venerdì 19 gennaio 2007

Repubblica DIARIO 19.1.07
Il Settantasette quando nei cortei spuntò la P38
Trent'anni fa il terrorismo prendeva il sopravvento
di Adriano Sofri


Gli scontri studenteschi, i gruppi, armati e non, e la violenza che montava
Un movimento diviso tra velleità creative ed estremismo rivoluzionario

«Ci tolgono la gioia, ci tolgono la vita... ». Migliaia di giovani ebbero nel '77 un'iniziazione travolgente, di cui serbano un ricordo geloso, come di qualcosa di riservato, incompreso o violato da chi non c'era, da chi era contro. Non feci allora gran conto delle rivelazioni teoriche, l'operaio sociale e il pensiero desiderante e il resto. Mi impressionava invece l'attaccamento intenerito e spaventato a una vita comune, separata e irriducibile a quella del mondo ufficiale e adulto: una comunità che si rannicchiava nel suo territorio, l'università e le scuole, certe piazze di quartiere e case occupate, e ne usciva come si azzarda una sortita in uno stato d'assedio, e non voleva cambiare il mondo, ma tenersene uno per sé. Di quella comunità romantica in modo adolescente, composta per tanta parte da adolescenti veri, le espressioni migliori si trovano nelle fotografie di Tano D'Amico e nell'effusione delle famose lettere a Lotta Continua, che allora leggevo con esasperazione. Anche la breve allegria, la dissacrazione del mondo ufficiale scemo-scemo, aveva un'aria di comunità a parte, di riserva indiana, appunto. Non aveva voglia, quel movimento, di conquistare il potere e nemmeno di guadagnare alla propria causa la maggioranza, ma di mettersi in proprio. La Repressione fu il suo spettro: non che mancasse la repressione concreta, ché anzi Francesco Cossiga, bersaglio lui stesso di un odio smisurato, sostenne con un oltranzismo infantile il ruolo di duellante, e andò a occhi chiusi al suo appuntamento con la tragedia.
La moltitudine di ragazze e ragazzi che fino all'inizio del '77 erano restati in aspettativa altrove, o non avevano ancora raggiunto l'età per mettersi in corteo, si riconobbe unita da qualcosa – disoccupazione giovanile, massificazione scolastica, ma sono razionalizzazioni prosaiche di un più sfuggente senso di esclusione e di misconoscimento – e subito si sentì minacciata da un Potere che la odiava e la scandalizzava con la morte dei giovani.La morte diventò compagna di quella nuova comunità, e la diede in pegno al vecchio gioco della violenza.
Lotta Continua si era sciolta. In realtà, continuava a esserci, ma con un impulso a ritrasformarsi nel "movimento" - non c'ero più io, smesso. Negli altri gruppi c'era un irrigidimento conservatore e una smobilitazione militante. Il quotidiano di Lc moltiplicò la sua influenza, pagando un doppio scotto: di una reticenza sulle malefatte nel "movimento", e di una esposizione al ricatto dei suoi reparti maneschi. In quel vuoto l'Autonomia operaia e i gruppi che avevano già fatto il passo della clandestinità terrorista ebbero a portata un frutto insperato, e ne fecero un boccone. Non fu affare di ideologia: la loro era poco attraente. Nemmeno di efficienza e brutalità organizzativa, che c'era, ma respingeva le persone, salvo sequestrarle nei momenti dello scontro fisico. Il movente era in quella sensazione di malvagità del potere, di invidia dei giovani e della loro voglia di amicizia e di felicità. Le nuove reclute conoscevano le prime vittime, i primi picchiati o incarcerati, e bisognava votarsi alla solidarietà con loro, disporsi a emularne la pena. Su questo sentimento si innestava il martirologio antico, la sequela dei caduti di cui si imparavano i nomi, i compagni carcerati, lo Stato, la Repressione. Un movimento, anche il più ingenuo e innocente, che non sia educato alla nonviolenza, non si sottrae alla stretta fra violenza repressiva e violenza dello scasso. (A Genova nel 2001 successe di nuovo, e si sono già perdute le molotov d'ordinanza).
La partita si giocò il 12 marzo a Roma. Alla vigilia, a Bologna, Francesco Lorusso, 25 anni, studente di Lotta Continua, era stato ucciso dalla pistola di un carabiniere, a ridosso di un'incursione, malaugurata ma innocua, di militanti di sinistra in un'assemblea di Comunione e Liberazione, cui non aveva partecipato. La manifestazione fu enorme, e si misurò con uno schieramento di polizia a sua volta enorme. Blindato l'accesso a via Nazionale, prevalse la volontà di far valere la forza politica del corteo, che scese per via Cavour. Quando già la testa era a largo Argentina, un gruppo, facendosi scudo di uno spezzone composto da donne, attaccò con le molotov la sede della Dc e la polizia schierata. Le forze dell'ordine, o almeno i loro capi, non aspettavano altro. La città a ferro e fuoco: centinaia di feriti, arrestati, vetrine infrante, auto (utilitarie per lo più) incendiate o sfasciate, armerie svaligiate, sparatorie, caccia all'uomo. Nella gran parte dei manifestanti restò un senso di frustrazione e di inganno. Ma nemmeno quella amarezza bastò a rovesciare il tavolo. Si sentì di muoversi in un vicolo cieco, senza il coraggio di una ritirata, che un ricatto facile faceva passare per diserzione. Nemmeno il giornale di Lc usò parole abbastanza nette. Non che non le pensasse: ma si lasciò a sua volta legare dal senso di responsabilità. Voleva stare dentro il movimento per scongiurarne la resa ai feticisti della violenza e ai reclutatori della lotta armata. Nel corso dell'anno, il giornale arrivò alla rottura piena con l'idolo dell'"unità del movimento", più drammaticamente quando fu ammazzato Carlo Casalegno a Torino. Quella Lc trasfusa nel "movimento" lo convogliò nel convegno di settembre a Bologna e ne sventò un ulteriore esito violento, e ottenne anzi una piccola ricucitura negli strappi che avevano contrapposto la città "comunista" ai giovani, di cui il funerale di Lorusso lividamente confinato in periferia fu la macchia peggiore. Ma dal vicolo cieco il "movimento" non sarebbe più uscito. Il resto dell'anno riservò altri ammazzamenti, e "gambizzazioni" - neologismo d'annata - e attentati e scontri e Giorgiana Masi e odio e rancore senza fine. Gli adolescenti che avevano Aldo Moro.
Fuori gioco, seguivo con trepidazione i miei compagni che si prodigavano per tenere le cose di qua dal precipizio – Alex Langer nella famosa foto, accucciato con le mani giunte accanto al poliziotto che giace in strada colpito il 2 febbraio 1977, Marco Boato che sfida la minaccia teppistica nel Palasport di Bologna, Enrico Deaglio che risponde alla "condanna a morte"» fornendo i percorsi delle sue giornate. Il corteo del 12 marzo lo seguii dai bordi. A un angolo di via Cavour mi intrattenni con Umberto Terracini, trepidante per il più piccolo dei suoi figli, che tante volte mi aveva raccomandato. Massimo aveva allora vent'anni, è morto nel 1995. Ero persuaso che bisognasse impedire che il retaggio dell'estremismo politicante e filoterrorista si saldasse con la nuova leva militante, nel vittimismo e nel lutto. Che fosse essenziale, prima del diluvio, dare un segno di svolta e disarmare la retorica del complotto e del martirio con un'amnistia per tutti, sinistra e destra. Sentendo di essere alla vigilia del diluvio, fare come se si fosse all´indomani del diluvio. Liquidare una partita, perchè la prossima non si caricasse del debito antico. «Vuoi tirare fuori Curcio?», mi chiedevano. Volevo: se non altro, avrebbe impedito ai ragazzi in corteo di gridare, senza sapere perché, "Curcio libero". Qualcun altro rivendicava l'amnistia politica per "i compagni prigionieri", dagli autonomi a Guattari, ma era una parola d'ordine agitatoria, come gridare "Curcio libero". La mia speranza era irrealistica. Questo non toglie che mi interroghi sui suoi eventuali effetti. C'è sempre quel tornante dell'assassinio di Moro, a fare da pietra di paragone.
Il '77 si porta dietro la sensazione soffocante di un angolo in cui si resta inchiodati, senza scampo. Però le cose non sono ineluttabili come diventano una volta consumate. Che cosa sarebbe successo se il Pci non avesse deciso di cercare la prova di forza, se il 17 febbraio Luciano Lama - piuttosto l'esecutore incauto di quella decisione - non fosse andato a sfidare il movimento alla Sapienza? Su questo giornale Eugenio Scalfari commentò l'errore di Lama. Ci sono errori che costano molto cari. Quella giornata scavò fra il movimento operaio e i giovani un fossato mai più colmato. Da parte di professionisti del realismo, fu una prova di imprudenza micidiale. A distanza di tre anni, fu ripetuta a Mirafiori con il comizio di Berlinguer che, a domanda, ammise con un involuto imbarazzo l'appoggio all'occupazione, e il messaggio fu che aveva incitato a occupare. La marcia dei cosiddetti 40 mila fu poi l'equivalente del 12 marzo romano. Due tappe essenziali nella destituzione della classe operaia in Italia.

Repubblica 19.1.07
Un paese diviso e spaventato
Il paese delle urla e delle rivoltelle
di Giorgio Bocca


Per Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse, quel '77 gli piombò addosso come una slavina di giovani selvaggi. Fu qualcosa di imprevedibile

Al megaconvegno contro la repressione a Bologna si andò con la famiglia intera: mia moglie e io all'hotel Jolly, matrimoniale con bagno, i tre figli adolescenti sotto i portici dell'università con i sacchi a pelo. Si diceva che erano arrivati a Bologna in sessantamila: l'Italia ribollente della contestazione, più parole che rivoltelle, che faceva da coro all'avanguardia rivoluzionaria delle Brigate Rosse, molte parole ma anche qualche rivoltella. E subito l'impressione di una festa giovanile più che di un'adunata sediziosa, subito l'impressione che si era lì per divertirsi più che per combattere. Così del resto era avvenuto tutto l'anno. Sì c'erano i brigatisti e i gambizzati, i Prima linea irresponsabili e feroci e ogni mattino fra le otto e le nove c'era l'ora in cui l'uomo-simbolo, la vittima esemplare, poteva cadere sull'asfalto di una strada, nel suo sangue ma la tragedia si mescolava sempre alla festa, alla vacanza; quelli di Prima Linea "staccavano" per andar a sciare al Sestriere, i brigatisti rossi emiliani andavano a Spigarolo per provare i nuovi culatelli e a Bologna al megaconvegno si andava per la politica ma anche per lo scontro teatrale fra studenti anarcoidi e militanti del Pci che era una cosa seria ma sembrava un po' una storia come La secchia rapita. Quei tumulti metà veri e metà recitati piacevano molto a tutti, facevano parte di quelle lotte civili che sono la passione degli italiani, quelle guerre in cui tra una battaglia e un agguato torni a casa per dormire nel tuo letto.
Bologna era al centro di quella tragicommedia esplosa il 12 marzo di quel burrascoso '77. Al centro della città si è formata una sacca di rabbia e di scontento: migliaia di giovani di sinistra che dopo uno scontro con i cattolici di Cl partono in corteo diretti a Piazza Grande. I carabinieri cercano di fermarli, parte un colpo di moschetto e colpisce a morte lo studente Francesco Lorusso di Lotta continua. È la rivolta. I giovani danno fuoco al "Cantunzein", il ristorante dove il professor Zangheri sindaco della città invita gli stranieri che vengono a visitare il "miracolo rosso" di Bologna, il comunismo ricco, la grande trovata del "capitalismo gestito dai compagni". Da lì l'idea della sinistra radicale di fare proprio a Bologna un maxiconvegno contro la repressione. Ne nasce qualcosa di veramente maxicomprensivo di tutta l'Italia intellettuale e politica di allora. Tutti vengono a Bologna alla ricerca della loro identità, che in sostanza rimane l'identità della italica borghesia, ma che tutti vogliono mascherare, rifiutare, deformare. È una colossale commedia degli equivoci che il popolo bolognese dei negozianti e dei ristoratori capisce al volo ricevendo fraternamente i "sovversivi" in cui riconosce i figli che ha mandato all'università perché diventino anche loro dottori, professori. I promotori del maxiconvegno nati e vissuti in Bologna la dotta vogliono la rivoluzione ma anche il corpo accademico, invitano avvocati democratici, psichiatri, magistrati, giornalisti a patto che accettino gli sberleffi e gli "scemo" della base movimentista, vogliono ospitare lo spontaneismo giovanile ma nel rispetto della buona cultura, si rivolgono a una classe operaia immaginaria mentre quella vera, presente a Bologna in carne e ossa sta nei servizi d'ordine delle aziende municipalizzate. Ha risposto bene il sindaco professore ai giovani del convegno che si presentavano come occupanti di Bologna: «Ragazzi, l'abbiamo occupata già noi del Pci».
La città risolve da sola i problemi della coesistenza con i bravi ragazzi che si dicono rivoluzionari. Trasforma l'invasione in affare. Il resto lo fanno gli intellettuali che recitano se stessi, la Maciocchi, Dario Fo, Felix Guattari, Alain Guillaume che fraternizzano con Mimmo Pinto leader dei "disoccupati organizzati" arrivato da Napoli.
Bologna invasa ricorda un po' la battaglia di Alesia del divo Cesare, gli eserciti in campo sono l'uno dentro l´altro assedianti assediati. Potrebbe succedere che un autonomo vestito da poliziotto spari sugli studenti come che un poliziotto vestito da autonomo spari sui carabinieri. Del resto anche i giovani che protestano contro la repressione si sono già divisi fra radicali e moderati. Gli intellettuali, i riformisti, i garantisti si ritrovano a discutere all'università e nei vecchi palazzi forniti dal municipio comunista mentre i duri, quelli venuti a Bologna per menare e magari per sparare, si ritrovano al palazzetto dello sport, i Volsci romani, gli autonomi di Padova, quelli di Potere operaio, quelli di Senza tregua e di Prima linea che urlano "Curcio libero".
Ma nello schieramento concentrico ci sono anche diecimila poliziotti che circondano il palazzetto dello sport senza attaccarlo e attorno ai poliziotti nella periferia della città il governo ha mandato anche i soldati dell'esercito per essere ben sicuro che il vulcano non esploderà. Anche gli studenti giovanissimi delle scuole medie si sono riuniti in un teatro, sono gli ascoltatori di Radio Alice del rivoluzionario Bifo, giovane e divertente che ho preso in giro sul giornale. Entro nel teatro e mi riconoscono. Sale un coro più scherzoso che minaccioso: «Radio Alice non si tocca, sequestriamo Giorgio Bocca». Forse ci sono anche i miei figli a ritmare la filastrocca.
Il '77. Dice Renato Curcio il fondatore delle Br: quel '77 ci è piombato addosso come una slavina di giovani selvaggi. "Slavina" è la parola giusta. Il Movimento, come lo chiamano, è qualcosa di imprevedibile, di inarrestabile. Le Br cercano disperatamente di chiudergli le porte avendo capito che ne sarebbero travolti, una chiusura totale, maniacale, disperata. Il nucleo storico ma anche Moretti e Fenzi, i brigatisti nuovi della O, l'organizzazione che viene dopo il primo slancio rivoluzionario, capiscono a tatto, a odore, a istinto o prima che a ragione che la slavina giovanile è qualcosa di anarcoide che ha tagliato i ponti con la storia di famiglia, con il partito comunista, con gli operai, con la disciplina leninista, con i pugni di acciaio. Ricorda il brigatista Ognibene: noi dal carcere ci rendevamo conto che non saremmo mai riusciti a controllare quella leva giovanile. Nel '77 ogni possibilità di costituire un partito era caduta, le forze sociali in movimento erano troppo composite, i nostri legami con l'esterno erano stati sommersi dalla quantità di lotte ambigue e mutevoli. A un certo punto fra noi del gruppo storico si arrivò a dire: «Compagni noi le Brigate rosse le abbiamo fatte, potremmo anche disfarle».

Repubblica 19.1.07
I libri
La città emiliana fu l'epicentro per tutto il movimento
dentro il precipizio di Bologna la grassa
di Michele Serra


Nel settembre di quell'anno, Bologna si riempì di giovani e intellettuali, arrivati dall'Italia e dall'Europa, per una specie di folle happening rivoluzionario

Manca a certificarlo una fotografia di Robert Capa. Ma pare proprio che il carrello dei bolliti del ristorante "Cantunzein", appena svaligiato, abbia fatto la sua parte nei tumulti attorno a piazza Verdi, pieno centro di Bologna. Tra le armi proprie e improprie di quegli anni, e di quell'anno in particolare, sarebbe bello potere ricordare solo quella: l'icona di una rivoluzione dadaista.
Il carrello sulle barricate è l'immagine più diffusa della vulgata postuma sul Settantasette bolognese. E rappresenta bene l'attitudine teatrale, giocosa, beffarda di una delle anime di quella rivolta rimasta molto local nonostante sia stata goffamente globalizzata da un celeberrimo e surreale intervento di intellettuali francesi, compreso il vecchio Sartre, che promossero la povera Bologna a "capitale mondiale della repressione". (Soltanto il cardinal Biffi, vent'anni dopo, riuscirà a dare di Bologna un'immagine perfino più incongrua e sopra le righe, definendola "sazia e disperata": quando si dice gli opposti estremismi...).
Ma in Italia - altro che dadaismo - si sparava. Ci si ammazzava per la strada, in un crescendo di agguati e regolamenti di conti che hanno avuto per soli emuli, in questo paese, le guerre di mafia. In quei giorni del marzo bolognese lo studente Francesco Lorusso venne freddato sotto i portici dai colpi della polizia. Fu l'anno in cui caddero a Roma Giorgiana Masi, sempre per mano di agenti di Stato, a Milano l'agente Custrà ucciso dagli autonomi, a Torino Casalegno dai terroristi rossi. La P38 era il ripugnante feticcio di una parte minoritaria ma ancora molto contigua della sinistra rivoluzionaria: un pistolone da gangster-movie la cui sagoma omicida veniva mimata a mani nude nei cortei di autonomia.
Il movimento del Settantasette fu strenuamente radicale: in tutto. Nei suoi ribaltamenti linguistici, nel ribollente rifiuto delle convenzioni e perfino del senso della politica; ma anche nella drasticità inappellabile, davvero "estrema" (nel senso che, un passo più in là, non c'era più niente, anzi c'erano la morte della politica e il Riflusso) di molti suoi atti, di molte sue istanze, collettive e individuali. A differenza del Sessantotto, che era stato pura politica, e si era posto la questione del potere fino a diventare quasi la parodia del comunismo dei padri, con piccoli Politburo di ventenni che questionavano di strategia e di tattica, il Settantasette fa semplicemente a pezzi la politica tradizionale, o forse la politica tout court. Parla di "desideri" e non più di bisogni sociali, ignora oppure spregia la questione del potere e dell'egemonia, esalta il soggetto "desiderante", la libertà incondizionata, assoluta, non veicolabile da nessuna autorità. Si fa beffe, anarchicamente, di qualunque forma istituzionale abbia assunto, fin lì, la politica. Inevitabile e fatale il cozzo frontale con il Pci, il sindacato, la sinistra storica, la morale e il moralismo del movimento operaio, l'addolorata prudenza berlingueriana. "Noi odiavamo i comunisti", scrive Lucia Annunziata del suo libro 1977.
Insieme all'assalto al palco di Luciano Lama, all'Università di Roma, la sommossa bolognese fu l'altra conferma, forse perfino più rilevante, della natura anti-comunista (letteralmente) di quel movimento di studenti: circostanza che fu notata, e lodata, anche sul Corriere della Sera. La città allora simbolo del comunismo riformista era anche il simbolo dell'imborghesimento di una classe dirigente e di una base sociale orgogliose delle loro conquiste e della loro egemonia. Perbeniste, moderate, in fin dei conti soddisfatte: imperdonabile e odiosa condizione, la soddisfazione, per quella piccola moltitudine di giovani che incarnava con una foga quasi visionaria, quasi dolorosa, la smania di desiderare, di sperimentare, di godere.
Quell'ostentato sporgersi oltre il limite, verso il precipizio, che è tipico di molte adolescenze, in quel momento, in quel movimento, diventa una specie di anima collettiva: un'esperienza bruciante da consumare tutta intera, tutti insieme e subito, comprese le evidenti pulsioni di morte, di consunzione strenua, e pazienza se dopo rimarranno solo le ceneri. Il movimento è insieme generoso (perché non fa calcoli) e masochista (perché non fa calcoli). La politica è poco, la politica è stretta per istanze e parole d´ordine che sono squisitamente esistenziali, identitarie: i "desideranti" non sanno che farsene di conquiste sociali che si esauriscono nel decoro dei padri operai e delle loro cooperative. La fatica e il sangue che quelle conquiste popolari costarono non riesce minimamente a pesare nello scontro convulso di quei giorni, a calmierarlo. Il Pci bolognese consuma la sua onta facendosi sempre più Stato, chiudendosi astiosamente (odio che risponde a odio) e appoggiando sostanzialmente la repressione dei moti. Ci vorranno molti anni, in città, per ricucire almeno in parte quella ferita: in buona parte grazie alla rimozione.
Nel settembre di quell'anno Bologna si riempì di giovani, arrivati da tutta Italia, per una specie di folle happening rivoluzionario "contro la repressione", con gli immancabili intellettò francesi. Non accade niente di particolarmente sgradevole, semmai qualcosa di divertente: per esempio una discussione pubblica se fondare o non fondare un nuovo partito armato, alla presenza dei giornalisti e probabilmente di qualche decina di agenti in borghese. Tutto si disfa in fretta, smobilita, cessa di essere politica (nella misura in cui è riuscito ad esserlo) e diventa memoria personale. Il Settantasette finisce nel 77: poca cosa. Di lì in poi, parleranno da un lato le armi dei brigatisti, dall'altro una placida, irresistibile restaurazione, che sostanzialmente dura fino ai giorni nostri e della quale non si incaricarono né lo Stato e neanche l'odiato Pci: più banalmente, è avvenuta ad opera del consumismo, della televisione, del conformismo sociale.
Di quel vitalismo irriducibile resta molto controversa, anche oggi, un'interpretazione politica: l'autodefinizione del movimento fu di sinistra estrema, e si deve prenderla per buona. Anche se per l'opinione marxista classica si trattava di velleitarismo piccolo-borghese. Ancora più complicata la discussione se si prova a ragionare sui "desideri" e i "desideranti" con il senno di poi, cioè il nostro: cinicamente, potremmo dire che molti dei desideri che l'ottuso Pci non seppe e non poté esaudire (né reprimere) li ha abbondantemente esauditi il Grande Fratello nel prosieguo dell'epoca...
Non è un caso, comunque, se le tracce più convincenti di quel periodo, le più visibili, le più tipiche e anche le più apprezzabili, sono impresse nella memoria artistica e culturale e non in quella politica. Restando nella sola Bologna: la stagione del rock demenziale, il cabaret surreale del Gran Pavese, un fiorire notevole di scrittura e scrittori, il fumetto d'avanguardia e soprattutto il geniale lavoro di Andrea Pazienza - morto per droga poco più che trentenne - che seppe raccontare con furore quasi céliniano (ma allegro! diamine!) i giorni e soprattutto le notti di quei gruppi di studenti famelici di vita, allucinati dalle droghe, disperatamente amorosi.
Il vitalismo e soprattutto il narcisismo sono, in politica, vizi capitali, anche se magari schiudono le porte del potere individuale meglio e più in fretta, come è avvenuto, del resto, per molti degli ex rivoluzionari di quegli anni. Ma dell'arte, il narcisismo è spesso alimento, ragione fondante. Purtroppo non tutti da quelle parti, e in quell´anno, erano artisti.

Paul Ginsborg: I giovani del movimento del '77 differivano radicalmente dai loro idealisti e ideologizzati predecessori del ‘68.
Vittorio Foa: Il mito della centralità operaia, dell´operaio forte che con le sue vittorie cambia il mond era già contestato "da sinistra" nel 1977
Jean-Paul Sartre: Da febbraio l'Italia è scossa dalla rivolta dei giovani proletari, dei dimenticati dal compromesso storico e dal gioco istituzionale
Giorgio Amendola: Queste anime nobili che protestano per Radio Alice, mi fanno pensar a quelli che, tra il '20 e il '22, degli squadristi dicevano "teste calde"

Repubblica 19.1.07
La frontiera del riformismo
di Tony Blair


Solidarietà, giustizia, uguaglianza: erano i valori in cui credevamo noi progressisti, e lo sono ancora. Ma il mondo in cui quei valori si sono formati è profondamente cambiato. Era un mondo di classi sociali nettamente differenziate, di produzione di massa, di uomini d'affari in doppio petto, di grandi aziende rigidamente distinte dalle piccole. Oggi quel mondo si è trasformato al punto da risultare irriconoscibile. La produzione di massa non esiste più negli stessi termini, tecnologia e globalizzazione hanno reso necessario un costante riadattamento al mercato, un grande business può improvvisamente scomparire e uno piccolo diventare grande con altrettanta rapidità. La parola d'ordine è diventata «liberalizzazione». Per qualcuno, nella sinistra europea, questa è una parolaccia. Eppure descrive il modo in cui vivono e lavorano gli uomini e le donne del nostro tempo.
Un nuovo modello sociale europeo, per fare i conti con questo mondo, deve basarsi di meno sulla protezione dei cittadini e di più sullo sforzo di dare alla gente il potere di controllare le proprie vite. Per realizzare un obiettivo simile, una buona istruzione per tutti è il singolo elemento più importante. Ma non è il solo. Siamo di fronte a una classe sociale in continua espansione. Una classe che io definirei la classe di coloro che aspirano a un maggiore benessere, a un'elevazione della propria condizione sociale, e che perciò è meno tollerante nei confronti della criminalità, più preoccupata per la propria sicurezza, più attenta ai benefici ma pure ai problemi creati dall'immigrazione.
Se le forze progressiste d'Europa non capiscono questo, allora i valori su cui è basato il nostro credo politico, i valori di solidarietà, giustizia, uguaglianza, non servono a niente; allora le forze progressiste diventano forze conservatrici, interessate a difendere uno status quo anziché a innovare. Può anche darsi che, così facendo, riescano a farsi eleggere al governo: ma non riusciranno a restarci a lungo perché non sapranno dare risposte alle aspirazioni della maggioranza. E se c'è una cosa che ho appreso dalla mia esperienza personale, è che un leader e un partito possono attuare i cambiamenti che hanno in mente solo se rimangono al governo per un periodo prolungato di tempo.
Tutto ciò è facile a dirsi, ma difficile a farsi. In Gran Bretagna le forze progressiste ci sono riuscite: hanno vinto tre elezioni consecutive, ora hanno buone possibilità di vincere una quarta volta. Come è stato possibile? Imboccando la Terza Via, che non era una via di mezzo tra conservatorismo e progressismo: era uno stato d´animo, un modo di essere. Alla cui base c'è un concetto fondamentale: ascoltare la gente, non se stessi. Non per diventare prigionieri del populismo, ma semplicemente perché prima viene la gente e poi veniamo noi, i politici di professione, i militanti, gli attivisti. Ascoltare il desiderio di compassione sociale della gente, ma anche il desiderio di avere successo, di elevarsi, di crescere socialmente. Se non lo faremo, non sorprendiamoci se la gente si rivolge alla destra per ottenere risposte. La destra, in Gran Bretagna, oggi è in uno stato politico confusionale. Ci attacca, ma non sa cosa proporre, né su quali principi assestarsi. I Tory sono confusi per una precisa ragione: perché noi abbiamo occupato il centro. Ed è un centro che si muove continuamente. Se lo abbandoniamo, i Tory riprenderanno terreno.
Dunque dobbiamo essere coraggiosi, non timorosi. Certamente non dobbiamo pensare soltanto a questa classe che aspira a un maggiore benessere, ma non possiamo nemmeno schierarci contro di essa. Il futuro del modello sociale europeo continua a essere fondato sui nostri valori tradizionali, ma dipende dalla nostra capacità di cambiare insieme al mondo in cui viviamo. I partiti progressisti continueranno naturalmente ad avere bisogno dei loro militanti, ma io penso a partiti che rispondano soprattutto a quelli che vorrei chiamare i nostri «azionisti» più che ai nostri attivisti: gente che ci vota e ci assegna la fiducia perché sa di poter ricevere in cambio quello che chiede.
Facciamolo e potremo rimanere partiti di governo per lungo tempo. Senza abbandonare i nostri valori, ma imparando a farli funzionare nel mondo moderno. Impariamo a coniugare insieme aspirazioni e compassione. Se un mondo più individualista contrasta con la nostra visione di progressismo, allora secondo me abbiamo un problema: perché non c'è niente di male nell'individualismo, nel mondo d'oggi la gente vuole più individualismo, significa maggiore controllo della propria vita, maggior capacità di scegliere, maggiori opportunità. Non c'è nulla di male nemmeno nel materialismo: la gente vuole più beni materiali, è normale, a patto di ricordarsi, come forze progressiste, di salvaguardare coloro che hanno di meno. La distinzione tra noi e la destra sta appunto in questo: i progressisti si battono affinché la maggiore libertà di scelta si espanda il più possibile, affinché non siano solo i più privilegiati a beneficiarne. Ritorno al punto iniziale, fondamentale: non dobbiamo essere noi politici a dire alla gente quello che deve volere, dobbiamo ascoltare la gente, lasciare che sia la gente a dirci ciò che vuole e capirla. I progressisti, nell'Europa odierna, devono porsi sulla frontiera del cambiamento continuo. E su quella frontiera devono restare.

(dal discorso del premier britannico al convegno "Britain and Europe in the global age", organizzato a Londra dalla fondazione Policy Network)


Repubblica 19.1.07
L'ansia di sapere chi siamo davvero
di Umberto Galimberti


Non ci sarebbe tanta inquietudine se un valore comparisse nell'età della tecnica
Eugenio Scalfari sull'Espresso è intervenuto sul tema cruciale della nostra identità in un'epoca di grandi cambiamenti
Si sono infatti indebolite tutte le appartenenze culturali, ideologiche, famigliari, religiose e sessuali che ci connotavano

Eugenio Scalfari, sull'Espresso del 18 gennaio, interviene su un tema che entrambi consideriamo molto importante e che potrebbe essere formulato così: che ne è della nostra identità, oggi, in cui assistiamo all'indebolirsi di tutte le appartenenze territoriali, culturali, religiose, ideologiche, familiari, di genere, sessuali, che finora hanno costituito il perimetro, all'interno del quale, si è costituita, è cresciuta, ha preso forma la nostra identità?
Non stiamo diventando anime perse, senza punti di riferimento, che vagano come naufraghi nel mare di quella malintesa libertà che, svincolata da tutte le appartenenze, ritrova se stessa nella semplice possibilità di revocare tutte le scelte, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti, senza la possibilità di costruire una vera biografia?
Entrambi conveniamo che questa è la tendenza del nostro tempo, determinata dai processi di de-territorializzazione indotti dalla globalizzazione e dai processi migratori; dal relativismo culturale conseguente alla conoscenza delle altre culture resa possibile dall'enorme espansione dei mezzi di comunicazione; dal relativismo religioso per cui, chi aderisce a una fede oggi non giudica miscredente e tanto meno combatte chi aderisce ad altre fedi, preferendo, alla posizione di Ratzinger, quella relativista del vescovo del Quattrocento Niccolò Cusano, che giudicava le diverse religioni una semplice variazione di riti dell'unica religione («una religio in varietate rituum»).
Ancora, entrambi conveniamo che forse incominciano a trovare concreta attuazione i principi illuministici della libertà individuale e della tolleranza in ordine alle modalità di convivenza che possono assumere la forma della famiglia nucleare, allargata o di fatto, in ordine all'appartenenza di genere e all'orientamento sessuale, su cui più non pesano le condanne sociali di un tempo con conseguenti pratiche di emarginazione. Ma se è vero che, da che mondo è mondo, l'identità di ciascuno è stata determinata dalle reti delle proprie appartenenze che la definivano e la identificavano, che ne è della nostra identità oggi che tutte le appartenenze si indeboliscono, si smarginano, si contaminano, diventano ciascuna permeabile all'altra?
Io vedo nell'abbattimento dei confini, entro cui la storia finora ha «confinato» popoli e individui, una grande occasione in ordine non solo a una maggior attuazione del concetto di «tolleranza», su cui anche Eugenio Scalfari, conoscendo la matrice illuminista del suo pensiero, credo convenga, ma anche la possibilità offerta a tutti di costruire una propria identità senza la comoda protezione dell'appartenenza, e quindi un esser-se-stessi senza che nessun dispositivo territoriale, culturale, religioso, possa davvero codificarci.
Su questo punto Scalfari muove due obiezioni che vanno al cuore del problema. La prima è che «costruire un'identità deprivata delle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia», perché le appartenenze non sono solo comodi rifugi per chi non è in grado altrimenti di darsi un'identità, ma sono quelle basi culturali che, trasmesse da generazioni a generazioni, consentono a ciascuno individuo di non partire ogni volta da zero, e soprattutto di non «appiattirsi sul presente» che, senza passato e senza futuro, o come dice Scalfari «senza storia» finisce col non sapere come orientarsi, e soprattutto col non avere alcun punto di riferimento che non siano le occasioni del presente.
Vero. Ho sempre in mente un mio bravissimo studente, che dopo essersi laureato in Filosofia con un'ottima tesi, mi chiese se poteva concorrere per un dottorato. Alla mia osservazione che un dottorato in Filosofia non gli avrebbe dato, rispetto alla laurea, maggiori occasioni per inserirsi nel mondo del lavoro, mi rispose: «Lo so, ma almeno per tre anni faccio quello che mi piace e quindi sto bene». Appiattimento sull'assoluto presente, perché la formula del passato, che premiava con una carriera accademica i migliori, oggi non trova più attuazione, e il futuro non appare più come una promessa, ma come un'incognita, quando non come una minaccia.
La storia, fatta di presente, passato e futuro, sembra abbia perso la sua capacità di costruire identità, sostituita in questo dalla tecnica, che ha risolto l'identità di ciascuno nella sua «funzionalità» all'interno degli apparati di appartenenza che si incaricano di distribuire identità. Del resto che significato ha quel gran circolare di biglietti da visita, dove l'identità di ciascuno è data dalla sua collocazione all'interno dell'apparato di appartenenza, e dove il proprio nome e cognome acquista rilievo solo a partire dalla funzione che all'interno dell'apparato ciascuno svolge?
Nell'assegnare identità e appartenenza la tecnica ha sostituito la storia. E questo non è un inconveniente da poco perché, mentre la storia è percorsa dall´idea di «progresso» che porta in sé quel tratto «qualitativo» tendenzialmente indirizzato al miglioramento delle condizioni umane, la tecnica segue solo linee di «sviluppo» che segnano un incremento «quantitativo» molto spesso afinalizzato. Non ci sarebbe infatti tanta inquietudine, tanto stress, tanto consumo di psicofarmaci, tante domande circa il senso della propria esistenza, se un fine, uno scopo, un'idea, un ideale, un valore facesse la sua comparsa nell'età della tecnica.
Nasce da qui quel risveglio religioso che fa contenti gli uomini di fede, i quali promettono un senso al di là della terra. Ma è su questa terra che, sia io sia Scalfari, vorremmo trovare tracce di sensatezza, magari potenziando la cultura e quindi la scuola, dove la cultura si trasmette, affinché l'uomo non si rassegni a diventare un semplice ingranaggio nel meccanismo della tecnica, per giunta con qualche inconveniente e qualche inadeguatezza rispetto alle macchine che quotidianamente utilizza (Günther Anders, L'uomo è antiquato, Bollati Boringhieri).
E qui si affaccia la mia seconda proposta che invita ciascuno di noi, nel desertificarsi di tutte le appartenenze, a riprendere l'antico messaggio dell'oracolo di Delfi: «Conosci te stesso». A questo proposito Eugenio Scalfari interviene obiettando che, dopo aver seguito per molto tempo questo invito, è giunto alla conclusione (che potrebbe far impallidire tutti gli psicoanalisti) che questa conoscenza di sé è di fatto impossibile perché, scrive opportunamente Scalfari dall'alto della sua biografia: «Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l'io, la nostra mente a capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il «sé», cioè l'essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell'inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza».
Se la psicoanalisi facesse tesoro di queste considerazioni avrebbe una buona occasione per riattivare il proprio pensiero, oggi un po' pigro e stantio, abbandonare la propria pretesa, talvolta eccessiva, di trasformare o cambiare la condizione di quanti a lei si rivolgono, e indirizzare la conoscenza di sé là dove Nietzsche la indica: «Diventa ciò che sei». Prendi coscienza, nei limiti che ti è consentito, delle tue potenzialità e delle tue non idoneità, sviluppa le prime e rinuncia alle seconde, evitando di sognare di poter diventare ciò che non sei, perché attratto dai modelli che questa società ti propone e che non ti corrispondono.
«Diventa ciò che sei» potrebbe essere allora il modo di costruire un'identità nel deserto delle apparenze dovuto al defilarsi della storia, e nella coercizione in quell'appartenenza a cui la tecnica ci costringe, senza che noi ci si possa davvero identificare.
Riconosco che le mie, più che proposte, sono possibili vie d'uscita dal dominio incontrastato che la tecnica e l'economia, e non più la storia, sembrano esercitare nella nostra epoca. E perciò ringrazio Eugenio Scalfari per aver prestato attenzione a questo tema, che a me pare alla base delle ansie e anche dei dissesti esistenziali dell'uomo d'oggi. E di essere intervenuto con osservazioni perfettamente mirate che hanno consentito di approfondire il problema venendo così incontro all'inquietudine del nostro tempo in cui, per dirla con Hölderlin: «Più non son gli dèi fuggiti, e ancor non sono i venienti».

Repubblica 19.1.07
Come cambia il cervello di una madre
Una lezione oggi all'Auditorium
di Massimo Ammaniti


Le ricerche scientifiche illuminano il mondo della maternità e dello sviluppo infantile
Le modificazioni psichiche possono scivolare anche verso la patologia
Sotto la spinta degli ormoni la donna migliora le prestazioni e addirittura i suoi neuroni diventano più grandi
È durante la gravidanza che si attiva quello che è stato definito il "circuito cerebrale materno"

Pubblichiamo parte della "lectio" che Massimo Ammaniti terrà oggi all'Auditorium di Roma alle 15,30, nell'ambito del Festival delle Scienze

Se nel famoso e discusso quadro del pittore francese Gustave Courbet L'origine del mondo la creazione umana viene collocata nel corpo o meglio nei genitali femminili, la ricerca psicologica e neurobiologica più recente ha spostato l'attenzione sulla mente e sul cervello delle madri.
Nella storia della specie umana la maternità è profondamente cambiata, con tutta probabilità con l'acquisizione della posizione eretta, che ha favorito la cura e l'allevamento dei figli. Infatti, a differenza degli altri primati, con la posizione eretta il contatto e lo scambio visivo fra madre e figli sono divenuti quanto mai determinanti nella comunicazione e nella condivisione dei reciproci stati d'animo, confermato anche dal fatto che nell'occhio umano si può cogliere la direzione dello sguardo in quanto la pupilla e l'iride sono ben distinguibili.
Queste particolari capacità umane sono divenute via via più importanti per l'allevamento dei figli, dal momento che i lattanti, se sono relativamente immaturi sul piano motorio, sono allo stesso tempo precoci nello sviluppo delle competenze comunicative, requisito indispensabile per far parte della comunità umana. Per tal motivo le madri e i padri si preparano per molto tempo a prendersi cura e ad interagire con i figli fin dalla nascita accompagnandoli fino alle soglie dell'età adulta.
Già Freud, nel suo scritto del 1914 Introduzione al Narcisismo, aveva parlato della tendenza dei genitori «ad attribuire ogni perfezione al figlio» che viene al mondo, con la missione di mettere in atto i sogni e i desideri irrealizzati dei genitori, in altri termini un amore fortemente contrassegnato dal narcisismo. Ma nella maternità, come ha messo in luce la ricerca più recente di Daniel Stern, vi è anche un profondo cambiamento psichico in ogni donna, caratterizzato dall'emergere della costellazione materna. Dopo la fecondazione ogni donna, in modo più o meno consapevole, si comincia a chiedere se sia in grado di mettere al mondo un figlio e farlo crescere, se saprà amarlo rispondendo alle sue esigenze psicologiche e infine se sarà come la propria madre o addirittura più brava.
Durante la gravidanza si creano le condizioni perché una donna diventi anche madre e si prepari a pensare per due, ossia per quando si dovrà occupare del figlio ormai nato. In modo quasi sotterraneo ogni donna si comincia a vedere come madre e si costruisce un'immagine mentale del figlio, che in questa fase è solo una presenza all'interno del proprio corpo via via più evidente. Naturalmente ogni donna ha un suo percorso personale guidato da una sorta di navigatore mentale che ha preso corpo nei primi anni della sua vita, costituito dai legami di attaccamento con i propri genitori che adesso sono il riferimento essenziale nel diventare madre. Va segnalato che i legami di attaccamento che una donna ha avuto con i propri genitori permettono di predire, addirittura con una probabilità del 75%, l'attaccamento del figlio ad un anno, una trasmissione intergenerazionale che costituisce una sorta di deriva tipica di ogni famiglia.
Negli ultimi mesi di gravidanza il pensiero di ogni donna si focalizza sempre più sul figlio, uno stato mentale caratterizzato da preoccupazioni insistenti sullo stato di salute del figlio che obbligano la donna ad occuparsi del figlio e di se stessa e verificare che tutta proceda nel migliore dei modi. Si tratta di uno stato psichico specifico - «quasi una malattia» - descritto dallo psicoanalista inglese Winnicott, ossia la preoccupazione materna primaria. Si è parlato fino ad ora quasi esclusivamente della madre, ma anche il padre compartecipa, oggi ancora di più rispetto al passato, all'attesa e alla nascita del figlio e anche lui manifesta le stesse preoccupazioni, anche se meno intense.
Proprio in queste ultime fasi della gravidanza e subito dopo la nascita del figlio vi è il rischio che queste modificazioni psichiche comportino uno scivolamento verso la patologia: non è infrequente che compaiano disturbi ossessivi oppure stati depressivi, che possono riguardare il 10% delle madri. La cronaca ha raccontato negli ultimi anni i comportamenti di madri che hanno colpito anche con violenza i figli, spesso senza che le persone di famiglia si rendessero conto della presenza di queste difficoltà.
Se questo avviene nella mente delle madri, anche a livello del cervello avvengono grandi cambiamenti durante la gravidanza, come viene raccontato nel libro The mommy brain (Il cervello delle madri, Basic Books) di Katherine Ellison. Tramite questi cambiamenti il cervello delle madri sotto la spinta degli ormoni migliora le sue prestazioni, addirittura i neuroni diventano più grandi.
In campo animale sono state effettuate delle prove mettendo a confronto il comportamento delle topoline che avevano avuto da poco una cucciolata con topoline ancora vergini. Messe all'interno di un labirinto le topoline dovevano trovare il cibo nascosto in uno dei bracci e mentre le topoline vergini ci mettevano sette giorni a scovarlo, le topoline madri ci impiegavano solo tre minuti. Occuparsi dei figli obbliga ad aguzzare l'ingegno per farli sopravvivere, questa conclusione potrebbe ribaltare il luogo comune che avere figli ostacola la realizzazione femminile ad esempio in campo lavorativo.
Ma passiamo ora alle madri nella specie umana. Durante la gravidanza si attiva quello che è stato definito il circuito cerebrale materno, che indubbiamente facilita la comunicazione col figlio neonato e permette di focalizzare su di lui tutte le proprie energie. Anche la recente scoperta dei neuroni specchio a livello cerebrale apre interessanti sviluppi per studiare il comportamento delle madri. Infatti le madri anche osservando il comportamento del figlio, ad esempio se questo pianga o rida, entrano in risonanza emotiva col figlio come se stessero anche loro provando le stesse emozioni. Naturalmente le madri non si limitano ad osservare i comportamenti dei figli, sono anche in grado - come abbiamo messo in luce tramite le nostre ricerche - di attivare le aree cerebrali che predispongono le risposte motorie quando il bambino pianga o manifesti un malessere.
Se l'uomo è riuscito a sopravvivere anche in condizioni difficili e addirittura avverse questo è dipeso dalle sue grandi capacità di adattamento e di comunicazione, che si cominciano a sviluppare fin dalla nascita con l'aiuto dei genitori e della famiglia. La ricerca sta illuminando il mondo della maternità e dello sviluppo infantile, ma non dimentichiamo che - come Freud annotò - scrittori ed artisti hanno spesso intuito, anche molti secoli prima, quello che stiamo scoprendo oggi: basta guardare il disegno di Raffaello Le teste della Madonna e del bambino in cui vengono colte con grande intensità le espressioni emotive di una madre e del figlio nell'unicità del loro incontro.

il manifesto 19.1.07
Quel tribunale custode del potere temporale
In nome dell'ortodossia La complicità degli stati, il silenzio del Vaticano. «L'inquisizione in Italia» di Andrea Del Col.
di Vincenzo Lavenia


«Se volete somigliare a Gesù Cristo, siate martiri e non carnefici». Lo scriveva Voltaire nel Trattato sulla tolleranza, bollando i roghi della giustizia ecclesiastica. Lo ripete Andrea Del Col nel ponderoso volume L'Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo (Mondadori, pp. 964, euro 15,80). La sua coscienza di cristiano è turbata dai mille anni di coercizione religiosa promossa da Roma, ma il lettore non dovrà aspettarsi cedimenti al facile moralismo che domina le indagini storiche degli ultimi anni. Chi di recente ha tentato di assolvere l'Inquisizione vinto da nostalgie reazionarie non ha mai messo piede in archivio, ricorda l'autore; chi ancora ne dipinge le procedure a tinte «neogotiche», ignorando i risultati di molte ricerche rigorose, ricicla stereotipi della propaganda di quei protestanti che in età moderna non furono meno teneri dei cattolici quando si trattò di annientare i «nemici».
Del Col ha la capacità di esporre i fatti in modo chiaro anche a chi nulla sa dei dibattiti che impegnano gli storici di professione (virtù rara); e ha il coraggio di raccontarne per la prima volta tutta la lunga vicenda dalla lotta anticatara alla condanna della Teologia della liberazione. Poiché Roma ospita il papato parlare di Inquisizione nel nostro paese significa interrogarsi sulla «mancata Riforma» in Italia: una questione che ha alle spalle una lunga (e stanca) tradizione. E tuttavia il libro non assume né la prospettiva giacobina di De Sanctis né quella, più sfumata, di Croce (e di Gramsci). Più che di eretici l'autore parla di giudici, per dirci che l'Inquisizione non costituì un incidente di percorso nella storia della Chiesa. Fondato sul diritto canonico e radicato in una teologia che giustifica la coercizione religiosa, il Sant'Uffizio condizionò la struttura dogmatica e lo scontro di potere interno alla gerarchia. Che dopo due secoli un papa provenga di nuovo da una carriera interna alla Congregazione per la Dottrina della Fede (il nome che il Sant'Uffizio ha assunto dopo il Vaticano II) rivela che quella storia non è affatto conclusa. Né si può dire, con la domanda di perdono pronunciata da Giovanni Paolo II, che l'errore è stato dei singoli e non dell'intera istituzione, se di errore si deve parlare in sede storica.
Il Giubileo del 2000, ricorda Del Col, ha permesso agli studiosi di accedere a fonti sino ad allora inaccessibili, ma la riflessione sull'Inquisizione deve molto alla caduta del franchismo in Spagna e alle ricerche di storici della cultura popolare (Carlo Ginzburg), a interpreti del peso dell'egemonia cattolica in Italia (Adriano Prosperi), a chi ha posto in rilievo quanto abbia contato l'apparato penale dell'Inquisizione nella nascita del reato d'opinione (Elena Brambilla) e a chi ha ricostruito le vicende dei processi e della censura (Massimo Firpo, Gigliola Fragnito) o l'assenza di cacce alle streghe nell'Italia moderna (Giovanni Romeo).
Del Col sistema decenni di ricerche; ricorda che la lotta antiereticale fu condotta con il consenso degli Stati, della rete ecclesiastica ordinaria e di larghi settori della popolazione; rileva ancora una volta che i roghi di streghe in età moderna furono pochi se li si paragona a quelli d'Oltralpe, anche se fu l'Inquisizione a creare il paradigma demonologico. E tiene conto di nuove domande: che peso ebbe l'Inquisizione nel formare la disciplina quotidiana del cristiano; se incise di più l'espurgazione o la condanna dei libri, e quanta efficacia ebbe la censura; se si passò il confine che separa antigiudaismo e antisemitismo; come quell'istituzione maschile contrastò i carismi femminili; come mise sotto controllo il culto dei santi e come arginò gli scandali sessuali in confessionale (facendo però sapiente uso del perdono sacramentale per indurre pentiti e fedeli alla delazione e abbreviare così le cause con procedure sommarie).
Infine, Del Col fa un passo in avanti, e si mette a contare. Può apparire oziosa la numerologia delle vittime, ma sapere che i roghi sono stati poco più di mille in trecento anni, in una percentuale piuttosto bassa sul totale dei processi, e concentrata durante l'emergenza ereticale del Cinquecento, mette davanti a dati di fatto prima che alle interpretazioni. Fa riflettere che le Inquisizioni spagnola e portoghese abbiano ammazzato di più; che abbiano ammazzato di più (e con minore rispetto delle regole del tempo) i tribunali riformati e quelli statali, che dai giudici papali impararono.
D'altra parte, Del Col non intende sostituire la leggenda nera con un mito opposto. La misura dell'attività giudiziaria prova che il tribunale fu pervasivo, che seppe uniformare. Né, si legge, la sua attività calò nel Settecento, come si sostiene in base alla burocratizzazione del Sant'Uffizio e all'inefficace contrasto opposto a giansenisti, illuministi e massoni. La sindrome da assedio di cui si nutrì per secoli alimentò in età contemporanea la condanna del marxismo, dell'evoluzionismo, del liberalismo e dell'emancipazione ebraica. E sapere che Angelo Roncalli (più tardi Giovanni XXIII) finì nella rete di delatori negli anni dell'ossessione antimodernista, certo non consola.

l'Unità 19.1.07
Eskimo e grisaglia
di Vincenzo Vasile


Abbiamo un problema. Un problema, tra gli altri. Che potrebbe diventare un grosso problema. In pochi giorni sono rimbalzati in prima pagina e sui teleschermi le immagini di un vecchio, brutto film. Intendiamoci, l'effetto minestrone è soprattutto mediatico, e nel raccontare il sommario di uno dei tanti tg (pubblici e privati) sappiamo di mettere in fila episodi di natura e origini diverse e complesse. Ecco cosa dice il telegiornale, senza battere ciglio.
Dice che il ministro Padoa Schioppa è stato accolto l'altra sera all'Università di Torino da petardi e fumogeni perché ritenuto un pericoloso «agente delle multinazionali». E lo stesso tg mostra uno striscione con la «A» dell'anarchia davanti a un corteo abbastanza pacifico di gente abbastanza pacifica che non vuole l'«allargamento» della base Usa a Vicenza. E ci sono le bombette, inesplose, ma innescabili, firmate dagli «insurrezionalisti» e «separatisti» sardi recapitate a due sottosegretari. E si rivede, in collegamento da Parigi, Oreste Scalzone, che annuncia una sua prossima turnè italiana per rilanciare «nelle nuove condizioni vecchie battaglie». Sempre su maxischermo il professor Toni Negri riappare in un'altra epifania televisiva per insultare Sergio Cofferati, sul tema - guarda un po' - della legalità. Per indebito ossequio dei conduttori dei talk show e dei programmi di «approfondimento», costoro - «ex-latitanti» - possono fregiarsi dell'eufemismo ammiccante di «ex-rifugiati». Il deputato Caruso che a quei tempi era sul passeggino s'è entusiasmato per l'aria di revival che tira, al punto da annunciare la presenza di bombe molotov nel cortile di Montecitorio. Si annuncia da altre fonti anche un blitz anti-Prodi per il prossimo fine settimana.
In attesa del prossimo notiziario, interi scaffali di biblioteche e archivi giudiziari ci possono far riflettere sul confine labile tra disobbedienza, culto dell'illegalità, sovversivismo, pericoli di tenuta democratica. Chi non li ha vissuti, quegli anni cui alludono i vecchi/nuovi disobbedienti che affollano i nostri telegiornali, non sa che a quei tempi si cominciò con gli epiteti, si passò ai sampietrini, e infine alle P38 e alle mitragliette armate di geometrica potenza.
Stavolta c'è una novità: a differenza del passato, essi sono i beniamini di una Destra ad alto tasso becero che si rispecchia e gode di tante immagini deformate, e può sentenziare che il governo sarebbe «ostaggio» delle spinte e delle forze più «radicali». È questo un discorso che vorremmo fare sommessamente soprattutto a chi - a sinistra - corteggia, anche solo con il silenzio, i laudatori del brutto tempo andato, e i loro più o meno consapevoli giovani seguaci.
Sia chiaro. Nulla da dire se il presidente della Camera Bertinotti proclama in queste ore il suo pacifismo: non ci sembra che con ciò stia violando i vincoli del suo incarico istituzionale. Ma dovrebbe spiegare meglio che cosa volesse intendere, intervistato l'altra sera da Grparlamento, quando ha detto che «ogni atto» che impedisca il rafforzamento di basi militari «è buona cosa». A noi pare che non solo Bertinotti abbia detto qualche parola di troppo. Ma che finora un po' tutti - ed è una riflessione da farsi senza insulti - ci eravamo illusi che dando «rappresentanza» a un certo mondo, come, per esempio, con certe candidature di «indipendenti» nelle file di Rifondazione, se ne potessero smorzare spinte e velleità agitatrici.
È questo un tema che la sinistra radicale che sta al governo, diciamo la sinistra radicale che veste in grisaglia, o quanto meno in giacca e cravatta, dovrebbe porsi con maggiore serietà e coerenza di quanto non stia mostrando in queste ore confuse. Vogliamo segnalare questo punto critico. E preveniamo, anche, una prevedibile risposta. Se si vuol dire che profonde sono le ragioni che spingono una parte forse marginale della sinistra a inseguire vecchi e ambigui miti, siamo d'accordo. Ma se ci fermiamo su questa soglia giustificazionista, non ne usciamo. L'auto-assoluzione ideologica è un vecchio vizio, comune alle nostre diverse anime. Nella Giornata dello scrutatore, splendido racconto-pamphlet degli anni del primo centrosinistra, Italo Calvino raccontava di quella «compagna» che ripeteva che «ben altro» era/è il problema: la sinistra riformista degli anni Sessanta, non si accorse, rinviando a «ben altro», come le suore democristiane portassero in cabina elettorale al Cottolengo vagonate di ciechi e di dementi.
Oggi c'è una questione urgente, che riguarda invece la sinistra cosiddetta «radicale», e ancora una volta non si può rinviare tutto alla soluzione di «ben altro». Eskimo e giacca e cravatta, indossati assieme, non stanno bene addosso a nessuno, formano un look pasticciato che non si addice a nessuna forza politica che abbia scelto la strada del governo del paese. Anzi, bisogna convincersi che l'eskimo di Oreste Scalzone è semplicemente un capo d'abbigliamento fuori tempo: per quel che ricordiamo, anche quand'era in auge assorbiva unto e umidità, non riparava dal brutto tempo. Meglio metterlo in soffitta.