In prima pagina sul New York Times
Freud e la cognata, adulterio sulle Alpi
Rivelazioni. La prova della relazione nel registro di un hotel
Non era solo una malignità messa in giro da Carl Gustav Jung, l’allievo svizzero poi divenuto avversario strenuo di Sigmund Freud. Pare proprio che il padre della psicoanalisi abbia avuto una relazione con sua cognata Minna Bernays, sorella della moglie Martha, che viveva insieme ai coniugi Freud. La prova difficilmente oppugnabile dell’adulterio sta scritta a chiare lettere nell’elenco dei clienti di un albergo delle Alpi svizzere lo Schweizerhaus di Maloja. Qui Freud e la cognata, che stavano trascorrendo insieme una vacanza di due settimane, occuparono una camera matrimoniale il 13 agosto 1898, presentandosi come una coppia sposata. E lui si registrò con la donna come «il dottor Sigmund Freud e signora». Quindi, il giorno stesso, inviò alla moglie, che sapeva del viaggio, una cartolina in cui si soffermava sulla bellezza del paesaggio, ma definiva modesto l’albergo. Invece lo Schweizerhaus era e resta un hotel di lusso: evidentemente lo studioso austriaco non voleva insospettire la consorte. La scoperta, ripresa in prima pagina dal New York Times, si deve a un sociologo tedesco specialista in psicoanalisi, Franz Maciejewski, autore del saggio Il Mosè di Freud. Un fratello inquietante, uscito in Germania nello scorso ottobre presso l’editore Vandenhoeck & Ruprecht. A suo avviso la vicenda non inficia la validità del metodo psicoanalitico. Ma certo intacca l’immagine irreprensibile di Freud diffusa dai molti ammiratori. Anche il suo biografo Peter Gay, a lungo scettico sulla relazione con Minna, si dice pronto a rivedere i precedenti giudizi.
Antonio Carioti
il manifesto 27.12.06
Democrazia all'occidentale Come l'agenzia americana ha cambiato il mondo
«Sì, è stata la Cia». L'ex spia confessa
di Luca Celada
Intervista a Milt Bearden L'ex agente segreto è il consulente del film diretto da Robert De Niro «Good Shepherd», storia dello spionaggio americano dal dopoguerra al 1961 Cosa vuole sapere? Se abbiamo comprato le elezioni italiane nel 1948? Certo che sì! Avevamo delle valigie Samsonite più grandi di quelle dei russi, va bene? Se no avreste avuto Togliatti per 50 anni
New York. L'accusa neocon più citata in questi giorni, quella che Bush rivolge ad esempio al rapporto della commissione Baker, è quella di essere troppo «reality based», cioé succubi della realtà. La Casa Bianca preferisce imporre ai fatti la propria volontà e disprezza l'eccesso di pragmatismo. Insomma, dopo un secolo e mezzo di egemonia della dottrina Monroe, la retorica neoconservatrice trasforma l'«eccesso di raziocinio» in demerito politico. Eppure nel dopoguerra gli Stati Uniti isolazionisti con il loro «pragmatismo strategico», che ha finito per far deragliare l'idealismo democratico da ogni etica, hanno centrato l'obiettivo. Se si accetta, infatti, che al primo posto ci siano gli interessi americani, è possibile giudicare Pinochet, con la sua prosperosa economia liberista, un «successo», pur con qualche spiacevole costo. Neppure la Baia dei porci e il Vietnam sarebbero fallimenti politici ma semmai operazioni tatticamente fallite, come anche il finanziamento dei Contras nicaraguensi con fondi neri iraniani o l'addetramento dei mujihadeen antisovietici, e via dicendo nella sequenza di operazioni clandestine che nell'ultimo mezzo secolo sono state parti integranti dell'ingegneria geopolitica di Washington.
All'origine di questa storia recente si rivolge Good Shepherd, il film diretto da Robert De Niro (uscito negli Usa in questi giorni, arriverà in Italia a febbraio). E come dichiara il sottotitolo, racconta la «storia segreta della nascita della Cia». In sostanza, mette in scena l'organizzazione dell'agenzia spionistica nata nel dopoguerra dalle ceneri dell'intelligence militare Oss sulle rovine fumanti del teatro europeo per far fronte alla nuova guerra, fredda e segreta, che avrebbe combattuto per i successivi 50 anni. Il film vorrebbe essere anche la cronaca della devoluzione degli «ideali democratici» americani in un groviglio progressivamente sempre più paranoico. È il racconto di come la stategia geopolitica della superpotenza mondiale venne appaltata alla sistematica e clandestina destabilizzazione di paesi, regimi e regioni del pianeta a seconda degli «interessi nazionali» degli Usa.
Sfortunatamente il film di de Niro vuole essere anche molto altro. Prodotto da Francis Ford Coppola, ha le velleità del Padrino, citato a tratti scena per scena. Ma non è tutto, la sceneggiatura di Eric Roth contiene almeno altri due film, un thriller nero nel registro di Le Carré e l'altro un dramma familiare sugli effetti perniciosi che l'attività destabilizzazione di «regimi subalterni» - svolta anche di domenica e nei giorni festivi - può avere alla lunga sul matrimonio.
Per questo ed altri dettagli tecnici, De Niro si è avvalso della consulenza di Milton Bearden, una carriera trentennale nella Cia costruita con abnegazione e iniziativa fino al manageriato medio-alto: capo della stazione nigeriana negli anni '70, responsabile delle operazioni clandestine in Sudan poi distaccato in Pakistan con responsabilità di addestramento dei mujihadeen negli anni '80 fino agli ultimi fuochi reaganiani della guerra fredda con postazione di supervisore delle operazioni est-europee
Oggi Milt Bearden è un reduce, rottamato dopo la vittoria sull'impero del male, se l'è cavata meglio di tanti colleghi ed ha una florida attività di «consulente» hollywoodiano, grazie anche a De Niro che lo aveva ingaggiato per assisterlo nella rappresentazione realistica di Jack Byrnes, il crudele agente Cia di Meet The Parents. Da qui l'incarico ben più consistente in Good Shepherd, dove la sua consulenza è stata utile per ricostruire campagne di disinformazione, assassinii, perfino la distruzione con le cavallette di raccolti nei campi di paesi centroamericani ritenuti eccessivamente filosovietici oltre che tecniche di interrogazione e tortura degne ante-litteram di Abu Ghraib. Forse per questo Bearden ha dichiarato al Los Angeles Times che per essere un agente della Cia occorre essere un «incorreggibile romantico» - o forse nutrire nostalgia per tempi più semplici quando per ristabilire le giuste influenze bastava abbattere qualche democrazia e instaurare un despota amico.
La politica clandestina della Cia è stata dunque parte integrante della politica americana del ventesimo secolo?
Sì, integrante. Ha espresso sempre la volontà del presidente degli Stati Uniti in carica...
Lei crede che le azioni dell'agenzia siano in parte responsabili dell'astio che esiste oggi verso gli Stati Uniti in molte parti del mondo?
Certamente ce n'è molto di astio verso di noi, non solo a causa della Cia, ma per molti dei fatti avvenuti nel mondo bipolare. Deve capire che quando gli Usa e l'Urss rappresentavano i due poli, quasi tutti gravitavano verso l'uno o l'altro. Gli Stati Uniti vennero criticati per molte cose.
Il Vietnam ad esempio o i missili pershing stazionati in Europa ci hanno fruttato le critiche di molti governi e tante piccole proteste, ma in fin dei conti la gente capiva che nella maggior parte dei paesi c'erano sempre 400.000 soldati russi pronti a marciare nella pianura tedesca e 400.000 americani a tenerli a bada. C'era cioè un equilibrio nel mondo. Da quando è caduta l'Unione Sovietica l'equilibrio non c'e più e quindi all'antiamericanismo gratuito ne è seguito uno molto più focalizzato e specifico e questo non credo sia un bene per la nostra sicurezza.
Ma la prassi di intervenire «strategicamente» nel mondo destabilizzando governi, distruggendo economie o peggio, a seconda degli «interessi nazionali degli Stati Uniti» era davvero necessario, non c'erano alternative?
Ci sono sempre alternative tattiche, momento per momento e potremmo riflettere e chiederci ad esempio Arbenz in Guatemala o Mossadeqh in Iran nel '53-'54, furono giustificati? Si potrebbe anche dire che la ragione di tutti i nostri attuali problemi sta nell'aver riportato al potere lo shah, e che l'incubo latinoamericano ha avuto inizio con l'intervento in Guatemala. Io direi che abbiamo semplicemente permesso ai cronisti del New York Times e del Washington Post di esagerare l'importanza di quei fatti. Nella realtà l'eliminazione di Arbenz e di Mossadeqh furono operazioni pressochè artigianali - hanno a malapena accelerato fatti che in tutta probabilità sarebbero avvenuti comunque. Ora se la sua domanda è se abbiamo avuto ragione nel farlo, dal punto di vista di allora direi «forse». Anche se parlando del Guatemala dove il segretario di stato e il capo della Cia nonché ufficiali del consiglio di sicurezza nazionale avevano rapporti con rappresentanti della United Fruit, società con forti interessi in un paese poi sovvertito, beh forse questo si potrebbe criticare. Ma se si tratta di vedere la Cia come una scheggia impazzita allora questo è un errore poichè ha sempre agito per precisa volontà dei presidenti in carica. Abbiamo fatto esattamente ciò che ci ordinavano.
Non trova che ci sia un problema etico intrinseco, una contraddizione, nell'uso di ingerenze clandestine da parte della maggiore democrazia mondiale in altre democrazie?
Cosa vuole sapere? Se abbiamo comprato le elezioni italiane del 1948? Certo che sì! E allora? Avevamo della valigie Samsonite più grandi di quelle dei russi, va bene? Lei potrebbe dire che è da li che è derivata l'instabilità di tutti quei governi uno dopo l'altro. Ok. Forse avremmo potuto non farlo e voi avreste avuto un governo davvero stabile che poteva durare 50 anni, quello di Togliatti. Forse sarebbe stato meglio? Questo dovete dirlo voi, non io...
Insisto, interferire con l'autodeterminazione dei popoli è compatibile per un paese che pretende di rappresentare la democrazia nel mondo?
Questa è una questione che ci riporta dritti ad oggi - potete cercarmi su Google e vedrete come la penso in merito. Credo che quello che dobbiamo fare a un certo punto è guardarci in faccia e chiederci onestamente cosa stiamo facendo. Riusciremo a realizzare i nostri ideali nel Medio Oriente? Mi spiace, ma probabilmente no.
30 anni di Usa
Chi è Milton Bearden
Consulente Cbs, opinionista del New York Times, autore, con James Risen, di «The Black Tulip: a novel of war in Afghanistan» ('98), sulla definitiva sfida Kgb/Cia, e coautore di due attacchi alla politica estera di Bush jr, «How did This Happen, Terrorism» e «The New War», Milton Bearden, ex agente della Cia, è nato a Oklahoma City e cresciuto a Washington, dove il padre lavorava al Manhattan Project. Dal '64 nei servizi segreti, dopo aver fatto il militare in aeronautica, in 30 anni di carriera ha operato in Pakistan, Nigeria, Sudan e Germania. Tra l'86 e l'89 ha addestrato i mujaheddin in Afghanistan e seguito il crollo del sistema sovietico dirigendo la divisione Urss/paesi dell'est. Insignito di alte onorificenze (anche in Rft) dopo aver lasciato il servizio attivo (ora vive a Reston, Virginia con la moglie francese, Marie-Catherine) ha lavorato con Robert De Niro («Meet the Parents», The Good Shepard» e il sequel «The Main Enemy»), partecipato ai programmi tv «Secret Warriors» (History Channel), «Covert Action» (Bbc), «Heroes under Fire» (History Channel) e ai migliori documentari storici d'oggi, «The Nightmare of Power, di Adam Curtis, 2004 e «Uncoverded: the war on Iraq» di Robert Greenwald (2004).
il manifesto 28.12.06
Intervista a Amos Luzzatto, ex presidente dell'Unione delle comunità ebraiche e per quaranta anni medico chirurgo negli ospedali italiani
«E' stata la fine di un incubo: andava rispettata la sua volontà»
di Eleonora Martini
«Quello che non capisco è come si possa dire no all'eutanasia e sì alla pena di morte». E' una contraddizione intollerabile per Amos Luzzatto, ex presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, che non comprende il senso di una condanna a morte nemmeno per «un criminale come Saddam Hussein», mentre vede in quella sentenza «il sintomo di una debolezza molto pericolosa per la società irachena». E avverte: «Così si ritorna alla legge del taglione, contemplata nelle 12 tavole romane e nelle leggi di Hammurabi, ma che è stata assolutamente cassata dalla tradizione ebraica successiva, al contrario di quanto di creda».
Dottor Luzzatto, lei che ha svolto per 40 anni la professione di medico chirurgo, cosa ha provato quando è morto Piergiorgio Welby?
Sono contento che finalmente si sia conclusa la sofferenza di un uomo che non poteva trovare un rimedio da solo e che nessuno voleva aiutare. Era un incubo: vedere che soffriva e che chiedeva di morire senza poter far niente è stata una cosa drammatica, angosciante.
Cosa pensa delle polemiche che questo caso ha suscitato?
Credo che in questo periodo si sia parlato troppo degli aspetti giuridici e morali, ma mai in termini di solidarietà umana. Le generalizzazioni in casi limite come quello di Welby sono sempre pericolose. Si pensi all'astrofisico Stefhen Hawking: lui desidera vivere con tutte le sue forze, anche se non so quanti di noi sarebbero in grado di dire la stessa cosa al suo posto. Nel suo caso sarebbe criminoso togliergli quel po' di vita che gli resta. E' troppo facile parlare quando non si è nella stessa situazione. Ascoltando alcuni giudizi sommari, ho trovato delle similitudini con l'esaltazione che si fa nei salotti in tempo di guerra delle sofferenze dei martiri e degli eroi.
Quale riflessione c'è nel pensiero ebraico su questi temi di fine vita: eutanasia e accanimento terapeutico?
Io vorrei che qualcuno mi dicesse qual è il confine tra l'interruzione dell'accanimento terapeutico e l'eutanasia, perché ognuno lo sposta dove meglio crede. Ogni atto potrebbe tranquillamente essere visto sia come un prolungamento della sofferenza con mezzi artificiali, sia come accelerazione della morte: è veramente molto labile il confine tra questi due eventi. E' un problema che è stato posto molte volte anche nel pensiero etico ebraico, ma che io cercherei di soggettivizzare. Durante la mia vita di chirurgo ho visto persone arrivare a questi stati limite e reagire in forme radicalmente diverse. C'era chi anelava a un attimo in più di respiro, a un momento di ulteriore funzione organica vitale, e chi invece implorava la morte. Nel primo caso qualunque terapia non può essere considerata accanimento terapeutico, nel secondo invece ogni ulteriore trattamento va chiamato col giusto nome: tortura. Noi parliamo prescindendo dalle sensazioni, della volontà e dal desiderio del soggetto interessato. Ognuno di noi è diverso per educazione, per risorse spirituali, morali e intellettuali. Non possiamo arrogarci il diritto di esaltare la sofferenza di un altro, altrimenti ritorniamo ai tempi in cui si bruciavano le streghe perché la loro anima venisse redenta.
Occorre quindi accelerare i tempi per una legge sul testamento biologico?
Sì, io sono d'accordo col testamento biologico. Anche se rispetto all'eutanasia, che è una sorta di suicidio assistito, io sarei favorevole ma con grandi riserve. Molte volte ho visto persone che hanno tentato il suicidio ma poi se ne sono pentiti. Dobbiamo insomma essere molto responsabili davanti ad atti di questo genere, ma senza chiudere drasticamente ogni possibilità.
Se queste domande fossero state poste ad un rabbino, come avrebbe risposto?
Avrebbe avuto più di una risposta, visto che nella tradizione ebraica ci sono vari esempi di suicidi osannati e ricordati nel testo biblico. Si potrebbe citare Masada, i cui morti vengono ancora onorati, o re Saul, il primo re di Israele, che si suicidò con la sua spada e la cui elegia composta dal suo successore David è un autentico salmo di gloria che è entrato nel testo biblico canonizzato ebraico. L'ebraismo non è una Chiesa dogmatica centralizzata dove c'è un Papa che indica il comportamento da adottare a tutti i fedeli che ne vogliono far parte. Nel mondo ebraico si dibatte di questi temi in modo non superficiale, ma con notevole disinvoltura. Eppoi c'è l'abitudine ebraica di soppesare il caso singolo con grande attenzione alle varianti soggettive. E' difficile che il più colto, il più istruito e informato dei rabbini si senta di dare dei giudizi drastici e validi per tutti i differenti casi. Mi dispiace constatare invece che nel nostro paese sia mancata, nell'insieme, una presa di posizione globale e generalizzata che difendesse il dovere di capire ciascun soggetto che soffre e di non sostituirci alla sua volontà.