domenica 3 dicembre 2006

l'Unità 3.12.06
STORIA Al convegno del Gramsci sull’anno indimenticabile, a confronto l’impostazione «realistica» con quella «controfattuale». Ovvero: era fatale quel rilancio della guerra fredda o potevano passare altre scelte?
Il ’56 del Pci: un passo avanti e uno indietro dentro Yalta
di Bruno Gravagnuolo


Convegno su due piani quello del Gramsci a Roma ieri e ieri l’altro, alla sala Igea dell’Enciclopedia Italiana: Il sistema della guerra fredda e il ’56. Intersecati e distinti, ma con prevalenza della cornice internazionale. Infatti fin dal titolo l’invito era a riflettere sul 1956 come «anno globale». Di riassestamento delle relazioni mondiali. Al cui interno si spiegano anche Togliatti e le sue scelte. Con tentativo di spostamento in avanti dell’identità del Pci. Verso approdi che reggono per venti anni, sino all’Eurocomunismo di Berlinguer. Tre le domande che aleggiavano. Che mappa del mondo ci consegna il 1956? Da dove venne il terremoto? E potevano andare diversamente le cose, senza carri armati in Ungheria, con un diverso equilibrio di potenze e magari con un «altro» Pci?
A rispondere, due dei maggiori storici della guerra fredda: l’inglese Odd Arne Westad, direttore del Journal of Cold War studies, e l’americano Mark Kramer, direttore di Cold War Studies. E per la parte italiana, a parte Fabio Bettanin alle prese con l’Europa Orientale, c’erano Carlo Spagnolo, Roberto Gualtieri, oltre a Silvio Pons, direttore del Gramsci e curatore con Robert Service del recente Dizionario del Comunismo Einaudi. Tra le altre presenze, Pal Germuska dall’Ungheria, Stefano Bottoni, Marco Galeazzi, Mario Del Pero e il francese Marc Lazar. Alla fine, con il messaggio di apprezzamento di Fassino, c’è stato anche il fuori programma di Claudio Petruccioli, presidente della Rai, già dirigente del Pci e segretario Fgci, entrato nel Pci qualche anno dopo il 1956. Che ha raccontato la «sua» Ungheria: «Ero a manifestare contro i carri a 15 anni, poi mi ritrovai nel Pci quando l’Urss non era più un’ossessione o un problema, perché volevo stare a sinistra mentre il Psi si avviava al governo con la Dc». E ancora: «Ponomariov chiese a me e Occhetto: “perché non mandate mai i vostri quadri alle nostre scuole di partito?” E Occhetto replicò: “perché tornano con la testa confusa”».
Bene, ma quali le risposte del convegno ai quesiti generali? Risposte «real-politiker», sia negli stranieri che negli italiani. E cioè, il 1956 viene dalla «destalinizzazione», ineludibile per l’Urss che gioca da attore globale in un mondo sempre più largo e interdipendente. E che deve respirare, dopo Stalin e dopo la liberazione di milioni di «testimoni» internati nei campi. Di qui il XX congresso che, dice Bettanin, ebbe «esiti imprevedibili per la stessa leadership sovietica», attraversata dalla lotta di potere. Accenti consimili in Westad e Kramer. La dilatazione del ruolo sovietico nell’era post staliniana genera «il fantasma della disgregazione». E, sebbene imprevedibile nei suoi esiti, la stretta fu fatale, per conservare il sistema. In parallelo gli Usa ratificano la «seconda fase della guerra fredda», subentrando agli anglo-francesi in Medioriente. I non-allineati? Non pesano granché. Quanto al Pci, subisce la denuncia dei crimini di Stalin e abbozza risposte: policentrismo, vie nazionali, critica alle degenerazioni oltre il culto della personalità (Togliatti). Ma poi - dice Spagnolo - vince l’angoscia del «nemico». Con la Polonia e ancor più con l’Ungheria. Vince l’Urss, che non accetta policentrismo e parità di relazioni tra i Pc, ma al più «relazioni bilaterali» dentro un «campo» a guida sovietica. Così il Pci rifluisce, anche se innova nella sua cultura politica e nel suo autonomismo. La prova? Lo scontro Pci-Pcf, col Pci che vuol condannare la prima invasione a Budapest (quella del 23-10) e i francesi che tengono duro contro tutta la «controrivoluzione» magiara. Un’altra linea Pci sul 56? Impossibile per Spagnolo, in quell’Italia anticomunista di allora e con quel Pci. E per Gualtieri addirittura il 1956 non fu vero spartiacque, né «occasione mancata». Il Pci era quello, comunque comunista, e andò persino avanti. Mentre anche la Dc si acconciava al nuovo bipolarismo. Giudizio fatalista, ci pare, chiuso a ogni «controfattualità» (e lo notavano anche Pons e Lazar). Perché invece nel Pci c’erano tutte le premesse per una linea magari «titoista», tipo Praga 1968. Mentre Togliatti caldeggiò i carri armati. Se non lo avesse fatto la storia italiana, almeno quella, sarebbe stata senz’altro diversa.


il manifesto 3.12.06
Ciascuno di noi condivide con qualsiasi altro essere umano un antenato comune vissuto circa tremila anni fa. Siamo davvero tutti cugini...
Ognuno di noi è una razza a sé
di Telmo Piovani


Quel che emerge prepotentemente dai nuovi dati è che la diversità umana si gioca in larga misura fra individui e in piccola parte fra popolazioni. Il che toglie altra acqua al mulino di chi sostiene le differenze genetiche a base razziale Pochi giorni fa su «Nature» una scoperta relativa alla struttura generale del genoma umano e alla complessità della sua variazione. Qualche dubbio, però, sulla differenza fra le etnie esaminate, visto che il campi

Il vizio di suddividere la specie umana in razze usando la biologia, e da qualche anno perlustrando i recessi molecolari del genoma, resiste strenuamente nonostante le ripetute sconfitte collezionate sul piano sperimentale. Il tenace attaccamento a un concetto vuoto - che è costato ad alcuni genetisti l'accusa di aver rimosso le razze umane soltanto per motivi politically correct - trascina la scienza nell'arena del dibattito politico e alimenta una storia piena di colpi di scena.
È di pochi giorni fa la notizia, apparsa sulla rivista Nature, di nuove scoperte nel campo degli studi sulla variazione genetica umana riscontrata fra individui appartenenti a popolazioni diverse del globo. Questa volta i dati comparativi non riguardano le differenze fra geni presi a caso, ma le differenze fra il numero di copie di sequenze di Dna presenti nei genomi di individui diversi. Gli scopritori sottolineano con una certa enfasi di aver trovato una «marcata variazione nel numero di copie fra le popolazioni umane». E il dibattito si riapre. Dobbiamo intendere questa importante scoperta come un segnale di speranza per le tanto vituperate, e tanto attraenti, «razze umane»? L'articolo di Nature, dal titolo «Global variation in copy number in the human genome», è firmato da quarantatre ricercatori appartenenti a tredici istituzioni scientifiche sparse fra Nordamerica, Europa e Giappone. La prima mappa globale del genoma umano basata sulla variazione nel numero di copie di sequenze è stata realizzata esaminando il corredo genetico di duecentosettanta individui provenienti da popolazioni europee, africane e asiatiche. Il dato più impressionante è che circa il dodici per cento del genoma è costituito da regioni di Dna che presentano variazioni nel numero di copie di sequenze.
Paradossi dell'evoluzione
Fra le molteplici mutazioni che possono interessare il genoma delle specie ve ne sono alcune che non modificano in singoli punti le sequenze del Dna, bensì ne alterano la lunghezza. Delezioni, inserzioni, duplicazioni e altri meccanismi possono cioè aggiungere o togliere materiale genetico da una certa regione del genoma. Si tratta di «polimorfismi» nel numero di copie dei segmenti di Dna, che influenzano poi l'espressione dei geni e la fisiologia di un organismo.
Queste mutazioni spesso sono pericolose per l'individuo, soprattutto le delezioni, perché alterano le sequenze di basi dei geni, ne pregiudicano la regolazione e causano malattie anche molto gravi. Ma il paradosso dell'evoluzione è che le mutazioni sono anche la materia prima del cambiamento, perché in presenza di una certa pressione selettiva da parte dell'ambiente una minoranza di esse potrebbe rivelarsi utile alla sopravvivenza e favorire i suoi portatori. Non solo, le duplicazioni di geni producono quella ridondanza di sequenze a cui la selezione naturale può attingere per insegnare nuovi trucchi a vecchi geni.
Un primo significato della scoperta, forse il più importante, riguarda dunque la struttura generale del genoma umano e la complessità della sua variazione. Gli scienziati hanno individuato millequattrocentoquarantasette regioni discrete di Dna con variazioni di lunghezza. Queste regioni stanno preferibilmente al di fuori dei geni e delle zone più conservatrici del genoma, che sono connesse a funzioni vitali per le quali una mutazione di lunghezza sarebbe altamente deleteria, ma in quel dodici per cento di genoma variabile per lunghezza sono inclusi comunque centinaia di geni e di altri elementi funzionali. I dati suggeriscono una conclusione sorprendente: forse il grosso della diversità genetica umana non è dovuto a mutazioni puntiformi di singole basi, ma alla presenza o assenza di più lunghi segmenti di genoma.
Gli autori dell'articolo sono riusciti a identificare quali tipi di funzione assolvono i geni che sono interessati dalla presenza di queste regioni mutevoli. Hanno così scoperto che i geni più propensi a duplicarsi sono quelli che si occupano dell'adesione cellulare, dell'olfatto e dei processi neurofisiologici. Al contrario, i geni meno esposti a duplicazione sono quelli coinvolti nelle comunicazioni fra cellule durante lo sviluppo e nella divisione cellulare: è la prova che esiste una forte selezione negativa contro le variazioni di geni che modulano i processi di sviluppo e che controllano la proliferazione cellulare. Una seconda implicazione della scoperta riguarda quindi il ruolo di queste regioni variabili nell'insorgenza di malattie.
Gli autori mostrano come le variazioni di lunghezza nelle sequenze geniche potrebbero essere coinvolte non soltanto in alcune malattie ereditarie rare, come si è pensato finora, ma in una gamma più ampia di patologie che coinvolgono più geni e interazioni complesse fra geni e ambiente. Si tratta insomma di una forma di variazione genetica cruciale, probabilmente sottostimata finora, distribuita lungo tutto il genoma e con vaste influenze sulle caratteristiche degli individui.
Qualche dubbio sulla portata di questa mappa di variazioni umane emerge invece quando passiamo alle differenze fra le etnie esaminate. Il campione utilizzato è piuttosto ristretto, solo quattro popolazioni, selezionate per massimizzare le differenze fra continenti: le linee cellulari provengono da novanta Yoruba della Nigeria, da novanta mormoni di origine europea dello Utah, da quarantacinque giapponesi di Tokyo e da quarantacinque cinesi Han di Pechino. Il dato riguardante la variazione genetica umana fra popolazioni, letta in termini di numero di copie di sequenze di Dna, è dunque molto interlocutorio. Dalle comparazioni descritte nell'articolo emerge che circa l'undici per cento della variazione nel numero di copie si presenta fra popolazioni diverse, mentre il rimanente ottantanove per cento dipende da variazioni individuali all'interno di ciascuna popolazione.
Come dobbiamo interpretare questo dato? Non significa ovviamente che fra popoli diversi vi sia una differenza genetica pari all'unidici per cento dell'intero genoma. Adesso sappiamo, piuttosto, che fra i genomi di due individui qualsiasi possono esserci milioni di basi di differenza in più o in meno. Finora la varianza genetica fra popolazioni era stata calcolata comparando i geni e misurando le differenze nelle sequenze. Qui invece si misura non tanto la variabilità nella composizione delle sequenze, quanto la variabilità nella loro lunghezza. In sostanza, è possibile che fra me e un mio vicino di casa le sequenze di basi siano molto simili, ma che il numero delle loro copie sia diverso. Che dire invece delle differenze fra un europeo e un aborigeno australiano?
Il genetista di Harvard Richard Lewontin scopriva già nel 1972 che ogni essere umano, qualsiasi sia la sua provenienza, deve l'ottantacinque per cento della sua variabilità genetica alle peculiarità individuali, mentre il restante quindici per cento soltanto è dovuto all'appartenenza a popolazioni diverse. Si trattava di un'evidenza schiacciante contro qualsiasi tentativo di fondare geneticamente una differenza «razziale» fra gli esseri umani.
L'intuizione di Lewontin fu poi suffragata da un'appassionante sequela di scoperte evoluzionistiche. La teoria dell'origine africana recente di Homo sapiens ha accumulato una tale mole di prove archeologiche e molecolari che possiamo ormai ritenerla assodata. L'intera umanità attuale è figlia di un piccolo manipolo di sapiens originatisi in Africa intorno a ducentomila anni fa e poi migrati, forse attraverso ondate successive a partire da centomila anni fa circa, in tutto il resto del mondo. Cade pertanto l'ipotesi cosiddetta «multiregionale», secondo cui i ceppi di popolamento sapiens nei diversi continenti sarebbero stati i discendenti della diaspora molto più antica di Homo erectus. In quel caso le «razze» umane avrebbero avuto una storia di un milione e mezzo di anni alle spalle e dunque qualche ragione (biologica) di esistere in quanto varietà geografiche antichissime o addirittura sotto-specie. Oggi sappiamo invece che la storia naturale dell'umanità non ha seguito un percorso così lineare. Fino a pochissimo tempo fa su questo pianeta esistevano almeno tre specie umane contemporaneamente, forse quattro. Quando sapiens esce dall'Africa incontra i discendenti di una diaspora più antica, cominciata 1,8 milioni di anni prima per opera di Homo ergaster. Fino a poco meno di trentamilamila anni fa condividono il Medio oriente e l'Europa con l'Uomo di Neanderthal. I sapiens condividono inoltre l'estremo oriente con gli erectus e incrociano sull'isola di Flores, in Indonesia, quello che molto probabilmente fu un discendente di piccole dimensioni di erectus, Homo floresiensis, annunciato con grande sorpresa nel 2004 ed estintosi a quanto pare soltanto diciottomila anni fa. Le comparazioni genetiche sempre più precise sviluppate dagli antropologi molecolari - come quelle di Svante Paabo sui neanderthal, l'ultima delle quali è terminata nel settembre 2006 - hanno contribuito a dimostrare la separazione di specie fra sapiens e neanderthal.
I confini di un pregiudizio
In questa storia le «razze» trovano poco spazio. Esse si formano all'interno di una specie quando processi di isolamento geografico prolungato, o indotto per selezione artificiale come nei cani e nei cavalli, sedimentano divergenze genetiche sensibili fra i gruppi. I dati molecolari attestano che le differenze fra i popoli della Terra risalgono soltanto a qualche decina di migliaia di anni. Non c'è stato il tempo materiale perché si formassero «razze». Inoltre, la specie umana da quando è nata ha mostrato una spiccata tendenza alla migrazione, all'ibridazione, in breve al rimescolamento dei geni. Se anche fosse iniziato un processo di differenziazione razziale, sarebbe stato ben presto vanificato da questo continuo flusso genico. Ecco perché la diversità genetica umana è distribuita in modo continuo su tutti i continenti - e in misura un po' maggiore nella nostra culla africana che conserva le variazioni più antiche - e non presenta «grappoli» di variazioni genetiche riconducibili con certezza a razze umane.
Essendo Homo sapiens una specie giovane, discendente da un gruppo africano iniziale ristretto, i sei miliardi e più di individui che la compongono oggi sono tutti strettamente imparentati fra loro. Secondo un calcolo di Douglas Rohde, ciascuno di noi condivide con qualsiasi altro essere umano un antenato comune vissuto circa tremila anni fa. Siamo davvero tutti cugini, più o meno alla lontana. Quindi in termini assoluti la variabilità genetica fra esseri umani è bassissima. Dentro questa ragnatela di fitte parentele e di scambi genetici, siamo però ognuno diverso dall'altro. «Tutti parenti, tutti differenti», come ha chiosato brillantemente l'antropologo André Langaney. Ed è proprio rincorrendo queste piccole differenze fra popolazioni che genetisti come Luca Cavalli Sforza sono riusciti negli anni a ripercorrere i grandi tracciati del popolamento umano sulla Terra, le migrazioni dei primi cacciatori raccoglitori, le espansioni degli agricoltori, i meticciati e le ibridazioni che annodano le radici di tutte le «civiltà» umane. Nel 2005 un gruppo coordinato da Cavalli Sforza ha proposto una correlazione sistematica fra la distanza geografica, calcolata tenendo conto delle barriere fisiche e dei corridoi di espansione, e la distanza genetica fra individui di regioni differenti.
In questo spicchio prezioso di diversità entrano allora in gioco le minuscole ma significative mutazioni differenti previste da Lewontin, che per l'ottantacinque per cento dobbiamo alla nostra storia individuale e per il quindici per cento alla nostra appartenenza a un particolare gruppo di nostri simili localizzato geograficamente o storicamente, e quindi soggetto a derive genetiche e a pressioni selettive particolari che generano le superficiali (e spesso ambigue) differenze antropometriche che illudono i nostri occhi: il colore della pelle e dei capelli, la fisionomia, la carnagione, la corporatura.
Ebbene, quelle percentuali erano ottenute comparando sequenze di geni o Dna non codificante. L'articolo di Nature aggiunge nuove informazioni, relative questa volta alle differenze nel numero di copie: il dato si attesta sull'ottantanove per cento per la variabilità all'interno delle popolazioni (cioè differenze che si riscontrano mediamente fra due individui della stessa popolazione) e sull'undici per cento per la variabilità fra popolazioni. Appartenere a due popolazioni diverse aumenta, mediamente, dell'undici per cento la probabilità di avere differenze genetiche di questo tipo. Quindi il dato è ancora più basso dei precedenti e toglie altra acqua al mulino dei sostenitori delle differenze genetiche a base razziale.
Parlare di «razze» ha dunque poco senso per la genetica umana, non per il nostro immaginario politically correct, ed è meglio attenersi al più corretto termine di «popolazione». La genetica medica può continuare benissimo a studiare le malattie tipiche di alcune «popolazioni» senza per questo riabilitare le razze. Il messaggio che emerge prepotentemente da queste scoperte è semmai quello della radicale unicità genetica del singolo individuo, da alcuni scienziati battezzata «individualità genomica». La diversità umana si gioca in larga misura fra individui e in piccola parte fra popolazioni.
Nonostante sia chiaro da decenni che si tratta di un costrutto sociale, il concetto infondato di razza biologica umana mantiene un fascino tutto particolare. Nel 2005 lo scienziato inglese Armand Marie Leroi ha riaperto la questione sul New York Times, sostenendo che le razze umane sono identificabili attraverso non meglio identificate mutazioni correlate: gli scienziati di sinistra le rifiutano soltanto per motivi politici. Sarà, ma nel frattempo i tentativi di resuscitare le razze per via medica non sembrano convincere.
L'attribuzione ai gruppi razziali di specifici complessi di geni, da cui dipenderebbero propensioni ben definite a sviluppare certe malattie, si scontra con l'evidenza empirica di una variabilità genetica umana distribuita in modo continuo nello spazio geografico e non per gruppi distinti. Che utilità può avere, a parte quella della propaganda commerciale, ricorrere a etichette razziali per progettare farmaci mirati su malattie la cui origine genetica è con molta più probabilità identificabile studiando le varianti individuali?
Questioni di evoluzione culturale
Come ha mostrato con efficacia e gradevolezza di stile il genetista Guido Barbujani nel suo ultimo libro, L'invenzione delle razze (Bompiani, 2006), né gli antropologi né i politici si sono mai messi d'accordo su una classificazione condivisa delle presunte razze umane: «a seconda del carattere considerato, variano il numero e la definizione delle razze». Da Linneo a Buffon, da Blumenbach a de Gobineau, fino a Carleton Coon negli anni sessanta del Novecento, ciascuno si è costruito la propria scala razziale su misura. Perfino le polizie di New York e di Londra, ancora oggi, per identificare i delinquenti usano tipologie razziali completamente diverse. Così i genetisti, se si mettono a osservare nel dettaglio quel quindici per cento o l'undici per cento di variazione fra continenti, notano che non vi è alcuna distribuzione coordinata di pacchetti di varianti fra le popolazioni: cambiando i tratti di Dna in esame cambiano completamente le mappe geografiche corrispondenti. Alla fine, come ha ironicamente concluso Pääbo, ogni individuo fa razza a sé.
Eppure alcuni scienziati americani tornano a sostenere tesi secondo cui «bisogna tener conto della razza per non buttar via soldi in farmaci inutili o in progetti scolastici destinati a fornire inutili vantaggi a chi è condannato dai propri geni a non farcela». Segno che le razze esistono, certo, ma come confini ben radicati nelle nostre teste e in quella sfera inventiva della natura umana che chiamiamo «evoluzione culturale» e che con i geni instaura un rapporto di parentela sì, ma non di obbedienza.

il manifesto 3.12.06
Il dio nascosto e il papa televisibile
di Roberta De Monticelli


Oscillando fra sociologia e filosofia «Babbo Natale, Gesù adulto» di Maurizio Ferraris si chiede «in cosa crede chi crede» oggi. Ma se il cristianesimo è «incredibile» oggi come ieri, perché lo sono le persone della Trinità, è lecito supporre che «credere» nel senso di avere opinioni e «credere» come atto di fede siano la stessa cosa?

Che strano libro, quest'ultimo di Maurizio Ferraris, Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede (Bompiani, pp. 151, euro 11). Non si capisce bene se sia serio o faceto, appassionato o scanzonato, teoretico o spensierato. È probabilmente tutto questo, e fa anche ridere - se si riesce a superare il disagio di ridere alle spalle di coloro che della vita hanno fatto dono senza condizioni, a imitazione dell'uomo il cui nome compare in questo titolo un po' trash e un po' natalizio. Ma forse anche loro ne riderebbero come ai film di Woody Allen, e cadrebbero dalle nuvole se gli dicessero che è di loro che si parla. Di passione ce n'è, in questo libro, una passione etica, addirittura. C'è lo sconcerto, condivisibile da molti, espresso in questi anni di fronte a quel «ritorno della religione» che è invece, propriamente, la strumentalizzazione politica della religione, la straordinaria pretesa che le leggi dello Stato debbano sancire «verità» accessibili soltanto alla ragione «illuminata dalla fede» (cito il pontefice). La tentazione, insomma, della «religione civile» - o meglio del ritorno alla potestas indirecta dell'istituzione religiosa sulle decisioni politiche. Una tentazione che sembra aver affascinato alcuni uomini di Chiesa, ma anche parecchi uomini di mondo, i cosiddetti «atei devoti». E questo è un primo dubbio: con chi se la prende Ferraris, esattamente? Perché perfino ai suoi più alti livelli la Chiesa è ben lungi dall'unanimità su questo punto.
Qual è la tesi di questo libro? Non è facilissimo identificarla, a causa della continua oscillazione fra una questione sociologica (di fatto, in cosa credono quelli che si dichiarano cattolici oggi in Italia?) e una questione filosofica (di principio, in cosa è possibile credere?). C'è poi anche una questione storica: in cosa si può credere oggi, dato il nostro sapere scientifico e tecnologico, e date le strategie della ragione post-moderna, con il suo scetticismo e il suo relativismo? Allora, andiamo per ordine. Il sapere scientifico e tecnologico non cambia poi molto il quadro. Un Dio che si incarna e muore in croce è altrettanto poco credibile alla ragione antica che a quella moderna: e Ferraris non ha difficoltà ad ammetterlo. E quanto alla ragione post-moderna, condividiamo l'ironia dell'autore nei confronti di quei filosofi che oppongono l'esattezza al cuore e la verità (cosa precisa, dunque violenta, come la scienza) alla carità e alla solidarietà.
Veniamo alla tesi sociologica: in cosa crede chi crede oggi? Non nel Dio nascosto, di cui quasi nessuno sa più niente, ma nel Papa televisibile. Joseph de Maistre, secondo il quale il cattolico è tale non perché crede in Dio, ma perché ubbidisce al papa, s'è preso la sua rivincita. Qui però la sociologia finisce, e comincia la filosofia. Non poteva andare diversamente - se capiamo bene - perché non esiste un ambito dello spirito, di cui la fede possa vivere, diverso da quello del potere temporale. L'impostura è nell'incredibile che si dà per credibile, e questa è nel gene del cristianesimo.
Perché è questa, finalmente, la tesi filosofica. Il cristianesimo è incredibile, perché lo sono le tre persone della Trinità. Il Padre, perché se Dio non è una cosa è logicamente impossibile credervi. Il Figlio, perché la resurrezione è empiricamente implausibile. Lo Spirito Santo, perché nessuno ha mai capito cosa sia. Questa tesi presuppone evidentemente che «credere» nel senso di avere opinioni e magari opinioni giustificate, e «credere» nel senso dell'atto di fede, siano la stessa cosa. Ma è lecito presupporre senz'altro questa identità? Dato che Ferraris predilige i «vecchi credenti» ai nuovi, vediamocela con san Tommaso (d'Aquino). A differenza che in un sapere, in cui io credo in base all'evidenza dei motivi, l'intelletto del «credente» «è determinato non dalla ragione, ma dalla volontà». Vale a dire che l'assenso non è assolutamente «dovuto» (come lo è invece di fronte al dato, al vedere), ma è un atto libero, per eccellenza gratuito (in effetti, un dono della grazia, come si dice). Leviamoci subito di mezzo l'obiezione dell'altro Tommaso, quello che non ci crede se non ci mette il naso: come dice il suo grande omonimo, l'Aquinate, egli «altro vide, altro credette. Vide un uomo e confessò Dio». Questo per dire che nessuna prova empirica o fattuale potrebbe mai sostenere l'assenso a un «contenuto» spirituale, non più ieri che oggi («Beati quelli che pur non avendo visto crederanno»). E che cosa è un contenuto spirituale? Ecco, siccome questo della resurrezione sembra stare molto a cuore a Ferraris, come mai non gli è venuto in mente di verificare se un solo autore cristiano, Paolo compreso, abbia inteso la resurrezione di Gesù come il ritorno a un'esistenza biologica e spazio-temporale? «Infatti così fraintesa la resurrezione non potrebbe affatto essere la salvezza dell'esistenza umana che sta sotto l'incomprensibile (e soltanto sperata) disposizione di Dio» (Karl Rahner). La resurrezione di Gesù è tanto poco (da intendersi come) un fatto biologico nel tempo, quanto poco nel tempo è la creazione secondo Agostino, dal momento che il tempo è il modo d'essere di questo mondo. Ma se dico a Ferraris che, di conseguenza, credere nella resurrezione non rende affatto superflue le cure mediche o l'igiene, faccio la figura del professore che non capisce le battute di spirito, e così confermo la sua tesi che lo Spirito nessuno ha mai capito cosa sia.
Veniamo allora alla tesi logica. Non c'è entità senza identità, ma Dio non ha una condizione di identità afferrabile. E quindi credere in Dio non si può, perché una credenza senza oggetto non è una credenza. Ora, è ben vero che, sempre secondo Tommaso, Dio non è in alcuna delle categorie, vale a dire che la sua natura non è afferrabile in concetti umani. Ma siamo sicuri che l'obiezione logica regga? «Ciò che trascende le categorie disponibili» è una descrizione e dunque una condizione di identità (o di esistenza), e assumere che sia una descrizione vuota è un'altra petizione di principio. Questo concetto di trascendenza assoluta che il neoplatonismo greco lasciò in eredità alle teologie cosiddette del Libro è in effetti la loro molla anti-idolatrica, quella che dovrebbe sottrarre il divino alla presa delle mani umane, cioè di ogni forma di superstizione. A proposito: secondo il Vangelo di Giovanni è proprio il Risorto a dire «noli me tangere» alla povera Maddalena.
Ma infine: se l'atto di fede è libero e non dovuto, che cosa lo distingue dal puro arbitrio? Che cosa lo distingue da «una specie di formicolio», una vaga emozione? Io non credo si possa parlarne con competenza se non sulla base dell'esperienza in questione, che non è tuttavia un'esperienza di fatto, ma di valore. Tanto è vero che una distinzione molto più radicale che quella fra «credenti» e non «credenti» passa fra indifferenza e non indifferenza a questo valore. Sentirlo non è né una vaga emozione né pensare l'impensabile, ma vedere il mondo nella luce di questo valore: si può consentirvi, cioè riconoscerlo come fondamento della propria vita nel mondo (quindi anche del proprio pensiero), oppure non consentirvi, magari per onestissima diffidenza verso se stessi e il proprio sentire. Ferraris fa una domanda che attende risposte, e in questa misura è filosofo, e non dilettante. Ma forse ci insegna anche che lasciare all'indifferenza l'ultima parola sul divino è come parlare della bellezza senza aver mai avuto un'esperienza estetica.