martedì 5 dicembre 2006

Repubblica 23 ottobre 2005
Quando il Papa vuole fare le leggi
di Eugenio Scalfari


NEL PORRE due settimane fa il riemergere della questione cattolica nella democrazia italiana identificando nell'azione sempre più politica della Conferenza episcopale e del suo presidente una deriva della Chiesa combattente a detrimento della Chiesa pastorale, avevo concluso con una domanda: il Papa è d'accordo?

La risposta non equivocabile è venuta con la lettera-messaggio di Benedetto XVI ai convegnisti riuniti a Norcia dal presidente del Senato, Marcello Pera: il Papa è d'accordo con Ruini.

Il Papa ha scelto come interlocutore in questo caso l'uomo che riveste la seconda carica dello Stato e che ha già da tempo preso un posto eminente tra i laici-devoti; quelli cioè che, pur non credendo nella verità rivelata cristiana e nei dogmi che la costellano, se ne fanno tuttavia strumento per fornire alla "scatola vuota" della democrazia un fondamento etico discendente direttamente dalla dottrina religiosa, trasformata senza troppo sforzo in "instrumentum regni".

Dico senza troppo sforzo poiché dall'editto di Costantino in poi la Chiesa è sempre stata "instrumentum regni", a volte per estendere la sua presenza nella società e gestirne direttamente le istituzioni; altre volte per ottenere vantaggi dai monarchi. Questi ultimi alla loro volta utilizzarono spregiudicatamente la religione al punto da meritarne la definizione di "oppio dei popoli", polemica e forzata quanto si voglia ma confortata da una pratica che predicava l'obbedienza ai poteri temporali e assoluti emananti dalla volontà divina.

Dall'editto di Costantino alla Rivoluzione francese e alla Costituzione del 1792 sono passati 1500 anni. Il potere civile conferito per diritto divino cadde ma non vennero meno i tentativi di settori cospicui della cattolicità di rimetterlo in sella insieme all'ostilità della Chiesa di Roma contro la democrazia, monarchica o repubblicana che fosse, liberale o socialista.

Ora siamo a una di queste svolte, soprattutto nella "diletta Italia" dove la cattedra di Pietro ha da sempre la sua sede e che pertanto detiene il privilegiato destino di rappresentare la "costituency" della Chiesa, la sua arca temporalistica anche dopo la caduta del potere temporale dei papi. La Corte vaticana rimase barricata "in gran dispitto" dietro le mura e i portoni serrati della Città leonina per oltre quarant'anni, dopo la breccia di Porta Pia. Poi i portoni furono riaperti, i ponti levatoi abbassati, il "non expedit" ritirato.

Il Concordato del '29 riconobbe vantaggi e privilegi alla Chiesa concordataria, e la proclamò religione di Stato. A fronte di quei vantaggi e privilegi il governo fascista ottenne in via esclusiva l'esercizio del potere civile. Non era ancora la rimessa in sella del diritto divino, ma certo rappresentò un bel passo in quella direzione. Ben presto però la Chiesa si trovò troppo stretta e sempre più a disagio di fronte ad un regime che si ispirava ad un'etica militarista, totalitaria, infine razzista.

Perciò la caduta di quel regime e l'avvento della libertà democratica furono salutati dai cattolici italiani e dalla Santa Sede come una vittoria per la quale del resto anch'essi avevano lottato, cospirato, sofferto. E la nuova democrazia repubblicana fu concepita, dai cattolici e dalla gerarchia ecclesiastica, come la base ideale per assicurare al potere spirituale dei successori di Pietro una "temporalità" adeguata all'epoca e comunque in grado di fornire strumenti idonei a far penetrare nella modernità il lievito del messaggio evangelico attraverso la democrazia cattolica e una "laicità buona".

Durò cinquant'anni questa laicità buona. Importava relativamente poco, Oltretevere, che fosse gestita da un partito e dai suoi alleati attraverso pratiche di sistematica e diffusa corruttela. Importava anche poco che esistessero ampie zone colluse con organizzazioni mafiose.

Ma importava molto invece che la legislazione e l'amministrazione pubblica fossero inclini e pronti a soddisfare i desideri e gli interessi della Chiesa, la sua dottrina, il suo monopolio religioso, la sua presenza educativa, il finanziamento del clero e delle associazioni collaterali.

La buona laicità andava sottobraccio alla secolarizzazione del costume? All'indifferentismo religioso? Alla caduta delle vocazioni? All'abbandono dei sacramenti? Alla dilagante devozione verso il dio danaro? I cattolici veramente cattolici ne soffrivano. Alcuni se ne disperavano. Nacquero qua e là alcune significative dissidenze, ma non fecero molta presa. Fecero invece presa altrove, in Germania, in Olanda, in Francia e in quasi tutto il cattolicesimo europeo e nel mondo cattolico extraeuropeo. E fu Giovanni XXIII, il Vaticano II e papa Montini, il tormentato. Il tentativo ambizioso, rischioso, ma di grande e coraggioso respiro, fu di confrontarsi realmente con la modernità. Con l'ecumene che non poteva essere soltanto quello delle altre religioni monoteiste e delle altre confessioni cristiane, ma con quella laicità autonoma che fin lì era stata considerata la cattiva coscienza dei laici laicisti.

La risposta fu la scelta del Papa polacco, figura di grandissimo carisma, che stese per ventott'anni il suo manto sui mali della Chiesa, predicò il Vangelo in tutto il mondo, costruì col proprio corpo sofferente un monumento mediatico mai visto prima. Ma lasciò inevasi tutti i problemi che aveva ereditato e tolse energia e spinta propulsiva alle novità del Vaticano II.

Ora è arrivato sulla cattedra petrina l'ex capo del Sant'Uffizio. Non era ancora accaduto che un Papa venisse da quel tipo di esperienza curiale.

Molti, cattolici e non cattolici, hanno sperato che proprio quel tipo di esperienza regalasse alla Chiesa un Vicario capace di attingere dalla Chiesa apostolica le capacità di confrontarsi con la modernità. Apostolica, non romana.

Sarebbe stato un miracolo. Infatti non è avvenuto. Siamo di nuovo alla "buona laicità" con in più qualche cosa di cui non si parlava da parecchio tempo: il potere di Dio, cioè della Chiesa depositaria esclusiva delle verità da lui rivelate, a indicare i diritti che debbono essere sanciti dalle leggi della Città terrena. E poiché nella Città terrena risiedono anche cittadini di altra fede o di nessuna fede, prendano tutti atto dell'esistenza di diritti naturali che ciascun abitante del pianeta porta dentro di sé fin dalla nascita, anzi dal concepimento.

I diritti naturali e innati debbono quindi ispirare la legislazione e fornire allo Stato l'etica di cui ha bisogno. Per un cattolico essi si riconducono al Creatore, ma valgono comunque per tutti in quanto appunto innati.

Questo è stato il messaggio di Benedetto XVI ai convegnisti di Norcia. Il presidente del Senato ne ha preso atto con gioia ed ha, a immediato giro di posta, risposto al Pontefice mettendosi a disposizione.

A quando la nostra Costituzione, le sentenze dei tribunali, i diplomi e i decreti del governo e del Parlamento, porteranno l'iscrizione della dicitura "per grazia di Dio"? Questo non guarirà l'indifferenza, l'adorazione del danaro, il dilagare della violenza e dell'egoismo; ben altro ci vorrebbe. Ma rassicurerà il gregge. Darà senso. Aumenterà il temporalismo religioso. E metterà in soffitta il Vaticano II.

La Chiesa post-Wojtyla chiedeva collegialità. Ma il Sinodo concluso appena ieri ha stabilito che i Sinodi non hanno alcun potere all'interno della gerarchia. Possono soltanto porre domande. La risposta spetta soltanto al Papa il quale sembra aver messo la rotta a ritroso, non sul Vaticano II ma sul Vaticano I, non su papa Giovanni ma su Pio IX e su Pacelli.

* * *

Due parole sui diritti innati e sul diritto naturale. Se ne è scritta nei secoli un'immensa biblioteca e non sarò certo io a risollevare questa questione in un articolo di giornale. Ma soltanto qualche breve riflessione.

Il solo, l'unico diritto innato deriva dall'ente, che esiste e vuole esistere. Nel caso della nostra specie quell'ente si chiama persona, quali che siano i tanti significati che si danno a questa parola. In latino persona significa maschera. Per noi significa individuo, infinitesima parte di una specie, anch'essa individuata tra la moltitudine delle specie.

Il diritto dell'individuo persona ad esistere è innato, proviene dalla natura che lo fornisce anche alle altre specie e agli individui che le compongono, ciascuno dei quali, dall'albero al falcone alla persona dotata di mente, vuole, disperatamente vuole esistere e adopera tutti gli strumenti che la natura gli ha forniti per esistere.

Per soddisfare questo diritto "biologico" l'individuo entra necessariamente in conflitto con tutto ciò che lo circonda, con l'obiettivo, per lui primario, di guadagnare e preservare lo spazio di cui ha bisogno. Le radici di due alberi nati troppo vicini tra loro si disputeranno il terreno da cui traggono alimento e la luce che gli serve per la fotosintesi senza la quale appassirebbero. E se lo spazio è troppo ristretto uno dei due finirà con morire diventando uno stecco senza più fronde né linfe.

A maggior ragione ciò si vede nel regno animale e in quello degli uomini. Ho sentito l'altra sera il nostro telepredicatore nazionale esaltare l'innocenza dei bambini, il loro candore, la loro innata bontà. L'età dell'oro insomma. Ma è falso. E' un falso luogo comune. Il bambino è certamente innocente, ha mangiato soltanto i frutti dell'albero della vita e non ancora quelli della conoscenza. Né sa che cosa sia il peccato. Ma la bontà dei bambini non esiste. La predominante necessità d'ogni bambino è quella di conquistare il suo territorio, attirare su di sé l'attenzione di tutti, vincere tutte le gare, appropriarsi di tutto ciò che desidera. Togliendolo agli altri. Vincendo sugli altri. Sottomettendo gli altri.

Questo è l'istinto primordiale, innato, esclusivo. E spetta a chi li educa insegnare a contenere l'istinto primordiale, a rispettare gli altri, la roba degli altri e addirittura a condividere la propria con gli altri.

Questa disponibilità non è affatto innata ma indotta. Dalla cultura, dall'insegnamento degli adulti. E infine, poiché quell'istinto primordiale ci accompagna fino alla morte, educare e al bisogno limitarlo, spetta alle leggi sulle quali si fonda la Città terrena. I cui fondatori e reggitori si imposero sugli altri con la violenza della scaltrezza o con quella della forza per acquistare il potere ed esercitarlo. Nessuno è stato ed è esente da questo peccato originario, fondato sull'unico diritto innato: la sopravvivenza dell'ente e il dispiegarsi della sua potenza.

Il Papa, quando rispolvera il diritto naturale e lo riconduce al Creatore e chiede che le leggi e la gestione della comunità civile siano improntate alle sue indicazioni, non fa che esprimere la volontà di espansione e potenza dell'ente da lui rappresentato. Esprime attraverso comandamenti religiosi la volontà di potenza della sua religione.

Non so perché questo obiettivo sia chiamato "buona
laicità". Il termine è relativamente nuovo. Forse si tratta d'un contentino lessicale alla modernità. Ma se un confronto ci deve essere tra la Chiesa e il mondo moderno, il discorso e l'analisi debbono andare molto al di là delle trovate lessicali. La "buona laicità" odora da lontano di teocrazia. Non vorrei che il confronto con l'Islam ci portasse ad imitarlo nel peggio anziché suggerire agli islamici di scoprire il meglio delle loro e delle nostre Scritture.


Repubblica 19 novembre 2006
POLITICA
I coriandoli che hanno sconvolto l'Italia
di Eugenio Scalfari


IN UNA RECENTE notte senza sonno, di quelle che a volte capitano a tutti, ho cercato zappettando tra i vari canali della televisione qualche cosa che mi aiutasse a
trovarlo e sono caduto - è la parola giusta - su uno sketch di due famosi comici che apprezzo molto: Marcorè e Crozza.

Cantavano e mimavano una stramba canzone il cui ossessivo ritornello diceva: "Dov'è la destra? Dov'è la sinistra?" e lo condivano con esempi del tipo: il matrimonio è di destra o di sinistra? Il divorzio è di sinistra o di destra? L'embrione è di destra o di sinistra? Le tasse sono di sinistra o di destra? E così per il saluto a pugno chiuso o a mano tesa, per la minigonna, per il Papa, la Resistenza, Garibaldi, George Bush, Massimo D'Alema e non ricordo più quali altri simboli e personaggi di attualità, sempre ritornando all'implacabile refrain (già lanciato molti anni fa da Giorgio Gaber): "Dov'è la destra? Dov'è la sinistra?".

La canzone era lunga, sembrava non dover finire mai e io ero come ipnotizzato. Avrei voluto spegnere il televisore ma non riuscivo a staccare gli occhi da quella coppia che martellava e martellava con le parole dimostrando che non c'è più alcun canone, alcun criterio, alcuna differenza, alcun confine ideale, che tutto è melassa, palude, terrain vague e l'unica salvezza per restare a galla consiste nell'aggrapparsi ai propri corposi interessi, alla propria piccola e precaria felicità, al proprio roccioso e indistruttibile egoismo e che soltanto per quello, per difenderlo e renderlo sempre più acuminato e rapace vale la pena di vivere.
Marcorè e Crozza sono bravissimi e fanno pulitamente il loro mestiere, ma quel duetto così prolungato sembrava una danza di spettri. Alla fine son riuscito a schiacciare il tasto del telecomando e a togliermi dalla vista quella recita angosciosa, ma di recuperare il sonno non era più questione. Avevo a portata di mano gli Ossi di Seppia di Montale e con quella lettura mi sono consolato e ho trovato riposo.

***

Questo casuale e avventuroso incontro notturno può ben essere lo spunto per alcune riflessioni che riguardano anche la politica ma vanno molto al di là di essa.

Riguardano il sentimento morale, il rapporto tra gli individui e la società, la cultura ed anche, perché no, gli interessi della società e degli individui, dei vecchi e dei giovani, degli uomini e delle donne. Insomma i valori, parola grossa che sta a designare le idee nelle quali crediamo e i criteri di giudizio che adoperiamo. Infine la democrazia, il patto sociale di convivenza valido in Occidente e così difficilmente esportabile altrove.

Quel patto nacque nella Grecia di Pericle e di Aristotele ma aveva allora caratteristiche assai diverse da quelle attuali, Nella polis greca l'attenzione era concentrata sulla visione del bene comune cui era subordinato quello degli individui. Il modello era la società delle api, la divisione del lavoro e dei ruoli dalla quale i singoli ricevono la loro sussistenza e il loro benessere. La famosa disputa ottocentesca tra la libertà degli antichi opposta alla libertà dei moderni si svolge interamente attorno alla primazia tra collettività e individuo, tra potere concentrato e potere diffuso e partecipato.

In questa disputa anche la cultura del cristianesimo ha avuto un ruolo importante. Non tanto perché, come sostiene la gerarchia cattolica, si debba solo al cristianesimo la centralità dell'individuo e la sua libertà, ma piuttosto per lo spostamento radicale operato dalla religione. Il cristiano è stato liberato dai suoi vincoli di sudditanza rispetto al potere dello Stato a condizione però di trasferire la sua obbedienza dalla "polis" terrena alla città celeste. Non ricava più la sua felicità dall'osservanza delle leggi degli uomini ma da quelle di Dio, interpretate e aggiornate dalla Chiesa. La sua libertà è piena soltanto se "liberamente" si adeguerà al volere del Dio cristiano, testimoniato dagli apostoli e dai vescovi loro successori.

In realtà la piena liberazione dell'individuo da vincoli esterni è avvenuta attraverso la conquista della libertà di coscienza e di ricerca. Le sue radici risalgono alla moralità degli stoici e alla libertà epicurea e culminano nel pensiero illuminista e volterriano per il quale la libertà di tutte le religioni rappresenta uno dei molti aspetti della libertà di pensiero.

Dov'è la destra? Dov'è la sinistra? Non credo si possa sbagliare su questo punto perché qui non siamo nel pantano dell'indistinto ma sul solido terreno della ragione ragionante, aperta alla ricerca senza pregiudizio salvo quello di non limitare la libertà altrui.

***

I lettori hanno certamente capito che non sto divagando rispetto al tema che mi sono proposto di svolgere. Sto cercando di aprire un varco che ci porti dal groviglio dei pensieri deboli a un pensiero forte, ad una prospettiva che ci svincoli dai lacci del presente e slarghi al futuro la nostra visione.

Prodi - tanto per dire - è stato molto rimproverato per l'incauta immagine di un'Italia impazzita. Incauta e sbagliata nella forma per il semplice fatto, ricordato con efficace ironia da Bertolt Brecht, che non si può invitare il popolo a dimettersi. Ma la sostanza di ciò che vediamo in questi anni e in questi mesi qual è? Vediamo una moltitudine di individui schiacciati sul presente senza vigile memoria del passato e senza fiducia né speranza di futuro.

Quando si vive solo al presente nessuno è più in grado di percepire l'esistenza e il valore del prossimo, cessa il dialogo, prevalgono gli appetiti di una felicità che sia a portata di mano, ciascuno vuole tutto e subito, si rafforzano le corporazioni, si scatenano le mafie, lo Stato cessa di rappresentare la nazione perché la nazione rischia di scomparire.

Ho scritto due settimane fa un articolo che ha suscitato qualche eco, dal titolo Fratelli d'Italia lo specchio si è rotto. Lo specchio era quello nel quale si riflette l'immagine di una nazione e quindi un'idea di futuro e di destino. Se quello specchio si rompe i suoi frammenti riflettono i frammenti della nazione e diventa vero il paradosso brechtiano: il popolo si dimette da popolo, diventa plebe, moltitudine anonima e unidimensionale.

Non c'è né destra né sinistra ma soltanto poltiglia.

* * *

Mario Deaglio ha scritto un articolo lucido e dolente sulla Stampa del 14 novembre. Altri di analoga intonazione ne hanno scritto in quegli stessi giorni Barbara Spinelli sulla Stampa, Ilvo Diamanti e Giuseppe D'Avanzo su Repubblica. Li cito perché ormai sono diventati merce sempre più rara le descrizioni coraggiose e le diagnosi approfondite del degrado sociale.

Scrive Deaglio a proposito dello "tsunami" contro la legge Finanziaria: "Se la pazzia è fuga dalla realtà e rifugio nell'immaginario non c'è dubbio che l'Italia abbia cominciato ad avviarsi lungo questa china pericolosa. Tale fuga è diventata sempre più evidente settimana dopo settimana. Si è offuscato il quadro generale a causa del martellamento sui dettagli di questo o quel provvedimento; si è finito per attribuire la stessa importanza alle decine di miliardi di provvedimenti che costituiscono le linee essenziali della manovra e alle misure da poche decine di milioni che riguardano effetti particolari. Agli occhi della gente la manovra si è così frammentata in tanti irritanti coriandoli dei quali si è perso il significato e il senso complessivo. La conseguenza è stata il rifiuto isterico e la resistenza gridata contro ogni tipo di tagli della spesa e la tendenza all'autoassoluzione per ogni comportamento trasgressivo".

Questo è esattamente ciò che sta accadendo. È penoso vedere cortei di insegnanti e di precari in sciopero contro il governo, guidati dai Cobas, da esponenti politici della sinistra massimalista e addirittura dalla Cgil, delusi e vocianti perché i problemi che li affliggono non sono stati risolti subito e le loro richieste solo parzialmente accolte. È stupefacente che il segretario del maggior sindacato confederale guidi la protesta dei ricercatori universitari perché i finanziamenti alla ricerca non sono così ampi come si sarebbe desiderato. Infine è infantile pensare che un tema complesso come quello del lavoro precario, della mobilità e flessibilità, possa esser trasformato con un colpo di bacchetta magica in un ritorno ai tempi del posto fisso per pochi e della disoccupazione per molti.

Accompagnare con coraggio ed equità la trasformazione dal welfare fordista al welfare dell'economia globale è la sfida che attende le organizzazioni sindacali e la sinistra, ma non potrà neppure essere affrontata se ogni pezzetto di società continuerà a rimirarsi l'ombelico in un pezzetto di specchio.

Io non credo che accarezzare e addirittura eccitare l'egoismo delle corporazioni, subire senza reagire l'assalto delle lobby, cedere alla deriva qualunquista, assecondare appetiti e ricatti politici, sia il modo giusto per passare la nottata in attesa che spunti l'alba. Non credo che la soluzione sia la "terra di mezzo" dove tutto si confonde e sfuma.

Credo invece che questo sia il momento di dar battaglia e di fare appello all'impegno civile. Non m'importa del governo ma mi importa del paese e delle virtù che esso è ancora in grado di esprimere. Non si è dimesso il popolo ma si è dimessa la classe dirigente. Questo è il funesto incantesimo dal quale bisogna uscire guardando in faccia la realtà e affrontandola con coraggiosa decisione.

Repubblica 21 novembre 2006
"A Milano più omicidi che a Napoli"


ROMA - "A Milano ci sono più omicidi che a Napoli". Parole di Clemente Mastella pronunciate oggi alla riunione congiunta delle Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali sugli effetti dell'indulto che si è tenuta al Senato. Il ministro ha mostrato quattro tabelle elaborate dalla Direzione generale di statistica del suo dicastero sulla base dei dati forniti dalle procure di Milano, Roma, Napoli e Palermo. Tra agosto e ottobre 2006 a Milano ci sono stati 27 omicidi, contro i 23 di Napoli, e così anche gli omicidi commessi tra gennaio e novembre di quest'anno sono superiori nel capoluogo lombardo (103) rispetto a quello campano (75). "Così è, come dice Pirandello, se vi pare...", ha aggiunto Mastella dopo i brusii che si erano levati in aula.

Rispetto a questi dati, sul sito internet della prefettura di Milano ne appaiono altri, che riferiscono di 21 omicidi nei primi sei mesi del 2006. Una discrepanza, questa, che alcuni spiegano con il fatto che i dati del ministero si riferiscono al circondario, mentre quelle delle prefetture ai territori delle province. Ma uno 'scarto' così grande tra Milano e Napoli in sfavore della città partenopea colpita dall'emergenza criminalità forse è spiegabile, secondo altri, con la possibilità che per la prima siano stati presi in considerazione i dati del distretto della Corte di Appello (che comprende un territorio più esteso), mentre per la seconda i dati del circondario del Tribunale di Napoli.

Sul tema più generale del provvedimento di clemenza Mastella ha chiosato dicendo che "il governo non deve chiedere scusa" per l'indulto perchè è un'importante e coraggiosa legge votata da 705 parlamentari di maggioranza e opposizione". Il Guardasigilli arriva con quattro pagine di dati per dimostrare che dopo l'indulto i reati non sono aumentati ma anzi diminuiti del 2,7%; che le persone uscite dal carcere sono 17.455 (e non 29mila come è stato erroneamente detto dal sottosegretario Daniela Melchiorre alla quale ha deciso di togliere le deleghe) di cui solo il 7% tornati dietro le sbarre; che alcune leggi della Cdl come 'Bossi-Fini' ed 'ex Cirielli' sono la causa del "collasso" del sistema penitenziario arrivato, lo scorso luglio, a 60.710 detenuti contro una capienza massima di 43.233 posti.

Poi Mastella passa la parola ad Amato. E il ministro dell'Interno premette che certe norme che consentono a chi commette un reato di tornare rapidamente in libertà sono "demotivanti per le forze dell'ordine" e scoraggiano i cittadini perché "chi denuncia può trovarsi il denunciato che bussa alla porta di casa". Ma - sottolinea Amato - più che la misura di clemenza approvata lo scorso luglio dal Parlamento c'è da preoccuparsi dell'"indulto permanente" e cioè di "talune caratteristiche della disciplina del processo e talune norme del codice penale, che permettono in realtà di far tornare rapidamente in libertà autori di reati che sono tra quelli che alzano molto le statistiche della criminalità e creano molto disagio".

Per questo, senza cambiare le norme, il ministro dell'Interno auspica maggiore severità contro i reati commessi con l'uso delle armi o comunque, con violenza contro le persone. "Ho chiesto ai miei uffici - informa - come rafforzare le norme per la carcerazione preventiva, la recidiva, la sospensione condizionale della pena per delitti, a volte minori, che vengono commessi con l'uso delle armi o con violenza. Questo porta al diffondersi di una criminalità spregiudicata che può condurre a delitti più gravi". Dunque, prosegue il ministro, "se vogliamo fare qualcosa di più che recriminare o commentare numeri, ci dobbiamo preoccupare di garantire a noi stessi e ai nostri cittadini che commettere crimini ha delle conseguenze".

Ma continua il battibecco maggioranza-opposizione sui dati forniti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap). La previsione di 15.470 persone fatta dal Dap il 29 luglio su quanti sarebbero usciti si riferiva - precisa Mastella - a coloro che avrebbero lascito il carcere "immediatamente dopo l'approvazione" e "in maniera diretta", vale a dire per effetto esclusivo dell'applicazione dell'indulto. Dunque, dalla stima erano esclusi coloro che erano in custodia cautelare (ad oggi 7.178 persone). Ebbene - ragiona Mastella - le stime sono state rispettate se è vero che in agosto gli scarcerati sono stati 16.568.

Repubblica 24.11.06
Quel "demone" messo alla sbarra
nell'Italia spaventata dalla libertà


"Chiedo una pena esemplare - concluse in crescendo il pm Antonio Lojacono - affinché nessun "professorucolo" domani possa venire a togliere la libertà a un innocente". Dalla gabbia degli imputati, Aldo Braibanti, l'unico imputato ritenuto colpevole del reato di plagio nella storia giudiziaria italiana, si limitò a deglutire alzando il capo.

Così le cronache. Era il luglio del 1968 ed esemplare in effetti arrivò la legnata: 9 anni di carcere, poco meno di quanti ne toccarono ai responsabili del disastro del Vajont con i suoi 2.000 morti. Oggi il "professorucolo", che in quella specie di selvaggia ordalia fu pure definito "pervertitore di spiriti" e "reincarnazione del demonio", ha 85 anni.

Vive tra libri, ricordi e formicai di gesso in un povero appartamento semi-diroccato; da tempo gli è morto il corvo che girava libero per casa e giustamente non ha alcun piacere a restare impiccato, o crocifisso, a quella triste vicenda così remota nel tempo.

Il vitalizio della legge Bacchelli, per il quale si sono battuti parecchi parlamentari (fra i primi Elettra Deiana e Franco Grillini), gli arriva dunque come un assai tardivo risarcimento. Ma nella sua vita, lunga e turbinosa, Braibanti se lo merita anche per tutto il resto: i collage, i quadri, le ceramiche (che piacquero a Giò Ponti, ma che non ha mai voluto vendere), gli studi sul senso d'orientamento delle formiche, oltre alle regie teatrali, radiofoniche e tv. E alle poesie.

Tra queste se ne trova on line una abbastanza recente, "Tempi moderni", che in qualche modo congiunge l'Italia di oggi, smaniosa di "valori", con quell'Italia che l'altro ieri cercò di annichilirlo. E dunque: "Tempi moderni/ tempi della sconfinata arroganza dell'uomo/ tempi di valori vecchi e nuovi per vecchi e nuovi altari sacrificali/ tempi di crociate velenose travestite da missioni invasive...".

Braibanti è stato certamente un eclettico e un irregolare. Ma metterlo sotto accusa e poi condannarlo a nove anni in quanto - come da sentenza - "professava monismo e anarchismo, combatteva la famiglia, la società e lo Stato, disprezzava la scuola e la morale, ripudiava il conformismo dei più perché i più sono persone fisicamente, psichicamente e sessualmente sane", ecco, la storia di chi volle fare di un intellettuale anarcoide e introverso un subdolo "ladro di anime" rappresenta una lezione che vale la pena di ripassare.

Figlio di un medico di Fiorenzuola d'Arda (e fratello di Lorenzo, l'ostetrico e ginecologo che portò in Italia il metodo del parto dolce di Leboyer), in un primo momento azionista, poi comunista, partigiano torturato dai nazi-fascisti a "Villa Triste", dirigente del Fronte della Gioventù con Berlinguer, poi uscito dal Pci, fondatore dei "Quaderni piacentini", alla fine degli anni cinquanta Braibanti mollò ogni consuetudine, borghese o proletaria che fosse, per fare l'artista puro, girando per l'Italia senza certezze né cattedre né stipendio, mosso solo da una vocazione che era anche un sogno di libertà e creatività.

Omosessuale, si legò a due giovani, però maggiorenni, uno dei quali, Giovanni Sanfratello, proveniva da una famiglia molto cattolica. Scandalo nello scandalo: dopo diverse peripezie il padre e il fratello vennero a riprendersi Giovanni per ricoverarlo in una clinica psichiatrica. Ma invece di placarsi, nel 1964 la vicenda divampò davanti alla legge perché i Sanfratello, convinti che fosse stata annientata la volontà del loro congiunto, denunciarono quell'eccentrico personaggio amante delle formiche. Per plagio: fattispecie giuridica introdotta nel periodo fascista e già allora dai contorni piuttosto nebulosi.

Nei mesi precedenti, per la verità, gli avvocati di casa Savoia avevano invano cercato di appioppare il famigerato articolo 603, reato che nel codice penale viene subito dopo il commercio di schiavi, al dotatissimo fusto della dolce vita, l'attore Maurizio Arena, per via della tempestosa love story con la figlia di Umberto, Maria Beatrice detta Titti, con grande spasso del pubblico.

Ma nel caso di Braibanti il processo non fu spassoso per niente. Metterlo alla sbarra, "respingerlo agli Inferi" come invitò a fare un illustre avvocato della parte civile quale era Alfredo De Marsico, fu probabilmente il malaccorto tentativo di regolare i conti con le novità che già premevano sotto il manto sdrucito del perbenismo pre-sessantotto: la "diversità" anche sessuale, il fascino della psicanalisi, le suggestioni beat, hippy e orientaleggianti, le iniziali pratiche anti-autoritarie.

Ma a volte, si sa, la storia non lascia piegare a comando dalle logiche crudeli del capro espiatorio. Così contro la persecuzione di Braibanti, che avendo pure una folta barba sembrava la vittima perfetta, scattò una delle prime mobilitazioni di intellettuali. Ci furono appelli, firme pesanti, Guido Calogero, Alberto Moravia, Elsa Morante. Leopoldo Piccardi indossò di nuovo la toga. Ma a tirare fuori Braibanti dalla galera fu più di ogni altro Marco Pannella e un piccolo drappello di radicali. "Braibanti - scrisse - è il nome dato ad autobiografie più o meno interiori che non osano confessarsi".

Dopo l'appello, il "professorucolo" uscì da Regina Coeli il 5 dicembre del 1969. In una mano la borsa con i suoi effetti personali, nell'altra un formicaio di sua invenzione. Disse solo: "Voglio togliermi subito di dosso questi panni che puzzano di galera". Un demone smagrito e senza barba, lo raffigurò il formidabile cronista di quel processo, Gigi Ghirotti. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che lo Stato, un giorno, avrebbe riconosciuto i suoi torti.

Repubblica 24.11.06
Vitalizio a Braibanti, l'intellettuale del plagio
Un caso che fece epoca nell'Italia degli anni '60


ROMA - "Sono contento, ma parlerò soltanto quando avrò la comunicazione ufficiale". Aldo Braibanti ha commentato così al telefono con un amico la notizia che il governo italiano ha deciso di attribuirgli un vitalizio previsto dalla legge Bacchelli. Braibanti, scrittore, filosofo, artista poliedrico, sceneggiatore, regista, curatore di trasmissioni radio, studioso della virtù delle formiche, alla fine degli Anni 60 fu al centro di un famoso caso giudiziario che alla fine lo vide condannare per l'accusa di plagio nei confronti di un ragazzo.

Braibanti, nato il 23 settembre del nel 1922 a Fiorenzuola d'Adda, dichiaratamente omosessuale, aveva partecipato alla Resistenza ed era stato arrestato e torturato dai nazifascisti. Iscritto al Pci alla fine degli Anni 40 aveva abbandonato tutte le cariche di partito. Venne arrestato il 5 dicembre 1967 perché il padre di un ragazzo che era andato a vivere con lui lo denunciò per plagio.

Il 14 luglio 1968 la Corte di Assise di Roma condannò a nove anni di carcere. Pene ridotte successivamente. Nel giugno 1981 l'articolo del Codice penale sul plagio venne però abrogato dalla Consulta in quanto non conforme alla Carta costituzionale. E nel marzo 1982 la Corte d'appello ordinò che della condanna non si facesse più menzione nel suo certificato penale.

Ma dalla metà degli anni '80 il professore vive in estreme ristrettezze. Per questo nell'87 un gruppo di artisti e uomini di cultura firmarono un appello in suo favore. Un appello rilanciato da Grillini e dalla Melandri nel 2003. La decisione del governo è "una vittoria perché rappresenta una grande risarcimento storico.

Quel processo non era per plagio ma contro l'omosessualità", hanno commentato ieri sera lo stesso Grillini e il coordinatore della segreteria diessina Migliavacca. Per l'Arcigay "è una notizia che apre il cuore, bel segnale di laicità".

Il governo ha deciso di assegnare il vitalizio anche al musicista Guido Turco, a Dina Forti, terzomondista, e alla cantante lirica Navia Maria Goltara.

il Riformista 5.12.06
BILANCI. COSA CAMBIA CON LE APERTURE DEL PAPA  DI AVERROÉ
Dopo il viaggio di Ratzinger in Turchia
cristiani, islamici, ebrei tutti “fratelli in Dio”



I discorsi del papa in Turchia, ma soprattutto i suoi atti, i suoi gesti e le sue prudenze hanno un valore anche teologico di gran lunga superiore al fatto mediatico. Sembrava che il viaggio dovesse avere il principale e quasi esclusivo valore, oltre che di viaggio pastorale presso la piccolissima comunità cattolico latina turca, di viaggio ecumenico per rinverdire il dialogo con la Chiesa ortodossa. La visita al patriarca di Costantinopoli è stata di pura cortesia perché la Santa Sede sa bene che la via dell'ecumenismo passa per Mosca e non per Costantinopoli. Da segnalare il totale prudente silenzio sul genocidio degli armeni cristiani e come sia stata relegata in cronaca la visita al patriarcato degli armeni per non toccare la sensibilità dei turchi su questa delicata questione.
Ma ben diverso è apparso invece il reale fine e ben diverso è stato l'effetto del viaggio. Esso segna una tappa, anche teologica, fondamentale nei rapporti tra Chiesa cattolica e islam, fede cristiana e fede musulmana. Perché teologica? Perché il papa ha formulato solennemente una proposizione innovativa, con una dichiarazione che sembra essere espressione se certamente non del magistero infallibile del papa e della Chiesa, certamente del suo insegnamento ordinario, come previsto dalla lettera Ad tuendam fidem, con la quale i confini tra insegnamento straordinario e infallibile e insegnamento ordinario, ai fini dell'obbligo dall'adesione esteriore e interiore a esso sono ormai sul piano pratico e disciplinare, molto evanescenti. Il papa ha affermato che il Dio dei cristiani, il Dio dell'Antico e del Nuovo Testamento, lo Jahvè degli ebrei, e Allah, il Dio dell'islam è lo stesso Dio, definendo così in senso positivo una delicata questione oggetto di dispute teologiche sin dai tempi di San Tommaso d'Aquino, e risolta negativamente da molti teologi, come dimostrato dalla pubblicazione di un significato editoriale non firmato, e cioè visto e approvato dalla Santa Sede, di una importantissima e autorevolissima rivista cattolica. Il dialogo con l'islam viene quindi spostato dal dialogo tra culture, come sembrava essere l'indirizzo dei primi mesi del pontificato, al dialogo tra religioni, come è stato sempre considerato il dialogo con l'ebraismo. E il papa, checché poi i portavoce dicano, ha pregato in una moschea insieme al Gran Muftì di Istanbul.
Occorrerà ora vedere se sul piano teologico vi sarà un diverso approccio alla figura di Maometto nella economia del piano della salvezza e un diverso approccio al valore religioso del Corano. Questo solenne riconoscimento dell'unicità del Dio dei cristiani e degli islamici, unitamente all'auspicio dell'ingresso della Turchia nell'Unione europea, segna, da parte della Santa Sede, l'abbandono dell'idea dell'Europa come cittadella cristiana e della richiesta che nella sua futura Costituzione siano richiamate le famose «radici cristiane». E le forze politiche europee di ispirazione cristiana dovranno di necessità seguire e quindi abbandonare questa richiesta. Tutto ciò, anche nella realistica prospettiva di una crescente islamizzazione dell'Europa, sembra preludere a un “patto” tra Chiesa cattolica e islam contro la secolarizzazione dell'Europa e del mondo moderno, e a tutela di comuni valori naturali e rivelati: non si dimentichi che anche per l'islam il Vecchio e il Nuovo Testamento costituiscono libri rivelati e cioè ispirati da Dio, e che la Chiesa non potrà non cercare una diversa valutazione del Corano.
Sul piano politico tutto ciò porterà naturalmente a una conferma della tradizionale politica filoaraba e di diffidenza verso lo Stato d'Israele propria da sempre della Santa Sede, salvo forse il pontificato di Paolo VI: i motivi di opportunità di siffatta politica, e cioè la consonanza con i vescovi arabi cattolici e la necessità di difendere gli arabi cristiani, cattolici o non, smarriti in un mare di islamismo. Da ciò deriverà, anche a causa della pratica identificazione degli ebrei della diaspora con la causa dello Stato d'Israele, un posizionamento degli ebrei nelle relazioni interreligiose non più quali “fratelli maggiori”, ma quali “fratelli nell'Unico Dio” insieme agli islamici. Di questa evoluzione dovrà tenere conto la Chiesa a evitare che rinasca o si rafforzi l'antico spirito antisemita dei cattolici specie in Italia, in Francia, in Polonia e in Austria, non in Germania certo ereditato da un'antica posizione della Chiesa superata solo dal Concilio Vaticano II e dalla testimonianza e predicazione di papa Paolo VI e di papa Giovanni Paolo II. Certo per questo. Certo, se per questa evoluzione si dovesse pagare il prezzo di un rafforzamento della diffidenza della Santa Sede verso lo Stato d'Israele e di una accentuazione della sua politica filoaraba, si tratterebbe di un prezzo pagabile per la Chiesa; diverso sarebbe se stravolgendo l'insegnamento del Concilio Vaticano II, di papa Paolo VI e di papa Giovanni Paolo II si pagasse il prezzo di una reviviscenza del tradizionale antisemitismo cattolico. Ma forse una nuova era è iniziata per la vita della Chiesa, dell'Europa e della storia dell'umanità.

La Stampa 4.12.06
INTERVISTA A MICHEL ONFRAY
"La filosofia antica? Un grande complotto"
Il filosofo francese Michel Onfray ha fatto molto discutere un anno fa con il suo Trattato di ateologia. Ora pubblica, sempre da Fazi, Le saggezze antiche
di Mario Baudino


Un libro-denuncia dello studioso francese:
"I presocratici massacrati dal potere cristiano"

La storia della filosofia è una sorta di arte della guerra. Anzi, una guerra vera e propria per imporre tesi, per sostanziare una serie di «menzogne senza autore». È venuto il momento di scrivere una «controstoria», annuncia Michel Onfray, il filosofo francese diventato l’alfiere dell’ateismo dopo l’enorme successo del suo Trattato di ateologia. E comincia a dispiegare il suo esercito, pubblicandone i primi volumi. Due sono giù usciti in Francia; quello d’esordio, titolo Le saggezze antiche, è da poco in libreria edito da Fazi. Gli eroi, qui, non sono Platone o Aristotele ma Democrito, Diogene, Aristippo, Epicuro e tanti altri che nelle scuole di ogni ordine e grado quando va bene penetrano a fatica. Come fantasmi.

Riassumiamo, professore. La filosofia antica è stata falsificata dalla tradizione occidentale, idealistica e cristiana?
«Non direi falsificata, quanto piuttosto scritta con una sorta di pregiudizio: e cioè che non c’è vera, sana, pura filosofia al di fuori dell’idealismo, dello spiritualismo, della cristianità. Tutto ciò che è compatibile con la visione cristiana del mondo, dalle idee platoniche al dubbio sistematico che però risparmia la religione cattolica in Cartesio, ebbene, è consacrato come filosofia degna di questo nome. Al contrario non si ritiene di doversi troppo attardare con chi afferma che il mondo è composto di sola materia, quindi di atomi, come fanno Leucippo e Democrito, o con chi difende la verità delle sensazioni - Epicuro e i suoi seguaci - o ancora con chi, come i sofisti, insegna il relativismo, e infine con tutti coloro che celebrano il piacere, il desiderio, i corpi, le passioni - Aristippo e i cirenaici - o rivendicano la libertà totale - Diogene e i cinici».

Pensa a una deliberata rimozione?
«Il canone filosofico dominante ha stabilito che un certo pensiero era “maggiore”, e un altro “minore”. Così venticinque secoli di cosiddetta filosofia minore sono stati scartati, dimenticati, ignorati, distrutti, bloccati. Il cantiere che ho aperto con questa mia opera, di cui prevedo otto tomi, vuole fare la storia di un continente perduto».

Cerca un messaggio dimenticato?
«Sì: la celebrazione della vita, del corpo, della carne, dei piaceri, dei desideri, delle passioni, delle donne, del vino, dell’amicizia, della buona tavola, della filosofia insomma. Tutto ciò che viene esecrato dal cristianesimo»

Che lei indica come l’ovvio colpevole.
«Per essere precisi il colpevole è il potere cristiano, che, con Costantino, a partire dal quarto secolo della nostra era, ha distrutto la filosofia antica ritenuta incompatibile col cristianesimo, perseguitato i filosofi, vietato l’insegnamento, chiuse le scuole, bruciato le biblioteche, distrutto i manoscritti, falsificato le copie. Un massacro, continuato da Giustiniano e Teodosio».

Con successo? La sua stessa tesi dimostrerebbe che quel messaggio non è del tutto sparito.
«È scomparso l’essenziale: dei trecento libri di Epicuro, ad esempio, non ci restano che tre lettere, meno di trenta pagine, e qualche massima salvata dalla distruzione. E che cosa resta delle opere di Diogene? Niente. Di Aristippo? Niente. Di Leucippo? Niente. Certi storici della filosofia arrivano ad affermare che costoro non hanno scritto nulla, confondendo così un’opera distrutta con l’assenza di opere».

Il professor Giovanni Reale ha avviato un imponente lavoro sulla filosofia antica, sostenendo una tesi simile e contraria alla sua: e cioè che la cultura comunista avrebbe ostacolato, da noi, una corretta lettura dei presocratici. Curiosa coincidenza, non le pare?
«È innegabile che i marxisti abbiano recuperato i materialisti e gli atomisti antichi, come Leucippo, Democrito, Epicuro: ma le modalità con cui l’hanno fatto sono dannose quanto l’approccio idealista e cristiano. Da parte mia, mi sento di condannare in egual misura gli uni e gli altri».