domenica 18 febbraio 2007

il manifesto 18.2.07
1977, perché non si fermò la deriva violenta?
di Massimo Scalia


Si è parlato poco, a sinistra, del '77. Probabilmente per un certo perbenismo: un movimento non brillante come il '68, di esso molto più fastidioso - la cacciata di Lama dall'Università di Roma, l'invasione della Bologna di Zangheri - e, assai peggio, prodromico degli anni di piombo. Lo ha fatto col suo libro Lucia Annunziata suscitando un dibattito rispetto al quale mi sembra opportuno stabilire alcuni punti. Una domanda attraversa il libro della Annunziata: perché Lotta Continua, i suoi dirigenti non scesero in campo per fermare la deriva violenta? L'interrogativo è mal posto, come si dice nelle teorie scientifiche, per almeno due ragioni.
La prima è che gli fa velo una sorta di continuismo nella lettura della storia, non certo quello di destra che pretende che i rapitori di Dozier siano i nipoti di Togliatti, ma quello in qualche modo speculare di sinistra che non coglie il farsi degli eventi come successione di rotture più o meno intense o più o meno drammatiche. C'è un main stream che fluisce con le lotte di massa, le conquiste o le batoste del movimento operaio; e, al timone, i gruppi dirigenti. Però una qualche rottura bisogna pur attribuirla a una situazione così turbolenta.
Non è un caso allora che 1977.L'ultima foto di famiglia venga chiosato, correttamente, come l'uccisione del «padre Pci» da parte del movimento. Ma la rottura era già avvenuta nel triennio '69-71, con il formarsi di nuovi gruppi politici (tra i quali il manifesto) per i quali lo scontro è direttamente col Pci, il più grande partito comunista dell'Occidente capitalistico, e per l'egemonia sul movimento operaio; basti pensare all'autunno caldo del '69. Nonostante i tentativi del segretario Enrico Berlinguer, pur nell'asprezza del conflitto, di mantenere aperta una comunicazione.
Nel '77 invece l'opposizione parlamentare è ridotta a una rappresentanza di pochi percento, la politica e il paese stanno vivendo una crisi profonda. E il movimento che nasce rompe subito con i «gruppi» della sinistra sessantottina, e viene immediatamente percepito dal Pci come un nemico - i «diciannovisti» - contro cui esercitare un'azione «giacobina». A questo esorta Asor Rosa dall'Unità del 13 febbraio: quattro giorni dopo Lama viene alla Sapienza. Il sanpietrino in mano, il fronteggiarsi con l'amico, anzi, il «compagno» del sindacato, le lacrime relative, i consigli di fabbrica delle Flm che avvoltolano le bandiere e se ne vanno, il volto livido di Lama che tronca il comizio e fugge perché anche il servizio d'ordine, persino Ughetto, si è scompaginato non sono la «scena del crimine»; sono, casomai, una «dissacrazione» nello stile del '77.
Nessuna uccisione quindi. Restano allora, nei gorghi del main stream, i gruppi dirigenti. Perché quello di Lotta Continua non si è mosso contro la violenza? E qui, la seconda ragione, assai semplice. Nell'assemblea di Roma del luglio del '76 Lotta Continua aveva anticipato l'esito che sarebbe stato «formalizzato» pochi mesi dopo, a novembre, a Rimini: lo scioglimento. Lotta Continua non c'era più e i suoi dirigenti nazionali più noti non partecipavano al '77, lo osservavano dall'esterno o ai margini. Drammatica la condizione di quei militanti di Lotta Continua che, senza più partito e senza più padre - alcuni si erano immediatamente inventati come «indiani metropolitani» - , costituivano la platea delle assemblee del '77. Fascinati dagli atteggiamenti dell'Autonomia e, al tempo stesso, irresoluti, per residuo orgoglio politico, a dissolversi in essa.
Fu, all'interno del movimento, una contesa ininterrotta tra chi, pur non praticando la clandestinità, affermava che le Br erano «compagni che sbagliano, ma poi neanche troppo» e chi sempre si contrapponeva inventando per ogni manifestazione slogan, percorsi e obiettivi che non si risolvessero nel cul de sac della P38. Perché non ci fu solo Bologna; e l'11 marzo a Roma non fu davvero l'assalto all'armeria di via Giulia. Chi non ricorda a piazza Venezia il far west delle due file di pistoleri, una inginocchiata, che «proteggevano» il corteo a cinquanta metri dai poliziotti in assetto di battaglia per impedire l'accesso al Corso? O quel sussurro forte di numeri a terna che si lanciavano i gruppetti clandestini lungo il percorso? O il «volume di fuoco» a ponte Margherita?
Chi si oppose a tutto questo dall' interno del movimento dovette farlo su due fronti: la repressione di Cossiga - i ridicoli tentativi di infiltrazione (e gli infiltrati veri da «altri»), Giorgiana Masi, Roma e Milano militarizzate - e le «teorizzazioni». Non c'è dubbio che a Roma come a Milano o Bologna il movimento esprimesse in qualche modo i bisogni delle decine di migliaia di «non garantiti» che riusciva a «convocare» nelle manifestazioni, in una prefigurazione delle trasformazioni sociali in qualche misura già allora in atto. Ma dal demenziale «Polonia/Bologna» alle «macchine desideranti» e tutto il ciarpame dei nouveaux philosophes, il «bisognismo» - anche quello di Agnes Heller - diventava benzina per i gruppuscoli «combattenti» in cerca di soldati nelle platee degli sperduti.
L'esito di quel contrasto non fu disprezzabile. Il due dicembre a Porta San Paolo erano in trentamila quelli del movimento che corsero ad accogliere gli oltre centomila metalmeccanici che venivano a Roma. Certo, un omaggio all'illusione di un rapporto diretto con la «classe» per eccellenza contro lo Stato borghese, ma anche una spaccatura netta con i duemila rimasti dentro l'università con i loro «bisogni». Ma tutte queste cose si perderanno come lacrime nella pioggia.

Repubblica 18.2.07
Pacifismo pluralista in salsa vicentina
di Eugenio Scalfari


Cinquanta, ottanta, centomila? Qualcuno degli organizzatori, ad un certo punto del corteo, si è lasciato andare ad una stima-record: 200 mila presenze alla manifestazione vicentina. Francamente esagerato, ma certo erano tantissimi. Anche i vicentini erano molti, ma quelli venuti da fuori molti di più. E la sinistra radicale più numerosa di quella riformista.
Violenze nessuna. Qualche cartello (presto rimosso) in favore dei "compagni che sbagliano", cioè degli arrestati in odore di terrorismo.
Insomma un corteo pluralista quanto altri mai, perché in quei sei chilometri della circonvallazione di Vicenza si giocavano contemporaneamente molte partite. Vediamo quali.
Anzitutto la partita dei pacifisti senza se e senza ma, per i quali anche la bandiera dell´Onu non conta un fico secco come giustificazione e motivazione delle missioni militari. Quel tipo di pacifisti c´era a Vicenza; diciamo quelli personificati da Dario Fo e Franca Rame. Ma il pacifismo del 2007 non è più quello che nel 2002 riempì le piazze di tutta Europa, da Madrid e Barcellona a Londra, a Berlino, ad Amsterdam, a Bruxelles, a Stoccolma, a Roma, Milano, Napoli, arrivando a cifre percentuali di oltre il 90 per cento nei sondaggi d´opinione europei.
Quello era un pacifismo mirato e il suo bersaglio era la guerra preventiva di Bush in Iraq che infatti si è rivelata una catastrofe e trasformata in un pantano. Era un pacifismo saggio con una meta realistica e concreta.
Quello di oggi è piuttosto utopico e generico. Non vuole l´allargamento della base americana a Vicenza e forse ha dalla sua buonissime ragioni per non volerlo, ma si è mescolato con un altro tipo di pacifismo che ha colto la base Usa più come un pretesto che come un vero obiettivo.
Si ispira piuttosto al vecchio slogan ideologico "yankees go home", americani fuor dalle balle. Possiamo organizzare cento cortei in altrettante città italiane, ma se quello fosse lo slogan credo che non raccoglierebbe più del 10 per cento dei consensi e forse molto meno.
Da questo punto di vista la manifestazione di ieri sarebbe stata assai più significativa se a farla fossero stati i soli vicentini. La trasferta pacifista ha in qualche modo manipolato Vicenza e messo in seconda fila il dissenso civico sulla questione della base. Certo, il governo dovrà rivedere alcune modalità urbanistiche e negoziarle. Ma non credo che andrà oltre questo.

Un´altra partita era quella tra sinistra radicale e riformisti. Giordano e Diliberto (tra l´altro in competizione tra loro per vedere chi meglio rappresenta la sinistra-doc) escono rafforzati dalla gita vicentina?
Con Giordano personalmente mi trovo d´accordo su molte cose. Apprezzo anche la funzione di filtro e di raccordo che quelle formazioni politiche esercitano nei vari movimenti contestativi ai quali cercano di fornire un "fumus" di rappresentanza parlamentare e addirittura governativa.
Ma onestamente debbo dire che nel corteo vicentino erano più ospiti che padroni di casa. Non c´era nessun padrone di casa in quella manifestazione. Neppure Epifani che pure aveva mobilitato una parte cospicua della sua organizzazione. Ma niente a che vedere con i Trentin e i Lama di piazza San Giovanni e i Cofferati del Circo Massimo e non parlo del numero delle presenze ma della compattezza degli animi e della chiarezza degli obiettivi.
Ieri si dimostrava contro la base americana ma anche contro la presenza militare italiana in Afghanistan. Il vecchio slogan "dimmi con chi vai e ti dirò chi sei" ieri era inapplicabile. L´ex sindaco democristiano di Vicenza e attuale capogruppo regionale dell´Ulivo, Achille Variati, ha qualche cosa a che fare con Franca Rame e con i centri sociali più scalmanati? E Franca Rame ha a che fare con Di Pietro il cui partito l´ha fatta eleggere al Senato? O con i leghisti "celoduristi" che pure erano presenti nel corteo? Il segretario della Fiom si sentiva a suo agio con Epifani e il segretario della Cgil era in armonia con i Cobas che marciavano alla testa del corteo dei "duri"?
Troppe partite si sono intrecciate ieri a Vicenza, con la conseguenza che non ne è stata portata a termine quasi nessuna. Salvo quella del questore che si era impegnato a tutelare l´ordine pubblico in una situazione di particolare difficoltà e c´è pienamente riuscito.
Il questore di Vicenza, i millecinquecento uomini ai suoi ordini, i vigili urbani del Comune e, a Roma, il ministro dell´Interno hanno vinto la loro difficile partita insieme al servizio d´ordine della Cgil e alla compostezza delle decine di migliaia dei partecipanti.
Quanto a Prodi, ne esce paradossalmente rafforzato. Rifondazione che mobilita la sua gente pacifista e che tra una settimana voterà il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan è la prova che Prodi è inaffondabile, governa e non galleggia. Sembra un paradosso ma non lo è. Da Vicenza questo è tutto ed è parecchio.
* * *
Però la città del Palladio per chi ha la mia età richiama anche un altro genere di ricordi, di nuovo tornati di rilevante attualità. Parlo della grande provincia bianca, feudo negli anni Cinquanta-Settanta della Dc, delle diocesi più potenti, delle cooperative bianche, delle banche popolari, d´un predominio organizzativo e culturale saldissimo.
Di quella lunga fase di egemonia è rimasto assai poco a Vicenza e in tutto il Nordest, salvo un senso di separatezza che ha consentito un forte insediamento della Lega nel triangolo con Verona e Treviso.
Il Veneto rispetto a com´era fino a vent´anni fa si è secolarizzato più rapidamente di qualsiasi altra regione italiana. Se c´è una terra di missione dove l´episcopato dovrebbe cimentare le proprie capacità pastorali è proprio lì, nelle terre venete uscite ormai dalle "dande" di Santa Romana Chiesa alla scoperta del buon vivere, dei piccoli piaceri della provincia italiana e della sua vocazione internazionale.
Qui la Chiesa è ancora massicciamente presente con il suo radicato temporalismo economico ma le coscienze non sono più sotto la sua tutela e la Vandea bianca è scomparsa. Bossi è in declino, il berlusconismo è ancora vigile ma in perdita di velocità. I veneti sono "in ricerca", ma neppure loro sanno dire di che cosa.
Io capisco perché l´episcopato italiano è preoccupato. Lo si comprende bene guardando proprio il Nordest, il miracolo del Nordest con al centro l´impresa, il lavoro, il valore, i segni materiali della ricchezza.
La Chiesa teme che tra ricchezza e laicizzazione del vivere vi sia un rapporto diretto. Per questo pensa di dover aumentare la presa sulle istituzioni pubbliche: non riuscendo più a controllare l´evoluzione del costume, spera di supplire a questa lacuna controllando le leggi.
Quando la Chiesa inclina dalla pastoralità alla temporalità, questo è un segnale di debolezza. L´ala martiniana dell´episcopato italiano ha compreso questo segnale di debolezza e cerca di invertirne il corso che i ruiniani invece spingono avanti con irruenza.
Quando Rosy Bindi dice di amare una Chiesa che parli di Dio coglie il centro della questione. Non è infatti con le norme di leggi che si argina la crisi della famiglia che soffre soprattutto per il fatto d´essersi ridotta ad una coppia o al triangolo di cui il figlio unico rappresenta il punto di riferimento esclusivo.
In società composte da "single" o da famiglie cellulari, la religiosità boccheggia e l´intera Europa diventa per i preti terra di missione. La vera patria della cattolicità si è spostata verso il Sud del mondo, America Latina e Africa. In queste condizioni un Papa tedesco e per di più teologo è stato probabilmente un errore della Chiesa che sembra ormai arroccata in una battaglia di retroguardia guidata dalla parte temporalistica dell´episcopato e da una pattuglia di atei devoti che coltivano obiettivi esclusivamente politici.
Per un laico fa senso assistere ad una fenomenologia così scadente e rivolta all´indietro. Si vorrebbe che la Chiesa parlasse dei valori dello spirito e non fosse dominata da una sorta di ossessione sessuofobica che finisce col discriminare i più deboli: le coppie non abbienti, etero e omosessuali che siano. Le coppie benestanti non hanno bisogno della reversibilità della pensione o dell´assistenza sanitaria o degli alimenti e se ne infischiano dei divieti alla procreazione assistita se necessario vanno all´estero e pagano i medici di tasca propria. C´è un profumo di classismo all´inverso nell´opposizione della Cei ai Dico.
Ma la cosa più singolare l´ha detta appena ieri Benedetto XVI denunciando la pressione di potenti "lobbies" che vorrebbero ridurre al silenzio la voce della Chiesa. Incredibile. La Cei del cardinal Ruini si sta muovendo da anni come la più potente delle "lobbies" e il Papa protesta contro supposti gruppi di pressione che vorrebbero confiscarne il diritto ad esprimersi.
Chi sarebbero questi lobbisti? Oscar Luigi Scalfaro? Il vescovo Plotti? Il cardinal Silvestrini? Il cardinal Tettamanzi? Pietro Scoppola? I giornali di cultura laica?
Infine: si dice Oltretevere che le prescrizioni della Cei ai parlamentari sulle modalità della legislazione non costituiscono ingerenze e quindi non c´è ragione di chiamare in causa il Concordato.
Ebbene, quali sono dunque le ingerenze ipoteticamente definibili come tali? Può qualche cattolicante in servizio permanente effettivo darcene un esempio? Oppure dobbiamo pensare che qualunque cosa faccia e dica la Cei, non esiste mai ingerenza nei confronti dello Stato mentre ovviamente il reciproco non è vero?
Coraggio: a noi basta un solo esempio tanto per poter fissare un limite sia pur piccolo all´attivismo illimitato del Vaticano nei confronti di uno Stato definito sovrano purché si rassegni ad essere etero diretto dal Papa e dai vescovi da lui nominati.