il manifesto 31.12.06
Michel de Certeau interprete di Freud
Tre libri del grande erudito francese consentono di mettere a fuoco tanto le sue strategie di lettura quanto i suoi interessi, che si estendevano dalla psiconalisi ai rapporti tra la chiesa e la politica
di Marco Dotti
Fra tutte le opere di Freud, L'uomo Mosè e la religione monoteistica si presenta come una delle più insidiose, non fosse altro per l'oggetto, in gran parte sfuggente, attorno al quale si sviluppa e si articola quel discorso storico insieme alla sua strategia di scrittura. In bilico fra l'erudizione propriamente detta e un trattamento sui generis delle fonti, nei tre saggi terminati fra il 1934 e il 1938 che compongono l'ultimo controverso e spiazzante progetto della scrittura freudiana, il grande psicoanalista offre il campo a molte letture che, di volta in volta, tendono a valorizzare oppure a sminure l'uso e l'interpretazione del materiale storiografico raccolto. Particolarmente degna di considerazione appariva a Michel de Certeau - dotato di una proverbiale erudizione, psicoanalista, storico delle religioni, religioso gesuita motu proprio, osservatore dei movimenti politici e sociali - la lettura che insiste nel sottolineare lo sguardo rigorosamente obliquo a cui Freud sottopose gli «oggetti della storia» e le loro infinite interpretazioni.
A metà tra scienza e finzione
Freud si muoveva, qui, su un terreno che, in un primo momento, sembrava per sua esplicita ammissione non appartenergli, tanto che in una lettera indirizzata a Arnold Zweig parlò di questo suo lavoro come di «una fantasia». Fantasia destinata a fornire, però, una inedita spiegazione all'«origine della leggenda» di Mosè, ponendosi quindi a metà strada fra «scienza e finzione», come sempre capita ogni volta che ci si confronti radicalmente con quello che Michel de Certeau definiva «il fare della storia». Cosa accade, si chiede lo studioso francese, quando si passa dall'analisi e dalla ricognizione delle fonti a una vera e propria «produzione di discorso sulla storia»? Esiste un «linguaggio comune» a queste due fasi della ricerca e dell'indagine? E ancora, come è possibile cogliere la continua frattura fra questi due poli della «scienza storica» senza servirsi, appunto, di uno «sguardo obliquo» e di una critica oscillante sulla sua «finzione» che, nel Freud del Mosè, trovano una ineludibile pietra di paragone?
Freud si muove avendo ben chiaro che proprio in quell'altrove che è la lingua si giocano problemi, politica e destini dell'altro e della sua differenza. Questioni fondamentali che rimettono in causa tanto l'ambito e il modo attraverso cui la storiografia si costituisce come discorso scientifico, quanto «il territorio» che non è se non «il prodotto testuale» di tale storiografia. Una filosofia implicita, dominata dalla «logica del nome e del luogo», che de Certeau definì - sintonizzandosi con una eco di certo proveniente da Deleuze - «stanziale», sembra essere messa così in discussione da quel vero e proprio «romanzo» che è il Mosè. Un testo che, calato nell'ambito tecnico del «fare storia», se ne sottrae introducendo di continuo elementi «fuori posto»: de Certeau lo interpreta, in questa prospettiva, come un vero e proprio «lavoro della differenza»: un lavoro «che cambia il discorso didattico e scientifico della storia, in una scrittura fuori quadro (in se stessa e rispetto alla disciplina), cioè in un romanzo» e in una «fantasia».
«Finzione», scriveva lo storico francese - che nel 1950 entrò a far parte della Compagnia di Gesù e nel 1964 partecipò all'avventura della fondazione dell'Ecole freudienne di Parigi - «è una parola pericolosa». Affonda lontano le proprie radici e rimanda alla guerra intestina «fra la storia e le sue storie», fra luoghi del tempo e spazi del racconto.
A maggior ragione, quando passa tra le mani di Freud la parola non perde nulla del suo statuto incerto e inevitabilmente lo accresce in un gioco di rimandi e di implicazioni che fa assumere al termine «fantasia» talvolta proprio il significato di «finzione (fingere, plasmare, fabbricare)», altre volte di travestimento, rivestimento o inganno.
Non a caso Freud avrebbe parlato del Mosé come di un «mio romanzo», forse per chiarire meglio che si trattava proprio di un gioco «fra oggetto spiegato e discorso analizzante», condotto nell'ambito al tempo stesso incerto e dimesso in cui sembrano destinati a incontrarsi ciò che la storia crea e ciò che ogni ogni racconto, per sua necessità interiore, dissimula. Ma Freud tutto fa «fuorché creare un altro luogo» per questo incontro. Non sembra intenzionato a porre il romanzo in un campo diverso rispetto a quello della storia, cadendo così nel tranello di quella «legge di spazializzazione che scaccia via l'alterità, in un posto fittizio». Se per Sade l'«arte di scrivere romanzi» si acquisisce solo attraverso viaggi e disgrazie, il testo di Freud - nota ancora de Certeau - reca entrambe le ferite. Nasce da un'invisibile traccia di sangue che lo trasforma in una scrittura fuori posto, «allo stesso modo in cui si dice 'persone fuori posto'». La finzione altro non sarebbe, dunque, che la traccia della lingua dell'altro, del suo déplacement, e della sua perturbante presenza. È proprio su tali questioni, confrontandosi col terrain vague sul quale questi e altri problemi si agitano, che nel 1975 - accantonate le vicende della mistica a cui aveva recato un fondamentale contributo critico - de Certeau elaborò l'ultima parte del suo lavoro dedicato alla Scrittura della storia, un saggio ora riproposto da Jaca Book in una nuova edizione italiana curata da Silvano Facioni (pp.377, euro 34), che si avvale ancora della traduzione di Anna Jeronimidis, apparsa nel '77 per le edizioni del Lavoro scientifico, ampiamente elogiata dall'autore stesso in una premessa scritta per l'occasione. Il saggio che de Certau dedicò al Freud del Mosé costituisce - come sottolinea Luce Giard nello scritto che accompagna un altro libro dello studioso francese da poco in libreria, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione (Bollati-Boringhieri, pp. 238, euro 32) - uno di quei punti in cui si coglie nella maniera forse più compiuta il suo sforzo volto a una «definizione teorica» della disciplina storica, e - al tempo stesso - l'assoluto rigore del suo metodo. Oltre questo ambito, il percorso umano di de Certeau era e rimane, fuor di dubbio, quello che con le sue stesse parole potrebbe definirsi «un viaggio trasversale». A spingere Michel de Certeau a superare confini e ambiti disciplinari non erano però inquietudini esistenziali e dimensioni puramente esperienziali del suo fare, ma gli oggetti stessi e l'«urgenza del lavoro in corso».
Per questo - nota ancora Giard - quando stava per attraversare la soglia di una nuova disciplina, cercava di farlo con discrezione, riservandosi lo «scrupolo di ribadire l'identità di origine e i limiti della propria competenza». Un pensiero per nulla debole, quello di de Certeau, ma che proprio nella fragilità trovava chissà come l'ennesima chance di aprire uno spazio per ribadire la questione della différence.
Tra la politica e la chiesa
A questo rimandano anche gli scritti, solo all'apparenza più meditativi e personali, centrati sul tema del cristianesimo e raccolti in una preziosa antologia edita da Città Aperta e titolata La debolezza di credere (traduzione di Stella Morra, pp. 305, euro 22). «Sentendo svanire il suolo cristiano su cui credevo di avanzare», si legge, «vedendo avvicinarsi i messaggeri della fine, riconoscendo così il mio rapporto alla storia nella forma di una morte senza futuro proprio e di una credenza senza luogo sicuro, scopro una violenza dell'istante. Una necessità poetica nasce dalla perdita che apre alla debolezza. Come se, avendo spiato i segni di ciò che ci manca, nascesse a poco a poco la grazia di essere attenti attraverso ciò che ci si mostra come la realtà più fragile e fondamentale».
La preghiera, il rapporto fra la politica della Chiesa e i golpe latino americani riaffiorano come temi della raccolta. Eppure, anche nelle questioni che potrebbero risultare più marginali, de Certeau non rinuncia a condurre fino in fondo «quel viaggio senza ritorno» che coincide a pieno titolo con un'esperienza del pensiero non riconciliata, eccentrica, ma, sopra ogni cosa, mai priva di rigorosa e inesausta passione militante.
il manifesto 31.12.06
Una grande rivista per la psiche
«Psicoterapia e Scienze Umane» venne fondata nel 1967 nel quadro di un più ampio progetto culturale concepito da Pier Francesco Galli. Oggi un numero speciale ripercorre i momenti più significativi dei suoi quarant'anni di militanza sul fronte della sofferenza mentale
di Alberto Burgio
La rivista «Psicoterapia e Scienze Umane» compie quaranta anni, spazio lungo nella vita degli esseri umani e non breve, ormai, nelle cose che realizzano. Il traguardo è stato festeggiato con un numero speciale che costituisce di per sé un contributo non irrilevante alla storia della cultura psicoterapeutica e psichiatrica in Italia, e forse anche alla storia della cultura tout court. «Psicoterapia e Scienze Umane» vide la luce nel 1967 nel quadro di un più ampio progetto culturale (e politico) concepito da Pier Francesco Galli e da quello che all'epoca si chiamava Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia, informalmente costituitosi a Milano nel 1960.
La rivista veniva a completare, secondo una divisione di ruoli di notevole organicità, una triade che già contava sulle collane editoriali progettate dallo stesso Galli e da lui dirette presso Feltrinelli (la «Biblioteca di psichiatria e di psicologia clinica», curata insieme a Gaetano Benedetti, attivo a Basilea) e presso Boringhieri (il «Programma di Psicologia Psichiatria Psicoterapia») che si può dire abbiano fatto la storia della psicoterapia in Italia. Si trattava di una osmosi. Le collane - è lo stesso Galli a dirlo oggi, nel suo prezioso saggio In viaggio con i libri: 1959-2006 - erano state concepite come «una grande rivista aperta»; mentre la rivista si sviluppava a sua volta come una collana capace di stemperare ogni idiosincrasia, e dunque rispettosa del pensiero in ogni sua linea di sviluppo.
Il taglio interdisciplinare (poco proclamato ma sempre praticato), il dialogo tra le scienze, il dibattito sulle battaglie anti-istituzionali, tutto ciò ne faceva una feconda fonte di suggestioni non solo per gli esperti, ma anche per quanti - giovani iscritti ai corsi di laurea in filosofia, psicologia e sociologia - si muovessero nel solco della riflessione critica e cercassero di contribuire alla battaglia, in senso forte politica, contro gli stereotipi e il tecnicismo dei saperi, nonché contro i chiusi culti di qualsiasi Chiesa, inclusa quella psicoanalitica.
L'intento complessivo del progetto era squisitamente «pedagogico»: si trattava di recuperare il ritardo in cui versava la cultura legata alla sofferenza mentale in Italia traducendo opere e scritti già classici o comunque imprescindibili e sollecitando una produzione originale, all'altezza di quella internazionale. Quest'ultimo compito, evidentemente il più arduo e ambizioso, fu assolto con risultati che suscitano, restrospettivamente, ammirazione. Nel '63, nella collana di Feltrinelli, uscì - per fare solo un esempio - il saggio di Mara Selvini Palazzoli sull'Anoressia mentale, un testo all'epoca davvero innovativo. Quelle collane venivano rapidamente colmando un enorme vuoto culturale nella psichiatria italiana e non soltanto in essa. Del resto, la «miseria» di una psichiatria ancora per tutti gli anni '50 contrassegnata da un biologismo dogmatico dichiarava se stessa attraverso le pratiche del custodialismo e dell'elettroshock, e non poteva contare su un insegnamento specifico. Soppresso durante il fascismo,infatti, l'esame di Clinica psichiatrica sarebbe stato reintrodotto nel corso di studi della facoltà medica soltanto nel 1976.
Precisamente questo è il tema centrale - rilevante anche dal punto di vista della storia più recente - di questo fascicolo davvero speciale: il fatto che in Italia, almeno fino agli anni '80, la formazione psichiatrica, necessaria anche alla medicina di base per far fronte ai problemi delle malattie mentali, abbia avuto luogo, piuttosto che grazie all'Università, attraverso canali editoriali (collane e riviste) e per iniziativa di singoli o di gruppi impegnati sul territorio.
In questo contesto, «Psicoterapia e Scienze Umane» ha sempre offerto un esempio inconsueto di concreta interdisciplinarità e di dialogo tra indirizzi diversi (freudiano, daseinsanalista, interpersonalista, junghiano, kleininano, tra gli altri). Soprattutto è stata costantemente impegnata a mantenere vivo l'esercizio della critica come metodo di ricerca, nonché a promuovere una visione laica della psicoterapia e della psicoanalisi. Ne fanno fede anche i saggi raccolti in questo numero, concepito come una sorta di indice ideale e di sintesi del cammino percorso: dalle pagine di Benedetti (un po' il manifesto teorico della rivista, scritto nel 1962), ai saggi di Parin, Morgenthaler, Cremerius, Friedman e Shevrin, allo scritto di Paolo Boringhieri, scomparso l'estate scorsa, che nel 1989 illustrava il progetto editoriale dell'edizione italiana delle opere di Freud. E ancora una intervista a Michele Ranchetti (tra i più assidui collaboratori), i contributi di Enzo Codignola, Manlio Iofrida e Alberto Merini e - tra i più recenti - quelli di Gallese, Migone e Eagle sulla neuropsicanalisi e di Babini e Giacanelli su temi di storia della psichiatria. Particolarmente avvincente è, infine, il racconto di Marianna Bolko e Berthold Rothschild, corredato da belle immagini fotografiche. Gli autori furono protagonisti di un episodio solitamente trascurato dalle storiografie accademiche, il «contro-congresso» romano della International Psychoanalitic Association. Vennero messe allora in discussione - anzi «contestate» - la logica conservatrice del training e la struttura tradizionale, gerarchica e poco tollerante, delle stesse società psicoanalitiche. Correva l'anno 1969, come sappiamo caldo anche su altri fronti.