal disegno di legge del ministro Pollastrini (che chiede al Parlamento di discuterlo al più presto) ossia lo "stalking", la molestia ripetuta, che può arrivare a una vera e persecuzione, e di cui sono state vittime il 18,8% delle donne intervistate.
(m. n. d. l)
Repubblica 22.2.07
Le incarnazioni del male nella storia secondo il grande intellettuale ungherese Fejto
Un'epopea tra l'indifferenza del cielo e la tentazione di credere al "Nemico"
Libri, il silenzio di Dio e la risposta del diavolo
Sullo stesso tema, il capolavoro faustiano di Brjusov
e l'utopia di sangue di Jan da Leida e gli anabattisti
di Dario Oliveiro
LA STORIA E IL DIAVOLO
Francois Fejto è uno degli ultimi grandi testimoni del secolo scorso. Aveva sei anni quando, suddito austroungarico vide scoppiare la prima guerra mondiale. Era un giovane uomo quando l'Olocausto e la Seconda guerra gli portarono via amici e parenti. Era un uomo fatto quando, fuggito in Francia, denunciava lo stalinismo e i suoi crimini e insieme al suo amico Albert Camus si batteva a favore della rivolta di Ungheria. Ora, dalla distanza siderale della sua vecchiaia, con la lucidità e l'energia per fermarsi ancora ad osservare le pieghe più recenti della caduta dell'uomo, quella dei nuovi fanatismi, integralismi, terrorismi, ha scritto del diavolo.
Ne ha scritto come può scriverne solo chi ha avuto in sorte una vita così lunga e piena, che il diavolo ha visto tante volte incarnarsi nella storia, quella grande e quella piccola, in forma più o meno pura. Che lo ha visto realizzare progetti smisurati nel loro orrore. Confondere la capacità dell'uomo di seguire la ragione e impedirgli di costruire un mondo secondo l'interesse generale. Insinuarsi nei desideri, verso i quali l'uomo è così incline, rendendoli bisogni. Impilare soldi e profitti e su questi costruire ordini sociali e povertà planetarie. Fejto ha studiato e osservato così a fondo l'opera del diavolo nel mondo e nella storia dell'uomo che è arrivato a questa conclusione: che il diavolo non esiste. Sfidando la tesi di Baudelaire secondo la quale la più grande astuzia del maligno è stata appunto di convincere tutti che non esiste, l'intellettuale ungherese sostiene che il diavolo non è altro che "un mostruoso capro espiatorio sul quale trasferire la colpa dell'aggressività e dell'odio" che abitano nel cuore dell'uomo.
Non solo. Con un lungo, lunghissimo excursus dalla figura del serpente dell'Antico Testamento al Satana tentatore di Cristo, alle ossessioni di San Paolo fino al Medioevo e alle violenze della Chiesa in nome della lotta contro Lucifero, e oltre ancora fino alle grandi ideologie del XX secolo, Fejto sostiene anche un'altra cosa. Che il diavolo spesso è servito per giustificare il silenzio insostenibile di Dio, la sua indifferenza di fronte al grido che si alza dal basso mondo degli uomini. L'idea del diavolo ha finito per limitare la responsabilità di Dio, limarne l'onnipotenza, rendere la vita dell'uomo in definitiva più sopportabile. E forse è proprio questa la sua ultima grande astuzia. Si intitola Dio, l'uomo e il diavolo (tr. it. A. Fezzi Price, Sellerio, 16 euro).
LA DONNA E IL DIAVOLO
Andatelo a dire a uno come Valerij Brjusov che il diavolo non esiste. Figlio di quella Russia che sull'uomo e sul male non ha mai smesso di interrogarsi da Tolstoj e Dostoevskij fino a Bulgakov, Brjusov ha scritto il suo capolavoro dal titolo L'angelo di fuoco, riproposto ora dopo oltre vent'anni da e/o (tr. it. C. G. De Michelis, 18 euro). Prokof'ev la mise addirittura in musica la storia di questo figlio di buona famiglia che nelle prime venti pagine racconta in un fiato quello che per molti sarebbe un romanzo a parte. Negato per gli studi, affascinato dall'avventura, si ritrova a percorrere, arruolatosi tra i lanzichenecchi, quasi tutti gli avvenimenti più importanti del XVI secolo, sacco di Roma e spedizioni nel Nuovo mondo comprese. Invece quelle prime pagine e quella prima vita nulla sono rispetto a quanto avviene dopo lo spartiacque, l'incontro con una donna. Il legame che ben presto si forma tra lei e lui lo renderà schiavo al punto da sottovalutare (e poi soccombere) il mondo in cui quella donna vive e le sue inclinazioni per l'occulto, le sue notti di tormenti, l'oscurità dei suoi amori. E il compagno invisibile che cammina insieme a lei. E così un uomo con una mente aperta, che conosce e stima il pensiero di Erasmo, Ficino e Pico, che ha visto i capolavori di Raffaello e Michelangelo, che ha saputo affrontare la vita bevendola di un fiato, si ritrova dall'altra parte dello specchio a pagare uno di quei debiti che a volte un uomo contrae per una coincidenza, una strada sbagliata, una piccola circostanza, un errore di calcolo. E non riesce più a estinguere.
L'UTOPIA E IL DIAVOLO
Coincidenza curiosa intercettata nel dialogo segreto che i libri hanno continuamente tra loro: Brjusov allude a un certo punto alla storia degli anabattisti a Munster, quando la città divenne la Nuova Gerusalemme dei seguaci di Jan da Leida. In quell'epoca fenomenale di eresie, nuovi movimenti, grandi speranza messianiche, ansia di rinnovamento spirituale che fu l'Europa della Riforma, a Munster si consumò uno degli eventi più tragici. Robert Schneider ha raccontato quella storia in Kristus, un po' romanzo un po' saggio storico (tr. it F. Porzio, Neri Pozza, 18,50 euro). Per dirla con Fejto, è un altro episodio di come il diavolo, sfruttando il silenzio di Dio e la vocazione dell'uomo a creare il mondo a propria immagine, abbia messo in piedi un regno di fame e di terrore trasformando la speranza nella giustizia e nel nuovo mondo nel solito inferno.
La Stampa 22.2.07
Cattocomunisti di tutto il mondo uniamoci
di Gianni Vattimo
Al centro di "Ecce comu", il nuovo libro di Vattimo, una categoria politico-culturale che credevamo superata
E’ davvero possibile fondare – solo inteso come ispirare, motivare – una posizione politica di sinistra nello spirito di una filosofia debolista o, più chiaramente, nichilista? Che per esempio rinuncia una volta per tutte alla concezione metafisica della verità?
Ho pensato spesso che il mio itinerario (religioso-filosofico- politico) dovesse finire per riassumersi in un motto come: «Dalla San Vincenzo alla San Vincenzo». Il nichilismo filosofico che professo – che non ha necessariamente un senso disperato, negativo, pessimista, ma anzi vuole essere qualcosa come il nichilismo attivo di Nietzsche (sì, quello dell’oltre-uomo...) – comporta una tale presa di distanza dalla retorica politica dello sviluppo e anche della democrazia, che potrebbe risolversi nella scelta deliberata di una posizione marginale, sottratta all’alternativa del «far torto o patirlo».
Non partecipare (più) alle elezioni se non votando come un cittadino qualunque (quando non ho di meglio da fare), prendere con le molle, come si dice, tutti i discorsi dei politici e dei media; al massimo, dedicarsi a iniziative politiche di quartiere, piccole cooperative di reciproca assistenza, banche etiche... È la posizione che spesso ho, tra me e me, bollato come la scelta monastica: il solo modo di non provare rimorsi di fronte ai poveri è farsi poveri come loro...
Già, ma se un nuovo piccolo fratello di Gesù (la congregazione di Charles de Foucauld) si stabilisce in una favela di Rio i poveri del luogo saranno solo uno di più; se invece il mio amico senator-ingegner-capitalista-liberal apre una piccola azienda nella medesima favela e dà un lavoro a qualche decina di disperati, loro forse sono più contenti. È l’alternativa che ho trovato, in termini molto diversi, in una lettera del Nietzsche (già?) pazzo, che da Torino nel gennaio 1889 scriveva a Burkhardt: «Caro professore, alla fin fine avrei preferito di molto fare il professore a Basilea piuttosto che essere Dio; ma non ho osato seguire il mio egoismo privato fino al punto di trascurare, per causa di esso, la creazione del mondo». O anche Machiavelli, almeno nella lettura classica: il principe non può pensare alla propria anima, deve fare tutto quello che è richiesto per la salvezza e l’incremento dello Stato...
La scelta monastica richiede ovviamente una profonda fede nell’altro mondo. Non tutta la salvezza si risolve qui, e anzi l’unico modo, forse, per migliorare il qui è credere nell’oltre...
Se non abbraccio la scelta monastica sarà proprio perché voglio fare «davvero» qualcosa per gli altri (favela brasiliana o università che sia), o solo perché in fondo la politica e la vita del mondo mi piacciono, danno sapore (senso?) alla mia esistenza? Più o meno come non fare il voto di castità, né di povertà e obbedienza... Ma sono problemi sottili, una sorta di snobismo ed eccessiva attenzione alla propria interiorità, che proprio se voglio essere povero con i poveri non posso permettermi. Chi bada a salvare la propria anima la perde; e solo chi accetta di «perdersi» si salva.
Anche questa scelta – «fanno quel che si trova», si dice in piemontese delle donne di strada – richiede fede nella provvidenza; se c’è un Dio ci penserà lui, la mia anima non è affidata principalmente a me. E se poi il Dio che «c’è» non se ne sta nel mondo iperuranio nella sua totale autosufficienza, ma è uno e trino – cioè, come lo capisce la migliore Chiesa, ha una vita che lo porta fuori di sé, e anzi manda il Figlio perché ci aiuti a realizzare lo Spirito (quello di Hegel e di Gioacchino); o ancora, come ha detto Gesù, è fra noi (solo?) quando siamo riuniti nella carità (è il senso dell’essere riuniti nel Suo Nome), ossia è negli altri che mi si rivolgono – allora fare quel che si trova è appunto una via di salvarsi corrispondendo alla «vocazione».
Lo storicismo che anche come «debolista» professo è tutto qui: non «siamo su un piano dove c’è soltanto l’uomo», come scriveva Sartre nel saggio sull’Esistenzialismo come umanismo; siamo su un piano dove c’è principalmente l’essere – ha ragione Heidegger nella Lettera sull’umanismo (1946) con la quale gli risponde. Ma l’essere non è niente di trascendente, è la storia stessa dell’umanità in ciò che ha di «riuscito», in ciò che si è consolidato come tradizione, memoria, istituzione, forme artistiche. Sono gli «altri» nel senso più comprensivo del termine.
Non solo gli altri che hanno vinto e hanno lasciato tracce profonde; anche – forse soprattutto, dopo l’avvento del cristianesimo – coloro che hanno sperato e perso, e che proprio perché non sono «riusciti» meritano di sopravvivere come passato ancora aperto e affidatoci come compito. (Anche in ciò, forse, lo Heidegger di Essere e tempo ha qualcosa da insegnare a Benjamin; e sta con il Bloch del Principio speranza... L’insistenza che molti attribuiscono a una sorta di misticismo di Heidegger, sul compito di pensare il non-ancora-pensato della storia dell’essere, non sarà un altro modo di richiamarci al dovere di ricordare i perdenti del gioco della storia, nella stessa direzione di Benjamin?).
Autore: Gianni Vattimo
Titolo: Ecce comu
Edizioni: Fazi
Pagine: 128
Prezzo: 12,50 euro