sabato 20 gennaio 2007

l'Unità 20.1.07
«Quel ribellismo veniva da lontano, dal 1968 e dalle stesse avanzate elettorali comuniste. Ma non trovò sbocco»
Asor Rosa: il Settantasette? Una catastrofe per la sinistra
di Bruno Gravagnuolo


ANNIVERSARI Parla lo storico della letteratura italiana che dalle colonne dell’Unità «aprì» al movimento con il famoso articolo incentrato su Le due società: «Il vero limite fu il compromesso storico. E il Pci finì stretto da destra e da sinistra»

Le due società. Fu questa la chiave di lettura che Alberto Asor Rosa, grande italianista, artefice di esperienze teoriche come Quaderni Rossi e Classe operaia, ex Psiup poi passato al Pci nel 1976 e direttore di Rinascita nel 1989, adoperò per spiegare la natura di un movimento indocile e refrattario ad ogni tradizione politica come quello del 1977. Venuto clamorosamente alla ribalta con la cacciata di Lama dall’Università di Roma da parte degli «autonomi» il 17 febbraio di quell’anno. Significava che da una parte c’erano i garantiti, coloro che riuscivano a incamerarre un reddito sicuro, inclusi i ceti subalterni organizzati che godevano dei benefici del Welfare. E dall’altra una vasta massa di giovani precari, marginalizzati, senza prospettiva di inserimento sociale. E che in qualche modo faceva di necessità virtù. Teorizzando e praticando « comunità antagonista», soggettivismo libertario, rifiuto del «progetto» e dell’eticità del futuro. E rigettando le logiche e le pratiche del movimento operaio organizzato.
Quella di Asor era una chiave di lettura originale, messa a punto in un articolo de l’Unità del 20 marzo 1977(poi confluita in un volume Einaudi), tre giorni dopo l’aggressione a Lama. E che non solo metteva a fuoco una fenomenologia di comportamenti inaccettabili, ma inesplicabili per il Pci. Ma che anticipava in qualche modo il futuro degli anni 80 e 90: precariato come fulcro del capitalismo flessibile e globale. Individualismo di massa. Edonismo. E soprattutto - dice oggi Asor Rosa - «anticipava integralmente la perdita di aura e di prestigio etico che avvolgevano il Pci e il sindacato. Il suo ruolo sacrale e la sua missione finalistica».
Ovviamente, e questo Asor lo sa bene, tutti quei germi culturali erano una certa cosa nel contesto di fine anni 70. Diventeranno altra cosa, e con segno conservatore, nel clima caratterizzato dalla sconfitta del Pci dopo l’uccisione di Moro. Con l’ondata neoliberista e con la sfida craxiana. Torniamo allora a riparlare con Asor Rosa di quella stagione oggi, a trent’anni da quei fatti, in un clima integralmente mutato. Per capire se quel ciclo di eventi fu in qualche modo «periodizzante», se rappresenta uno spartiacque tra un prima e un poi. O se invece fu solo un accidente effimero, e non degno di enfasi storiografica. Intanto escono tanti libri e tante rievocazioni, da Ali di Piombo di Concetto Vecchio a 1977 di Lucia Annunziata, che visse i fatti di quell’anno da giovane cronista del Manifesto. Cronista «simpatetica» e schierata con gli studenti, alla quale capitò, come essa stessa racconta nel libro, di doversi scontrare con Rossana Rossanda, molto più critica di Annunziata sui caratteri di violenza e di radicalismo autolesionista insiti nel «movimento» (e tra gli episodi narrati c’è la reprimenda di Rossanda alla cronista che aveva portato in redazione come trofeo un sampietrino).
Ebbene, il giudizio di Annunziata sul Pci dinanzi al movimento è ancora oggi aspro: integrale chiusura settaria, ottusità. Non senza notazioni auobiografiche generazionali: «Odiavamo i nostri padri comunisti». Che ne pensa Asor? Integralmente sbagliate la cautela e la condanna fatte proprie dal Pci di allora? Replica articolata, ma chiara. «Era palese - dice - che quel movimento fosse in rotta di collisione culturale e politica con un partito che allora sperimentava una via ambiziosa e dalla logica ferrea: la cogestione del sistema con la Dc. E il tutto dopo le grandi avanzate elettorali del 1975 e del 1976. Avanzate che avevano condotto il Pci a pochi punti percentuali dalla Dc, e che avevano costretto quest’ultima, visto che non c’era maggioranza, a considerare l’idea di un condominio politico, con il Pci fuori dal governo». E allora, prosegue Asor, se la realtà era questa, se quelli i vincoli internazionali, se quella la logica del sistema politico, «lo scontro con la galassia giovanile di sinistra era inevitabile. E con una galassia di esclusi oltretutto, che a differenza dei giovani del 1968 non avevano in sé la cultura e le categorie del movimento operaio».
Dunque, nessuna mediazione era possibile? Nessuna apertura? Nessuna capacità di inglobare quell’insorgenza? E ancora: che tipo di insorgenza era, da un punto di vista sociale? Risponde ancora Asor: «Era una ribellione piccolo borghese e di massa, agita da una sorta di nuovo semiproletariato intellettuale stazionante dentro l’università, che aveva spalancato le sue porte sotto la spinta operaia e studentesca. E lo dico, sia chiaro, senza nessun moralismo aristocratico. Occorreva capire che si trattava di un processo schiuso dalla stagione del 1968, dalle stesse lotte sociali di dieci anni prima. E soprattutto dalla stessa imponente avanzata del Pci. Invece prevalse il muro del “compromesso storico”, e poi l’involuzione della violenza brigatista». Insomma per Asor il Pci di quegli anni accreditava l’idea di «una società bloccata a controllo totale», in condominio con l’altra forza chiave, la Dc. Società senza sbocchi politici, e che incoraggiava di fatto velleità violente. Senza dubbio, e Asor ci tiene a precisarlo, quella del compromesso storico e della connessa «austerity» - specie di keynesismo berlingueriano - «costituivano una strategia alta». Ovverosia, «erano il massimo limite raggiungibile - sia in chiave di proposta che di autolegittimazione - che una forza politica comunista potesse raggiungere in occidente». E tuttavia, continua Asor Rosa, «io non fui d’accordo con quella linea, perché reputavo che fosse un vicolo cieco. Non portava il Pci al governo, e non dava sbocco alla sua forza, lasciandolo inerme dinanzi all’attacco reazionario, che pure vi fu negli anni di piombo».
D’accordo, ma di là degli errori di «settarismo» e di ingenuità - l’errore di far entrare Lama nell’Università occupata - che cos’altro si poteva mettere in campo dinanzi a quell’esplosione che veniva di lontano, come lei dice? «Intanto ci voleva un’analisi diversa di quel movimento, e del sostrato sociale sotteso. Un’attenzione specifica. Ma soprattutto occorreva offrire una concreta sponda politica all’onda montante. Parlo di una prospettiva di alternativa a sinistra, l’unica capace di rappresentare uno sbocco, in quelle condizioni». E sia professore, il suo non è «senno del poi», visto che proprio quella fu allora la sua posizione. Eppure non ha appena detto che il compromesso storico era altresì la frontiera più avanzata che un partito comunista in occidente potesse lambire? «Certo, ma il punto era esattamente quello: superare la frontiera. E mettere all’ordine del giorno la possibilità di oltrepassare la tradizione comunista. Delineare quindi una nuova identità di sinistra, ben piantata, nelle nuove condizioni, sul movimento operaio e sui ceti subalterni, ma inedita e sostenibile in occidente». E in effetti proprio a questo progetto tentò di lavorare Asor Rosa tra fine anni 70 e anni 80 con la rivista Laboratorio politico (c’erano Tronti, Cacciari, Accornero, Bolaffi, Marramao), tesa a un riformismo di massa, di sinistra, neosocialista (non craxiano, ma anti) e alternativo al sistema politico bloccato (anche dalla perdurante identità comunista di allora).
Progetto fallito, malgrado le speranze del 1989 e malgrado il Pds, che a questo doveva servire. E ritardo destinato a pesare ancora oggi, per Asor Rosa, «in un momento in cui l’idea del partito democratico, oltre che allontanamento da quel compito, è anche a mio avviso deriva e sradicamento dalla prospettiva di una sinistra autonoma, forte e radicata».
Ma torniamo al 1977, e alla violenza terrorista, che in qualche modo ne fu l’epilogo amaro. «Nel 1977- dice Asor - allorché la contrapposizione al Pci e al sindacato si fece totale, il passaggio alla lotta armata non fu più un tabù riservato a poche avanguardie militarizzate. Divenne a suo modo di massa. Cosicché l’anticomunismo di sinistra si saldò a quello di destra. E il fallimento dell’ultima operazione politica del mondo uscito dall’antifascismo e dalla Resistenza - il compromesso storico - genera una tenaglia estremistica: tenaglia della destra e della sinistra». Infine, un’ultima notazione, di nuovo sulla mentalità e sulla cultura di quegli anni. Dalla riscoperta di Nietzsche, alle radio libere, alla creatività, al libertarismo «foucaultiano» e «deleuziano», alla rivalutazione del corpo e del femminismo. Ebbene, benché poi riciclate con segno diverso, e in un’altro contesto, tutte quelle istanze non hanno anche rinnovato il costume e la sensibilità dei nostri anni? «Con tutta franchezza e a decenni di distanza da quel periodo, direi intanto che ricordo quegli anni con enorme tristezza. Li ricordo come anni plumbei, di sconfitta. O almeno come inizio della sconfitta. E infatti il Pci si involve all’opposizione: battuto, isolato, come negli anni 50. Il tutto mentre avanza il craxismo. Quanto al libertarismo e al mutamento di costume, direi che i veri presupposti di quel che esplode nel 1977 stanno nel 1968. Fu quella la vera data spartiacque ed è lì che si piantano i semi di quella gigantesca rivoluzione del costume che investirà da cima a fondo la società italiana, non nel 1977».