giovedì 8 febbraio 2007

Ansa.it 6.2.07
Editoria: Storia Anni 70 con Liberazione, non fu solo piombo

Una storia a fascicoli raccontata da chi l'ha vissuta per spiegare alle giovani generazioni che gli anni Settanta non furono solo ''anni di piombo'' ma anni di ''speranze e di allegria''. La raccontera' il quotidiano 'Liberazione' che a partire da giovedi' e per dodici settimane mandera' in edicola 12 fascicoli per raccontare il decennio che ha segnato una generazione intera. Un numero per ogni anno e due uscite sul '77, l'anno del Movimento e della 'fantasia al potere', ma anche quello in cui molti giovani fecero la scelta della lotta armata. L'iniziativa e' stata presentata oggi a Roma dal direttore del quotidiano Piero Sansonetti, da Ritanna Armeni, da Tano D'Amico, le cui foto illustrano il decennio, e da Oreste Scalzone, appena rientrato in Italia da uomo libero dopo che i reati per cui e' stato condannato a 16 anni di carcere sono caduti in prescrizione. L'obiettivo e' chiaro. ''Volevamo raccontare ai giovani di oggi - dice Sansonetti - che gli anni settanta non sono stati solo violenza. Raccontarli come anni di pura cupezza non solo e' sbagliato ma non ci serve a nulla''. ''Ci furono tante speranze, tanta allegria - aggiunge Tano D'Amico -lunghe storie d'amore e d'amicizia. E la cosa piu' triste e' che quei volti e quei sorrisi non esistono piu'''. Certo, aggiunge Sansonetti, ''c'era pure la violenza, ma era inserita in qualcosa di molto piu' grande. Siamo convinti che quel decennio e' stato ricchissimo di contenuti, anni in cui germogliarono idee ricchissime che hanno cambiato il nostro modo di vivere''. Negli anni Settanta, prosegue, ''nacquero infatti il femminismo, l'egualitarismo, l'ambientalismo. E siamo convinti che per affrontare le crisi politiche di oggi, italiane e occidentali, sia fondamentale correre a riprendere alcuni temi abbandonati proprio negli anni settanta''. (ANSA).

il Riformista 8.2.07
LETTERA. PRIMA LE IDEE, POI I PARTITI
Bene il dibattito, ma il punto è:
che cosa vuol dire socialismo oggi?
di Nerio Nesi

l’Unità 8.2.07
Mussi presenta la mozione «Perché dico no al Pd»
Il documento firmato anche da Salvi, Spini, Bandoli
e Nerozzi. Richiamo alla sinistra e al socialismo europeo
di Simone Collini


NON SI VA «OLTRE» IL SOCIALISMO con il Partito democratico: si va «fuori e indietro» rispetto alla tradizione socialista. Fabio Mussi riprende un’immagine a cui è recentemente ricorso Massimo D’Alema per spiegare il suo no a quella che giudica una «pura fusione tra Ds e Margherita». Il leader della sinistra diessina ha depositato ieri la mozione con cui si candida alla segreteria del partito. E poi l’ha presentata ai giornalisti a Montecitorio insieme agli altri primi firmatari: Cesare Salvi, Fulvia Bandoli, Valdo Spini e il segretario confederale della Cgil Paolo Nerozzi. Un’occasione per ribadire che mozione e candidatura per il congresso di aprile non sono «un atto di testimonianza»: «Andiamo per vincerlo, cioè per avere il consenso sufficiente per fermare il treno del Partito democratico». Perché se va in porto l’operazione a cui lavora la maggioranza dei Ds, il primo, immediato risultato è che scompaiono due immagini e due parole. «Le due immagini: la Quercia e la Rosa; le due parole: sinistra e socialismo». Ma soprattutto resta tutto da sciogliere il nodo della collocazione internazionale. Da qui il no a un partito che «nasce homeless, senza casa». E da qui la decisione di presentare agli iscritti una posizione «alternativa», che punta all’«unità» della coalizione e all’«autonomia» del partito, che vuole lavorare «per un rinnovamento profondo dei Ds» e per «un nuovo socialismo». Il tutto, sintetizzato nel titolo della mozione: «A sinistra per il socialismo europeo».
Il documento si apre sottolineando che «questo è il congresso che decide l’avvenire della sinistra italiana» e con la contrarietà «alla scomparsa in Italia, unico Paese europeo, di un grande partito socialista e di sinistra». Si parla poi del «rischio di una catastrofe ambientale», della necessità di sostituire alla pratica dello scontro di civiltà «il primato del diritto internazionale, la riforma e il rilancio dell’Onu», dell’Africa («nella nostra mozione c’è, in quella firmata da Veltroni no», dice con un sorriso il coordinatore organizzativo della mozione Gianni Zagato), dell’uso della forza «legittimo» solo nel rispetto della Carta dell’Onu e dell’articolo 11 della Costituzione, dell’«insostenibilità dell’attuale organizzazione dell’economia globale». Nelle 19 pagine di testo si parla anche della necessità per la sinistra, se vuole rappresentare il mondo del lavoro, di non essere «equidistante tra la Confindustria e i sindacati» e di lavorare per una «occupazione stabile, perché la lotta alla precarietà non può limitarsi agli ammortizzatori sociali, ma richiede una nuova normativa che rovesci la logica della legge 30». Si dedica un capitolo alla laicità dello Stato, «una conquista della democrazia repubblicana», «un principio non negoziabile», e uno alla riforma della politica, nel quale si dice aperta «una nuova e inquietante questione morale». Non mancano riferimenti a vicende più o meno recenti: «La separazione tra finanza, economia e politica deve essere netta e chiara, come non è accaduto nel caso Unipol», si dice in questo stesso capitolo, mentre in quello dedicato a «un futuro di pace» si parla anche della base di Vicenza: «Riteniamo si debba ascoltare l’opinione contraria delle popolazioni locali».
A firmare la mozione sono stati anche 36 parlamentari, tra nazionali ed europei, oltre ai primi cinque firmatari. «Non è vero che diciamo solo dei no» sottolinea Salvi parlando della necessità di unire forze di sinistra e movimenti. «Oggi il lavoro e senza rappresentanza», dice Nerozzi, mentre Spini rivolge un appello al leader dello Sdi Boselli a lavorare per rafforzare il socialismo europeo in Italia. Fulvia Bandoli accusa: «Mettere insieme due partiti poco democratici e autoreferenziali non può dar vita a un partito nuovo».
Mussi, a chi gli domanda se in caso di sconfitta si staccheranno dal partito, risponde dicendo che «si cammina un passo alla volta, ora andiamo al congresso per vincere». Di più parole, invece, quando gli viene chiesto un commento su Sofri, che alla presentazione della mozione di Fassino aveva definito «grottesca l’idea che Mussi o Salvi lascino i Ds»: «Io ho rispetto per lui ma la sua storia politica non giustifica questa alterigia. È andato fuori dal seminato quando ha lanciato l’anatema contro le minoranze dei Ds. Lui può fare le scelte che vuole, passare da Lc al Pd ma mi lasci stare, anche la mia è una scelta politica che merita rispetto».

l'Unità 8.2.07
La parlamentare: «È stato condannato, invitarlo alla presentazione della mozione Fassino è un vulnus ai giudici»
Sofri, la polemica di Olga D’Antona


«Nella giornata di ieri, in occasione della presentazione della mozione di maggioranza dei Ds, tra gli interlocutori chiamati a discutere con Piero Fassino, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, c’era anche Adriano Sofri». Parte dalla cronaca, Olga D’Antona, per lamentare il «vulnus» nei confronti della magistratura provocato dalla presenza l’altro ieri al Capranica dell’ex leader di Lotta continua. Dopo la presentazione dei fatti, la vedova del giuslavorista ucciso dalle Br nel ‘99 fa una premessa, e cioè che a volte ha apprezzato le cose che Sofri ha scritto e che «in considerazione del suo stato di salute» non ha mai manifestato contrarietà alla «concessione della grazia nei suoi confronti per motivi umanitari». E ci tiene anche a sottolineare, la deputata dell’Ulivo, che in passato non ha mostrato «particolare accanimento né spirito di vendetta verso chi, pur essendo stato autore di gravi atti di terrorismo, ha scontato la propria pena e ha mostrato segni di ravvedimento».
È a questo punto del testo, un’intera pagina scritta l’altra notte dopo aver avuto la conferma di quanto visto annunciato su giornali e manifesti, e cioè che effettivamente l’ex leader di Lotta continua era sul palco del Capranica con Fassino e gli altri, che l’esponente della sinistra Ds critica la scelta compiuta dai vertici del suo partito: «Non posso altresì fare a meno di rilevare che Adriano Sofri è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per l’omicidio di un servitore dello Stato e che non ha finito di scontare la sua pena. A questo punto mi chiedo perché il gruppo dirigente del mio partito, che è partito di governo, lo sceglie come interlocutore privilegiato». La vedova di Massimo D’Antona si chiede quale sia il «messaggio simbolico» di questa scelta, ma soprattutto fa un ragionamento di cui chiede conto ai vertici del suo partito. Perché le ipotesi sono solo due. La prima: «Se si ritiene che Sofri sia vittima di un errore giudiziario, in base ad elementi concreti, perché non chiedere la revisione del processo per scagionarlo e cercare i veri colpevoli?». La seconda: «Ma se invece è colpevole, come la magistratura ha ritenuto, chiedo ai dirigenti del mio partito, che hanno ricoperto e ricoprono importanti incarichi di governo (presidente e vicepresidente del Consiglio, ministro della Giustizia, ministro degli Esteri) se, in un Paese democratico, questo non rappresenti un vulnus nei rapporti con una delle più importanti istituzioni dello Stato, cioè nei confronti della magistratura, che ha emesso una sentenza definitiva, infliggendo una pena non ancora completamente scontata».
Parole che non si aspettavano al Botteghino, anche perché neanche il centrodestra aveva commentato in modo così aspro la presenza al Capranica di Sofri, che a dicembre ha avuto dal tribunale di sorveglianza di Firenze un nuovo differimento della pena per condizioni di salute «assolutamente incompatibili» con il regime carcerario.
A volere l’ex leader di Lotta continua alla presentazione della mozione è stato lo stesso Fassino, che nei giorni scorsi lo ha contattato personalmente. E non a caso sono due membri della segreteria molto vicini al leader Ds a difendere l’iniziativa. «Adriano Sofri è una personalità della cultura italiana, espressione anche di una visione globale dei problemi del mondo e di una tensione innovativa della politica e della sinistra», dice il coordinatore della segreteria Ds Maurizio Migliavacca dicendosi fiducioso che «come altre personalità della cultura sarà interessato alla costruzione del Partito democratico». Il responsabile Sapere e innovazione dei Ds Andrea Ranieri insiste invece sul fatto che la «scommessa» del Pd si basa sulla capacità di cambiare se stessi e di «far fronte ai grandi cambiamenti del mondo e dell’Italia», e che essendo Sofri «una testimonianza di capacità di cambiamento», la sua presenza è stata una scelta opportuna.
s.c.

l'Unità 8.2.07
Bertinotti cerca un leader vero. Ma in Italia per ora non lo vede
Estasiato dal tour sudamericano, ieri l’incontro con Lula. «Si riescono a fare cose per i poveri a Bahia impossibili a Palermo»
di Natalia Lombardo


UN LEADER carismatico, con idee forti e uno stretto rapporto con il popolo, tale da fondare un partito di massa che non pensi solo alla governabilità: ecco, un leader così Fausto Bertinotti non sembra vederlo nell’orizzonte europeo, tanto meno in quello italiano. Potrebbe essercene uno “imprevisto in futuro”. Nelle vicinanze per ora vede solo chi l’ha ricevuto nel Palazzo presidenziale Plan Alto a Brasilia: Lula, il “presidente operaio” che è stato rieletto nel 2006 con 58 milioni di voti e temi essenziali come “il diritto a mangiare”. “Viva Lula, un protagonista della storia mondiale”, lo definisce Bertinotti dopo l’incontro, nel quale hanno parlato di cooperazione con l’Europa, dove Lula verrà presto, e dell’integrazione fra i paesi dell’America Latina.
Un incontro cordiale, forse più formale che in altre occasioni, per un rapporto nato dal passato di capi sindacali negli anni 70, dalla Flm a Torino alla Fiat di Bel Horizonte in Brasile, fino a quel dialogo a distanza quando, nel 2002, l’allora segretario di Rifondazione era al Social Forum di Porto Alegre e, collegato in video da Davos, Luiz Inacio da Silva sbattè sul tavolo Usa i diritti dei poveri in Brasile.
Molto colpito dal “rinascimento” dell’America Latina, nel suo viaggio istituzionale e nel sociale, l’ex leader di Rifondazione ha ritrovato il filo della partecipazione col quale “i soggetti politici precedono l’esperienza di governo”. Un filo spezzato in Italia, è un pensiero non detto del tutto dal presidente della Camera, a cui preme “ripensare la politica in termini sociali”. Ma non basta. Guarda altre esperienze: il colpo d’ala l’hanno dato leader carismatici come Lula, o il venezuelano Chavez (che dovrebbe incontrare in un secondo tour a primavera in Venezuela, Bolivia, Cuba), così come “il colpo di scena” di Mitterrand a Epinay, nel suo discorso sul Partito socialista francese.
Bertinotti così rivaluta la necessità di un leader che “in America Latina è diventato un fattore fondamentale”. Sorpassa la contraddizione con la sua storia con una punta di autoironia, citando Woody Allen: “A volte mi vengono pensieri che non condivido”. Della leadership in Italia “non parlo neppure sotto tortura”, si schermisce restando nei panni istituzionali. “Il leader non dev’essere necessariamente quello di ieri, ma può esserlo domani. Ci sono leader imprevisti, costruiti giorno per giorno. Non sono senza volto, potrebbero avere anche nomi antichi.”. Gli esempi ci sono: da “Lula tessitore” delle forze di sinistra nel Pt e poi del sindacato unitario del Cut ora mediatore coi paesi sudamericani considerati più radicali (distinzione che Bertinotti rifiuta), fino a Mitterrand, o al Frente Ampio uruguayano. Non entra nella trappola dello specifico italiano però non assegna a nessuno, neppure a Prodi, il ruolo di “leader maximo”. Veleggia nella “cultura politica” indicando un modello ampio, calzante sia per il suo partito che per la Sinistra europea o per l’Unione. Insomma, per ora un Lula italiano non c’è, potrebbe nascere “con un carisma relativo, da una congiuntura di necessità”. Nessun nome. Anzi, riviene a galla la collegialità della figura del sub comandante Marcos (al quale rese visita da segretario di Rifondazione, ovviamente più movimentista): “In teoria….siete tutti candidabili”, dice come battuta ai giornalisti nel patio della comunità Axe a Salvador de Bahia, altro esempio di partecipazione e solidarietà.
Solidarietà che in America Latina dà i suoi frutti, recupera i minori alla collettività creativa, emancipa chi vive nell’Alagados, le palafitte malsane di Bahia, ad una più dignitosa abitazione, lavoro della ciellina comunità Ribeira Azul, l’aiuto della Banca Mondiale e del governo locale. “Perché queste cose si possono fare in Sudamerica e non al quartiere Zen di Palermo?” si chiede Bertinotti. Qui “i soggetti politici precedono l’esperienza di governo”. Nella paludata e vecchia Europa, invece, “la politica negli ultimi venti anni è stata vissuta solo nella chiave della governabilità”, piegando a questa anche le riforme istituzionali.
Certo “governare non è un pranzo di gala” e chi è al potere perde (tranne Blair comunque in calo), la prova del fallimento è la bocciatura della Costituzione europea da parte della Francia. Il segno di un divario dei governi “che faticano a realizzare una politica col consenso di popolo”. Insomma, la sinistra in Europa esca dai Palazzi e torni nel sociale. “persino Sarkozy si è accorto che deve puntare sul lavoro”, e persino il populismo alla Chavez non è da gettare nel cestino.
Del “rinascimento” in Sudamerica, sarà difficile trovare germogli in Europa, Bertinotti immagina, o forse sogna, un partito di massa che raccolga varie esperienze “la semplificazione non è lo sterminio dei partiti, con un sistema elettorale alla tedesca. Insomma, in Italia non va bene niente, la sinistra si svegli. Il leader? Lui o un sub comandante Marcos?

Il Giornale 8.2.07
La psiche è donna parola di Sigmund
di Angelo Ascoli


C’è Anna, la figlia, e se è vero che la psicanalisi ha fatto esplodere la famiglia, smascherandone delitti e misteri, smontandone i meccanismi senza spesso più riuscire a rimontarli, è anche vero che non ci sarebbe stata la psicanalisi se la famiglia non fosse già saltata in aria a contatto con la modernità. Ed è logico che dalla famiglia Freud trasse i modelli delle sue intenzioni e nella famiglia trovò la linfa per il suo lavoro: «La sua stirpe proseguì attraverso la più giovane delle sue figlie, la vergine vestale Anna, che divenne la guardiana del tempio della psicoanalisi e della parola del padre. “Sant’Anna”. Anna, la santa pulzella che, in quella che definisce un’“altruistica resa”, rinuncia a se stessa per dedicarsi a Freud e alla sua eredità».
C’è Lou Andreas-Salomé, «donna straordinaria», di «pericolosa intelligenza»: quando arriva a Vienna, nel 1912, ha già 51 anni, non è più la meravigliosa, fresca forza della natura la cui vita, prima di incrociare quella di Freud, aveva attraversato i destini di Nietzsche e di Rilke, di Wedekind e di Schnitzler, ma è comunque una delle donne più affascinanti d’Europa, il prototipo del moderno femminino, e non è un caso che per i 25 anni successivi diventi discepola e musa, ispiratrice e seguace, figlia e madre della psicanalisi, dimostrando quelle origini femminili della rivoluzione freudiana che ne costituirono subito la vera forza dirompente.
C’è Marie Bonaparte, pronipote dell’unico Napoleone, moglie di Giorgio di Grecia, zia del Filippo di Edimburgo che tutt’oggi siede sul gradino più basso del trono d’Inghilterra: soprannominata «Freud a dit», fu il ministro degli Esteri della psicoanalisi in Francia e si autoproclamò depositaria del verbo al punto da scomunicare Jacques Lacan, e scusate se è poco; di fronte a lei, Freud si considerò sempre «un piccolo-borghese». Grafomane, eccessiva negli entusiasmi e negli amori sebbene fosse assillata da un’eterna frigidità, Marie, a 42 anni, lesse l’Introduzione alla psicoanalisi e scoprì in Freud un altro padre, forse l’unica figura che nella sua mente potesse competere con l’ingombrante fantasma del grande antenato e che desse un senso, una missione alla sua vita dispersa tra salotti e amanti.
Ci sono Anna, Lou, Marie e tante altre donne, e senza di loro probabilmente il destino di Freud non sarebbe stato lo stesso. Perché è nel rapporto tra il padre e le figlie, tra la gigantesca figura di Sigmund, nello stesso tempo Edipo che ha ucciso il padre e Cronos che divora i figli; è nel tormentato, a volte drammatico, sempre ricchissimo legame che Freud ebbe con le donne, con il femminino che, come prima nessun altro, aiutò a liberarsi da millenni di tabù e di menzogne, e da cui trasse la forza per liberare le sue intuizioni e le sue verità, che viene analizzato l’universo di Sigmund Freud e le sue donne (La Tartaruga, pagg. 524, euro 17,50) che Lisa Appignanesi e John Forrester riescono a dire qualcosa di più sulla grande rivoluzione dell’inizio del Novecento.
Anna, Lou, Marie, e poi Sabina Spielrein, la donna «per cui Jung nel 1906 decise di scrivere a Freud, inaugurando così un rapporto triangolare che sarebbe stato determinante per entrambi i colleghi nonché per la storia della psicoanalisi». E ancora Loe Kann, una delle tante pazienti donne di Sigmund, con in più il fatto che fosse la moglie di Ernest Jones, colui il quale per primo fece conoscere la nuova scienza in Inghilterra. E ancora, Helene Deutsch, una delle prime psicanaliste, icona del femminismo del Novecento, eppure anche lei figlia e discepola del gran misogino. E poi Alix Strachey e Joan Riviére, ambasciatrici di Freud in Inghilterra; Hilda Doolittle e Melanie Klein, donne famose e altre sconosciute, uno sterminato universo femminile che ruota intorno al sole di Sigmund, e ci sarà un motivo se «negli ultimi decenni di vita, Freud allacciò rapporti di amicizia soprattutto con le donne».
Forse perché erano loro le più pronte e le più bisognose di sposare una rivoluzione culturale che aprì la strada al terremoto sociale e mentale che ha spazzato via la famiglia tradizionale, lasciando solo macerie ogni giorno più fragili. O forse perché, ambasciatrice e portatrice di una modernità in cui l’occidente non riesce a fermare (o non vuole) la sua ineluttabile femminilizzazione, è nelle donne che la psicoanalisi e il suo padre trovarono la loro origine e il loro destino.

Liberazione 8.2.07
Washington (Rice) e Vaticano (Ruini) vogliono silurare il governo Prodi
di Rina Gagliardi


Offensiva convergente delle due ”Grandi Potenze”. Condoleeza non gradisce la politica estera dell’Italia e non si accontenta di Vicenza
L’ambasciatore Usa insolentisce D’Alema. Monsignor Ruini, con toni da Pio IX, pretende la testa dell’ex-amico Prodi che considera un traditore

Il disegno è chiaro e passa per un patto di ferro tra due grandi poteri: il Vaticano e il governo americano. Per capirci: Sua eminenza il cardinale Camillo Ruini e Condoleeza Rice faranno di tutto, da qui ai prossimi due mesi, per far cadere il governo Prodi. Al quale, ad ogni modo, hanno già palesemente “dichiarato guerra”. Questa “informazione” o, se preferite, questa tesi circola da vari giorni nei palazzi della politica - una sorta di allarmato tam tam, sostenuto da figure diverse e tutte credibili, cioè nient’affatto dedite alla fantapolitica e per nulla afflitte dalla sindrome del “Grande Complotto”. E dunque? Dunque, noi non possiamo garantirvi che si tratti di una notizia certa, o di una verità politica dimostrata. Non dubitiamo invece della sua credibilità. Proviamo perciò ad analizzarla attraverso le cronache di queste giornate, e qualche spunto di riflessione.

Politica estera. Che stia calando il grande freddo tra Italia e Stati Uniti d’America, e che nel mirino di Washington sia finito soprattutto il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, è ormai sotto gli occhi di tutti. I tempi del “bye bye Condy” sembrano appartenere ad un’atra stagione, quando il governo americano è sembrato incassare con relativo fair play il ritiro dall’Iraq e l’iniziativa sul Libano: due scelte che certo non sono mai particolarmente piaciute all’amministrazione di Washington, ma che forse, lì per lì, sono state considerate lo “scotto” necessario da pagare al nuovo governo appena insediato, e all’affermazione di una strategia almeno dotata dell’apparenza del multilateralismo. Via via, nel corso dei mesi, la politica estera italiana ha assunto agli occhi nordamericani un pericoloso e crescente livello di autonomia, sia per il suo marcato europeismo, sia per la sua porzione “filoaraba”, sia, anche, per quella che sin da luglio è stata percepita come una scelta di disimpegno (di disimpegno militare) dal fronte afghano. Non è certo un caso che Prodi non abbia a tutt’oggi messo in calendario, come è tradizione dei presidenti del Consiglio italiani, un viaggio nella capitale americana. Per quanto nessuno possa mettere in dubbio la sua collocazione, o i suoi sentimenti, occidentali, anzi occidentalissimi, per quanto egli abbia deciso di autorità il raddoppio della base Usa di Vicenza, Prodi resta per gli americani un politico di profilo europeo. Un leader poco affidabile. Un alleato che ha in testa più gli accordi con la Cina che non la realizzazione di un rapporto di fedele soggezione agli Stati Uniti. Non è da escludere che, avvertendo attorno a se questo clima di sfiducia, il nostro premier abbia deciso, sul Dal Molin, di compiere un vero e proprio “gesto di ubbidienza”, coartando una parte importante della sua coalizione proprio allo scopo di rassicurare il segretario di Stato e di guadagnarsi un gallone di affidabilità. Ma in tutta evidenza a Condoleeza Rice questo gesto non è bastato: pochi giorni dopo, la risposta è stata la lettera a “Repubblica”dei sei ambasciatori amici degli Usa, una interferenza sulla sovranità nazionale italiana così smaccata e pesante da non avere precedenti.

A sua volta, la replica del ministro degli Esteri non ha molti precedenti, per la sua secchezza e per il suo tono: D’Alema, forse, sa che si sono esauriti tutti i margini del bon ton. Gli Stati Uniti pretendono non il semplice rifinanziamento della missione italiana a Kabul, non una nuda e cruda conferma, ma il suo congruo rafforzamento, in vista della annunciata offensiva di primavera dei taliban e in vista di una guerra nella quale si giocano la loro residua credibilità. La partita, come si capisce, è tutta politica - ma anche molto simbolica. E quello che Washington pensa di D’Alema l’ha detto a chiare lettere, ieri sul “Corriere della Sera”, l’ex ambasciatore Secchia: ha detto che D’Alema è un uomo che «non capisce dove sono i suoi amici», che è segnato dalla sua storia nella sinistra radicale, che «se fosse per lui oggi ci sarebbe ancora l’Unione Sovietica». Quando mai un ex diplomatico, peraltro molto vicino al presidente Bush, ha parlato con tanta violenza di un membro eminente del governo di un paese amico?
“I Pacs”. Anche questo è un fronte più che pubblico. Le autorità vaticane hanno da settimane scatenato non una campagna, ma una crociata, contro la moderatissima proposta sulle unioni civili prospettata con una mozione alla Camera. Ci si sono messi tutti, dalle prediche domenicali di Ratzinger, ai cardinali con gli incubi di Satana. Fino al “non possumus” del giornale dei vescovi, che ha il sinistro sapore del sillabo di Pio IX e del peggior clericalismo neotemporalistico: come se avesse senso oggi dettare allo Stato italiano le leggi che può fare e quelle che non può fare. Dunque, i pacs, se così si può dire, sono anche un cavallo ruffiano, uno strumento, un pretesto: il cardinal Ruini, che gestisce in toto la politica della chiesa cattolica, mira in realtà a sgambettare il governo Prodi e l’Unione, ai suoi occhi così zeppi di laicisti e di comunisti. E’ noto che Sua eminenza, tanto legato a Prodi d’aver celebrato il suo matrimonio, considerò la sua discesa in campo, nel ’96, a capo di uno schieramento di centrosinistra, un vero e proprio tradimento. Che abbia deciso di fargliela pagare, anche sul piano personale? Mancano solo tre mesi al pensionamento del cardinale e alla nomina del nuovo presidente della Cei (si dice, speriamo sia vero, che sarà più pastore e meno intrigante). Il tempo stringe, perciò sale a mille la pressione sui politici e parlamentari cattolici, perciò i teodem alzano i toni, anzi strillano, come hanno fatto ieri, annunciando il loro “non possumus”, che va dai pacs alla messa in discussione del testamento biologico.
“Conclusione provvisoria”. La cronaca quotidiana forse non conferma il sospetto del Grande Complotto, ma di sicuro accredita l’inasprimento dell’offensiva vaticana e nordamericana contro il governo dell’Unione. Un’aggressività che si produce in contemporanea e che sfrutta tutte le contraddizioni che sono già presenti nella coalizione e concorre a produrne di nuove. Una coincidenza? Forse. Quel che è sicuro, è che sembra essere tornati ai tempi dell’ambasciatrice Luce e del pontificato di Pio XII e che, oltreoceano e oltretevere, si vorrebbe terremotare il quadro politico ben oltre le speranze e le volontà dello stesso Berlusconi (una crisi di governo in tempi rapidi, magari nuove elezioni, non convengono oggi al Cavaliere: metterebbero comunque in pole position il suo ex alleato Casini). Invece, logorare l’Unione, anzi frantumarla e seppellirla, cacciare Prodi e D’Alema, andare ad un anno e mezzo o due di governo neocentrista, riformare la legge elettorale nel senso indicato dai referendari, ovvero nel senso di recidere per la sinistra radicale e per Rifondazione comunista ogni vera possibilità di rappresentanza, inaugurare, insomma, la terza Repubblica: ecco il programma che, chissà, Camillo può avere spiegato a Condy, e che comunque va realizzato ora, non tra un anno. Non passerà, ne siamo sicuri. Ma, se il cardinale ce lo consente, è davvero diabolico.