l’Unità 18.1.07
Editoriale
L’interesse nazionale
di Antonio Padellaro
Il ministro degli Esteri D’Alema ha detto che per il governo è stato complicato dare il via libera all’allargamento della base Usa di Vicenza, non tanto per ragioni politiche quanto per «un problema di valutazione dell’impatto socio-ambientale e urbanistico di un intervento così invasivo per la città». Eppure, il dibattito politico è dominato dalle implicazioni internazionali, dal grado di filo o anti-americanismo del governo Prodi, dai ringraziamenti di Washington a palazzo Chigi, senza contare le polemiche nella maggioranza, condivise non solo dalla cosiddetta sinistra radicale. Mentre a ciò che pensa Vicenza, e a ciò che pensano i vicentini non sembra venga dedicata grande attenzione. Forse bisognava domandarglielo prima, magari con quel referendum che adesso appare una pezza tardiva e insufficiente a coprire il vistoso strappo. E forse qualche buco nella ricostruzione dei fatti andrebbe colmato: a cominciare dalle riassicurazioni fornite a suo tempo da qualche ministro sulla base che non sarebbe stata raddoppiata. Peccato, perché in un momento di non altissimo gradimento per il governo dell’Unione, la politica estera viaggiava a pieni voti.
Visto però che ormai dalla decisione non si torna più indietro (Prodi) e che da un sindaco e da una giunta proni ai voleri di Berlusconi (e dell’amico George) non è lecito attendersi barlumi di senso civico, ci chiediamo se il danno alla città non possa essere almeno circoscritto. Perché il governo non delega un suo rappresentante ad ascoltare le ragioni di chi la base non la vuole, in modo da limitare nei fatti le conseguenze dell’impatto invasivo di cui D’Alema parla con preoccupazione?
E ancora: il progetto americano con le sue piste, i suoi autopark, le sue palazzine è intoccabile, come se fossimo nel Minnesota? O da parte italiana si può ancora esercitare una qualche sovranita urbanistica sul territorio?
Poi, ferma restando l’alleanza strategica con l’America c’è il problema dell’ospitalità concessa a basi militari straniere, sollevato ieri da Franco Venturini sul «Corriere della sera». Quale giurisdizione, per esempio, per evitare che i responsabili di tragedie (vedi il Cermis) possano essere giudicati soltanto dalla magistratura militare americana? Ma, soprattutto, il problema del consenso italiano alle operazioni militari che partono dalle basi Usa sul nostro territorio.
Mantenere gli impegni assunti (da altri) con l’alleato Usa e confermare il nostro appoggio alla Nato per rafforzare la sicurezza comune non è il solo interesse nazionale che va tutelato.
apadellaro@unita.it
l’Unità 18.1.07
«Con Welby è morto il dibattito sull’eutanasia»
Parla Riccio, il dottore che ha staccato il ventilatore che teneva in vita Piergiorgio, e poi lo ha sedato
di Paolo Calcagno
POLITICI di primo piano e firme autorevoli gli hanno dato dell’”omicida”: Luca Volonté del’Udc ne ha invocato addirittura l’arresto immediato. Con il suo gesto,
la sera (alle 23,40) del 20 dicembre scorso, quando ha staccato la spina del ventilatore che consentiva a Piergiorgio Welby di restare in vita e, contemporaneamente, ha sedato il 60enne scrittore che da oltre 40 anni soffriva di distrofia muscolare progressiva, il dottor Mario Riccio ha tracciato un solco a ridosso del quale si fronteggiano le coscienze delle persone. Per Riccio non ci sono soltanto critiche, accuse e insulti. In difesa del medico-anestesista si è levato un saldo e alto muro di solidarietà, dalle 1300 firme raccolte a Cremona . Fra loro, medici come Umberto Veronesi, politici come il sindaco di Cremona Giancarlo Corada, il predecessore Paolo Bodini (senatore della Sinistra indipendente), fino a Marco Pannella e altri.
Mario Riccio, 47 anni, napoletano, da 30 anni a Cremona, medico rianimatore e anestesista del locale Ospedale Maggiore, membro della Consulta di Bioetica onlus di Milano, sposato e padre di una bimba di 5 anni, appassionato subacqueo e velista dilettante, ha confidato di attendere non senza qualche timore la decisione del 26 gennaio da parte della commissione dell’Ordine dei Medici di Cremona, per cui rischia sanzioni fino alla radiazione dall’albo. E con altrettanta preoccupazione attende lo sbocco degli accertamenti chiesti dalla procura di Roma che potrebbero condurre all’archiviazione, ma anche all’accusa di omicidio volontario, o di suicidio assistito, oppure di omicidio colposo.
Dottor Riccio, è più preoccupato per la decisione della commissione medica o per gli esiti giudiziari?
«Mi preoccupa di più ciò che deciderà la commissione dell’Ordine dei Medici: confesso che l’eventuale interruzione della mia attività professionale è un’ipotesi che mi spaventa molto. Ma ribadisco che ciò che mi preme veramente è il pieno riconoscimento dell’autonomia del paziente e del suo diritto a curarsi, così come quello del rifiuto e dell’interruzione della terapia. È da tempo che mi occupo di consenso informato e di volontà del paziente. Poi, attraverso il rapporto con la Consulta di Bioetica e l’associazione Luca Coscioni, mi sono avvicinato al caso-Welby».
Coscioni, però, non era collegato a un ventilatore che l’aiutava a respirare.
«No, perché Coscioni aveva dato disposizione di non farlo. Come del resto aveva fatto quell’altro illustre paziente che tutti conoscono: Papa Wojtyla. Giovanni Paolo II aveva una patologia molto simile a quella di Welby: ebbe una crisi respiratoria e fu sottoposto a trachetomia. Dopo qualche giorno, gli suggerirono di utilizzare il ventilatore, ma lui rifiutò. Così, mentre Welby ha accettato per 10 anni di soffrire e di affidarsi al respiratore meccanico, il Papa non l’ha voluto neanche un minuto. Il Papa è stato meno religioso di Welby...».
L’autopsia di Welby è stata eseguita, la magistratura è già a conoscenza della quantità e della qualità dei farmaci che gli ha iniettato.
«Vorrei chiarire che non c’è stato da parte mia un atto eutanasico: mi sono limitato a sedare il paziente. L’atto eutanasico, che sarebbe un omicidio volontario del consenziente, oppure un suicidio assistito, si pratica attraverso quello che i giudici chiamano “l’elemento psicologico del reato”. Cioè, se avessi somministrato a Welby un farmaco che andava a colpire il cuore o i polmoni, bloccando le facoltà respiratorie o l’attività cardiaca, ci sarebbe stato “l’elemento del reato” e io avrei praticato un’eutanasia. Invece, Welby si è sedato, si è addormentato. E non ha vissuto il momento dell’arresto respiratorio».
Aveva già fatto una cosa simile?
«Voglio chiarire che la pianificazione delle cure avviene tutti i giorni, in tutto il mondo, regolarmente. Ha presente quando si dice: lo ventiliamo per 8 giorni, verifichiamo i risultati e poi decidiamo se continuare o no? Certo, serve il parere del paziente se è “competent”, o dei suoi familiari se non lo è più; oppure seguendo le indicazioni del “testamento biologico in vita” del paziente, qualora ci sia».
Altri medici, però, si sono rifiutati di bloccare il ventilatore di Welby. Evidentemente, per alcuni, c’è differenza tra rifiuto della cura e interruzione della terapia.
«Forse, ma solo sul piano emotivo. Tra interruzione e non inizio della cura, in realtà, non esiste nessun problema di tipo etico e nemmeno giuridico. Rifiutare la terapia o interromperla è perfettamente uguale, nel senso che la problematica etica per la signora che si oppone a che le operino la gamba e se ne va in Sicilia a morire, e chi decide di interrompere la terapia è esattamente la stessa».
Il suo gesto ha segnato un solco tra le convinzioni della gente. Le pesa il ruolo di agitatore internazionale di coscienze?
«Sono solo un modesto medico ospedaliero. È stato Welby che ha voluto portare il suo caso all’attenzione mediatica. Io ho fatto solo il gesto finale, ho messo in pratica ciò che avviene tutti i giorni, in tutti gli ospedali del mondo, cioè l’interruzione della terapia».
Sul versante politico dopo le prime reazioni, si registra un calo di attenzione verso il problema dell’eutanasia: ci vorrà un nuovo caso-Welby per riattualizzarlo?
«La politica ha perso un’occasione, come dimostra il rifiuto delle Camere all’invito di Giorgio Napolitano e Fausto Bertinotti ad aprire un discorso sull’eutanasia. Però vedo che il ministro Turco si propone di applicare la convenzione di Oviedo e dare spazio ai testamenti biologici in vita. Basterebbe un decreto-legge per consentire a chiunque di donare i propri organi, cosa che in Italia è concessa solo ai parenti dei deceduti (se non si oppongono). Non è un fatto culturalmente avanzato la mancanza di una legge che permetta di decidere in vita se donare gli organi o no».
Repubblica 18.1.07
Ma la chiesa è davvero contro la pena di morte?
di Giorgio Marinucci, Prof. Diritto Penale, Univ. Milano
Dopo l'esecuzione di Saddam Hussein la sala stampa del Vaticano diffuse un comunicato: è una "notizia tragica, motivo di tristezza anche quando si tratta di una persona che si è resa colpevole di gravi delitti", essendo "la Chiesa Cattolica contraria alla pena di morte". Nessun comunicato di tenore analogo dopo le ultime due esecuzioni.
Ma davvero la Chiesa Cattolica è contraria alla pena di morte? E' vero l'opposto. Il "Catechismo della chiesa cattolica" (n.2267), come il relativo Compendio (n.469), prescrive il rispetto "dell'insegnamento tradizionale della Chiesa" che non esclude il ricorso alla pena di morte, "quando questa fosse l'unica via praticabile", cioè nei "casi di assoluta necessità".
E' una cambiale in bianco rilasciata, nel 1995, anche dall'enciclica "Evangelium vitae": le pene "non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità" (n.56).
C'è da interrogarsi sul perché la Chiesa non si allinei alle posizioni degli europei, eredi dell'insegnamento di Beccaria ("parmi un assurdo che le leggi che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio").
Teme di essere tacciata di antiamericanismo, prendendo le distanze dagli orientamenti dominanti anche tra i cattolici statunitensi? Una ponderata riflessione del magistero cattolico sarebbe desiderabile, se aspira ad essere preso sul serio quando si fa paladino quotidiano della difesa della vita dell'uomo di ogni uomo sino alla fine.
Repubblica 18.1.07
Lapsus, se la scienza assolve l'inconscio
di Elena Dusi
"Certo, se una persona usa il termine mamma al posto di moglie, probabilmente qualche significato profondo ci sarà"
"Molto più spesso l'errore sta tutto nel richiamare dalla memoria lo schema sbagliato: lava il letto e rifatti i denti"
ROMA - Non sempre c´entra Freud, anzi. Si bolla come lapsus ogni frase mal pronunciata. Ma altri coimputati vanno citati in giudizio, accanto all´inconscio. Spesso dietro allo "sdrucciolamento" della lingua non c´è altro che un problema di articolazione delle parole. O una scarsa dimestichezza con la lingua, come dimostrano la maggior parte dei lapsus di George W. Bush. Smitizzando il ruolo dell´inconscio dietro all´uso della parola sbagliata, le nuove ricerche spostano infatti l´attenzione sui problemi del linguaggio e dell´articolazione delle parole. Nessun analista attribuirebbe ad altro se non a una scarsa dimestichezza con la sintassi la frase "Parlare un buon inglese è qualcosa di cui non sono spesso accusato", uno dei pezzi forti del bushismo.
Parlare, d´altronde, è compito banale solo all´apparenza. Lo spiega bene il servizio che il nuovo Mente&cervello (da periodico diventa mensile) dedica alla lingua che inciampa. «Quando facciamo un discorso - si legge sul numero in edicola da domani a 20 centesimi più il prezzo di Repubblica o L´Espresso - scegliamo in media 3 parole al secondo da un vocabolario che ne contiene almeno 40mila, producendo contemporaneamente 5 sillabe e una dozzina di fonemi, nella cui emissione sono coinvolti 100 muscoli diversi». Non solo. Uno studio pubblicato alla fine del 2004 da Zenzi Griffin del Georgia Institute of Technology sulla rivista Psychological Science ha dimostrato che quando un individuo sbaglia a nominare un oggetto che ha davanti, spesso rivolge a esso lo sguardo. L´errore avverrebbe dunque a livello linguistico o fonatorio, più in superficie rispetto a quanto teorizzato da Freud.
«Certo, se una persona usa il termine "madre" al posto di "moglie" probabilmente qualche significato profondo esiste» spiega Alberto Oliverio, psicobiologo del Cnr e dell´università La Sapienza. «Ma a volte l´errore sta tutto nel richiamare dalla memoria lo schema motorio sbagliato. A ogni parola è associato infatti un determinato movimento dei muscoli dell´apparato fonatorio. Il cervello può sbagliarsi, ripescare dalla memoria e "mandare in onda" lo schema motorio sbagliato». Un tipico esempio di lingua che inciampa è il "Romolo e Remolo" dell´allora premier Silvio Berlusconi. «A volte - prosegue Oliverio - cerchiamo di attribuire a tutti costi un significato psicologico al lapsus, ma non sempre è il caso di ricorrere all´inconscio. Di certo, però, quando l´inciampare produce un doppio senso, magari in campo sessuale, quello che sarebbe un trascurabile difetto nel flusso delle parole diventa un aneddoto scolpito nella memoria di tutti. In questo senso, i lapsus freudiani sono quelli che si ricordano più facilmente».
il manifesto 18.1.07
Salta ogni mediazione La segreteria dice no alle richieste della sinistra sulle regole
Ds a congresso senza rete
Fassino va avanti a testa bassa verso il partito democratico.
Veltroni lo lascia andare. D'Alema pure, ma intanto chiama Bersani e Bassolino
di Andrea Fabozzi
Roma. Congresso nazionale a Genova il 18 aprile, senza voto segreto sulle mozioni e senza una verifica condivisa del tesseramento. La decisione della segreteria dei Ds è la decisione del partito. Inutile la riunione della commissione per il congresso che ieri sera si è trovata davanti a una scelta già fatta e anticipata nei comunicati stampa. Così i rappresentanti della sinistra hanno deciso di non partecipare: «La commissione è stata esautorata». C'erano invece quelli della mozione Angius, ma anche loro molto critici: «Decidere in segreteria e poi comunicarlo alla commissione è stato un errore formale, uno strappo allo statuto e uno sbaglio politico», il giudizio di Alberto Nigra. Il quarto congresso dei Ds, quello che deciderà il matrimonio con la Margherita e la confluenza nel partito democratico, sarà il primo senza un'intesa nemmeno minima sulle regole.
Circondato dalle defezioni e dalle critiche - ieri ha reagito con una lunga lettera di autodifesa alla Repubblica -, Fassino accelera. Col consenso esplicito di D'Alema (i due ieri mattina hanno messo a punto la strategia prima della riunione di segreteria) e nel silenzio di Veltroni. Quello che però si gioca tutto è lui soltanto. D'Alema già propone di «rafforzare» la guida del partito coinvolgendo Bersani e Bassolino, che subito risponde all'appello: «Il partito democratico è una prospettiva per la quale vale la pena impegnarsi e dare un contributo totale».
La direzione di oggi darà il via libera formale alle decisioni del segretario. Si annuncia però tutt'altro che facile per Fassino. La scelta di chiudere ogni confronto sulle regole è interpretata come un segno di debolezza. «Alla crisi del partito che è sotto gli occhi di tutti la maggioranza risponde con la chiusura al confronto e negando i problemi», dicono in coro le minoranze. La sinistra aveva bisogno di un gesto pubblico di rottura dopo che le prese di distanza dalla linea del gruppo dirigente e persino gli abbandoni al partito erano venuti in questi giorni solo dal fronte «riformista». L'occasione le è stata offerta quasi costringendola a disertare la commissione per il congresso. «Lunedì avevamo deciso di darci 48 ore per ragionare su ipotesi di mediazione - spiega Luciano Pettinari - e invece già martedì abbiamo sentito la compagna Martina Sereni che ci anticipava le decisioni della segreteria». Fassino, che secondo i suoi sostenitori nel partito «dà il massimo quando è sotto pressione» e secondo i suoi detrattori «è un buon organizzatore ma sta dimostrando molti limiti politici», non ha altra strategia che andare avanti a testa bassa. «Capirei se ci fossero le piazze piene che invocano il partito democratico, ma non mi pare proprio...», commenta Nigra. «E' un caso di nervosismo che si tramuta in linea politica», scrive Gianni Zagato su Aprile on line, l'organo della sinistra.
Non è piaciuta nemmeno a tutti gli esponenti della maggioranza del partito la prima pagina dell'Unità di ieri, in puro stile fassiniano: «Non si processa chi ha vinto tutto». A qualcuno ha ricordato l'Aldo Moro del «non ci faremo processare nelle piazze». In molti pensano senza volerlo dichiarare pubblicamente che almeno una mediazione sul voto segreto alle mozioni era possibile. Non sulla data del congresso, però. Farlo dopo le amministrative avrebbe significato per Fassino offrirsi come vittima sacrificale, visto il prevedibile insuccesso del partito. Anticiparlo però per il segretario, che vuole stringere e contarsi anche a costo di scendere al 70% dei consensi, presenta un rischio persino maggiore. Quello di battezzare a tappe forzate il partito democratico per poi trovarsi, dopo il voto e alla prima crisi con la Margherita, di nuovo spiazzati. Ieri Fassino si è chiuso un'altra porta alle spalle. Ma quello che si gioca tutto è soltanto lui.
notizie.alice.it 18.1.07
DS/ INGRAO: IL GROSSO E' MODERATO, INUTILE TENERE INSIEME PARTITO
"Sinistra della Quercia crei qualcosa con Rifondazione e altri"
Roma, 18 gen. (APCom) - Il fatto che sia la sinistra massimalista a dettare l'agenda al governo Prodi "sono favole". Il "grosso del centrosinistra è prodiano, ovvero democratico-moderato. Questa è l'area che prevale nel centrosinistra e non viene certo cancellata dalla presenza, pure importante, di partiti che si dichiarano marxisti". Questa la lettura di Pietro Ingrao della situazione politica italiana. Poi l'invito: "i moderati stiano con i moderati, e gli altri, se vogliono, facciano un'altra cosa, diciamo, di sinistra".
Quindi, l'analisi su casa Ds, gli eredi del Pci da cui proviene Ingrao. "Il grosso della Quercia - spiega Le Grand Vieux in una intervista alla stampa - è centrista e moderato, a cominciare da Fassino e D'Alema. Come Rutelli e Prodi". Ecco quindi che "in fin dei conti" farebbero bene a mettersi nello stesso partito. "Non capiso, e lo dico ai miei amici e compagni della sinistra diessina, Mussi, Salvi, Silvia Bandoli, che senso avrebbe restare tutti insieme quando la si pensa in modo così diverso. Mi sembra insomma un perdita di tempo cercare di tenere uniti i Ds, perchè alla fine stare insieme per forza produce solo un pasticcio".
Se fosse dunque ancora nella politica attiva, Ingrao ammette che si occuperebbe "di costruire qualcosa di sinistra, insieme a Rifondazione e a tutti quelli che di moderati non sono. E che, mi auguro, non la pensano nello stesso modo di Rutelli o del placido Prodi. Lascerei inoltre - conclude Ingrao - che Prodi, Rutelli, D'Alema e Fassino facciano quello che vogliono fare. Se vogliono mettersi insieme nello stesso partito moderato si accomodino".
l’Unità 18.1.07
«Prescritti i reati»:
Scalzone può tornare in Italia
Da Parigi esulta l’ex leader di Potere Operaio: «Combatterò la mia vecchia
battaglia». Mastella accusa: sulle estradizioni la Francia è reticente
di Massimo Solani
«PER INTERVENUTA PRESCRIZIONE», Oreste Scalzone è da ieri un uomo libero di rientrare in Italia senza rischiare di essere arrestato. Lo ha deciso la prima corte d’assise del Tribunale di Milano che dopo una breve camera di consiglio ha formalmen-
te dichiarato prescritti i reati commessi dall’ex leader di Potere Operaio condannato a 16 anni di reclusione nel 1984 per partecipazione ad associazione sovversiva, banda armata e rapine e latitante in Francia dal 1981. A favore della dichiarazione di prescrizione, richiesta al tribunale dagli avvocati di Scalzone Ugo Gianangeli e Gabriele Fuga, si era espressa anche il pubblico ministero Rossana Penna.
Scalzone era stato arrestato il 7 aprile del 1979 ma dopo un anno e mezzo di detenzione aveva ottenuto per motivi di salute la libertà provvisoria, riuscendo però a far perdere le proprie tracce (nel marzo del 1981) dalla casa romana in cui era in soggiorno obbligato. Condannato a 16 anni, nel 1987 la sua pena venne ridotta in appello a 9 anni (assolto per l’accusa di rapina), mentre fu la Cassazione ad annullare entrambe le sentenze dal momento che la Francia non ha mai concesso l’estradizione. Dichiarando l’«intervenuta prescrizione» (dopo 22 anni e mezzo) il collegio presieduto da Luigi Domenico Cerqua ha deciso di ordinare anche la revoca dell’ordine di custodia che era stato emesso dalla magistratura milanese.
Raggiunto dalla notizia nella sua casa parigina dove negli anni si è imposto quale portavoce “de facto” della nutrita comunità dei fuoriusciti italiani dopo gli anni di piombo, Scalzone ha commentato con evidente soddisfazione la novità che pone la parole fine alla sua vicenda giudiziaria: «Torno in Italia per condurre in condizioni nuove una vecchia battaglia - ha spiegato - La condurrò a voce nuda, se serve sul selciato, on the road, o in luoghi adattabili all’antica congiunzione fra politica, ragionamento filosofico e teatro. In Francia - ha proseguito - avevo bisogno dell’elettricità e delle onde hertziane, ma in Italia è meglio che si sappia che posso fare a meno dei magafoni da ’68 e che un giornale accartocciato può fare da portavoce ed infastidire quanto basta».
In merito alla decisione del tribunale di Milano il ministro della Giustizia Clemente Mastella non ha voluto rilasciare alcun commento, limitandosi a sottolineare che «chi si era fermato in maniera più che compassata a riflettere come se tutti i mali fossero quelli dell’indulto oggi può vedere come purtroppo i mali sono da imputare alle prescrizioni, a prescindere da chi ne fruisca». Ma la vicenda relativa a Oreste Scalzone è servita a riaccendere la polemica relativa all’atteggiamento dei governi francesi nei confronti dei terroristi italiani rifugiati Oltralpe. «Ho provato a parlare della estradizione di 13 terroristi - ha spiegato Mastella - ma come era accaduto nel precedente governo la Francia è reticente. Ne prendo atto».
l’Unità 18.1.07
IL RITRATTO
Il «comiziante torrenziale»
da Potop ad Autonomia
di Susanna Ripamonti
Milano. La sua foto formato tessera, che lo ritrae poco più che trentenne, forse è ancora appesa nelle bacheche della Digos, sotto la scritta: «ricercati» se un solerte funzionario non ha pensato, in tempo reale, ad aggiornare l’elenco. In tutti questi anni quell’inutile foto segnaletica, è stata il simbolo di una giustizia, che in assenza di uno Stato capace di trovare una soluzione politica a crimini commessi negli anni di piombo, ha simulato un’efficienza di fatto impotente, rimuovendo con tollerate latitanze il problema di ridefinire delitti e pene. Oreste Scalzone non poteva essere estradato, perché la Francia di Mitterand aveva offerto asilo politico a chi, come lui, era accusato di associazione sovversiva: un reato che il paese della «Marianne» non riconosce. Nessuna Digos poteva ricercarlo, anche se tutti sapevano che da 25 anni ormai viveva a Parigi, la sua seconda patria. In attesa di una soluzione politica, per la quale continua a battersi e che riguarderà forse altri figli della sua generazione, Scalzone ha atteso la consueta soluzione all’italiana, la prescrizione.
Negli anni 70 apparteneva a quel limbo di «compagni che sbagliano» non dichiaratamente schierati con il terrorismo, non rifluiti nella clandestinità, ma con quel ruolo molto border-line che caratterizzò l’Autonomia Operaia degli anni 70.
Ex leader di Potere Operaio del quale era stato co-fondatore con Franco Piperno e Toni Negri, ha una storia che si intreccia a doppio filo con quella dell’ultrasinistra italiana. Nato a Terni nel ’47, ha 21 anni nel ’68, quando si iscrive a Roma nell’università in rivolta. Oratore torrenziale, diventa in fretta uno dei leader del movimento studentesco, è in prima fila negli scontri di Valle Giulia. Ma le fabbriche, il mitico movimento operaio erano a Milano, dove si trasferisce nei primi anni 70. Partecipa all’organizzazione dei «Comitati comunisti», emanazione di Potere Operaio, attivi soprattutto alla Pirelli e all’Alfa di Arese. Alla Pirelli dove, in quegli stessi anni, Sergio Cofferati lavorava come analista tempi e metodi.
Nel ’72 «Potop» chiude i battenti e Scalzone si schiera con la nascente «Autonomia operaia» considerata dal giudice Calogero la culla di tutte le organizzazioni armate, «Brigate Rosse» comprese. È sulla scorta di questo teorema che il 7 aprile del ’79 arrivano le manette, nella sede della rivista «Metropolis». Il provvedimento contro di lui, Toni Negri e Emilio Vesce, decapita il vertice di Autonomia, i suoi leader sono accusati di associazione sovversiva e banda armata e successivamente anche di insurrezione armata contro i poteri dello Stato.
Dopo un periodo di detenzione espatriò mentre era stato scarcerato per malattia, con l'aiuto di Gian Maria Volontè. Prima tappa la Danimarca, poi nell’81, quando Mitterand vinse le elezioni e dichiarò la Francia terra di asilo politico, approdò a Parigi, dove vive tuttora, ormai sessantenne.
Dal suo blog ha mantenuto un contatto continuo con l’Italia, conducendo la sua battaglia per un definitivo regolamento di conti con gli anni di piombo, a partire dalla mobilitazione per la scarcerazione di Paolo Persichetti, uno dei pochi esuli italiani in Francia estradato in Italia e incarcerato. All’ombra della Tour Eiffel, Scalzone è diventato il punto di riferimento di quel centinaio di italiani, rifugiati degli «anni di piombo». Nel ’98, dannunziana beffa, non a Buccari ma a Roma, davanti all’Altare della Patria, dove, dopo essere rientrato in Italia clandestinamente, si è fatto fotografare e immortalare dal settimanale L’Espresso.
«Il mio viaggio - spiegava - ha avuto un senso simbolico-provocatorio: da più di dieci anni si parla di amnistia per i detenuti e gli esuli politici ma non è mai successo niente». L’amnistia resta al centro della sua battaglia: nel febbraio 2005 lanciò un appello a Ingrao, Cossiga e Pannella offrendosi come «capro espiatorio simbolico » disposto a farsi arrestare in cambio di un dibattito sull’amnistia. Battaglia che ora proseguirà a piede libero.
il manifesto 18.1.07
Oreste Scalzone, a Parigi da 27 anni, ottiene la prescrizione per la sua condanna
«E ora all'Italia chiedo l'amnistia»
Processo «7 aprile» Accusato di associazione sovversiva e banda armata, nell'83 fu condannato a 16 anni di carcere, poi ridotti a 9
di Anna Maria Merlo
Parigi. Contento? Oreste Scalzone, il rifugiato italiano più rappresentativo, da 27 anni a Parigi, ha ottenuto la prescrizione per la condanna dell'83 a 16 anni di carcere (poi ridotta a 9 nell'87), con l'accusa di associazione sovversiva e banda armata, nell'ambito del processo del «7 aprile» su Autonomia operaia. «Non volevo troppo sperare - dice - è un fatto oggettivo, una ratifica della prescrizione che già c'era. Prenderei il treno stasera - aggiunge - ma non lo faccio».
A chi pensi?
«Mi danno il mio, ma ad altri nemmeno il loro. Paolo Persichetti, l'unico fisicamente estradato contro la sua volontà su un migliaio di salvati qui. E' stata una vicenda senza equità. La prima cosa che farò, quindi, sarà di lottare, in Italia, su questo argomento quasi trascurabile, che è il trasferimento di Persichetti».
In Italia, uno dei tuoi legali, Ugo Gianangeli, ha spiegato che «dispiace ricorrere a percorsi individuali per risolvere il problema consenguente ai cosiddetti anni di piombo». Ci vuole una soluzione politica, un'amnistia-indulto che risolva un problema collettivo»? Ma il ministro della giustizia, Clemente Mastella, non sembra d'accordo. Ieri ha ancora ricordato che ci sono «13 latitanti in Francia» e che anche il nuovo governo ha preso contatti con la Francia, che si è mostrata però, secondo Mastella, «reticente».
Mastella dice di voler abolire la prescrizione, una primizia per uno stato di diritto. Straparla. Ha due sottosegretarti, l'avvocato Ligotti, un avvocato dei pentiti, promosso tramite l'Italia dei valori, che non mi conosce, e Luigi Manconi, che invece mi conosce. Io andrò solo, a voce nuda, farò quello che so fare: con un megafono o con le mani a cartoccio, nei teatri, negli squat, nelle università, se mi chimano, andrò a reclamare la liberazione di Persichetti. Li sfido: mi mettano dentro. Fino a nuovo ordine posso parlare. Su Persichetti, penso di spuntarla».
La Francia diventa passato?
Ventisette anni fa sono stato tirato via dal mondo, ho lasciato tutto ma qui ho trovato gente straordinaria, qui ho anche un nipotino. In Italia ho delle tombe da vistare, a Merate, a Terni. Non farò il pendolare con due cuori, ma il girovago, il nomade come i guitti di una volta, farò il «giornale immaginario», da Bologna a Parigi passando per Palermo. Farò il girovago su alcune tematiche.
Oltre alla richiesta di liberazione di Persichetti e l'amnistia, cos'altro?
Sull'idea che i governi non possono essere amici, sull'idea dell'autogoverno, dell'autonomia come idea direttrice. Poi, in questo mondo terribile è mai possibile che tutti si ritrovino su una soluzione penale? Nell'immensa cronaca nera mondiale si susseguono massacri, fatti in nome della democrazia, della patria o di altro, tutti trovano una giustificazione. Io chiedo: è possibile essere riconosciuti come nemici? Chiedo questo: un'amnistia, per venire riconosciuti come nemici.
Scalzone nel 2005 aveva lanciato un appello, durante uno sciopero della fame: voleva trasformarsi in «capro espiatorio simbolico», per riportare l'attenzione non solo sulla condizione dei rifigiati in Francia, ma anche sulle persone che, malgrado l'impegno preso da François Mitterrand e poi riconfermato da Lionel Jospin, sono state comunque arrestate in Francia, a cominciare da Paolo Persichetti, oggi in carcere in Italia.
Secondo l'avvocato Gianangeli, «la decisione della Corte d'assise sancisce a livello giudiziario il tempo trascorso, stiamo parlando di trent'anni fa e di sentenze emesse in primo grado nell'84 e in secondo grando nell'86 e poi annullate dalla Cassazione per omessa estradizione». In altri termini, il legale di Scalzone riprende la tesi del suo cliente: ci vuole una soluzione politica. In Francia, negli ultimi tempi, la situazione dei rifugiati politici italiani era di nuovo venuta in primo piano con il caso Battisti, per il momento latitante, ricercato dalla polizia francese su richiesta italiana.
Repubblica 18.1.07
IL CASO SCALZONE
Reati in prescrizione Scalzone può tornare
In fuga a Parigi da 25 anni. È già polemica sull´amnistia
di Piero Colaprico
Era considerato responsabile di rapine e di banda armata
La protesta dei familiari delle vittime del terrorismo: un insulto alla memoria
Mastella: il vero male non è l'indulto ma i tempi lunghi della nostra giustizia
MILANO - La soluzione trovata apparirà, soprattutto a chi non mastica di diritto, come il frutto di un abile cavillo. Ma da ieri mattina il latitante Oreste Scalzone, in esilio non volontario a Parigi dagli anni Ottanta, ha visto liquefarsi le condanne penali ed è tornato un libero cittadino. Può girare in Italia come e quanto vuole grazie alla prescrizione, e cioè al troppo tempo passato tra la commissione del reato e il processo. Le accuse per l´ormai sessantenne «movimentista» s´erano già ridotte in aula. Non era più considerato un capo terrorista, ma più semplicemente il responsabile di una serie di rapine e di due tentati omicidi che vennero ritenuti lesioni gravissime (reato meno grave), nel quadro di una «partecipazione alla banda armata». Una contestazione, quest´ultima, sempre negata da molti leader dei gruppuscoli: «Non eravamo le Br». In tutto, Scalzone avrebbe dovuto scontare nove anni.
Non pochi politici - dopo aver appreso la notizia della ritrovata e piena libertà di uno dei cosiddetti «cattivi maestri» di Potere Operaio, di un uomo considerato ai tempi dell´inchiesta «7 aprile» un anello di congiunzione tra la lotta politica e la lotta con le P-38 - hanno sollevato il livello della polemica tra partiti. Gli arriva il «bentornato» dall´ala più estrema di Rifondazione, con Francesco Caruso che vorrebbe «invitarlo nelle stanze del Parlamento». Ma anche il totale rifiuto da parte dei parenti delle vittime, che attraverso Salvatore Berardi, figlio del maresciallo ucciso, parla di «insulto». C´è il verde Paolo Cento che chiede di una soluzione politica «per gli esiliati» del terrorismo e parla di amnistia, ma il forzista Maurizio Sacconi la rifiuta. Anche nel centrosinistra c´è chi protesta come l´Italia dei Valori: «Perché esultare? Scalzone non è Mazzini, ma un terrorista macchiatosi del reato di banda armata». E mentre da An si leva la protesta di Alfredo Mantovano e di Maurizio Gasparri, solo Ignazio La Russa dice: «Mi dispiace, ma è regolare».
Molti, però, preferiscono non intervenire su un tema che divide coscienze e schieramenti. Anche il ministro della Giustizia Clemente Mastella sceglie di collocarsi su una prospettiva più istituzionale: «Il vero male della giustizia italiana non è l´indulto, ma i tempi lunghi che provocano troppe prescrizioni». Nel caso Scalzone, però, i tempi sono stati lunghissimi. E le lentezze estenuanti hanno coinvolto parecchi governi, anzi tutti.
A tenere sino a ieri sotto il rischio del carcere l´ex leader di Potere Operaio e dei Comitati Comunisti, riassumono i suoi avvocati Arturo Gianangeli e Gabriele Fuga, «era l´ordinanza di rinvio a giudizio della dottoressa Elena Paciotti. Perché nell´87 la corte di cassazione presieduta dal giudice Corrado Carnevale aveva detto, in buona sostanza, che i giudici che l´avevano giudicato e condannato in primo grado nell´84 e in appello nell´86, non potevano farlo, anche perché mancava l´estradizione dalla Francia. Ma dal ministero di Grazia e Giustizia non s´è mai mosso nessuno, né a livello giudiziario né politico».
E sul fattore del tempo che scorre hanno puntato a sorpresa gli avvocati: «Abbiamo chiesto noi di aprire il dibattimento oggi (ieri mattina, ndr) e facendo istanza di prescrizione del reato, abbiamo ottenuto - spiega Gianangeli - una sentenza che revoca i mandati di cattura». Come si sa, alcuni latitanti sono stati catturati (Paolo Persichetti). Altri sono fuggiti, facendo perdere del tutto le tracce (Cesare Battisti). Altri vengono lasciati perdere. Scalzone, che a Parigi è un po´ l´anima rossa dei fuoriusciti italiani, è l´unico che può tornare con una carta processuale di «liberatoria» in tasca. Lui, che entrò nelle cronache già dalla fine degli anni Sessanta, quando a Roma un gruppo di picchiatori del Msi, guidati addirittura dal segretario Giorgio Almirante, dettero l´assalto all´università occupata e che ha attraversato tutti gli «anni di piombo».
Sono passati ventisei anni da quando, dopo aver provato le celle di Cuneo e di Palmi, e rilasciato per le pessime condizioni fisiche, sparì. E perciò «che un ministro della Giustizia dica che i mali sono da imputare alle prescrizioni è divertente», replica Scalzone a Mastella. «Vuol dire che il ministro pensa ad una pena infinita. Io invece torno per condurre in condizioni nuove una vecchia battaglia».
Repubblica 18.1.07
Fu l'accusatore, da lui il famoso "teorema"
Il giudice Calogero "Applicata una norma"
PADOVA - Pietro Calogero è il magistrato al quale si deve il "teorema", che portò all´arresto di Scalzone, Piperno e Negri il 7 aprile del 1979, secondo cui c´era un collegamento tra gli ex leader di Potop e le Br.
Scalzone tornerà in Italia da libero cittadino. Che ne pensa?
«Non ne so molto, qualcuno mi ha telefonato per darmi la notizia ma francamente non ho nulla da dire al riguardo. E´ stata applicata una disposizione di legge, è l´effetto del decorso del tempo. L´applicazione del provvedimento di prescrizione non è discrezionale, è un fatto oggettivo».
E il suo teorema, il teorema Calogero?
«Su questa vicenda si disse già molto, non ho più nulla da aggiungere». (a. i.)
Repubblica 18.1.07
LE FRASI
"Creerò una compagnia di giro per fare agitazione filosofica, culturale e sociale"
Il proclama dell'ex leader "Libertà anche per gli altri"
"Il primo caso è Persichetti, io nomade fra Italia e Francia”
di Giampiero Martinotti
La barca. Nell'81 andai via con la barca di Gianmaria Volontè dalla Maddalena Ero con lui e una ex partigiana, Neva Maffii
Mitterrand. Perché decidemmo di venire tutti qui? Fu come una specie di tam tam dopo l'elezione a presidente di Mitterrand
PARIGI - Oreste Scalzone è uguale a sé stesso. Ha appreso da poco di essere libero di tornare in Italia, ma non riesce a rispondere con un sì o con un no a chi gli chiede se è felice o se gusta la sua nuova libertà («una parola enorme, definirla è difficile»). Un´intervista con lui è un percorso a ostacoli in mezzo a digressioni, citazioni giuridiche, accenni a Marx, riferimenti a Machiavelli, ricordi personali e teorizzazioni politiche.
Contento ?
«Come potrei non esserlo ? Ma la vita è fatta di ambivalenze: io ho avuto quello che mi spettava, la prescrizione, altri no».
Tornerà in italia ?
«Dopo tanti anni passati qui, non posso dire che mi sono sentito fuori posto. Ho sempre capito chi fra di noi aveva una struggente nostalgia, non è stato il caso mio. Non farò il pendolare, perché non ho due cuori. Farò il nomade».
Lei è fuggito dall'Italia ventisei anni fa, nel gennaio del 1981. Ma all'iniziò non restò in Francia: come mai ?
«Ce lo avevano sconsigliato. Ma passai in Francia. Con la barca di Gianmaria Volontè».
Come andò esattamente ?
«Dopo essere stato liberato per ragioni di salute, andai a casa sua a Roma. Mi ero tagliato la barba, temevo di essere riconosciuto. Partimmo in tre: io, Gianmaria e Neva Maffii, un'ex partigiana che non simpatizzava con l'Autonomia. Prendemmo il traghetto per andare a Olbia. La sua barca era alla Maddalena, sulla fiancata c´era scritto un verso di Paul Valéry: «Il vento si alza, bisogna tentare di vivere». In realtà, non c´era un filo di vento. (Scalzone si mette a cantare Verdi : "Oh mia patria sì bella e perduta", ndr.). Il viaggio fu lungo e si fece a motore. Una volta in Corsica passai sul continente. Avevo un passaporto che mi era stato prestato. Sono arrivato a Copenaghen, dove mi aspettavano Lucia e Linda, mia moglie e mia figlia. Sono rimasto lì fino a settembre, quando sono arrivato a Parigi».
C´è stato qualcuno che ha avuto l´idea di venire qui?
«No, l´abbiamo avuta in tanti, malgrado fossimo dispersi in tanti paesi diversi. E´ stato come una specie di tam-tam subito dopo l´elezione di François Mitterrand, che parlava della Francia come terra d´asilo».
In quanti eravate qui nell´81-82?
«Il governo ha sempre parlato di un trecento persone, alcuni avvocati del doppio. Tenendo conto delle famiglie, io direi piuttosto un migliaio di persone».
E lei divenne l´animatore della comunità.
«Me ne sono occupato molto. C´era sempre qualcuno che arrivava, i processi per le estradizioni, una novantina in tutto».
Ma tutti i governi vi hanno protetto e vi hanno consentito di restare qui.
«Sì, con due eccezioni : Paolo Persichetti, che è in carcere a Viterbo, e Cesare Battisti, fuggito prima di essere consegnato alla polizia italiana».
A differenza di quasi tutti gli altri terroristi o autonomi che hanno trovato rifugio qui, lei non si è trovato un nuovo mestiere: come ha campato?
«Le famiglie ci hanno sempre dato una mano. Mia moglie ha fatto lavori saltuari, per un certo tempo ho lavorato in una rivista. Non abbiamo cercato di integrarci e di fare una nuova vita perché non ne avevamo il tempo: ci occupavamo di chi arrivava, dei processi».
E adesso cosa farà?
«Prima di tutto voglio finire "Camminamenti", un libro che uscirà da Immaginapoli. Poi mi metto a fare una compagnia di giro, composta da me stesso e da chi ci vuol stare. Mi porto dietro anche la fisarmonica».
Per far che?
«Agitazione filosofica, culturale e sociale. Ma voglio occuparmi anche di un caso cui tengo molto».
Quale?
«Quello di Paolo Persichetti. Non vogliono concedergli nemmeno la semilibertà prevista dalla legge Gozzini. Ma io chiedo almeno che venga trasferito da Viterbo a Roma, dove vuole iscriversi a Giurisprudenza. Mi batterò con i mezzi della non violenza: o lo trasferiscono o mi mettono in galera. E se non sanno chi è Persichetti, il sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi (ex di Lotta Continua, ndr.) potrà spiegarlo a Prodi e agli altri membri del governo».
Con la prescrizione sono finiti gli anni di piombo?
«No, perché nessuna guerra è mai finita finché non tornano a casa i prigionieri. E l´unica soluzione per finirla davvero è l´amnistia. Continuerò a battermi anche per questo».
Repubblica 18.1.07
IL RACCONTO
Le scorribande di Scalzone con Pace e Piperno mentre i cinematografari civettavano con L´estremismo
Da Valle Giulia al 7 aprile così tramontò Potere operaio
Cani sciolti e lotta di classe nell´Italia degli anni ‘70
di Silvana Mazzocchi
Arrestato nel 1979 con Negri, Dalmaviva e Vesce con l'accusa di insurrezione armata
L'ispirazione della scuola operaista che affascinò gli studenti più politicizzati
ROMA - "Pendolare di vecchie battaglie di libertà" e, se necessario, con un giornale accartocciato a fare da megafono. Lo ha promesso e lo farà. Oreste Scalzone, è sempre stato un bulimico della protesta, "un cane sciolto senza collare", come si definiva da sé, "un alcolista della lotta di classe", come lo racconta Aldo Grandi in "La generazione degli anni perduti". Un personaggio d´epoca, un vintage di quei tempi furiosi e per niente innocenti, un errante senza vita privata, un eterno "ex" affetto da overdose di militanza e onnivoro di letture discontinue e coinvolgenti, come fu per i libri dell´operaista Mario Tronti che, raccontò, furono per lui "un vero punto di svolta". Fisico febbrile, occhi accesi e tendenza a scrivere e a parlare oltre misura; una tensione esagerata messa per decenni al servizio del Movimento studentesco, di Potere operaio, della "causa rivoluzionaria" e della deriva illegale, della violenza diffusa e degli "esiliati" a Parigi, dove lui stesso si stabilì fin dal 1981 (si allontanò dal nostro paese approfittando di una scarcerazione momentanea per motivi di salute), quando la Francia di Francois Mitterrand accolse decine di "rifugiati politici" fuggiti dall´Italia ferita dal piombo. Nello stesso anno venne condannato a 16 anni di reclusione nel processo ai Comitati comunisti rivoluzionari, per banda armata e rapine..
Era stato arrestato nell´aprile del ‘79 Oreste Scalzone, insieme con i leader di Autonomia Operaia, Toni Negri, Mario Dalmaviva ed Emilio Vesce, mentre Franco Piperno rimase latitante. I giudici di Padova del processo "7 aprile" lo accusarono di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, convinti che Potop e Autonomia avessero concordato una strategia comune con le Brigate rosse per abbattere la democrazia. Un´accusa che per gran parte degli imputati di quel dibattimento si disfece come neve al sole al processo d´appello del 1987.
Nato a Terni nel ‘47, Scalzone era stato un allievo "creativo" di quella scuola operaista alla quale dopo la metà degli anni Sessanta si erano andati formando tanti studenti di estrazione piccolo e medio borghese. E come l´amico Franco Piperno, classe ‘42, era anche lui cresciuto nella Fgci, l´organizzazione giovanile comunista. Senza mai però piegarsi del tutto all´obbedienza di partito. E con Piperno, così diverso da lui nel fisico e nel carattere, aveva fondato nel ‘69 Potere Operaio, "Potòp", come recitavano gli slogan dell´epoca. Fianco a fianco per affinità politiche, Scalzone e Piperno erano diventati i leader di quell´ala del Movimento studentesco, ed erano insieme quando, nel ‘68, all´Università la Sapienza di Roma, Scalzone rimase ferito da un banco che gli piovve addosso, lanciato dai giovani fascisti asserragliati nella facoltà di legge. E ancora insieme erano nel marzo dello stesso anno a Valle Giulia, quando centinaia di giovani del Movimento attaccarono i poliziotti che avevano sgombrato la facoltà di Architettura, occupata dagli studenti.
Ed ecco gli anni di "Potop", la Roma dei cinematografari che civettavano con l´estremismo, le scorribande con Lanfranco Pace e con Piperno, l´ambizioso progetto del giornale "La Classe", il divorzio dall´allora nascente Lotta Continua e la stagione "operaista" a Torino, davanti a Mirafiori, con le continue assemblee tra studenti e operai, ogni giorno e sabato compreso, alle quali Scalzone non mancava mai.
Quando nel ‘72 Potere Operaio declina e l´Autonomia avanza, Scalzone è sempre in prima fila, né si tira indietro di fronte alla deriva illegale, rapine comprese, (un testimone ne raccontò una, descrivendolo fra gli autori come "un tipo gentile e con una parrucca bionda"). Intanto, nel ‘70, aveva sposato una ragazza mite e determinata, Lucia Martini, che inutilmente avrebbe tentato di convincerlo a riprendersi almeno qualche spazio di vita privata.
Fumatore accanito, da sempre magrissimo, instancabile e in perenne movimento, a Parigi Oreste Scalzone è stato indiscusso protagonista nella colonia dei rifugiati politici. Ha imparato a suonare la fisarmonica e con quello strumento è stato visto spesso guidare le manifestazioni organizzate con i fuoriusciti nella capitale francese, contro ogni ipotesi che Parigi potesse decidere di restituire al nostro paese i latitanti. Per fortuna non senza qualche vena autocritica. Come quando, un anno fa, ammise di "vergognarsi" e di voler chiedere scusa alla famiglia Mattei per il rogo di Primavalle, avvenuto il 16 aprile del 1973. Quella notte due ragazzi vennero uccisi dal fuoco appiccato alla porta della loro casa da tre esponenti di Potere Operaio.
Per trent´anni Scalzone ha lanciato proteste, interviste, appelli e documenti "contro la tossicomania penale e per l´abolizionismo del carcere". Nell´aprile 2005 smise di mangiare per settimane. Con lo sciopero della fame a favore dell´amnistia arrivò a pesare 42 chili. Ci ripensò a un soffio dal collasso.