MARIO RICCIO
L’anestesista che ha staccato la spina
«Nessuna eutanasia
E non c’è bisogno di nuove leggi»
«Era sereno Welby mercoledì sera, sono sereno io adesso: non è stata eutanasia - anche se era questo, questa parola che lui usava e voleva - ma solo una sedazione praticata mentre toglievo il respiratore. Nel pieno rispetto della legge». Mario Riccio è l’anestesista che ha staccato la spina. Quello che in molti hanno definito «dottor morte». «So che c’è chi ha pure chiesto che mi arrestassero... Non scherziamo. Sono 15 anni che mi occupo di bioetica, interrompere la ventilazione e sedare è assolutamente nel campo della legalità. Quando mi hanno chiamato quelli dell’associazione Coscioni mi sono detto: non puoi non mettere in atto praticamente ciò di cui sei convinto. Allora sono venuto a Roma».
Dottore, cosa è successo in quella stanza?
«Una cosa molto semplice. Ho praticato una sedazione venosa mentre stubavo Piergiorgio. Ho fatto le due operazioni contestualmente. Il professor D’Agostino, ex presidente della Consulta di bioetica e medico cattolico, ha sostenuto che prima stubare e poi sedare sarebbe stata una pratica ammissibile. Ma se anche un solo secondo Welby avesse sofferto?».
Ma lei ha agito, ha avuto un comportamento attivo. Perchè non è eutanasia? Perchè sostiene di non aver contravvenuto al nuovo codice deontologico dei medici che all’art. 17 prescrive che “il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte”?
«Perchè avrei dovuto somministrare un farmaco che portasse alla morte, ad esempio potassio cloruro. Oppure dare una sostanza paralizzante... Invece non c’è stata alcuna volontà eutanasica. E la conferma è che di eutanasia, adesso che della questione si sta finalmente dibattendo con un po’ di cognizione di causa in più, nessuno parla più seriamente, a parte qualche oltranzista».
Lei cosa richia per aver sedato Welby?
«Lo devono decidere altri, io so di essermi mosso nel pieno rispetto delle regole. Ed è quello che ho raccontato ai magistrati. Adesso aspettiamo l’autopsia di Welby, soprattutto per quanto riguarda i valori tossicologici».
In Italia esiste un buco legislativo su questi temi?
«No. Vede, che esista il diritto del paziente a rifiutare le cure lo ha detto la sentenza del tribunale di Roma. In maniera assoluta lo riconosce la Costituzione, lo riconoscono le sentenze della Cassazione, lo riconosce il codice deontologico dei medici e pure la Convenzione di Oviedo. Certo, si dice che non si riesce ad imporre al medico di andare a staccare la spina, ma io credo dipenda più da un caos tra organi competenti che da un vuoto di legge».
Esiste l’eutanasia clandestina?
«Io credo che con il no all’inchiesta conoscitiva del Parlamento si è persa una grande occasione. Non tanto per l’eutanasia, quanto per quel che si chiama “pianificazione della cura”. È quel che succede nelle aree critiche di molti ospedali: la dialisi, la respirazione meccanica sono trattamenti che insieme al paziente vengono decisi per un termine di tempo determinato. Se non va... ».
E il testamento biologico?
«No, questa è un’altra cosa. Che ci sia un problema lo spiego ricordando come la legge sulla donazione degli organi del ‘99 non è ancora stata attuata. Che significa? Che le donazioni di organi naturalmente si fanno, ma che è salvo il diniego del conuige o dei parenti... ».come nacque l´Adelphi
Repubblica 27.12.06
COSÌ INVENTAMMO I "LIBRI UNICI"
Da Nietzsche a Kubin, Hesse e Walser
di Roberto Calasso
Era il maggio del 1962 quando Bobi Bazlen parlò per la prima volta di quella che sarebbe stata la nuova casa editrice. Le opere del filosofo, una collana di classici e la diffusione del pensiero irrazionale
Fu la grande sapienza editoriale di Luciano Foà a pilotare quei volumi verso una sola collana: la Biblioteca
Fin dall'esordio conservammo un'apertura totale verso ogni anfratto del passato, verso tutti i generi e gli autori
All´inizio si parlava di libri unici. Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C´erano solo pochi dati sicuri: l´edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola a orientare tutto il resto. E poi una collana di Classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato.
Sarebbero stati stampati da Mardersteig, come anche il Nietzsche. Allora ci sembrava normale, quasi doveroso. Oggi sarebbe inconcepibile (costi decuplicati, ecc.). Ci piaceva che quei libri fossero affidati all´ultimo dei grandi stampatori classici. Ma ancora di più ci piaceva che quel maestro della tipografia avesse lavorato a lungo con Kurt Wolff, l´editore di Kafka.
Per Bazlen, che aveva una velocità mentale come non ho più incontrato, l´edizione critica di Nietzsche era quasi una giusta ovvietà. Da che cosa si sarebbe potuto cominciare altrimenti? In Italia dominava ancora una cultura dove l´epiteto "irrazionale" implicava la più severa condanna. E capostipite di ogni "irrazionale" non poteva che essere Nietzsche. Per il resto, sotto l´etichetta di quell´incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava anche vasta parte dell´essenziale. Che spesso non aveva ancora accesso all´editoria italiana, anche e soprattutto per via di quel marchio infamante.
In letteratura l´irrazionale amava congiungersi con il decadente, altro termine di deprecazione senza appello. Non solo certi autori, ma certi generi erano condannati in linea di principio. A distanza di qualche decennio può far sorridere e suscitare incredulità, ma chi ha buona memoria ricorda che il fantastico in sé era considerato sospetto e torbido. Già da questo si capirà che l´idea di avere al numero 1 della Biblioteca Adelphi un romanzo come L´altra parte di Alfred Kubin, esempio di fantastico allo stato chimicamente puro, poteva anche suonare provocatorio. Tanto più se aggravato dalla vicinanza, al numero 3 della collana, di un altro romanzo fantastico: il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (e non importava se in questo caso si trattava di un libro che, guardando alle date, avrebbe potuto essere considerato un classico).
Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi - posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, dove Bazlen e Ljuba Blumenthal erano ospiti per qualche giorno -, evidentemente accennò subito all´edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici. E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore, poteva trattarsi di qualsiasi cosa. Di un classico tibetano (Milarepa) o di un ignoto autore inglese di un solo libro (Christopher Burney) o dell´introduzione più popolare a quel nuovo ramo della scienza che era allora l´etologia (L´anello di re Salomone) o di un testo sul teatro No scritto fra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo.
Furono questi alcuni fra i primi libri da fare che Bazlen mi nominava. Che cosa li teneva insieme? Non era chiarissimo. Fu allora che Bazlen, per farsi intendere, si mise a parlare di libri unici.
Che cos´è un libro unico? L´esempio più eloquente, ancora una volta, è il numero 1 della Biblioteca: L´altra parte di Alfred Kubin. Unico romanzo di un non-romanziere. Libro che si legge come entrando e permanendo in una allucinazione possente. Libro che fu scritto all´interno di un delirio durato tre mesi. Nulla di simile, nella vita di Kubin, prima di quel momento; nulla di simile dopo. Il romanzo coincide perfettamente con qualcosa che è accaduto, un´unica volta, all´autore. Ci sono solo due romanzi che precedono quelli di Kafka e dove già si respirava l´aria di Kafka: L´altra parte di Kubin e Jakob von Gunten di Robert Walser. Entrambi avrebbero trovato il loro posto nella Biblioteca. Anche perché se, in parallelo all´idea del libro unico, si dovesse parlare di un autore unico per il Novecento, non ci sarebbero dubbi: sarebbe Kafka.
In definitiva: libro unico è quello dove subito si riconosce che all´autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto.
E a questo punto occorre tenere presente che in Bazlen c´era una ben avvertibile insofferenza per la scrittura. Paradossalmente, considerando che Bazlen aveva passato la vita sempre e soltanto fra i libri, il libro era per lui un risultato secondario, che presupponeva qualcos´altro. Occorreva che lo scrivente fosse stato attraversato da questo altro, che vi fosse vissuto dentro, che lo avesse assorbito nella fisiologia, eventualmente (ma non era obbligatorio) trasformandolo in stile.
Se così era accaduto, quelli erano i libri che più attiravano Bazlen. Per capire tutto questo, è bene ricordare che Bazlen era cresciuto negli anni della massima pretesa di autosufficienza della pura parola letteraria, gli anni di Rilke, di Hofmannsthal, di George. E di conseguenza aveva sviluppato certe allergie. La prima volta che lo vidi, mentre parlava con Cristina Campo delle sue - meravigliose - versioni di William Carlos Williams, insisteva solo su un punto: «Non bisogna sentire troppo il Dichter», il "poeta-creatore", nel senso di Gundolf e di tutta una tradizione tedesca che discendeva da Goethe (e di cui Bazlen, per altro, conosceva perfettamente l´alto significato).
I libri unici erano perciò anche libri che molto avevano rischiato di non diventare mai libri. L´opera perfetta è quella che non lascia tracce, si poteva desumere da Zhuang-zi (il vero maestro, se uno si dovesse nominare, di Bazlen). I libri unici erano simili al residuo, shesha, ucchishta, su cui non cessavano di speculare gli autori dei Brahmana e a cui l´Atharva Veda dedica un inno grandioso.
Non c´è sacrificio senza residuo - e il mondo stesso è un residuo. Perciò occorre che i libri esistano. Ma occorre anche ricordare che, se il sacrificio fosse riuscito a non lasciare un residuo, i libri non ci sarebbero mai stati.
I libri unici erano libri dove - in situazioni, epoche, circostanze, maniere diversissime - si era giocato il Grande Gioco, nel senso del Grand Jeu che aveva dato nome alla rivista di Daumal e Gilbert-Lecomte. Quei due adolescenti tormentati, che a vent´anni avevano messo in piedi una rivista rispetto alla quale il surrealismo di Breton (di poco più anziano di loro) appariva paludato, tronfio e spesso retrivo, erano per Bazlen la prefigurazione di una nuova, fortemente ipotetica antropologia, verso la quale i libri unici si rivolgevano. Antropologia che appartiene ancora, quanto e più di prima, a un eventuale futuro.
Quando il Sessantotto irruppe, pochi anni dopo, mi sembrò innanzitutto irritante, come una goffa parodia. Se si pensava al Grand Jeu, quella era una maniera modesta e gregaria di ribellarsi, come sarebbe apparso anche troppo chiaro negli anni successivi.
Il Monte Analogo a cui Daumal dedicò il suo romanzo incompiuto (che sarebbe diventato il numero 19 della Biblioteca, accompagnato da un saggio densissimo di Claudio Rugafiori) era l´asse - visibile e invisibile - verso cui la flottiglia dei libri unici orientava la rotta. Ma questo non deve far pensare che quei libri dovessero ogni volta sottintendere un qualche esoterismo. A provare il contrario basterebbe il numero 2 della Biblioteca, Padre e figlio di Edmund Gosse: resoconto minuzioso, calibrato e lacerante di un rapporto padre-figlio in età vittoriana. Storia di una inevitabile incomprensione fra due esseri solitari, un bambino e un adulto, che sanno al tempo stesso inflessibilmente rispettarsi. Sullo sfondo: geologia e teologia. Edmund Gosse sarebbe poi diventato un ottimo critico letterario. Ma senza quasi più tracce di quell´essere che si racconta in Padre e figlio, l´essere a cui Padre e figlio accade. Perciò Padre e figlio, come testo memorialistico, ha qualcosa dell´unicità di quel romanzo, L´altra parte, che nella Biblioteca lo aveva preceduto.
Fra libri a tal punto disparati, quale poteva essere allora il requisito indispensabile, quello che comunque si doveva riconoscere? Forse soltanto il "suono giusto", altra espressione che Bazlen talvolta usava, come argomento ultimativo. Nessuna esperienza, di per sé, era sufficiente per far nascere un libro. C´erano tanti casi di storie affascinanti e significative, che però avevano dato origine a libri inerti. Anche qui soccorreva un esempio: durante l´ultima guerra molti avevano subìto prigionie, deportazioni, torture. Ma, se si voleva constatare come l´esperienza dell´isolamento totale e della totale inermità potesse elaborarsi e diventare una scoperta di qualcos´altro, che si racconta con sobrietà e nitidezza, bisognava leggere Cella d´isolamento di Christopher Burney (numero 18 della Biblioteca). E l´autore, dopo quel libro, sarebbe tornato a confondersi nell´anonimato. Forse perché non intendeva essere scrittore di un´opera ma perché un´opera (quel singolo libro) si era servita di lui per esistere.
Per un certo periodo, pensammo che i libri unici dovessero essere unici anche di aspetto. Ciascuno con un impianto diverso della copertina - e magari con formati diversi. Ma, quanto più ci si avvicinava alla pubblicazione, tanto più diventavano evidenti gli ostacoli. Fu la sapienza editoriale di Luciano Foà, a un certo punto, a pilotare i vari libri unici verso una sola collana: la Biblioteca. All´inizio ci sembrò quasi un ripiego, da accettare a malincuore, mentre era l´unica soluzione giusta. Ora occorreva trovare un nome - qualcosa di neutro e onnicomprensivo.
L´appiglio venne dalla più nobile delle collane allora in circolazione: la Bibliothek Suhrkamp, che Peter Suhrkamp aveva avviato nel 1951. E non c´era rischio di sovrapposizione, perché la Bibliothek Suhrkamp aveva avuto dall´inizio un carattere soltanto letterario, ben chiaro e netto come la sua nitida impostazione grafica, opera di Willy Fleckhaus. E gli autori erano solo moderni, inclusi quelli che presto sarebbero stati chiamati "i classici moderni".
Una brochure di Suhrkamp presentava così la collana: «La Bibliothek Suhrkamp è dedicata al vero amico dei libri, a quella élite di lettori a cui sentono il bisogno di appartenere tutti coloro per i quali un libro buono o squisito è diventato un bene vitale indispensabile. Saranno pubblicati testi in sé conchiusi - racconti, brevi romanzi, drammi in versi, poesie, saggi, monografie, biografie e aforismi - in una forma sotto ogni aspetto pregevole, a un prezzo fra DM 3.50 e DM 4.50. Questi libri, di lunghezza oscillante fra le 130 e le 200 pagine, si prestano particolarmente a essere regalati». Da notare come Peter Suhrkamp usasse allora senza timori la parola élite, che venti anni dopo la sua casa editrice sarebbe stata la prima a bandire come famigerata. E da notare anche come la collana avesse fin dall´inizio isolato i generi che intendeva proporre, mentre il formato la obbligava ad accogliere solo testi non più lunghi di duecento pagine. Con ciò avvicinandosi, più che alla Biblioteca, alla Piccola Biblioteca Adelphi, che anni dopo volemmo inaugurare con lo stesso libro che aveva inaugurato la Bibliothek Suhrkamp: Il pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse.
La Biblioteca Adelphi, all´opposto, aveva avuto sin dal primo momento un carattere di apertura totale: verso ogni anfratto del passato, verso tutti i generi, verso ogni specie di autori, dal giovane e ignoto scrittore vivente (un giorno sarebbe stato Chatwin, con In Patagonia, a darne esempio) fino all´autore anonimo, oscuro e remoto, come colui che scrisse Il libro del Signore di Shang. Pubblicare i libri unici all´interno di una collana non doveva servire a smussarne gli angoli, ma al contrario a dar loro un supporto che li tenesse insieme pur nelle loro disparate fisionomie ed evitasse - si sperava e di fatto così fu - che i singoli titoli venissero dispersi in zone varie delle librerie. Di questo rimane una traccia visibile in poche righe che si potevano leggere sulla seconda aletta della sovraccoperta nei primi titoli della collana - e poi vennero eliminate, per ragioni di spazio, a partire dal numero 4: «Una serie di "libri unici", scelti secondo un unico criterio: la profondità dell´esperienza da cui nascono e di cui sono viva testimonianza. Libri di oggi e di ieri - romanzi, saggi, autobiografie, opere teatrali - esperienze della realtà o dell´immaginazione, del mondo degli affetti o del pensiero».
(1. Continua. Copyright )
Dottore, cosa è successo in quella stanza?
«Una cosa molto semplice. Ho praticato una sedazione venosa mentre stubavo Piergiorgio. Ho fatto le due operazioni contestualmente. Il professor D’Agostino, ex presidente della Consulta di bioetica e medico cattolico, ha sostenuto che prima stubare e poi sedare sarebbe stata una pratica ammissibile. Ma se anche un solo secondo Welby avesse sofferto?».
Ma lei ha agito, ha avuto un comportamento attivo. Perchè non è eutanasia? Perchè sostiene di non aver contravvenuto al nuovo codice deontologico dei medici che all’art. 17 prescrive che “il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte”?
«Perchè avrei dovuto somministrare un farmaco che portasse alla morte, ad esempio potassio cloruro. Oppure dare una sostanza paralizzante... Invece non c’è stata alcuna volontà eutanasica. E la conferma è che di eutanasia, adesso che della questione si sta finalmente dibattendo con un po’ di cognizione di causa in più, nessuno parla più seriamente, a parte qualche oltranzista».
Lei cosa richia per aver sedato Welby?
«Lo devono decidere altri, io so di essermi mosso nel pieno rispetto delle regole. Ed è quello che ho raccontato ai magistrati. Adesso aspettiamo l’autopsia di Welby, soprattutto per quanto riguarda i valori tossicologici».
In Italia esiste un buco legislativo su questi temi?
«No. Vede, che esista il diritto del paziente a rifiutare le cure lo ha detto la sentenza del tribunale di Roma. In maniera assoluta lo riconosce la Costituzione, lo riconoscono le sentenze della Cassazione, lo riconosce il codice deontologico dei medici e pure la Convenzione di Oviedo. Certo, si dice che non si riesce ad imporre al medico di andare a staccare la spina, ma io credo dipenda più da un caos tra organi competenti che da un vuoto di legge».
Esiste l’eutanasia clandestina?
«Io credo che con il no all’inchiesta conoscitiva del Parlamento si è persa una grande occasione. Non tanto per l’eutanasia, quanto per quel che si chiama “pianificazione della cura”. È quel che succede nelle aree critiche di molti ospedali: la dialisi, la respirazione meccanica sono trattamenti che insieme al paziente vengono decisi per un termine di tempo determinato. Se non va... ».
E il testamento biologico?
«No, questa è un’altra cosa. Che ci sia un problema lo spiego ricordando come la legge sulla donazione degli organi del ‘99 non è ancora stata attuata. Che significa? Che le donazioni di organi naturalmente si fanno, ma che è salvo il diniego del conuige o dei parenti... ».come nacque l´Adelphi
Repubblica 27.12.06
COSÌ INVENTAMMO I "LIBRI UNICI"
Da Nietzsche a Kubin, Hesse e Walser
di Roberto Calasso
Era il maggio del 1962 quando Bobi Bazlen parlò per la prima volta di quella che sarebbe stata la nuova casa editrice. Le opere del filosofo, una collana di classici e la diffusione del pensiero irrazionale
Fu la grande sapienza editoriale di Luciano Foà a pilotare quei volumi verso una sola collana: la Biblioteca
Fin dall'esordio conservammo un'apertura totale verso ogni anfratto del passato, verso tutti i generi e gli autori
All´inizio si parlava di libri unici. Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C´erano solo pochi dati sicuri: l´edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola a orientare tutto il resto. E poi una collana di Classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato.
Sarebbero stati stampati da Mardersteig, come anche il Nietzsche. Allora ci sembrava normale, quasi doveroso. Oggi sarebbe inconcepibile (costi decuplicati, ecc.). Ci piaceva che quei libri fossero affidati all´ultimo dei grandi stampatori classici. Ma ancora di più ci piaceva che quel maestro della tipografia avesse lavorato a lungo con Kurt Wolff, l´editore di Kafka.
Per Bazlen, che aveva una velocità mentale come non ho più incontrato, l´edizione critica di Nietzsche era quasi una giusta ovvietà. Da che cosa si sarebbe potuto cominciare altrimenti? In Italia dominava ancora una cultura dove l´epiteto "irrazionale" implicava la più severa condanna. E capostipite di ogni "irrazionale" non poteva che essere Nietzsche. Per il resto, sotto l´etichetta di quell´incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava anche vasta parte dell´essenziale. Che spesso non aveva ancora accesso all´editoria italiana, anche e soprattutto per via di quel marchio infamante.
In letteratura l´irrazionale amava congiungersi con il decadente, altro termine di deprecazione senza appello. Non solo certi autori, ma certi generi erano condannati in linea di principio. A distanza di qualche decennio può far sorridere e suscitare incredulità, ma chi ha buona memoria ricorda che il fantastico in sé era considerato sospetto e torbido. Già da questo si capirà che l´idea di avere al numero 1 della Biblioteca Adelphi un romanzo come L´altra parte di Alfred Kubin, esempio di fantastico allo stato chimicamente puro, poteva anche suonare provocatorio. Tanto più se aggravato dalla vicinanza, al numero 3 della collana, di un altro romanzo fantastico: il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (e non importava se in questo caso si trattava di un libro che, guardando alle date, avrebbe potuto essere considerato un classico).
Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi - posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, dove Bazlen e Ljuba Blumenthal erano ospiti per qualche giorno -, evidentemente accennò subito all´edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici. E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore, poteva trattarsi di qualsiasi cosa. Di un classico tibetano (Milarepa) o di un ignoto autore inglese di un solo libro (Christopher Burney) o dell´introduzione più popolare a quel nuovo ramo della scienza che era allora l´etologia (L´anello di re Salomone) o di un testo sul teatro No scritto fra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo.
Furono questi alcuni fra i primi libri da fare che Bazlen mi nominava. Che cosa li teneva insieme? Non era chiarissimo. Fu allora che Bazlen, per farsi intendere, si mise a parlare di libri unici.
Che cos´è un libro unico? L´esempio più eloquente, ancora una volta, è il numero 1 della Biblioteca: L´altra parte di Alfred Kubin. Unico romanzo di un non-romanziere. Libro che si legge come entrando e permanendo in una allucinazione possente. Libro che fu scritto all´interno di un delirio durato tre mesi. Nulla di simile, nella vita di Kubin, prima di quel momento; nulla di simile dopo. Il romanzo coincide perfettamente con qualcosa che è accaduto, un´unica volta, all´autore. Ci sono solo due romanzi che precedono quelli di Kafka e dove già si respirava l´aria di Kafka: L´altra parte di Kubin e Jakob von Gunten di Robert Walser. Entrambi avrebbero trovato il loro posto nella Biblioteca. Anche perché se, in parallelo all´idea del libro unico, si dovesse parlare di un autore unico per il Novecento, non ci sarebbero dubbi: sarebbe Kafka.
In definitiva: libro unico è quello dove subito si riconosce che all´autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto.
E a questo punto occorre tenere presente che in Bazlen c´era una ben avvertibile insofferenza per la scrittura. Paradossalmente, considerando che Bazlen aveva passato la vita sempre e soltanto fra i libri, il libro era per lui un risultato secondario, che presupponeva qualcos´altro. Occorreva che lo scrivente fosse stato attraversato da questo altro, che vi fosse vissuto dentro, che lo avesse assorbito nella fisiologia, eventualmente (ma non era obbligatorio) trasformandolo in stile.
Se così era accaduto, quelli erano i libri che più attiravano Bazlen. Per capire tutto questo, è bene ricordare che Bazlen era cresciuto negli anni della massima pretesa di autosufficienza della pura parola letteraria, gli anni di Rilke, di Hofmannsthal, di George. E di conseguenza aveva sviluppato certe allergie. La prima volta che lo vidi, mentre parlava con Cristina Campo delle sue - meravigliose - versioni di William Carlos Williams, insisteva solo su un punto: «Non bisogna sentire troppo il Dichter», il "poeta-creatore", nel senso di Gundolf e di tutta una tradizione tedesca che discendeva da Goethe (e di cui Bazlen, per altro, conosceva perfettamente l´alto significato).
I libri unici erano perciò anche libri che molto avevano rischiato di non diventare mai libri. L´opera perfetta è quella che non lascia tracce, si poteva desumere da Zhuang-zi (il vero maestro, se uno si dovesse nominare, di Bazlen). I libri unici erano simili al residuo, shesha, ucchishta, su cui non cessavano di speculare gli autori dei Brahmana e a cui l´Atharva Veda dedica un inno grandioso.
Non c´è sacrificio senza residuo - e il mondo stesso è un residuo. Perciò occorre che i libri esistano. Ma occorre anche ricordare che, se il sacrificio fosse riuscito a non lasciare un residuo, i libri non ci sarebbero mai stati.
I libri unici erano libri dove - in situazioni, epoche, circostanze, maniere diversissime - si era giocato il Grande Gioco, nel senso del Grand Jeu che aveva dato nome alla rivista di Daumal e Gilbert-Lecomte. Quei due adolescenti tormentati, che a vent´anni avevano messo in piedi una rivista rispetto alla quale il surrealismo di Breton (di poco più anziano di loro) appariva paludato, tronfio e spesso retrivo, erano per Bazlen la prefigurazione di una nuova, fortemente ipotetica antropologia, verso la quale i libri unici si rivolgevano. Antropologia che appartiene ancora, quanto e più di prima, a un eventuale futuro.
Quando il Sessantotto irruppe, pochi anni dopo, mi sembrò innanzitutto irritante, come una goffa parodia. Se si pensava al Grand Jeu, quella era una maniera modesta e gregaria di ribellarsi, come sarebbe apparso anche troppo chiaro negli anni successivi.
Il Monte Analogo a cui Daumal dedicò il suo romanzo incompiuto (che sarebbe diventato il numero 19 della Biblioteca, accompagnato da un saggio densissimo di Claudio Rugafiori) era l´asse - visibile e invisibile - verso cui la flottiglia dei libri unici orientava la rotta. Ma questo non deve far pensare che quei libri dovessero ogni volta sottintendere un qualche esoterismo. A provare il contrario basterebbe il numero 2 della Biblioteca, Padre e figlio di Edmund Gosse: resoconto minuzioso, calibrato e lacerante di un rapporto padre-figlio in età vittoriana. Storia di una inevitabile incomprensione fra due esseri solitari, un bambino e un adulto, che sanno al tempo stesso inflessibilmente rispettarsi. Sullo sfondo: geologia e teologia. Edmund Gosse sarebbe poi diventato un ottimo critico letterario. Ma senza quasi più tracce di quell´essere che si racconta in Padre e figlio, l´essere a cui Padre e figlio accade. Perciò Padre e figlio, come testo memorialistico, ha qualcosa dell´unicità di quel romanzo, L´altra parte, che nella Biblioteca lo aveva preceduto.
Fra libri a tal punto disparati, quale poteva essere allora il requisito indispensabile, quello che comunque si doveva riconoscere? Forse soltanto il "suono giusto", altra espressione che Bazlen talvolta usava, come argomento ultimativo. Nessuna esperienza, di per sé, era sufficiente per far nascere un libro. C´erano tanti casi di storie affascinanti e significative, che però avevano dato origine a libri inerti. Anche qui soccorreva un esempio: durante l´ultima guerra molti avevano subìto prigionie, deportazioni, torture. Ma, se si voleva constatare come l´esperienza dell´isolamento totale e della totale inermità potesse elaborarsi e diventare una scoperta di qualcos´altro, che si racconta con sobrietà e nitidezza, bisognava leggere Cella d´isolamento di Christopher Burney (numero 18 della Biblioteca). E l´autore, dopo quel libro, sarebbe tornato a confondersi nell´anonimato. Forse perché non intendeva essere scrittore di un´opera ma perché un´opera (quel singolo libro) si era servita di lui per esistere.
Per un certo periodo, pensammo che i libri unici dovessero essere unici anche di aspetto. Ciascuno con un impianto diverso della copertina - e magari con formati diversi. Ma, quanto più ci si avvicinava alla pubblicazione, tanto più diventavano evidenti gli ostacoli. Fu la sapienza editoriale di Luciano Foà, a un certo punto, a pilotare i vari libri unici verso una sola collana: la Biblioteca. All´inizio ci sembrò quasi un ripiego, da accettare a malincuore, mentre era l´unica soluzione giusta. Ora occorreva trovare un nome - qualcosa di neutro e onnicomprensivo.
L´appiglio venne dalla più nobile delle collane allora in circolazione: la Bibliothek Suhrkamp, che Peter Suhrkamp aveva avviato nel 1951. E non c´era rischio di sovrapposizione, perché la Bibliothek Suhrkamp aveva avuto dall´inizio un carattere soltanto letterario, ben chiaro e netto come la sua nitida impostazione grafica, opera di Willy Fleckhaus. E gli autori erano solo moderni, inclusi quelli che presto sarebbero stati chiamati "i classici moderni".
Una brochure di Suhrkamp presentava così la collana: «La Bibliothek Suhrkamp è dedicata al vero amico dei libri, a quella élite di lettori a cui sentono il bisogno di appartenere tutti coloro per i quali un libro buono o squisito è diventato un bene vitale indispensabile. Saranno pubblicati testi in sé conchiusi - racconti, brevi romanzi, drammi in versi, poesie, saggi, monografie, biografie e aforismi - in una forma sotto ogni aspetto pregevole, a un prezzo fra DM 3.50 e DM 4.50. Questi libri, di lunghezza oscillante fra le 130 e le 200 pagine, si prestano particolarmente a essere regalati». Da notare come Peter Suhrkamp usasse allora senza timori la parola élite, che venti anni dopo la sua casa editrice sarebbe stata la prima a bandire come famigerata. E da notare anche come la collana avesse fin dall´inizio isolato i generi che intendeva proporre, mentre il formato la obbligava ad accogliere solo testi non più lunghi di duecento pagine. Con ciò avvicinandosi, più che alla Biblioteca, alla Piccola Biblioteca Adelphi, che anni dopo volemmo inaugurare con lo stesso libro che aveva inaugurato la Bibliothek Suhrkamp: Il pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse.
La Biblioteca Adelphi, all´opposto, aveva avuto sin dal primo momento un carattere di apertura totale: verso ogni anfratto del passato, verso tutti i generi, verso ogni specie di autori, dal giovane e ignoto scrittore vivente (un giorno sarebbe stato Chatwin, con In Patagonia, a darne esempio) fino all´autore anonimo, oscuro e remoto, come colui che scrisse Il libro del Signore di Shang. Pubblicare i libri unici all´interno di una collana non doveva servire a smussarne gli angoli, ma al contrario a dar loro un supporto che li tenesse insieme pur nelle loro disparate fisionomie ed evitasse - si sperava e di fatto così fu - che i singoli titoli venissero dispersi in zone varie delle librerie. Di questo rimane una traccia visibile in poche righe che si potevano leggere sulla seconda aletta della sovraccoperta nei primi titoli della collana - e poi vennero eliminate, per ragioni di spazio, a partire dal numero 4: «Una serie di "libri unici", scelti secondo un unico criterio: la profondità dell´esperienza da cui nascono e di cui sono viva testimonianza. Libri di oggi e di ieri - romanzi, saggi, autobiografie, opere teatrali - esperienze della realtà o dell´immaginazione, del mondo degli affetti o del pensiero».
(1. Continua. Copyright )