martedì 6 febbraio 2007

"IL GIORNO" 24 maggio 1964
L'autogoverno li strappa alla fossa dei serpenti






Una clinica psichiatrica senza celle, senza camicie di forza, senza infermieri, dove i malati vivono in libertà, discutono con i sanitari i loro problemi: ecco quanto si è realizzato nella "comunità" di Roma, una iniziativa per certi aspetti unica e che comunque sta tentando una strada nuova in questo campo delicatissimo.

di STELIO MARTINI

«I malati psichiatrici possono governarsi da soli? Sono capaci di vivere in una ordinata comunità, di assolvere a certi compiti sociali, di prendere delle "sagge" decisioni?»

Mi sembravano ipotesi assurde, e non senza scetticismo suonai alla porta della Comunità. Il cancello si aprì quasi subito e, mentre attraversavo il breve giardino che divide la villa dalla strada, mi investì il suono di un disco di Celentano.

Le note rimbalzavano anacronisticamente sulla facciata 1930, anacronisticamente per lo stile, ma ancora di più per il suo contenuto. In fin dei conti non si trattava di una clinica per malati psichiatrici? Nessuno mi venne incontro, e perciò entrai direttamente nella stanza a pianterreno, che era piena di gente. C'erano uomini e donne: chi leggeva chi ascoltava la musica chi chiacchierava, e alcuni risposero al mio saluto. La loro disinvoltura favorì la mia.

Ma mi sentivo ugualmente a disagio. Di fronte ad un malato, anche la disinvoltura è una forma di ipocrisia, e io temevo che incontrando qualcuno di «loro» il mio comportamento avrebbe tradito il mio stato d'animo, di timore e istintiva pietà. Ma si trattava di una preoccupazione ormai inutile. Quasi tutte le persone che avevo incontrato fino a quel momento erano membri della Comunità, cioè malati. Me lo rivelò il dottor Fagioli, Il giovane direttore, ricevendomi nel suo ufficio.

Da tre anni egli abita, mangia, dorme e lavora, insieme alla moglie che sta per avere un figlio e «senza nessuna precauzione psichiatrica » (un eufemismo per dire: senza celle infermieri, camicie di forza), in mezzo ai pazienti, e queste cose non gli fanno più effetto. Si, era un malato quel tale che usciva mentre io entravo . E anche quello che mi aveva accompagnato in ascensore. E anche quello, aggiunse, che all'ora di pranzo ritira le medicine in infermeria e le distribuisce si suoi compagni, osservando la nota consegnatagli dal medico. « Certo…» sorrise lo psichiatra all'espressione della mia incredulità. Del resto, se mi fossi trattenuto avrei potuto constatarlo di persona. «E le dirò, in tre anni non è mai successo che un paziente incaricato di questo compito sbagliasse una dose. Come un infermiere, anzi meglio di un infermiere…»

Giovane ed entusiasta del metodo di cura applicato e perfezionato dal dottor Fabrizio Napolitani, Massimo Fagioli era assistente presso l'ospedale psichiatrico di Padova quando seppe dell'esperimento che il suo collega stava conducendo in Svizzera, in un padiglione a sé del sanatorio di Kreuzlingen. Immediatamente abbandonò il posto e lo raggiunse. I suoi colleghi dissero che era matto; oggi egli può vantarsi di aver partecipato ad un'iniziativa per certi lati unica, e che comunque tenta una strada nuova in un campo molto difficile.

Alla parola «malato di mente» la gente reagisce ancora con la paura. Senza far distinzioni, questo tipo di malato è considerato un'irresponsabile per eccellenza , dal quale bisogna difendersi. La legge riflette ed esaspera questa concezione, demandando il ricovero dei malati all'autorità giudiziaria. In tal modo ci si cautela contro le possibili conseguenze, ma si sottrae alla medicina la possibilità di vagliare, distinguere ed intervenire in condizioni ideali. E se è vero che in alcuni ospedali psichiatrici si sono fatti dei passi avanti, la codificata diffidenza contro la malattia è ancora molto grande. Uno dei pregi dell'esperimento tentato con la Comunità è quello di opporsi a questa diffidenza. E proprio certe parole che sembrano le più assurde sono, almeno per il profano, le più stimolanti. Autogoverno dei malati psichiatrici. Consiglio normativo della Comunità formato da medici e pazienti. Comitato di infermi e assistenti sociali. E così via.

Una casa come le altre
Esponente della moderna psichiatria, che sta abbandonando i tradizionali sistemi per le nuove tecniche psicoterapiche ispirate alla psicoanalisi, Fabrizio Napolitani ha creato in sostanza una specie di famiglia, dove malati e medici collaborano alla cura, si fa vita di gruppo e dove tutti (salvo il veto dei medici) accettano le decisioni della maggioranza. Egli ha lavorato diversi anni a questa iniziativa. Per la prima volta ne parlò al Congresso internazionale di Montreal nel '61; ora, dopo tre anni di rodaggio in Svizzera, ha trasferito a Roma la sua «democratica» Comunità, suscitando molto interesse negli ambienti medici.
Di fuori la clinica (situata in una via quasi centrale), è una casa come le altre, in mezzo alle altre. Far sì che il malato non si senta isolato, messo al bando dalla società, è infatti uno degli scopi di questo metodo che si propone prima di tutto di socializzare il paziente. « Socializzare e motivare…», precisò il dottor Napolitani, «sono gli scopi pregiudiziali della cura...».. Bruno tarchiato, le sopracciglia folte, quasi unite, il «padre» (anche in senso affettivo) della comunità ha lo sguardo di chi è abituato a scrutare le sofferenze dell'animo umano; ma spira dalla sua persona anche la rassicurante fiducia della persona che crede nelle inesauribili risorse dell'uomo.

Il punto di partenza delle nuove tecniche cui si è ispirato è infatti quello di considerare il malato non oggetto ma soggetto di cura. Cioè capace di collaborare alla sua guarigione. Tutto sta che esista in lui una parte sana, un nucleo anche piccolo, sulla quale far leva. «Se esiste è possibile spezzare il muro dietro il quale, per paura dell'ambiente, si è chiuso, fargli riprovare il piacere di comunicare e quindi far sorgere in lui il desiderio di guarire. Se si riesce a tanto, il più è fatto. Da quel momento infatti si può iniziare con il malato, divenuto consapevole della sua malattia, un colloquio che un po' alla volta lo riporta verso la normalità…» Questo colloquio non si svolge soltanto tra il medico e paziente, ma anche tra malato e malato. Come intuì John Maxwell, i malati di mente hanno un effetto terapeutico gli uni sugli altri, e su questo principio sono basate le cosiddette «psicoterapie di gruppo», nelle quali si inquadra anche la Comunità fondata dal dottor. Napolitani.

Ma insieme al dottor. Fagioli egli ha fatto un passo di più, organizzando qualcosa che fa venire in mente la «Città dei Ragazzi». Il caso del paziente che sostituisce l'infermiere, non è un'eccezione. Qui dentro ognuno è incaricato di una certa funzione, e fa parte quindi di un certo comitato. I comitati sono quattro: di Assistenza Vitto e Alloggio, Sociale, Culturale. E se dietro questi nomi importanti (un po' i « ministeri» della comunità) si nascondono solo compiti di carattere pratico, « è sorprendente che un maniaco depressivo si occupi di tenere la corrispondenza con i pazienti dimesso, o un malato bilaureato, sia pure in via di guarigione, di stabilire le coppie di cucina, o di servire il pranzo in tavola, o la mattina di mettere fuori della porta il secchio dell'immondizia »

Sempre vicino ai suoi malati
Oltre ai comitati vi sono 3 consigli, che corrispondono idealmente ai 3 poteri dello stato democratico. Legislativo, d'azione e di riabilitazione. Ciò significa che i malati, eletti ogni 2 mesi, sono investiti anche del potere di fare e disfare le leggi della comunità? E' proprio così, anche se ai medici spetta l'ultima parola. Ma il parere dei pazienti è sempre sollecitato e ogni argomento affrontato con loro. Nelle bisettimanali riunioni di gruppo, si discute di tutto. Dei problemi comuni e di quelli individuali, in una sorta di confessione collettiva nella quale ciascuno porta i suoi casi di fronte al gruppo, racconta tutto di sé, e ci fu uno che una volta raccontò persino che si era innamorato di una paziente, e lei lo seppe solo in questa occasione.

«Con i malati», disse il dottor. Fagioli, «si discute perfino se accettare o dimettere un paziente, anche se la decisione finale è riservata a noi. La cosa importante però è abituarli a discutere, farli sentire partecipi di una comune famiglia». Di questa famiglia, mentre il dottor Napolitani che l'ha fondata è il «padre ideale», Il dottor Fagioli, accondiscendente benevolo, sempre vicino ai malati e disposto ad ascoltarli, impersona un po' la figura «materna». Dal punto di vista scientifico si potranno muovere obiezioni all'esperimento della comunità ma questo medico che vive sempre in mezzo ai malati è una prova a favore del metodo e un indubbio esempio d'abnegazione. E siccome si era fatta l'ora di pranzo, e il dottor Fagioli doveva mettersi a tavola con i suoi « pensionanti» lasciammo l'ufficio ed entrammo nella Comunità.

Nell'interno questa assomiglia ad una comune pensione, con le camere a due o tre letti, la sala da pranzo con il tavolo comune, fatto a elle, il soggiorno con la TV, le riviste, il giradischi. Le camere erano tutte aperte. In una c'era una piccola libreria, tra i cui volumi c'era anche un libro di Freud. In un'altra una ragazza si stava ravviando i capelli davanti allo specchio. In cucina mi presentarono, col suo nome e cognome, una signora che stava preparando i piatti. Alcuni pazienti erano già a tavola. C'era, malgrado tutto un'aria di famiglia. E infatti la funzione essenziale della Comunità è proprio di costituire per ciascun paziente una famiglia ideale, in sostituzione della loro che spesso è stata la causa prima della malattia.

Ogni anno il professore ritorna
Così si spiega come alcuni riescano a svolgere durante il giorno una normale attività e rientrino «a casa» la sera. E perché quelli che lasciano restino sempre legati ai loro «fratelli» da vincoli affettivi. «C'è un professore di università» diceva il dottor Fagioli « che ritorna a trovarci ogni anno», ma già sfrecciava verso i suoi pazienti e collaboratori, quasi assurdo nella sua dedizione e nella sua fiducia nelle loro risorse. Ma un po' di fiducia è necessaria; altrimenti si resta sempre fermi alle celle, agli infermieri, e alle camicie di forza.

il Riformista 6.2.07
Oh, ma che soddisfazione stare «nell’ambito»
di Emanuele Macaluso


Ho letto il documento congressuale presentato dal segretario Ds e quel che mi colpisce è la separazione totale tra gli obiettivi che con il cosiddetto Partito democratico si vogliono perseguire e la realtà che stanno vivendo il Paese e il suo partito.
Scrive Fassino: «Ci sono momenti nella vita delle nazioni in cui un Paese è chiamato a interrogarsi sul suo destino e a ridefinire la propria identità. È accaduto agli Stati Uniti dopo la depressione del ’29; è accaduto alla Germania dopo la tragedia del nazismo, dell’Olocausto e della seconda guerra mondiale; è accaduto alla Francia nella crisi della quarta Repubblica e nella perdita, con la decolonizzazione, del suo carattere imperiale; è accaduto alla Spagna nel passaggio dal franchismo alla democrazia. Accadde con la costruzione dell’Italia repubblicana dopo il crollo del fascismo». Mi chiedo: oggi il nostro Paese è a un passaggio che possa richiamare quegli eventi? E il gruppo dirigente del Partito democratico è paragonabile a quello che espresse l’Italia nel ’45? Non scherziamo. E tra l’altro nel documento non c’è un minimo di analisi per dimostrarlo. C’è solo l’affermazione apodittica che il Partito democratico serve a dare all’Italia una «nuova stagione della democrazia... e un riformismo alto e nuovo».
Nelle 33 pagine del documento si spiega cosa occorrerebbe per sviluppare la democrazia, l’economia e la società, ma non c’è una sola parola su cosa sono oggi Ds e Margherita, e da quali analisi si deduce che i loro dirigenti siano in grado di scalare l’Everest, rinnovando la politica italiana e la società. Insomma Fassino mi sembra l’allenatore di una squadra che parte per le Olimpiadi e dichiara che le vincerà mentre i suoi giocatori sono seduti in comode poltrone, grassi e senza fiato. Scrive Fassino: «È anzitutto attraverso l’azione di governo che dobbiamo mettere alla prova la nostra funzione di classe dirigente nazionale, la nostra capacità di restituire alla politica l’intelligenza e l’autorevolezza necessaria per capire il Paese e sostenerlo nel cambiamento. E si è cominciato a farlo». Veramente? E chissà per quale ministero la gente (si vedano i sondaggi fatti da società amiche e non da Berlusconi) non capisce. Chissà perché Ds e Margherita al governo sono in concorrenza o in contraddizione praticamente su tutto.
Caro Fassino, la gente vede, legge e pensa; non tutti applaudono acriticamente come nelle assemblee dei segretari di sezione. Infine, scrivere che la «questione socialista» troverà soluzione nel Partito democratico, nel momento in cui i Ds si uniscono alla Margherita di Rutelli è una provocazione. Anche perché nelle stesse pagine con un giro di parole penose si scrive che il Partito democratico dovrà operare «nell’ambito del Pse» e quindi non esserne parte. Insomma i socialisti (anche i Ds che del Pse sono cofondatori) che sono già nel Pse si aggireranno nell’«ambito». Ma veramente pensate che problemi così rilevanti possano essere aggirati con qualche parolina?
Faccio queste osservazioni non perché mi illuda che i Ds possano ripensare a quel che chiamano il «percorso» ma perché la discussione, il confronto, i consensi e i dissensi possano misurarsi su testi che dicono pane al pane e vino al vino. Non dovrebbe essere questa la prima regola di chi, nientemeno, vuole «iniziare una nuova storia e una nuova stagione della democrazia»?

Il Riformista 6.2.07
EUTANASIA 2. DELICATA E CONTROVERSA SENTENZA DEI GIUDICI
Suicidio assistito anche per i malati mentali
Un tribunale svizzero: ai medici la decisione


Nella Svizzera dove tutto è possibile, anche il diritto a suicidarsi, una sentenza del tribunale federale (la massima autorità giudiziaria elvetica) apre una porta finora mai aperta nel dibattito sull’ eutanasia: quella della malattia mentale. Il tribunale ha infatti ammesso, in linea di principio, che «le persone sofferenti di problemi psichici o psichiatrici possono ugualmente beneficiare dell’assistenza medica al suicidio». Una sentenza, su una materia delicatissima, che rischia di confondere non poco le acque di una materia che, in terra elvetica, è sì parzialmente liberalizzata, ma la cui normativa affonda le fondamenta in un principio basilare: la manifestazione della volontà (e la relativa capacità d’intendere e dunque volere) del paziente. Chiara, dunque, la contraddizione che viene a crearsi tra il diritto del malato psichico o psichiatrico a non essere discriminato e la sua incapacità che lo esclude a priori da un percorso basato proprio sulla capacità dell’individuo di esprimere la propria volontà di morire. Non a caso, nella stessa sentenza, il tribunale federale svizzero ha adottato un’ altra misura che «rifiuta in maniera categorica» la possibilità che pazienti individuali o le organizzazioni Exit e Dignitas (composte da volontari che praticano il suicidio assistito) possano ottenere senza ricetta medica il pentobarbital di sodio, la sostanza maggiormente utilizzata nelle procedure di assistenza al suicidio. La pronuncia del tribunale federale segue un’intricata vicenda che ha per protagonista un malato con manie depressive che, dopo due tentativi di suicidio falliti, aveva chiesto all’associazione Dignitas di essere aiutato a morire. In quel caso, però, nessun medico interpellato accordò la ricetta per acquistare il veleno, tanto che il maniacodepressivo, per suicidarsi, adì le vie legali. Prima si rivolse alle autorità del Canton Zurigo, chiedendo che l’ associazione potesse ottenere la sostanza letale senza ricetta medica. Di fronte alla prima risposta negativa, l’uomo ha presentato un regolare ricorso al tribunale federale che, pur respingendo fondamentalmente la sua richiesta, si è ritrovato a riconoscere un diritto più generale: riferendosi alla convenzione europea per i diritti umani, i giudici federali hanno sentenziato che il diritto a darsi la morte debba essere garantito a qualsiasi cittadino. Malati psichici o psichiatrici compresi. E che a decidere, alla fin fine, debbano essere i medici che rilasciano la ricetta per il veleno. Ma come stabilire la reale volontà di un paziente che, in molti casi, è afflitto da una patologia che attiene proprio al suo raziocinio? Nella pratica, dunque, la patata bollente passa ai sanitari. E i giudici elvetici hanno sottolineato l’importanza dell’autonomia nell’ espressione della volontà di morire del paziente. Che per essere certa, in caso di malato di mente, dovrà essere quantomeno avallata da una perizia psichiatrica. Perché da un recente studio, citato proprio dalla corte federale, finora nel suicidio assistito i fattori sociali o psichiatrici sarebbero stati sottovalutati.
(s. o.)