mercoledì 7 febbraio 2007

l’Unità 7.2.07
Quel giorno con Lama all’Università
di Piero Marietti


Era grigio, coperto e anche freddo quel 17 febbraio 1977, giovedì grasso. Non lo ricorda nessuno, ma non è da trascurare: era vacanza di Carnevale, niente lezioni, pochi studenti, pochi professori, poco di tutto. Poco anche di voglia di andarci, a sentire Lama che viene a parlare a quelli... che invece sono tanti. Da tempo tengono in scacco l’Ateneo, occupano di tutto, picchiano forte solo se passi vicino, ti sputano addosso, non ti lasciano nemmeno dire buongiorno. Li odi? No, ma di sicuro li temi. Noi sessantottini siamo stati sconfitti da piazza Fontana in poi e non siamo più allenati, né a menare le mani, né a scappare se carica la polizia.
Figurarsi se vogliamo essere picchiati «da sinistra».
Non li odi perché capisci che li spinge la disperazione, si sentono poveri quando avevano loro promesso un luccicante consumismo e se uno si sente povero e pieno di «desideri», sta male da fare schifo. Si ribella perché pensa di non avere vie d’uscita: metti un topo all’angolo e diventa un leone. L’austerità di Berlinguer e la svolta dell’Eur di Lama li vivono come una colica renale.
Sacrifici, sacrifici, he he he, Lama, Lama. Lo cantano come si fa allo stadio, per scherno.
È una turba che si autoconnota plebe, esprime una creatività abortita sullo scemo-scemo da stadio, gli indiani metropolitani hanno un nome spiritoso, sembrano i più simpatici ma purtroppo rimandano solo all’idea di riserva. Secondo loro, il Partito li vuole sfatti, i partiti manco a parlarne (con qualche ragione, lo ammetto), il sindacato è visto più o meno come la Confindustria, l’Università e la Scuola riproducono l’establishment e i suoi privilegi. Ascoltano sirene che poi andranno in Canada, a Parigi, anche in Parlamento, scriveranno saggi imperiali, pontificheranno da talk show e giornali, reciteranno punti politici per la Tv di Giuliano Ferrara, faranno gli assessori e i presidenti della Rai, mai un moto di ripensamento, non dico pentimento, mentre loro resteranno a campionario delle indagini sociologiche sui nuovi poveri.
Questo ci passa per la testa mentre andiamo a fare il nostro dovere di iscritti alla Cgil. Ci posizioniamo elevati in piedi sul muretto dello spiazzo di Chimica. Stiamo praticamente sulla linea di demarcazione tra il servizio d’ordine e loro, collettivamente detti Autonomi.
Il servizio d’ordine fa ridere: capitanati dal compagno Carlini (di lì a poco la sua vecchia Nsu sarà data alle fiamme), persona leggermente pingue, di modi gentili e di voce sempre tenuta bassa, una cinquantina di impiegati con la fascia al braccio. Dietro di loro, verso il palco, quelli che vogliono fare numero per Lama. La mattina c’è stato un tentativo della Camera del Lavoro di accordarsi con gli Autonomi secondo una linea di scontro morbida e solo verbale: insultateci pure, non esagerate, evitiamo lo scontro fisico, non ci facciamo male. Sembra funzionare.
Gli Autonomi si presentano con una scala da biblioteca che alla sommità porta un fantoccio (scritta: Lama) impiccato. Non poche aste di legno che sembra duro reggono improvvisate bandiere rosse, senza simboli. Possibile che per quanto loro siano brutti e cattivi, ci si picchierà tra compagni? Possibile che non porteranno rispetto a Lama? Possibile.
Appena Lama comincia a parlare, la scala con l’impiccato comincia a premere contro il servizio d’ordine delle pancette e delle incipienti calvizie, preme e la folla oscilla, uno sciagurato dei nostri sguaina un estintore e punta sugli autonomi il getto antincendio. Botte da orbi, spintoni e sputi.
Sotto di noi, appoggiato a uno dei lecci, un cumulo di detriti con una buona dose di rottami di vetro. Un ragazzo con la coda di cavallo e gli occhialetti tondi afferra un pezzo di lastra e fa per lanciarla a mo’ di disco verso la folla, chi cojo, cojo.
Scendo, lo abbraccio e gli strillo: «Mi devi ammazzare per farlo!» Lo capisce, chiede scusa e molla il vetro, «Hai ragione», mi dice e scompare nella baraonda. I compagni raccolgono gli altri vetri e li fanno sparire. Lama è già andato via, il servizio d’ordine attempato ha, bene o male, retto l’urto che non deve essere stato tanto deciso, nonostante i sassi e le sedie. Una voce dal microfono invita i compagni a raccogliersi sotto il palco. Mai invito/ordine è stato eseguito con più velocità e tecnica.
Gli Autonomi si trovano davanti una cinquantina di metri liberi, esitano un po’, andiamo via? La danno per vinta? Ma due o tre di loro non si contentano e scattano alla carica urlando come Mel Gibson quando fa Wallace, gli altri, esaltati, seguono. Fuggi fuggi grande, il palco rovesciato, partita stravinta.
Lama era venuto a parlare a quel grumo di disperazione, a dire loro che non era vero, che non erano stati mollati, che l’austerità e i sacrifici erano la loro salvezza (poi s’è visto con la Milano da bere), che li aspettavamo dalla parte nostra per provare a mettere su una società più giusta, mica perfetta, solo più giusta. Era un tentativo politicamente rischioso perché il confine fra scontro politico e provocazione era inesistente a quei tempi, ma era un tentativo generoso come generoso era l’uomo che lo faceva con la sua faccia chiedendo aiuto ai suoi iscritti, a noi, senza costruire un servizio d’ordine con le mani nodose e di poche cerimonie degli edili e dei meccanici.
Fu lasciato solo da tutti i maître à penser, à écrire che gli rimproverarono l’errore politico, una politica nella quale la generosità non trova posto, tutto occupato dal calcolo.
Furono lasciati soli, preda delle loro malinconie, quei ragazzi. Sappiamo come è finita.
*Prorettore dell’Università

l’Unità 7.2.07
Scalzone «Andrò a Vicenza, ma se qualcuno brucerà bandiere Usa io spegnerò quei fuochi»


ROMA «La sovversione non è sbagliata in sé. È sbagliata se mossa da risentimento». Oreste Scalzone è tornato e a 60 anni suonati - festeggiati pochi giorni fa a Ventimiglia - si dimostra perfettamente calato nelle vicende italiane: durante la conferenza stampa in cui è stata presentata l'iniziativa del quotidiano Liberazione, «70. Gli anni in cui il futuro incominciò», l'ex di Potere Operaio spazia dalla base di Vicenza ai fatti di Catania. «Io il 17 vado alla manifestazione di Vicenza - dichiara Scalzone - se va a finire a sassate, sono sincero, non mi dispiace, non mi sento in imbarazzo. Però se qualcuno si mette a bruciare una bandiera americana, solo perché americana, io sarò tra quelli che la andranno a spegnere così come contesterò cori idioti del tipo 10-100-1.000 Nassiriya. Sono cose che non hanno niente di rivoluzionario perché sono mosse da risentimento».

l’Unità 7.2.07
SINISTRA DS. Il leader della seconda mozione a testa bassa contro il Partito democratico
Mussi: «Un progetto lacerante»
«Per quello che mi offrono penso non valga la pena di continuare così».


Inizia fra gli applausi di una sala gremita dell'hotel Palatino a Roma l'intervento del ministro dell'Università, Fabio Mussi, che ieri ha presentato ai ds del Lazio la mozione del correntone in vista del prossimo congresso della Quercia. «Raramente- prosegue Mussi- sono stato convinto come ora del «No» al Partito democratico: davanti a questa scelta le uniche alternative sono lasciare o combattere, e io ho deciso di combattere, per proporre una prospettiva diversa da quella del partito democratico».
Una prospettiva «socialista ed europea, che riunifichi la sinistra italiana e la salvi dalla crisi, che è anche la crisi dell'Italia intera».
Le critiche più nette sono rivolte però al nascente Pd: «Si dice che servirà alla stabilizzazione del governo- continua Mussi- ma io dico che dovremo fare i salti mortali per evitare i danni provocati dall'instabilità di questo nuovo partito». Un partito debole, «che non sa dove stare al mondo»: secondo Mussi, infatti, «è evidente che un futuro partito democratico potrà costruirsi solo al di fuori del Pse, altrimenti non avrebbe questo nome». E, prosegue il ministro a mo’ di esempio, «non bisogna dimenticare che sulla questione delle cellule staminali fu la Margherita ad opporsi, così come oggi si oppone ai Pacs».
Di fronte a un progetto che «rischia di dividere ancora la sinistra», allora, secondo Mussi si può e ci si deve opporre per cambiare le cose: come successe nel caso del ritiro delle truppe dall'Iraq, quando «lottando riuscimmo a portare via i nostri soldati, evitando alla sinistra di essere sommersa dal fallimento della politica estera in Iraq».
Fabio Mussi, non risparmia i «compagni» Piero Fassino e Massimo D'Alema. La prima stoccata è per il segretario del suo partito e la mozione che presenterà al congresso: «Fassino- dice Mussi- ha firmato una mozione laica, pacifista, ambientalista, e mai come prima socialista: si tratta però di una truffa, dovuta al fatto che si deve fare il pd», accusa Mussi. E lo stesso Fassino «afferma che quello che ci sarà fra tre mesi sarà non l'ultimo, ma il penultimo congresso dei ds». Anche in questo caso, secondo Mussi, Fassino agisce «per illudere i contrari al pd, nel tentativo di far loro sperare che qualcosa possa ancora cambiare: ma così illude i contrari e delude coloro che al pd realmente credono- conclude Mussi.

l’Unità 7.2.07
SCIENZA Una ricerca dell’Università di Padova ha individuato forti somiglianze tra il patrimonio genetico dei toscani e quello delle popolazioni dell’Asia occidentale
Il Dna svela il mistero: gli Etruschi (e le mucche maremmane) vengono da Oriente
di Nicoletta Manuzzato


Erodoto aveva ragione: l’origine degli Etruschi e della loro raffinata cultura va rintracciata in Medio Oriente. A confermare le affermazioni dello storico greco non è la scoperta di nuovi reperti archeologici, ma uno studio genetico sui toscani moderni uscito su The American Journal of Human Genetics. Lo ha realizzato un’équipe internazionale guidata dal professor Antonio Torroni, dell’Università degli Studi di Pavia. I ricercatori pavesi hanno preso in esame 322 persone di tre diverse località che un tempo appartenevano all’antica Etruria: Murlo (provincia di Siena); Volterra (Pisa) e Valle del Casentino (Arezzo). Il loro Dna mitocondriale è stato posto a confronto con quello di altri 15.000 soggetti di 55 popolazioni europee e dell’Asia occidentale, tra cui sette italiane.
Il Dna mitocondriale costituisce un vero e proprio archivio molecolare. I 37 geni che lo compongono rappresentano solo una piccola frazione del genoma umano, ma hanno una particolarità: vengono trasmessi unicamente per via materna. Poiché sono caratterizzati da mutazioni fino a venti volte più frequenti rispetto ai geni del nucleo (che ereditiamo da entrambi i genitori) e poiché tali mutazioni hanno scandito la nostra colonizzazione del pianeta, i diversi rami dell’albero evolutivo mitocondriale tendono a essere circoscritti a determinate popolazioni e a determinate aree geografiche. Analizzando questa parte del nostro genoma possiamo perciò seguire come su una mappa le migrazioni delle nostre lontane antenate.
Nel caso degli Etruschi il responso è chiaro: «I dati che abbiamo ottenuto evidenziano l’esistenza di un legame genetico diretto e relativamente recente tra i toscani moderni e le popolazioni del Medio Oriente», spiega il professor Torroni. «Oltre il 5% dei toscani presenta sequenze di Dna mitocondriale assenti negli altri gruppi europei e italiani e presenti invece nell’area mediorientale».
«Al tempo di Atys, figlio del re Mane, ci fu in tutta la Lidia una tremenda carestia... Il re, divisi in due gruppi tutti gli abitanti, ne sorteggiò uno per rimanere, l’altro per emigrare dal paese... Quelli di loro che ebbero in sorte di partire scesero a Smirne, costruirono navi e, imbarcati tutti gli oggetti che erano loro utili, si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra finché, oltrepassati molti popoli, giunsero al paese degli Umbri, dove costruirono città e abitano tuttora». Così Erodoto, nel V secolo avanti Cristo, narra l’arrivo in Italia di queste genti provenienti dall’Asia Minore.
Tale ricostruzione venne messa in dubbio fin dall’antichità: nel primo secolo avanti Cristo, Dionigi di Alicarnasso propendeva per un’origine autoctona degli Etruschi. In seguito spuntò una terza ipotesi, che poneva la culla etrusca in Europa centrale. Ora la scienza non solo dà ragione ad Erodoto, ma avvalora anche i dettagli del suo racconto. La migrazione avvenne effettivamente via mare e, oltre a «tutti gli oggetti che erano loro utili», i nuovi venuti portarono con sé anche gli armenti. Lo stabilisce una ricerca sui bovini diretta dal gruppo del professor Paolo Ajmone-Marsan, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, e alla quale ha collaborato anche il gruppo pavese.
Che cosa ci dice il Dna mitocondriale dei bovini? Che le razze chianina e maremmana, tipiche dell’area toscana, sono geneticamente molto più vicine agli esemplari mediorientali che a quelli europei. Ma perché possiamo parlare con certezza di uno spostamento via mare? «La migrazione via terra che avviene con l’espandersi dell’agricoltura - spiega il professor Ajmone-Marsan - è molto lenta e graduale ed è accompagnata dalla perdita della variabilità genetica degli animali. Immaginiamo una cesta piena di palline colorate: se trasferiamo con successive manciate queste palline in altri cesti, ogni passaggio determina la diminuzione dei colori rappresentati. Invece in Toscana troviamo intatta la variabilità presente nell’area mediorientale». Da quelle navi provenienti da oriente sbarcarono dunque non solo gli avi degli odierni toscani, ma anche i capostipiti di quel Bos etruscus che lo scrittore latino Columella ci segnala nel suo trattato sull’agricoltura.

Repubblica 7.2.07
POLEMICHE/ A PROPOSITO DI UN ARTICOLO DI VITTORIO MESSORI
IL VERO MASSACRO DEI CATARI
Assurde enormità su una setta antica
di FRANCESCO ZAMBON


Sul Corriere della Sera di mercoledì 31 gennaio, Vittorio Messori propone la costituzione di una "Lega anticalunnia" in difesa dei cattolici, allo scopo di rettificare - basandosi «sui dati esatti e sui documenti autentici» - alcune verità storiche che sarebbero deformate da "falsi miti". Il "falso mito" che Messori prende di mira nell´articolo è lo sterminio dei catari, con particolare riferimento a un episodio della Crociata scatenata da papa Innocenzo III per debellare l´eresia catara nel Mezzogiorno francese, la presa e il sacco di Béziers (1209). Ma altro che dati esatti e documenti autentici! Gran parte di quelle che ammannisce Messori sono delle vere enormità dal punto di vista storico. Sorvoliamo su pure invenzioni a scopo di calunnia (queste sì!), come il fatto che i catari sarebbero stati seguaci di una «cupa, feroce, sanguinaria setta di origine asiatica». È ben noto da innumerevoli fonti, per lo più cattoliche, che essi praticavano la forma più rigorosa di non violenza, astenendosi dall´uccisione sia degli uomini sia degli animali. Alcuni contadini impiccati a Goslar nel 1051, fra le prime vittime della repressione cattolica, furono accusati di eresia e condannati solo per aver rifiutato di un uccidere un pollo!
Ma veniamo alla strage perpetrata dai crociati a Béziers il 22 luglio 1209, all´inizio della Crociata albigese. Messori afferma che se eccidio ci fu, esso fu giustificato «dall´esasperazione provocata dalla crudeltà dei càtari, che non solo a Béziers da anni perseguitavano i cattolici». Ora, a parte il paradosso di presentare come persecutori coloro che furono perseguitati per oltre un secolo in tutta Europa, proprio il caso di Béziers mostra esattamente il contrario di quanto vorrebbe farci credere Messori: i cattolici erano così poco esasperati dai catari, che la ragione per cui la città fu attaccata e distrutta fu il rifiuto da parte dei suoi abitanti, fedeli alla propria autonomia municipale e ai propri princìpi di tolleranza, di consegnare ai crociati i circa duecento sospetti di eresia (tanti erano) di cui il vescovo Renaud de Montpeyroux aveva provveduto a stilare la lista.
Ma tutta la ricostruzione del sacco di Béziers proposta nell´articolo è pura deformazione storica, costellata di clamorosi errori e falsificazioni. In particolare per quanto riguarda la frase che avrebbe pronunciato il legato pontificio Arnaldo Amalrico, allora alla guida dei crociati, in risposta ai suoi uomini che gli chiedevano che cosa fare della popolazione, in maggioranza cattolica: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», avrebbe risposto. Messori nega l´autenticità di questa frase, che è riportata da un autore tedesco, il monaco cistercense Cesario di Heisterbach, nel suo Dialogus miraculorum. Per svalutarne l´attendibilità, egli afferma che l´opera di Cesario sarebbe stata scritta sessant´anni dopo i fatti. Peccato che a quest´epoca Cesario fosse già morto da quasi trent´anni. In realtà il Dialogus fu scritto fra il 1219 e il 1223, appena una decina d´anni dopo il sacco di Béziers.
Certo, l´autenticità della frase attribuita ad Arnaldo è stata molto discussa dagli storici; ma oggi si tende a ritenerla del tutto plausibile, essendo stata dimostrata la molteplicità e attendibilità delle fonti dirette di cui disponeva Cesario. Comunque, autentica o no, la frase (che in realtà suona così nel testo di Cesario: «Massacrateli tutti, perché il Signore conosce i suoi», con una riconoscibile citazione della Seconda lettera a Timoteo di san Paolo), corrisponde esattamente a ciò che avvenne e, contrariamente a quanto sostiene Messori, trova riscontro in numerose altre fonti contemporanee. La più sconvolgente è proprio la lettera ufficiale che Arnaldo in persona, insieme all´altro legato pontificio Milone, scrisse al papa per riferirgli l´accaduto e che si può leggere nel volume 216 della Patrologia latina: «La città di Béziers fu presa e, poiché i nostri non guardarono a dignità, né a sesso, né a età, quasi ventimila uomini morirono di spada. Fatta così una grandissima strage di uomini, la città fu saccheggiata e bruciata: in questo modo la colpì il mirabile castigo divino».
I nostri, dice Arnaldo: siano stati tutti gli assalitori a compiere la strage o solo i cosiddetti "ribaldi" (ossia i mercenari al seguito dell´esercito crociato), Arnaldo se ne assume pienamente e trionfalmente la responsabilità, parlando di "mirabile castigo divino". Il numero di morti di cui si vanta è sicuramente esagerato, come lo è quello fornito da altri testimoni e cronisti (qualcuno parlò addirittura di centomila): si voleva indicare solo una mattanza straordinaria, che restò a lungo nella memoria della gente. Ciò che avvenne fu proprio quel che lascia intendere la frase attribuita ad Arnaldo: fu compiuto uno sterminio indiscriminato degli abitanti di Béziers, cattolici ed eretici, uomini e donne, vecchi e bambini.
Se gli argomenti della "Lega anticalunnia" che Messori propone di costituire sono quelli addotti nel suo articolo, temo che per essa non si aprano grandi prospettive. E credo che la Chiesa non abbia davvero bisogno di questa nuova e goffa forma di "negazionismo" per difendere i propri valori e propri princìpi.

Repubblica 7.2.07
QUANDO LA PAROLA UCCIDE
Per una nuova traduzione di "Antigone"
di Massimo Cacciari


Il dramma di Sofocle va in scena domani sera a Torino: l´eroina e Creonte sono figure inseparabili e incarnano l´essenza del dialogo tragico che culmina in un conflitto incomponibile
Il terreno della sepoltura dei vinti è arrischiato quanto nessun altro

TORINO - Anticipiamo parte dell´introduzione di Massimo Cacciari all´Antigone di Sofocle, da lui curata e tradotta, in uscita domani nella Collezione di Teatro Einaudi (pagg. XIV+48, euro 8,50). Sempre domani, alle 20.45, al Teatro Astra di Torino andrà in scena lo spettacolo diretto da Walter Le Moli, che si basa appunto sulla nuova versione.
Altri spettacoli classici sono in programma, voluti dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino (in collaborazione con Teatro di Roma e Fondazione Teatro Due): da La folle giornata o il matrimonio di Figaro, di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, nella traduzione di Valerio Magrelli, a Dossier Ifigenia, da Euripide, in quella di Edoardo Sanguineti.

Il grido acuto di Antigone, «come di uccello angosciato alla vista del nido deserto», deve poter essere udito, ora lontano ora incombente, in ogni momento della tragedia. Esso riempie ogni sua pausa e ne determina il ritmo. La parola articolata non può liberarsene, ma lo porta in sé come sua propria, intima «dissonanza».
La parola assume questo timbro quando essa si fa effettualmente, corporalmente toedtendfactisches, quella parola capace di uccidere, di recare morte, di «divenire» mortale (più che toedlichfaktisches, meramente «assassina»), che è per Hölderlin «das griechischtragische Wort», la parola greco-tragica. Tale tremenda potenza della parola si manifesta nell´Antigone nella sua forma più pura, come archè della parola stessa. È la sua originaria energia che la produce e la muove, è essa che ne spiega l´inesausto agonismo, è per essa che le parole si affrontano nella più pericolosa delle gare, nel dialogo. E mai essa si rivela più potentemente che nella parola ispirata, "entusiasta": se infatti uccide la parola di Creonte, ancor più duramente colpisce quella di Tiresia, e proprio perché fino all´ultimo trattenuta essa si scatena alla fine quasi selvaggiamente. Mortale per Creonte la parola di Emone, il cui ultimo timbro sarà quello sputo, nel talamo-tomba di Antigone, tanto più feroce di ogni punta di spada. Da morte a morte conducono, infine, le parole di Antigone, tutte comprese nel destino comune della stirpe: inseparabili fino a darsi reciproca morte hanno "dialogato" i fratelli; e in diversa forma questo stesso polemos continua ora tra Antigone e Creonte. Poiché Logos è Polemos, e l´unità del divino non può darsi che nel contrapporsi delle parole, non si rivela ai mortali che nell´articolarsi-distinguersi delle sue dimensioni, dei suoi dominî, delle sue timai.
Questo è l´essenziale: comprendere l´inseparabilità dei Due, Antigone e Creonte. E dare alla voce di entrambi tutta la sua potenza "omicida". Assolutamente necessari l´uno all´altro, metafisicamente estranei a ogni odio personale, inarrestabili nel "rendersi morte", essi incarnano così l´essenza del dialogo tragico. Il dialogo è tragico quando le distinte dimensioni della Parola si incontrano e affrontano pervenendo ciascuna all´acme della propria chiarezza, della coscienza di sé, e proprio su questo limite manifestano l´impotenza a comprendersi e accogliersi. Quando due figure si affrontano con l´arma più tremenda, la parola, e scoprono reciprocamente di essere destinalmente impotenti all´ascolto, lì scoppia il conflitto incomponibile - che significa tuttavia, a un tempo, la necessità della loro relazione. Antigone non sarebbe senza Creonte, mentre del tutto contingente è il suo rapporto con Emone. E così per Creonte solo il rapporto con Antigone, l´antagonismo con la figlia di Edipo, lo caratterizza irreversibilmente. Le parole di Creonte ed Emone possono contraddirsi intrecciandosi - e la possibilità, per quanto estrema, del loro accordo è la speranza del Coro. Creonte si fra-intende con il Coro e con tutte le altre personae della tragedia, con Tiresia anzitutto. Soltanto con Antigone il dialogo diviene polemos purissimo, affrontamento di principî che si "conciliano" solo nel darsi reciproca morte.
Certo, l´assoluta "fedeltà" di entrambi al proprio dèmone non li esenta dal dubbio; nell´imminenza del supplizio Antigone si chiede se nella sofferenza non le verrà inflitto di scoprire un suo errore, e a Creonte la maledizione di Tiresia spalanca all´ultimo la vista di un abisso che fin dall´inizio traspariva dalla sua ostinazione. L´eroe tragico incarna il proprio destino e fa ciò che deve nel dubbio e nella interrogazione, mai passivamente. E tuttavia a entrambi non è dato che insistere nella propria parola, anche se essa condanna e si condanna alla morte. Simone Weil sembra accomunare per un momento il dubitare di Antigone (un cenno appena, ma il cui timbro è necessario far sempre udire) con quello di Arjuna nella Gita: è il dubitare che si risolve nell´agire, secondo il senso tragico del dran, spiegato da Snell, nell´agire in quanto decisione irrimediabile corrispondente all´essenza del protagonista. Ma l´eroe dell´epos indiano trova pace alla fine nell´agire secondo il suo dharma, mentre l´autonomia dell´eroe tragico si manifesta sempre nella contraddizione con l´altro da sé. La sua parola non dà morte che ricevendola; anzi, non vive in tutta la sua luce che per questa "dialettica".
E affinché proprio quest´ultima si manifesti nella forma più comprensibile, e possa perciò la partecipazione al dolore "convertirsi" in conoscenza, sarà necessario che le parole autonome dei protagonisti risuonino logicamente coerenti col principio che ne domina il carattere. Nulla in questo dramma costantemente intonato al threnos, al canto luttuoso, viene risparmiato dalla "cura" dell´indagine; nulla si dichiara con semplice im-mediatezza. Creonte esprime certo l´immanente pericolo dell´agire politico, della prassi, ma non è affatto tiranno secondo l´accezione usuale del termine. Creonte ha ben regnato, ha ben meritato per la polis, l´ha salvata dalla catastrofe contro prepotenti schiere nemiche. Lo riconosce il Coro, lo riconosce Tiresia.
Per tradizione, forse, per convenienza, certo senza intima convinzione, ha sempre rispettato anche le arti della divinazione e gli oracoli divini. Si badi, neppure il suo decreto che scatena la tragedia va preso come espressione di un impeto d´ira, di irragionevole, delirante volontà di vendetta. Certo, il terreno della sepoltura dei vinti è arrischiato quanto nessun altro per chi regna; qui davvero la dimensione del sacro si confonde nel modo più pericoloso con la decisione politica. Fino a che punto si può spingere la damnatio del nemico vinto e ucciso senza diventare offesa degli dèi di sotterra, empietà? Creonte non ignora affatto il problema, non si slancia affatto inconsapevole nell´abisso che il suo comando gli prepara; è evidente, invece, in tutto ciò che dice e che compie, il suo sforzo di trovare a quel problema convincente, responsabile, ragionevole risposta. La stessa pena che infligge ad Antigone viene da lui predisposta senza "sadismo" alcuno, ma proprio per evitare l´accusa di empietà. Anzitutto, appare a lui manifesta l´enormità della colpa di Polinice; non si tratta del semplice nemico, ma del fratello che vuole annichilire i fratelli, la terra che l´ha nutrito, gli dèi stessi che l´hanno protetto. Non dovrebbero proprio i custodi del sacro essere i suoi più convinti alleati nel decretare tale condanna? L´enormità della pena segue all´enormità del peccato, nient´affatto alla prepotenza di chi la commina. Inoltre, Creonte fa intendere bene che nella città altri, più o meno segretamente, parteggiavano per il vinto.
Poteva Polinice non trovare simpatie e sostegno all´interno della stessa Tebe? Colui che regna saldamente (e razionalmente!) sa di non potersi mai limitare al peana vittorioso, come quello che il Coro intona nel Parodo, ma di dover subito colpire «il seguito clandestino dei vinti» (K. Reinhardt). La pena inflitta al cadavere di Polinice deve suonare avvertimento tremendo, tanto più necessario, agli occhi di Creonte, quanto più lo stesso Coro degli anziani e più grandi di Tebe mostra esplicitamente riluttanza a condividere la decisione del sovrano. E che tale decisione non sia affatto espressione di ira violenta lo dimostra ancora, ad abundantiam, il trattamento riservato al servo che annuncia il "crimine" di Antigone, e, poi, la "assoluzione" di Ismene. Semmai è proprio, invece, il suo cedere alla fine un movimento immediato dell´animo, un incondizionato riflesso difronte alla maledizione di Tiresia. Più che una meditata "conversione", un ragionato "pentimento", esso somiglia a una manifestazione di irrefrenabile paura. Egli non "cede" alle parole di Tiresia, ma piuttosto precipita, compie la propria catastrofe.


Repubblica 7.2.07
Se il Dio di Ruini diventa di destra
di Ezio Mauro


C'È UNA domanda cruciale per la politica italiana che nessuno fa a voce alta, assordati come siamo in questo inizio di secolo dal suono delle campane dei vescovi. Eppure è una domanda che, a seconda delle risposte, può cambiare il paesaggio politico del nostro Paese e può ridefinire alleanze e schieramenti. La questione è molto semplice e si può sintetizzare così: è ancora consentito, nell'Italia del 2007, credere in Dio e votare a sinistra?

Nel silenzio della coscienza individuale è senz'altro possibile e anzi è comune, risponderebbero molti dei nostri lettori, che hanno in mano un giornale laico, sono in parte cattolici e votano abitualmente per lo schieramento di sinistra, magari talvolta turandosi il naso. E infatti, non è la libera testimonianza individuale che è in discussione: e ci mancherebbe. Ciò che invece mi sembra sotto attacco è l'organizzazione politica del pensiero cattolico di sinistra, la sua "forma" culturale, l'esperienza storica che ha avuto in questo Paese e infine e soprattutto la traduzione concreta di tutto ciò nella nostra vita di tutti i giorni e nel possibile futuro. Cioè l'alleanza tra i cattolici progressisti e gli ex comunisti che è al centro della storia dell'Ulivo, che oggi forma il baricentro riformista del governo Prodi e che domani dovrebbe essere la ragione sociale del nuovo partito democratico, risolvendo l'identità incerta della sinistra italiana.

Se non fosse così, non si capirebbe tutto ciò che si muove in queste ore sotto il mantello dei vescovi. È come se per la gerarchia fosse iniziata la terza fase, nei rapporti con la politica italiana. Prima, nel Paese "naturalmente cristiano", la Chiesa poteva presumere di essere il tutto, affidando ad un unico soggetto politico - la Democrazia Cristiana - la traduzione nel codice statuale dei suoi precetti e la tutela dei suoi timori, sempre nell'ombra dei corridoi vaticani, perché l'impronta del Papato oscurava comunque in una surroga di potenza l'identità culturale dell'episcopato nazionale.

Poi, a cavallo del giubileo e all'apogeo di un papato universale come quello di Wojtyla, ecco la coscienza per la Chiesa di essere finita in minoranza in un Paese cattolico per battesimo ma scristianizzato nei fatti, improvvisamente "terra di missione" per una riconquista che per compiersi ha bisogno di un disegno forte e autonomo dei vescovi, perché dopo secoli anche in Italia da "tutto" la Chiesa deve diventare "parte".

L'uomo che gestisce il passaggio in minoranza della Chiesa - la seconda fase - e capisce le potenzialità politiche di questa nuova condizione, è il cardinal Ruini, presidente della Cei.

Diventando parte, la Chiesa diventa reattiva, combattiva, entra in concorrenza con le altre grandi agenzie valoriali e le centrali culturali, si "lobbizza" agendo da gruppo di pressione sui centri di decisione della politica e soprattutto della legislazione. Ruini intuisce che la sfida della modernità, in questa fase, è soprattutto culturale, e capisce di trovarsi di fronte - dopo Tangentopoli e la caduta del Muro - partiti senza tradizione, senza bandiere, senza identità storica. Il pensiero debole della politica italiana può dunque essere attraversato facilmente dal pensiero forte del Papa guerriero, e nella breccia possono utilmente infilarsi i vescovi per una politica di scambio che abbia al centro i cinque temi della vita, della solidarietà, della gioventù e soprattutto della famiglia e della scuola.

La terza fase comincia quando Ruini avverte che alla Chiesa è consentito, nei fatti, ciò che nella Repubblica non è permesso alle altre "parti". Ogni componente della società, ogni identità culturale, nella sua autonomia e nella sua libertà deve riconoscere un insieme in cui le parti si ricompongono: lo Stato. Ma è come se la Chiesa, mentre ammette di essere diventata minoranza, non accettasse di vedere in minoranza i suoi valori, faticasse a stare dentro la regola democratica della maggioranza, dubitasse del principio per cui in democrazia le verità sono tutte parziali, perché lo Stato non contempla l'assoluto. La Chiesa oggi in Italia è più debole di ieri nei numeri? Non importa, perché i numeri non contano visto che per Ruini il cristianesimo è avvertito nel nostro Paese come "senso comune", una sorta di substrato antropologico, una specie di natura italiana: alla quale si può trasgredire solo con leggi che diventano automaticamente contro natura, dunque sono contestabili alla radice.

È un discorso che ha in sé l'obiettivo grandioso della terza e ultima fase del lungo regno ruiniano sull'episcopato italiano: la riconquista dell'egemonia, non più attraverso il partito dei cristiani ma direttamente da parte della Chiesa, che con la spada di questa egemonia rifonderà la politica, separando infine il grano dal loglio e costituendo un nuovo protettorato dei valori nell'esercizio di un potere non più temporale, ma culturale. Un progetto che può compiersi solo davanti ad un sistema politico gregario, senza autonomia, incapace di testimoniare un sentimento civile della Repubblica, svuotato di identità al punto da vedere nella Chiesa l'ultima agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie. Fonte ancora di mobilitazione, forse di legittimazione, almeno di benedizione, in un Paese in cui tutti i leader politici - o quasi - si sono convertiti se non altro mediaticamente, o comunque hanno dichiarato di essere pronti a farlo, e altrimenti sono in lista di attesa: o, come si dice, in ricerca.

Siamo davanti ad una sorta di neo-gentilonismo, con la religione che diventa materia di scambio, nella presunzione che sia vera la leggenda del voto cattolico di massa orientato dalla stanza del vescovo. Con l'intercapedine culturale dei partiti debole e fragile, la Chiesa scopre la tentazione di raggiungere direttamente il legislatore, si accorge che la precettistica può influenzare molto da vicino la legge, dimentica la distinzione suprema tra la legge del creatore e la legge delle creature. Se il disegno è egemonico, tutto è potenza. E se un testo legislativo diventa simbolico, qui si deve dare battaglia fino in fondo perché la bandiera trascende la norma e il valore ideologico supera il valore d'uso. Ecco la prima risposta alla domanda intelligente di Giuliano Ferrara ai vescovi: dove volete andare con questa battaglia intransigente, non più negoziale, sui Pacs, visto che si prepara "un risultato che collocherebbe l'Italia in un ambito di cautelosità e di disciplina morbida delle pretese nuove forme di famiglia"? Semplicemente, vogliono andare fino in fondo: non della battaglia sui Pacs, ma della battaglia per l'egemonia culturale, che è appena incominciata.

Come accade in ogni battaglia, anche in questo caso il cardinal Ruini lascerà tra poco in eredità al suo successore non solo le truppe, le mappe e le strategie, ma anche le alleanze. Che sono tutte a destra, perché qui si compie, oggi, la lunga cavalcata di quello "strano cristiano" che avevamo visto muoversi sulla scena italiana per la prima volta sei anni fa. Incapace da più di un decennio di far nascere un nuovo sistema culturale che dia un codice moderno ed europeo a moderati e conservatori, la destra si accontenta della prassi di potere e di consenso berlusconiana e prende a prestito le idee forti, che non ha, nel deposito di tradizione della Chiesa italiana. La destra cerca un pensiero, la Chiesa cerca la forza e nell'incontro inedito il verbo si fa carne: e poco importa che sia carne pagana, con la mistica idolatra del berlusconismo che ha introdotto una nuova religione in politica, rendendo Dio strumento dell'unzione perenne al demiurgo, mentre nasce un nuovo "cristianismo", con la fede svalutata in ideologia.

Se questo disegno si compie, la Chiesa corre il rischio mondano di diventare parte, se non addirittura un soggetto politico diretto, e si amputa a sinistra la cultura politica cattolica, per la prima volta nella storia della Repubblica. Escludendo quei cattolici democratici che hanno preso parte attiva alla nascita della costituzione e delle istituzioni repubblicane, e che soprattutto hanno saputo per decenni coniugare la fede con la laicità dello Stato. Forse per il cardinal vicario vale ancora la condanna di Augusto Del Noce contro i "progressisti cattolici": "Trasformano talmente il cristianesimo per non ledere l'avversario, che bisogna dubitare se effettivamente credano". Certo, per Sua Eminenza vale la profezia di Rocco Buttiglione: "Il cattolicesimo che si era lasciato ridurre nell'inglobante progressista oggi non ha più nulla da dire, torna attuale il pensiero cattolico che aveva rifiutato il progressismo".

La partita ruiniana sembra puntare proprio qui, a far saltare l'alleanza tra i cattolici democratici e la sinistra ex comunista, in un disegno riformista che può diventare un partito. Ecco perché ieri sui Pacs - dove i vescovi intervengono ormai sugli articoli di un disegno di legge, non sui valori - è riecheggiato addirittura il solenne "non possumus" di Pio IX, con un monito preciso contro la sinistra e in particolare contro i cattolici democratici: quanto sta accadendo, ha scritto infatti con chiarezza il giornale dei vescovi con un linguaggio mai usato nei giorni più neri della Repubblica, è "uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana".

Il dado, a questo punto, sembra tratto. È vero che la presenza cristiana nel Paese, come dice Pietro Scoppola, non è riducibile a questo schema di comodo. Ma la Chiesa, con lo spartiacque benedetto di Ruini rischia di aprire per la prima volta un fronte religioso nella battaglia politica italiana, qualcosa che non abbiamo ancora conosciuto, una faglia inedita. In un terreno fragilissimo, dove troppi politici sono pronti a cambiare opinione a ogni rintocco di campana, sensibili nei confronti dei vescovi molto più al comando che ai comandamenti. Ecco perché bisogna chiedersi se è ancora consentito credere in Dio e votare a sinistra.

Anche se bisognerebbe aggiungere un'ultima domanda: in quale Dio? Nella prima fase dell'era Ruini, era un Dio post-democristiano, comodo perché relativo, appagato dalla sua onnipotenza e affaticato dal suo declino. Nella seconda fase, quella della minoranza, è diventato un Dio italiano, in una sorta di via nazionale al cattolicesimo. Oggi, rischiano di farci incontrare un Dio di destra, e già solo dirlo sembra una bestemmia.

(7 febbraio 2007)

il Riformista 7.2.07
SETTANTASETTE 1. LA VIOLENZA ESTREMISTA
Non c’è dubbio, il Pci capì con ritardo. Eppure la linea della fermezza fu giusta
di Federico Fornaro


Ripercorrere nel libro di Lucia Annunziata 1977. L’ultima foto di famiglia (Einaudi), quell’anno così dominato dall’odio e dalla violenza provoca l’effetto di un pugno diretto nello stomaco. Di quelli che fanno male. Sono passati trent’anni e a differenza del ’68, il ricordo di quel movimento non provoca alcun fremito e neppure rimpianti. Eppure hanno ragione sia Paolo Franchi sia la Annunziata a invitare a ragionare, a guardare dentro quei cortei, quelle vetrine spaccate, quelle P38 (prima disegnate simbolicamente nell’aria con tre dita della mano e poi divenute drammaticamente vere). Riflettere su quella stagione, infatti, è certamente utile per comprendere sia i limiti della strategia del compromesso storico, con la progressiva dilapidazione da parte del Pci dello straordinario patrimonio elettorale conquistato nelle elezioni amministrative del 1975 e in quelle politiche del 1976 sia le radici profonde del fenomeno terroristico del nostro Paese. Se la cifra del movimento di protesta del ’68 era stata la fantasia contrapposta al grigiore burocratico della società dell’epoca, quella del ’77 sarebbe diventata rapidamente quella della violenza contro lo Stato nelle sue molteplici articolazioni, partiti compresi. Il Pci e la stessa Fgci del “questurino” Massimo D’Alema - così era stato ribattezzato dai dirigenti del movimento il segretario dei giovani comunisti - non ebbero dubbi sulla scelta da compiere e si schierarono senza esitazioni dalla parte delle istituzioni. La Annunziata, all’epoca giovane dirigente del Manifesto-Pdup, in tutto il suo racconto cerca di mettere in luce i ritardi nella comprensione delle ragioni del nascente movimento, facendo trasparire a più riprese l’idea che un diverso atteggiamento del più grande partito della sinistra - e del loro alleato Francesco Cossiga, ministro democristiano dell’Interno - avrebbe potuto limitare, se non addirittura evitare la deriva violenta impressa, dopo gli scontri del 12 marzo 1977, dai gruppi dell’Autonomia. Non c’è ovviamente la controprova e rimanendo sullo stesso piano ipotetico, viene naturale domandarsi quali sarebbero state le conseguenze per la democrazia italiana se il Pci e il sindacato non avessero deliberatamente costruito una vera e propria diga contro l’ estremismo e la violenza di piazza. Se è vero che l’assenza di uno sbocco politico all’azione del movimento finì per favorire le tesi di chi vedeva nella lotta armata clandestina l’unica possibilità per cambiare le cose, è altrettanto incontestabile che l’ammiccamento del Pci verso la violenza avrebbe prodotto conseguenze inimmaginabili e soprattutto la lotta al terrorismo sarebbe stata molto più difficile e la vittoria dello Stato contro i brigatisti certamente più lontana. D’altronde - come sintetizza efficacemente Lucia Annunziata - «nel 1977 la famiglia della sinistra uccise suo padre, il Partito comunista italiano. Un delitto a lungo cercato». Un rapporto di odio misto a rispetto - «il suo pessimismo doloroso contro il nostro grintoso ottimismo» scrive l’ex presidente della Rai riferendosi al Pci - che viene da lontano, dal 1968, dalle lotte sociali e per l’allargamento dell’area dei diritti dei primi anni Settanta e affonda le radici in un ribellismo antisistema, assai diffuso tra i militanti della sinistra italiana in tutto il Novecento. Non a caso Enrico Berlinguer, di fronte alle prime avvisaglie della violenza estremistica, rispolvera l’immagine del «diciannovismo». E a guardar bene, pur nella profonda differenza dei contesti storici, qualche analogia con quel periodo della storia italiana c’era davvero: l’occupazione dell’università invece delle fabbriche come luogo simbolo della rivoluzione e gli studenti al posto della classe operaia, come avanguardia della lotta contro l’oppressione dello Stato. In fondo il rivoluzionarismo verbale delle assemblee e delle prime contestazioni assomigliava tristemente al massimalismo parolaio degli anni Venti, quello che annunciava la rivoluzione senza essere in grado di organizzarla: in entrambe le occasioni il drammatico errore di pensare di trovarsi nel pieno della crisi del sistema capitalistico e quindi in una situazione prerivoluzionaria. Invece, nel ’77 all’organizzazione militare ci pensarono le Brigate Rosse. Fu l’escalation delle azioni armate delle cellule clandestine di quegli anni, più delle occupazioni e i cortei del movimento, a cambiare nel profondo la società e la politica italiana. Indubbiamente le ragioni di insofferenza libertaria verso l’ «ortodossia comunista» erano più che giustificate, così come era fondata la denuncia del ritardo del Pci nell’interpretare la domanda di modernizzazione, sintetizzata nella ritrosia dei vertici di Botteghe Oscure a partecipare alla lotta referendaria a difesa della legge sul divorzio nel 1974. Certamente l’ala creativa del movimento, gli indiani metropolitani, riuscì nell’intento di dissacrare molti dei riti delle istituzioni e dei partiti, ma ben presto gli slogan intelligentemente spiritosi del «Lama non l’ama nessuno» lasciarono il posto alle spranghe e alle P38 dell’ala dura dell’Autonomia Operaia, rapidamente impadronitasi della guida delle contestazioni dopo aver relegato in un angolo sia Lotta continua sia gli altri movimenti della sinistra extra- parlamentare. In definitiva il problema non è quello di domandarsi quale sia l’ eredità del ’77. Può essere, invece, più utile interrogarsi quanto gli attuali partiti della sinistra siano disponibili ad ascoltare il disagio giovanile e sociale - che si presenta in forme e con problematiche diverse da quelle del passato - per evitare di ricreare quel fossato di incomunicabilità al fondo del quale c’è nel migliore dei casi l’antipolitica o la fuga dalla realtà per mezzo della droga e dietro cui, come dimostra il 1977, può nascondersi il demone del terrorismo.

il Riformista 7.2.07
SETTANTASETTE 2. LE DIVERSITÀ DAL SESSANTOTTO
Sarà paradossale, ma il rifiuto del lavoro anticipò il popolo delle partite Iva
di Massimo Bordin


Agli anniversari non si sfugge, tanto meno ai trentennali. Dunque il «movimento del ’77» viene riportato alla luce. Il tempo trascorso e la distanza impongono però occhiali adatti, altrimenti si rischia di andare a memoria e di restare prigionieri di quello che si vide con gli occhi di allora. In fondo fu tutto molto rapido. Dall’occupazione dell’ università di Roma alla mattina del giovedì grasso in cui Lama e la Cgil ne furono cacciati, passarono solo due settimane, come ha notato Lucia Annunziata. Tanto poco ci mise il movimento a bruciare i ponti con l’ufficialità della rappresentanza sociale. Non fu così nove anni prima. Il primo maggio del ’68 il movimento studentesco parlò dal palco della triplice a piazza san Giovanni inaugurando un rapporto di conflitto coi vertici sindacali per conquistarne la base e a essa si rivolse il rappresentante degli studenti, mi pare fosse Piperno: «Voi ci avete insegnato la lotta, da voi abbiamo imparato l’uso della violenza». E i vostri capi oggi vi stanno tradendo, era il nemmeno troppo sottinteso. Iniziava una storia che finì la mattina del comizio di Lama all’ università, quando le bandiere del sindacato e del partito non furono strappate per sostituirle con altre più rosse; furono strappate e basta. Qui, e non nell’eccesso di violenza, sta la differenza con quello che era successo nove anni prima. Il ’68, almeno quello europeo, andò a piazzarsi dentro la tradizione del movimento operaio e comunista. Per estremizzarla, a ovest, per democratizzarla, a est. Rimase comunque in quell’alveo, con l’ingenua velleità di acquisire la leadership e in prospettiva il potere. Nel ’77 non andò così ma non è detto che l’immagine del parricidio spieghi tutto. Intanto perché chi aveva vent’anni nel ’77 nove anni prima giocava con le figurine e non con i movimenti di massa. E poi perché la “nuova sinistra” aveva già riposto ogni velleità e si interrogava fra integrazione e scioglimento dopo il deludente voto del ’76, su cui molto aveva puntato. Indimenticabile il manifesto elettorale del Pdup: «Prenderemo solo il 3 per cento, ma sarà decisivo per il 51 che porterà al governo delle sinistre». Presero l’1,5 e le sinistre, rimaste ben sotto il 50, sostennero con l’astensione un governo Andreotti. Inevitabile il disimpegno. O l’integrazione, anche perché ben diversa era la situazione del Pci. Mancato il sorpasso, era comunque arrivato ai suoi massimi storici tornando dopo trent’anni nell’area di governo, e con Pietro Ingrao presidente della Camera. Nell’estate del 1976, col «governo delle astensioni», il «monopartitismo imperfetto» si fa Stato; restano fuori solo Almirante (che sarà abbandonato da un cospicuo pezzo di Msi), i liberali e i nuovi giunti radicali insieme all’estrema sinistra. Ma soprattutto restano tagliati fuori i luoghi e i soggetti del conflitto sociale, che per la prima volta si trovano privi di una sponda istituzionale e di un sostegno nella società che, bene o male, il Pci non aveva mai fatto mancare. Il gramsciano «moderno Principe» si fa esigente e spietato. Il conflitto va sacrificato al modello berlingueriano dell’austerità. Asor Rosa è il più lucido: il partito deve farsi Stato, sia pure nella inedita forma consociativa. A questo obiettivo tutto va sottomesso e peggio per chi è fuori. Naturalmente, nota Asor, c’è un prezzo: le forme tradizionali del conflitto sociale mutano, non si scontrano più lavoro e capitale ma garantiti e non garantiti. Dal conflitto generatore di sviluppo si rischia di passare a un modello conflittuale quasi pre-capitalistico. Due società separate, l’una che racchiude i garantiti dal nuovo patto social-corporativo che tenta di perfezionarsi nella sfera istituzionale, l’altra composta da tutti quelli che si trovano fuori dal recinto, quasi nuovi paria. Infatti la manifestazione che il 12 marzo sfila per Roma con abbondante uso di armi da fuoco corte e lunghe è politicamente più simile al tumulto dei Ciompi che alla moderna lotta di classe. Nemmeno i brigatisti si fanno incantare dalle pallottole che fischiano, e restano diffidenti, saldi nei loro pur avvizziti schemini cominternisti. Nessuno dei manifestanti pensa però di sparare al padre- partito: i più giovani perché non lo ritengono nemmeno parente, gli over 25 perché, chi prima chi dopo, l’hanno già sepolto. Se c’è qualche eccezione è una di quelle cose che capitano quando c’è tanta gente. Ma il ’77 non vive solo di armi e indiani metropolitani. Il movimento ribelle all’emarginazione non disdegna la marginalità. Paradossalmente la richiesta di reddito viene sganciata da quella del “posto” non solo perché comunque negato ma anche perché, al fondo delle cose, poco appetito. Lavori di nicchia, con molto tempo libero, senza rinunciare a una vita di relazioni ricca. Il morettiano «Vedo gente, faccio cose» anticipa caricaturalmente i “Mc jobs”; se si deve lavorare sotto padrone meglio starci il meno possibile. Meglio ancora riuscire a lavorare in proprio, magari facendo piccole cose. È il paradosso più significativo di quel movimento. Il «rifiuto del lavoro» è, anche, la premonizione del fenomeno delle partite Iva. Percorso bizzarro che ancora lascia molto da descrivere.