UNASOLATERRA. Mussi presenta la Fondazione per il socialismo. Leon e Roure i presidenti
ROMA Una serie di onde stilizzate che diventano via via più grandi e più rosse: è questo il logo di «Unasolaterra», la fondazione culturale della «sinistra per la democrazia e il socialismo» presentata ieri alla Camera. Promotore dell'iniziativa è il Ministro dell’Università e leader della Sinistra ds, Fabio Mussi, il quale ci tiene a chiarire che «non si tratta dell'organo di un partito o di una corrente ma di uno spazio libero di cultura politica di sinistra che aspira ad affrontare grandi questioni che interessano tutto il mondo». Il progetto della Fondazione, a cui da alcuni mesi la sinistra Ds sta lavorando attraverso contatti con diversi esponenti della cultura italiana ed europea, «nasce dall'esigenza di guardare alla politica, non solo italiana, muovendo da un pensiero critico del mondo contemporaneo, a partire dalle grandi questioni dell’equità sociale, dei diritti globali, dell'etica laica e dei beni comuni». Due i presidenti: Paolo Leon, docente di economia all'università Roma Tre e Martin Roure, europarlamentare francese del Pse. Folta anche la schiera di intellettuali che aderiscono alla fondazione, da Stefano Rodotà all'antropologo Marc Augè, a David Meghnagi, Michele Prospero e Giacomo Marramao, Carlo Flamigni e Laura Pennacchi. Lo stesso Mussi spiega che «molti altri nomi saranno formalizzati in seguito».
La Fondazione, che inizierà le sue attività a partire da gennaio, sarà affiancata da una scuola di formazione, con sede ad Orvieto. Avrà un portale, un sito internet e una rivista che si chiamerà «cercare ancora». «Con questa Fondazione - spiega Mussi- speriamo di riuscire a coinvolgere nel corso del 2007, a partire dal mese di febbraio, 600 giovani in attività e corsi modulari, sviluppati sia attraverso un sito, sia in lezioni e incontri seminariali». All'inizio di gennaio verrà presentato il programma dei corsi e il calendario di attività, nonchè le modalità di partecipazione alle attività formative. Già in queste settimane si sono costituiti gruppi di lavoro per organizzare iniziative e convegni su grandi temi, come Scienza e Fede, politiche della laicità, Scienza, tecnica e conoscenza.
l'Unità 7.12.06
Kaige: in Cina è libero solo il denaro
di Alberto Crespi
CINEMA Chen è un maestro riconosciuto. Dopo «Addio mia concubina», è a Roma dove presenta il suo nuovo «La promessa». Un altro tuffo nella mitologia cinese. «Ma parlo del presente» dice, «e del rapporto col potere in un Paese in trasformazione»
«Confucio ci ha insegnato a rispettare gli altri e a difendere la nostra dignità. Oggi, in Cina, tutto questo sembra essere sparito. Si parla solo di denaro. E l’aggressività economica è il motivo per cui tutti parlano della Cina, nel mondo. Non è giusto. Non è una bella fine per un paese che ha alle spalle millenni di storia».
Chen Kaige, classe 1952, regista cinematografico cinese, è a Roma. Stasera l’Asian Film Festival, in corso (fino al 9 dicembre) ai cinema Madison e Missouri, presenta il suo nuovo film La promessa (in cinese Wu ji). È un wuxiapian, la parola cinese che indica i film di arti marziali, come La tigre e il dragone o Hero. È la prima volta che Chen si cimenta con il genere classico del cinema cinese, anche se non è il suo primo film in costume (lo erano, in modi diversi, Addio mia concubina, Palma d’oro a Cannes, e L’imperatore e l’assassino). È la storia di una ragazza che, per diventare principessa, stringe un patto diabolico con uno stregone rinunciando alla felicità in amore. È un film mirabolante, con un grande impiego di effetti speciali digitali che ne hanno innalzato il costo a oltre 30 milioni di dollari. Forse per la prima volta in carriera, Chen Kaige si ritrova in testa al box-office - almeno nei paesi asiatici, ma presto il film (candidato all’Oscar) andrà all’assalto dei mercati occidentali.
Chen Kaige è, assieme a Zhang Yimou, il regista più importante della cosiddetta Quinta Generazione che ha rinnovato il cinema cinese dagli anni ‘80 in poi. Ha iniziato con film d’autore, bellissimi (Terra gialla, La grande parata, Il re dei fanciulli), per poi sfondare con il citato Addio mia concubina e diventare un regista internazionale (ha girato anche un film, poco riuscito, in Inghilterra: Killing Me Softly). Il suo esordio nel film d’azione è tutt’altro che una resa al mercato: esattamente come i western in America, i wuxiapian sono una forma di narrazione popolare che i registi cinesi usano per parlare della contemporaneità. Sono film sul potere, e sul rapporto maestro/discepolo caro a Chen dai tempi del Re dei fanciulli, ispirato a un romanzo di Acheng.
«I nostri film di arti marziali - spiega Chen - sono popolari anche in Occidente e spesso mi chiedo perché. Avendo vissuto anche a New York, ed essendo passato attraverso la rivoluzione culturale - i due estremi, diciamo, delle rispettive civiltà! - mi sono convinto che Oriente e Occidente siano troppo diversi... Voi vivete in base a principi religiosi solidi e immutabili, noi abbiamo tradizioni religiose molteplici, nessuna delle quali è dominante, e viviamo in una perenne fluidità. La Cina è invasa da brutti film americani dei quali gli spettatori cinesi non capiscono nemmeno le trame, però li guardano, e li apprezzano: e penso che in Occidente avvenga lo stesso con i film cinesi. Forse i nostri wuxiapian vi sembrano film fiabeschi, ma non lo sono. Parlano di noi, della nostra modernità, dei valori che stanno sparendo. Noi cinesi stiamo vivendo una fase di violento cambiamento, e questo crea insicurezza. Nessuno vede chiaro nel futuro. La promessa parla di questo disagio... Shakespeare aveva capito i cinesi senza conoscerli: parla sempre del destino e del potere, e di come le scelte degli individui siano impotenti davanti al Fato ma, al tempo stesso, fondamentali per dare un senso etico alle loro vite. Bisogna sempre ambire alla libertà anche se raggiungerla è impossibile. La Cina di oggi non è un paese libero, è un paese dove il denaro permette di raggiungere alcune libertà: viaggiare, cercarsi un lavoro, consumare... ma la vera libertà, quella intima, assoluta, non c’è».
Negli anni ‘70, da ragazzo, Chen Kaige fu spedito in campagna come tutti i giovani studenti della rivoluzione culturale: «Ho accennato a quel tempo in Addio mia concubina ma avrei tante altre storie da raccontare. Ma in Cina il tema è ancora troppo “caldo”. Ci vorrà tempo, e io posso aspettare. Se potessi tornare indietro non investirei più tanta energia nel cinema. Farei altro... forse il contadino. Mi piacerebbe vivere nella foresta, tornare a contatto con la natura. Ma è andata così, il mio destino ha deciso così. L’importante è non essere schiavi del cinema e ricordare che nulla è stabile, tutto scorre e si trasforma. Ce l’ha insegnato il Buddha, è una delle tante cose che noi cinesi, oggi, dobbiamo sforzarci di non dimenticare».
Repubblica 7.12.06
Sul Secolo l'elogio di Moretti
Il quotidiano di An: "Con Ecce Bombo anticipò la fine dell'ideologia e l'afasia della sinistra"
ROMA - Lando Buzzanca da ieri è un po´ meno solo. Nel pantheon ideale della destra cinematografica è infatti entrato a sorpresa anche l´icona della sinistra intellettuale e tormentata: Nanni Moretti. «Torna "Ecce Bombo": un film che anticipò con ironia la fine dell´ideologia», titolava ieri in prima pagina il Secolo d´Italia, quotidiano di An. Per celebrare il ritorno in sala del film-culto per generazioni di post-sessantottini, il quotidiano non lesina gli elogi: «Per una parte del Paese fu un film-evento, nel quale venivano esposti, in maniera comicizzata i segnali di crisi di una sinistra che ancora oggi non si è liberata del tutto di quelle ossessioni: dall´omicidio Moro all´incapacità di crescere, fino all´impossibilità di sentire un´appartenenza condivisa con il resto del Paese».
In fondo quella pellicola «fu un successo a sinistra ma anche a destra», ricorda Annalisa Terranova, anche se i ventenni neofascisti di allora la pensavano in maniera un po´ diversa dal "Michele" interpretato da Nanni Moretti. Per esempio a proposito di relazioni con le donne, come spiega il critico Maurizio Cabona: «Nel film c´è molta problematicità: "Lo facciamo?...Non lo facciamo?", nel neofascismo invece avevano prevalso culture diverse rispetto alle donne, primo perché di donne ce n´erano poche e secondo perché si mescolavano insieme la cultura della caserma e quella del casino. Erano ventenni, ma ragionavano come i loro genitori».(...)
Repubblica 7.12.06
Pamuk: l'occidente ha torto
A colloquio con lo scrittore a Stoccolma per ricevere il Nobel
"Il mio discorso d'accettazione sarà una critica dei nazionalismi e toccherà anche la questione Iraq. Poi parlerò di un baule pieno di carte che mi lasciò mio padre"
"Se un giorno Ankara dovesse entrare nella Ue sarà un bene per la Turchia democratica Ma anche per l'Europa"
Stoccolma. Sgranocchia noccioline seduto in un angolo del Grand Hotel di Stoccolma, Orhan Pamuk, completamente rilassato mentre la gente gli scorre davanti, per una volta senza circondarlo, come invece gli accade sempre più spesso ora. «Il Nobel non cambierà il mio modo di essere - dice posando sul tavolino il suo bicchiere d´acqua brillante - trascorso questo periodo di festeggiamenti voglio tornare a casa, al mio tavolo di lavoro, la penna in mano. Quello è il mio posto». Lo scrittore turco è atterrato da nemmeno un´ora da Istanbul, e ancor prima da New York, dove ha passato due mesi a insegnare scrittura creativa alla Columbia University e ha appreso di aver vinto il prestigioso Premio per la Letteratura 2006.
Questa sera il narratore di Istanbul, libro che lo ha consacrato come autore fra i più importanti a livello mondiale, svolgerà all´Accademia svedese la sua prolusione. Mentre domenica è già tutto pronto per la grande cerimonia di investitura. «E´ bello però - spiega ancora - incontrare gente che ti dice: "lei non mi conosce, ma io sì", vedere giornalisti che ti sorridono, sentire l´affetto dei lettori e, perché no, partecipare qui a questa festa, al suo rito. E un onore. Ma, dopo, vorrò di nuovo sedere da solo, in una stanza, davanti a un foglio da riempire per dieci ore al giorno».
Questa volta Pamuk, 54 anni, anche se ne farebbe volentieri a meno, sa di non poter evitare domande di tono politico che esulano dal suo lavoro di scrittore. Troppo pressante è il tema dell´ingresso nell´Unione europea della Turchia, per poter eludere ogni accenno alla questione. «Il viaggio del Papa a Istanbul? - risponde a Repubblica con un sorriso - non so perché ormai vengo considerato alla stregua di un politico o di un diplomatico. E allora dico che sì, la missione di Ratzinger in Turchia è andata bene. Lo stesso per il mio paese, sia da un punto di vista diplomatico sia politico. Ma adesso non parliamone più».
Parliamo allora dello stato dei rapporti fra Turchia e Unione europea?
«No, perché è un argomento che mi rende triste».
E perché mai?
«Va bene. Lo dico. Perché credo innanzitutto che se un giorno Ankara dovesse entrare nella Ue tutto ciò sarebbe molto positivo per entrambe le parti. Bene per l´Europa, che diverrebbe più tollerante e multiculturale. E bene per la Turchia, la sua democrazia, l´economia, la gente. E il mondo potrebbe imparare da questo ingresso che non esiste uno scontro di civiltà, quanto piuttosto un´armonia delle civiltà. Ma purtroppo negli ultimi due anni si è perduto, da entrambe le parti, l´entusiasmo. E questo che mi fa triste».
Lei però continua ad avere molti critici nel suo paese. La disturba?
«Non mi arrabbio con loro. I miei libri sono tradotti in 45 lingue. Ho preso il premio Nobel. Sono conosciuto in Vietnam, in Estonia, in Bangladesh e nei Paesi Baschi. Istanbul è tradotto nei dialetti più strani, e trovo questo molto interessante. L´avevo scritto invece per gli istanbuliti, la gente della mia città. Che ora venga letto in tutto il mondo mi sembra incredibile. Ma non credo che questo riconoscimento, ogni riconoscimento, possa proteggermi legalmente da una persecuzione in Turchia».
Di che cosa tratterà la sua prolusione?
«Parlerò in turco. Per 45 minuti. E toccherò la questione delle responsabilità dell´Occidente, anche nella diffusione del nazionalismo. Io sono il primo a criticare il nazionalismo. Di recente ne sono stato anche vittima in Turchia. Ma quando si cercano le responsabilità della sua crescita si deve guardare anche alle nazioni occidentali».
Un esempio concreto?
«Il mondo non occidentale è ipersensibile, non si sente occidentale abbastanza. E spesso questo fenomeno, che è culturale, si travasa nell´ambito politico. L´esempio è quello della democrazia, intesa come libertà di espressione, diritti umani, eccetera. Ecco: l´intrusione dell´Occidente in questa sfera non è accettata. I Paesi islamici sentono molto forte questo problema. I Paesi occidentali hanno ucciso più volte nel mondo arabo: e per cercare armi di distruzione di massa, del tutto inesistenti, gli Stati Uniti hanno causato la morte di 100 mila persone. Adesso l´Iraq è nel caos totale, con musulmani che uccidono musulmani. In situazioni come queste è inevitabile che un sentimento antioccidentale metta le radici».
E di che cosa parlerà ancora?
«Accennerò alla storia del baule di mio padre. Una cassapanca piena di quaderni. Lui voleva diventare uno scrittore, ma non li ha mai usati come voleva. Dentro c´erano pezzi di romanzi, traduzioni, poesie. Me lo ha consegnato anni fa, prima di morire».
E dopo la Svezia che progetti ha?
«Devo viaggiare ancora. Presto verrò anche in Italia. Poi finalmente mi chiuderò da qualche parte, per terminare un nuovo lavoro».
Il suo prossimo libro? Che titolo avrà?
«Per ora lo chiamo "Il museo dell´innocenza". Ci lavoro da quattro anni, ormai. E una storia che parte dal 1975. Si svolge in gran parte a Istanbul, nei quartieri attorno a casa mia, Nisantasi, Taksim, Beyoglu. E la vicenda di un uomo ricco che si innamora di una parente lontana. Una vicenda familiare, molto melodrammatica, che si adatta bene al cinema, ai film turchi. Spero di terminarlo a dicembre dell´anno prossimo».
Qualche dettaglio in più?
«La logica del museo si basa sugli oggetti, le cose. Ormai più passano gli anni e meglio capisco come procede il mio modo di scrivere. Quando sono a tavolino mi rapporto con l´ambiente, una persona, il suo volto, la stanza. Poi con l´aiuto delle fotografie e dei miei ricordi riempio il racconto di alberi, di case, della luce, i miei vecchi giocattoli, la credenza dei nonni, i tappeti, oppure i piatti per la colazione della nonna. Cerco le cose. Tengo ancora un vecchio tassametro, che ora entrerà a fare parte dell´inventario del mio museo. Mi ricorda quando negli anni Sessanta e Settanta si saliva su un taxi e il guidatore doveva azionarlo. E diceva: è rotto. Perché voleva incassare una somma più alta».
Lei si ritiene un autore sperimentale?
«Sì, ho sperimentato un nuovo tipo di romanzo. L´ho fatto per non copiare ciecamente quello che era già stato fatto in Occidente. Per me è importante seguire strade mai percorse da altri. Quando mi hanno annunciato il Nobel, motivandolo dicendo che ho cambiato l´arte del romanzo, è la cosa che mi ha fatto più piacere. Se questo premio ora mi darà la sicurezza, i miei lettori potranno stare certi che lo userò per essere più coraggioso e provare modi ancora più diversi».
E sicuro che il Nobel non cambierà il suo approccio?
«Il premio non mi vizierà, sarò la stessa persona di sempre. La cosa più importante per me è chiudermi in una stanza, e scrivere per ore e ore un romanzo. Io non posso vivere senza questa felicità. Certo, prendere il Nobel significa accrescere le mia responsabilità, con milioni di lettori che aumentano. Ma, ora più che mai, voglio sedermi a scrivere romanzi».
La motivazione dice anche che il suo capolavoro è Il libro nero. E così?
«Sì, è vero. Lì ho raccontato Istanbul, e la sua storia, per strati. Ho riunito in quel libro la letteratura tradizionale turca con quella moderna occidentale».
Infatti i giurati dell´Accademia svedese hanno detto che lei ha preso l´arte del romanzo occidentale e l´ha trasformata in qualcos´altro.
«Anch´io ho fatto attenzione a queste parole. Hanno seguito quel che ho fatto. Il romanzo è una cosa da leggere con divertimento. Ma è anche un´arte. C´è uno sviluppo storico in quest´arte. Io ho soffiato la nostra cultura dentro l´arte europea. Lo faccio da trent´anni. Così è venuta fuori tutta un´altra cosa. Mi fa piacere che se ne siano accorti».
E in questa ricerca di cambiamento da quali scrittori ritiene di essere stato influenzato?
«Da quattro: Tolstoj, Dostojevskij, Mann, Proust. Secondo me i padri del romanzo sono loro. Se volete imparare questa grande arte leggete questi. E poi ci sono altri due autori ad avermi influenzato. Originariamente non erano romanzieri: Borges e Calvino».
Da loro che cosa ha preso?
«Mi hanno insegnato il postmodernismo, e a guardare alla metafisica della letteratura in modo diverso. Da ragazzo in Turchia compravo i loro libri. E quando vent´anni fa sono andato in America, in piena crisi di identità, leggevo proprio Borges e Calvino. Mi dicevo: qui a New York c´è una grande ricchezza, librerie, una vita culturale fiorente. E qual è il mio posto di turco? In quel periodo, seguendo loro ho letto la nostra tradizione turca in modo più laico e moderno, in modo postmoderno e sperimentale. Leggendo loro ho guardato alla mia cultura. L´ho capita, e ho trovato la mia voce. Attraverso loro. E così che ho scritto Il libro nero».
E se fosse lei ad assegnarlo il Nobel a chi lo darebbe?
«C´è una lista di nomi. Ad esempio, nessuno se n´è accorto, ma Javier Marias è un grande scrittore. Seguo tutti i suoi libri. L´austriaco Peter Handke, che purtroppo ha fatto delle cose sbagliate, sostenendo Milosevic. Quando un uomo è un intellettuale in vista si ci dimentica che è un grande autore. L´americano Philip Roth, e poi anche Paul Auster, e non voglio scordare Thomas Pynchon che da Borges al postmodernismo fino a Umberto Eco ha influenzato tutta una tradizione. John Updike è un ottimo autore. E penso che Eco meriti il Nobel. Tutti questi sono scrittori molto valorosi, li seguo in ogni loro nuova opera».
La letteratura a che cosa serve secondo lei?
«A capire la vita. A stare nel mondo. A comprendere le ragioni più profonde delle parole. Se tu, scrittore, hai fatto bene questo, allora hai assolto il tuo compito».
(ha collaborato Vincenzo Lanza)
Repubblica 7.12.06
LA LOTTA TRA BENE E MALE
I testi originali del manicheismo
di Pietro Citati
Pochi decenni dopo la morte di Gesù la religione cristiana si diffuse in modo strepitoso e in ambito cristiano si formò Mani che nacque a Babilonia
L'anima possiede un doppio celeste che è il suo specchio, la sua verità e il suo guardiano
Sant'Agostino fu manicheo nella giovinezza e ricordò quella stagione con nostalgia e furore
Qualche lettore moderno resterà sconvolto dalla immaginazione mitologica dei manichei
Un giorno la materia verrà separata ed espulsa dalla creazione e trionferà la luce
Credo che non sia mai esistito un mondo così ardentemente religioso come il Medio Oriente tra il primo secolo avanti Cristo e il quarto secolo dopo Cristo. Da secoli, molte religioni abitavano in quei luoghi. Ora, dai vecchi alberi nascevano di continuo nuovi germogli, che talvolta si intrecciavano con germogli nati lontano, sul tronco di altre religioni, una volta considerate nemiche. Sempre nuovi profeti annunciavano il loro messaggio, che sovente era la metamorfosi di un messaggio antico: vecchi e nuovi angeli discendevano dal cielo con le loro grandi ali scintillanti e multicolori.
Tutto era religione: ciò che nei nostri tempi diverrebbe un libro di filosofia, o un romanzo, o un libro di storia, o un´opera d´arte, allora parlava soltanto di dèi, cosmogonie e cosmologie. Le fedi nuove o trasformate annunciavano una terribile imminenza: la fine stava per giungere, l´ultimo profeta, il «sigillo dei profeti» aveva appena pronunciato l´ultima parola, fra poco il giorno del Giudizio sarebbe stato annunciato. Erano religioni drammatiche. Quanto vi è di tragico o di assurdo e paradossale nell´esistenza umana veniva trasposto nel mondo divino, che non era mai stato segnato da luci e tenebre così violente.
La religione cristiana, l´ultima venuta, era la più mobile e feconda. Gesù era stato crocifisso da pochi decenni: in quei decenni i suoi seguaci si moltiplicarono, spingendosi in tutti i paesi d´Oriente e del Mediterraneo, parlando in nuove lingue, per annunciare un messaggio semplicissimo: Dio era disceso in terra, la luce affrontava le tenebre, il tempo era giunto. Talvolta questo messaggio veniva espresso nella forma dei Vangeli, o in quella di Paolo: talvolta in aspetti sempre diversi, ora attinti alla apocalittica ebraica, ora alla tradizione di Enoch, ora alla confessione battista, ora alla dottrina zoroastriana o a qualsiasi dottrina possibile, formando una grandiosa nuvola che attendeva il fulmine, l´uragano e l´arcobaleno.
Spesso lo sguardo degli storici moderni si è perduto in questo formicolio di voci e di passi, che annunciava una terra nuova e un cielo nuovo. Ma, negli ultimi tempi, gli studiosi sono giunti a conclusioni quasi concordi. L´immenso fenomeno religioso chiamato Gnosi nacque in ambito cristiano, sebbene rinascesse in forme insospettate, secondo i luoghi e i secoli. L´altro evento detto Manicheismo, al quale veniva spesso attribuita una fonte iranica, ebbe anch´esso origini cristiane. Il suo fondatore, Mani, nato nell´aprile 216 in un luogo della Babilonia settentrionale, passò la giovinezza in una comunità di Battisti giudeo-cristiani, gli Elcasaiti. I lettori italiani possono leggere i testi originali del Manicheismo in una vasta antologia, di cui sono usciti i primi due volumi a cura di Gherardo Gnoli: volume I, Mani e il Manicheismo, volume II, Il mito e la dottrina. Testi copti, con traduzioni e commenti di Carlo Cereti, Luigi Cirillo, Riccardo Contini, Serena Demaria, Enrico Morano, Antonello Palumbo, Sergio Pernigotti, Andrea Piras, Andrea Provasi, Alberto Ventura, Peter Zieme, pagg. LXXXIX - 414, pagg. LXII - 350, Fondazione Lorenzo Valla - Mondadori, 27 euro a volume. Entrambi i libri sono accompagnati da belle introduzioni di Gherardo Gnoli.
Qualche lettore moderno verrà sconvolto dalla immaginazione mitologica, che muove e si agita e risuona in queste pagine. La sostanza spirituale, morale e psicologica, che abitava allora le menti, diventava uno splendido corteo di Figure, spesso di robuste Figure fisiche. Ecco, il Padre della Grandezza e la Madre della Vita e l´Amico delle Luci, e lo Spirito Vivente e la Vergine di Luce e il Re della gloria e la Terra delle Tenebre: gridi acuti di domanda, di risposta e di liberazione; conflitti, battaglie, disastri, luci, colori, tenebre, canti, inni, preghiere. Qualcuno potrà dire che l´immaginazione dei Vangeli (non dell´Apocalisse) era più austera. Abbiamo l´impressione di scorgere le volte della Sistina: o di leggere Il Paradiso perduto di Milton, o i libri profetici di William Blake.
Sant´Agostino, che nella giovinezza fu manicheo e ricordò sempre la fede giovanile con nostalgia, dolore e furore, definì questi miti come phantasmata splendida e, più tardi, come sacrilega deliramenta. Aveva torto: i Manichei non deliravano affatto, né estraevano le immagini, come oggi qualcuno dice, dal loro inconscio. Le immagini fiorivano su un robusto sistema razionale e numerico: fantasia ed intelligenza si abbracciavano, fino a possedere, come nella Divina Commedia, l´assoluta sicurezza della visione profetica. Mani vedeva ciò che pensava ed immaginava, e lo annunciava ai suoi, lo faceva scrivere e dipingere sulla carta, certo che, un giorno, tutto si sarebbe compiuto sulla terra. Oggi, niente si è compiuto: i manichei sono stati giustiziati e massacrati, i loro libri risorgono lacerati e ammuffiti dagli scavi: ma possiamo ancora leggerli come grandiose verità filosofiche, psicologiche e poetiche, alle quali la forma mitica dà un´estrema forza luminosa. Come diceva il Vangelo di Filippo, «la verità non è venuta nel mondo nuda, ma è venuta in simboli ed immagini». Noi, oggi, rifiutiamo i simboli e le immagini religiose; e così gettiamo via la stessa conoscenza religiosa, che deve occupare tutta la nostra mente: pensiero, immaginazione, cuore, visione, ascolto.
***
Secondo Mani (e Kafka) il luminoso Principio del Bene aveva compiuto, ai tempi della rivelazione zoroastriana, un errore tremendo. Sconfisse il Male, il principio opposto dell´universo: ma invece di separarlo e allontanarlo da sé, lo incorporò nella propria creazione. Così, dopo la sconfitta, il Male rimase chiuso nel mondo del Bene, in agguato in tutte le notti, gli angoli, i crocicchi, tentando insidiosamente le anime. Mani voleva separare per sempre il Bene dal Male, sia pure attraverso una vicenda lunga e dolorosissima. Comprese che il Bene non possiede né forza né potere: è dolce, mite, passivo, concorde; la sua forza consiste soltanto nella intelligenza luminosa, che scorge da lontano le cose, le distingue e le separa. Non sconfigge il Male: ma si lascia sconfiggere, ingoiare, divorare da lui, sacrificandosi alla forza della tenebra come Gesù sulla croce. In questo modo, il Bene intride profondamente di sé il mondo del Male, che non può fare a meno di desiderarlo, sia pure in modo impuro.Così, dopo l´apparente sconfitta, il Bene vive incarcerato nella struttura del Male. Le scintille luminose del Bene gremiscono il mondo, formando la Croce di Luce del Cristo. La natura è imbevuta di Cristo: le scintille sono dovunque, nell´acqua, nella terra, e specialmente nel verde, che forma la parte più spirituale della natura. Le verdure, le erbe, gli alberi, le palme, i fichi, gli ulivi sono pieni di vita: nella attuale creazione, gridano, si lamentano, piangono, quando un uomo li ferisce. Mentre gli uomini offuscati dalla materia scorgono attorno a loro soltanto cose morte, i manichei sanno che tutte le scintille incarcerate attendono con ansia la liberazione e la redenzione. Un giorno, la materia verrà separata ed espulsa dalla creazione, e un mondo di pura luce trionferà nell´universo.
Questa storia cosmica si ripete nel destino di ogni anima. Con la nascita o dopo la nascita, l´anima pecca, sebbene non sappiamo esattamente in che consista il suo peccato; e cade nella materia, della quale resta prigioniero. Negli scritti manichei la caduta viene espressa con accenti dolorosi e strazianti, come in Baudelaire, Kafka e Simone Weil, questi grandi manichei della letteratura. Ora l´anima è lì, invischiata. Della luce, dove aveva vissuto alle origini, conserva un vago ricordo. Tutto, attorno a lei, è mescolanza: mescolanza impura di male e di bene, di luce e di tenebra. Vive chiusa nella casa oscura o nella dimora fiammante, dove ogni cosa è tenebra, carcere, deserto, vento torrido, ebbrezza, fuoco. Cade in un profondissimo sonno: non il sonno che ristora le membra e la mente, ma un pesante torpore, che le fa perdere l´identità, dimenticare il vero io, e commettere in sogno azioni nelle quali non si riconosce. In brevi momenti di risvegli, si riscuote e grida: «Chi chiamerò? E chi mi darà ascolto? E a chi manifesterò il mio gemito? Chi potrei vedere davanti ai miei occhi? E a chi manifesterò il mio gemito? A chi affiderò i segreti del mio cuore?... Non stare lontano da me, medico che hai la medicina di vita».
Sebbene abiti la casa oscura, l´anima sa che la sua sostanza, sia pure macchiata ed adombrata, è la stessa sostanza luminosa di Dio. Mai nessun cristiano od islamico ebbe questa convinzione così radicata. L´anima possiede un doppio celeste: il suo specchio, la sua verità, il suo guardiano. «Tutto ho conosciuto attraverso di lui - Mani scriveva - : ho visto tutto grazie a lui, e sono divenuto un solo corpo e un solo spirito con lui». Nel momento cruciale della vita, il doppio celeste concede all´anima la rivelazione, annunciandole dove è e chi è, da dove viene ed è uscita, perché è stata gettata in basso, e dove sta andando.
Questa rivelazione non è amore o fede come il cristianesimo per Paolo: ma una conoscenza assoluta, una scienza di sé stesso e dei misteri dell´universo, con la quale l´anima si identifica completamente, fino a scorgere in ogni particella di sé nient´altro che conoscenza luminosa. Allora comprende di essere il seme di cui aveva parlato il Vangelo di Giovanni: «Il seme che viene seminato muore: se non muore, non trova la via della vita, ma con la propria morte vivrà e darà la vita». Vuole sacrificarsi, immolarsi, morire sulla propria croce e insieme liberare tutti i prigionieri che dormono nella casa oscura.
***
Infine, sciolta dal sonno, l´anima lascia la casa oscura, e comincia il suo viaggio, che dovrà riportarlo all´origine, il punto di luce dal quale è discesa. Gesù non aveva avuto bisogno di spazio: aveva predicato in una piccola terra, la Palestina, certo che il suo messaggio si sarebbe diffuso nel mondo. Mani, invece, ha bisogno di uno spazio infinito: lascia Babilonia e si sposta verso Oriente; e, dopo di lui, i missionari, i pittori ed i musici manichei percorreranno la Palestina, l´Egitto, l´Africa settentrionale, l´Armenia, la Dalmazia, l´Italia, la Gallia, la Spagna, l´Asia Centrale e la Cina dove, talvolta sotto vesti taoiste e buddiste, sopravviveranno fino al sedicesimo secolo. I missionari non si arrestano: solo qualche ora o qualche giorno, nei monasteri sparsi lungo le vie della seta, dove le particelle di luce sofferenti vengono curate e guarite.Anche se i piedi sono fermi, i cuori dei Manichei non lo sono mai. Una insaziabile nostalgia, un incurabile desiderio li spinge indietro, verso le origini, e avanti, verso la luce pura, alla propria morte o alla fine dei tempi, quando il paradiso perduto sarà ritrovato. Essi vivono nel mondo, senza appartenere al mondo. «Io ho lasciato il padre e la madre, la moglie, i figli e tutto ciò che il vangelo chiede di lasciare - dice Fausto di Milevi a Sant´Agostino - e mi chiedi se io accetto il vangelo?... Ho rifiutato l´argento e l´oro, e ho smesso di tenere il danaro nella borsa, contento del cibo di ogni giorno, senza curarmi di quello dell´indomani. E tu mi chiedi se accetto il vangelo?... Tu vedi in me il povero, vedi il pacifico, il puro di cuore, l´uomo che piange, che ha fame, che ha sete, che soffre persecuzioni e odii per la giustizia; e dubiti che accetti il vangelo?» Con questa ascesi, Fausto e i Manichei cercano di liberare le particelle di luce prigioniere della materia.
Proprio per questo i manichei amano la bellezza del mondo, che intravedono specialmente in alcuni luoghi privilegiati. Amano lo splendore dei riti. Il bianco: il sale, le perle, le superfici bianche, le vesti candide. Amano i fiori, i profumi, la luce del sole, della luna e della via lattea: i libri decorati che conservano, intatta, la dottrina di Mani: i colori bianco o azzurro ultramarino, sopra i quali i pittori stendono il rosso rubino, o l´intenso verde, o l´oro, o l´azzurro dei lapislazzuli, o il rosso porpora; e i canti corali o salmodiati. «Ecco - annunciano i Salmi degli erranti - la gioia è giunta, il profumo dell´estate si è diffuso. Ecco, il flautista è giunto, gli uccelli hanno spiccato il volo. Aprite le vostre porte, illuminate le vostre lucerne». «Tu sei - ripetono i Salmi - una che ama gli inni, tu sei una che ama suonare, tu sei una che è amata e che suona la cetra. Tu suoni per il Padre e suoni la cetra per il Figlio amato, tu suoni per l´ambrosia e suoni la cetra per il Re della vita, tu fai musica per la Terra della Luce e suoni la cetra per l´aria vivente».
Tutto il meraviglioso rituale manicheo è perduto: non conosciamo più le musiche, né le voci, né i colori degli ambienti e delle vesti, né i profumi. Abbiamo soltanto le ombre delle voci, come le parole dei bellissimi Salmi degli erranti, composti nell´Egitto di lingua greca, verso la fine del terzo secolo. Molto ci ricorda i salmi dell´Antico Testamento e i grandi inni zoroastriani, con il loro timbro alto e monotono, e persino gli antichi inni egizii. Ma all´improvviso, mentre leggiamo, abbiamo l´impressione di essere in una basilica paleocristiana, davanti ai mosaici del Padre, del Figlio, di Maria e dei Santi. Solo lì avremmo potuto ascoltare questa apologia di Gesù, che non è una figura simbolica, ma il Cristo evangelico della crocefissione e della resurrezione. Solo tra i profumi e gli incensi di una basilica comprendiamo come tutta la dolcezza, la soavità, la letizia, la leggerezza, l´amore, il vino e il miele del mondo si concentrino nella figura silenziosa del Cristo.