il manifesto 29.12.06
Caso Welby. Intervista al medico che ha staccato la spina
«Ho agito nella piena legalità»
di Cinzia Gubbini
La sedazione praticata a Piergiorgio Welby la sera del 20 dicembre ha accelerato la sua morte? E' anche questo aspetto che i magistrati della Procura di Roma stanno accertando nell'inchiesta sulla morte di Piergiorgio Welby, che per ora non vede indagati. Per capirlo, saranno fondamentali i risultati dell'autopsia. Stabilire se l'iniezione praticata dall'anestesista di Cremona contemporaneamente al distacco del ventilatore sia stata fatale, non sarà complicato. Se, ad esempio, dalle analisi dovesse risultare che nel sangue di Welby c'è del potassio in alta concentrazione, o dei farmaci appartenenti alla famiglia dei curari - diretti a bloccare l'attività di cuore o polmoni - risulterebbe logico sostenere che nel comportamento del medico c'era volontà omicida (o meglio, eutanasica). Diversamente, sarà dimostrato che il cocktail di farmaci utilizzato da Riccio ha avuto un effetto solo sedativo. In effetti, tutti i sedativi possono produrre un «doppio effetto»: lenire il dolore, ma anche rilassare i muscoli e dunque anticipare di qualche minuto la morte. Tuttavia, questo secondo effetto viene generalmente considerato «buono» (anche dalla Chiesa) e non letale. In un corpo minato dalla malattia come quello di Welby, oltretutto, l'utilizzo di farmaci calmanti potrebbe avere - al contrario - ritardato di qualche minuto il momento del decesso. Il dottor Mario Riccio - che anche ieri si è recato a lavoro come tutti i giorni - ovviamente sa quale tipo di farmaco ha utilizzato, ma non vuole entrare in particolari: «C'è un provvedimento disciplinare nei miei confronti e un'indagine in corso. Come ho già detto, e come riportato nella cartella clinica, confermo di aver utilizzato un cocktail di farmaci sedativi».
Ma cosa ha ucciso Piergiorgio Welby?
La sua malattia. Senza l'aiuto del ventilatore polomonare non poteva sopravvivere se non per pochi minuti.
Durante il colloquio con il presidente dell'Ordine dei medici di Cremona è stato approfondito l'aspetto della sedazione?
Ho risposto per tre ore a domande molto accurate, preparate dal professor Bianchi. Abbiamo parlato di tutto, in un clima disteso. Ho consegnato portato la cartella medica in cui è riportata quantità e qualità dei farmaci utilizzati.
Cosa si aspetta? Sta pensando di rivolgersi a un avvocato?
Per ora non ho ancora deciso nulla, aspetto di capire se il consiglio mi convocherà per una nuova audizione. Ma sono sereno.
Ieri ha dichiarato che non lo rifarebbe
Non è vero. Ho soltanto detto che probailmente non mi troverò più in una situazione del genere: lavoro in ospedale, non a domicilio. Welby l'ho conosciuto perché mi interessava molto il suo caso, visto che da quindici anni mi occupo di bioetica. Ho avuto occasione di fare qualche osservazione, ad esempio il fatto che ritenevo sbagliato insistere sulla strada dell'eutanasia o di richiedere una legge ad hoc, come era stato fatto con la lettera al presidente Napolitano. Credevo, e ne sono convinto ancora oggi, che si potesse agire nel pieno della legalità, seguendo un percorso ben preciso. Quando sono stato contattato perché Welby aveva deciso di seguire quel percorso da me delineato, mi sono sentito in dovere di farlo. E obbedendo alla mia morale e alla mia coscienza, ho sospeso un trattamento terapeutico che un paziente cosciente rifiutava.
Dunque ha interrotto un accanimento terapeutico.
No, non esattamente. Sono d'accordo con il Consiglio superiore di sanità: non si può sostenere che nel caso di Welby ci fosse accanimento. Il ventilatore rispondeva, in effetti, a una sua necessità: quella di respirare. Ci trovavamo, invece, di fronte a un paziente che rifiutava le cure. E questo è un diritto pieno, di rango costituzionale.
E' così semplice?
Certo che lo è. Non voglio esagerare, ma io penso che non ci sia un «caso Welby». Ci sono migliaia di situazioni simili, e sempre il medico pianifica un percorso terapeutico. E sempre è previsto che il paziente possa, ad un certo punto, revocare il suo consenso e chiedere la sospensione del trattamento.
Vuol dire che è facile trovare un dottor Riccio per tutti coloro che sono nella condizione di Welby?
E' ovvio che il dibattito tra i medici è molto vivace. Io, quando sono intervenuto con Piergiorgio Welby, l'ho fatto all'interno di una relazione medico-paziente. Ma mi auguro che quanto avvenuto possa aiutare a chiarire i margini entro cui i medici possono operare.
il manifesto 29.12.06
Esperimenti di calore terapeutico per ripararsi dal vento della follia
Forme di cura. Lo sguardo agli antichi guaritori, per andare oltre l'etnopsichiatria
Studi di Alfredo Ancora. L'esperienza della psichiatria transculturale, in un libro edito da Franco Angeli
di Franco Voltaggio
La tradizione popolare più antica, in Italia e non solo in Italia, associa gli accessi di melanconia e l'aura di un incipiente disordine mentale all'influenza che su talune persone ha la tramontana, per cui chi «perde la testa» sarebbe vittima di un vento maligno e violento. L'universalità di questo contenuto nell'immaginario collettivo trova riscontro in una credenza della medicina sapienziale cinese che definisce «vento» ogni forma di follia e fa delle strategie terapeutiche attivate dal «medico scalzo» «trappole» per catturarlo. Accogliendo questa fantasia come metafora della malattia mentale, uno psichiatra romano, Alfredo Ancora, definisce «costruttori di trappole del vento» tutti gli psicoterapeuti, lui compreso, alle prese spesso con pazienti «difficili», soggetti i cui problemi, non meno dolorosi che complicati, configurano una sorta di tempesta incombente sulla loro testa di rifugiati, richiedenti asilo, migranti economici, che abitano nella «città del papa».
Di qui il tema del suo ultimo libro, I costruttori di trappole del vento. Formazione, pensiero, cura in psichiatria transculturale (Franco Angeli, 2006, pp. 234, euro 23) nelle cui pagine riconosce che la condizione di uno psichiatra istituzionale non è molto dissimile, nella sostanza, da quella dei guaritori primitivi (traditional healers), assumendosi una precisa responsabilità, conoscitiva e terapeutica, che corre a molti livelli. Sotto il profilo conoscitivo, infatti, Alfredo Ancora accoglie come doveroso impegno il fatto di non considerare sufficiente rifarsi al bagaglio di conoscenze proprie della psichiatria praticata in Occidente, giacché si tratta di cimentarla con le suggestioni che vengono da altre culture. Il fatto che queste siano lontane dal nostro modo di stare al mondo e, conseguentemente, non abbiano nulla a che vedere con gli strumenti concettuali della psicoterapia scientifica, è di per sé irrilevante. Lo è per due buone ragioni: essendo il malato soprattutto una vittima della più atroce delle sofferenze, il dolore e la bruciante solitudine della mente, poco importa quale sia la teoria di riferimento cui fare ricorso per attivare la cura; se il soggetto appartiene a un mondo idealmente diverso, è impensabile poterlo incontrare senza in qualche modo colludere con credi e orientamenti che pure sono estranei alla cultura e allo stile di pensiero del terapeuta. Di qui la necessità di quella speciale forma di psicoterapia che è la psichiatria transculturale. Ma che cosa è propriamente la psichiatria transculturale? Per i profani, e forse persino per qualche esperto, è l'equivalente dell'etnopsichiatria, una disciplina, dallo statuto concettuale quanto mai incerto, che si fonda su due assunti di base: a) vi sono forme di disordine mentale che sono peculiari di talune specifiche etnie; b) la conoscenza del retroterra culturale di un'etnia è condizione necessaria e sufficiente per mettere a punto la strategia terapeutica adeguata. Sotto certi aspetti, i due assunti parrebbero trovare giustificazione nelle osservazioni delle ricerche sul campo. A una attenta riflessione, tuttavia, essi mostrano di essere tanto fragili da non meritare di essere considerati veri assunti di base.
La prima asserzione, infatti, non tiene conto della circostanza per cui il paziente diverso non fa il suo ingresso in ambulatorio in quanto sofferente di una patologia originaria che il contatto con una realtà inedita ha semplicemente fatto esplodere, ma è piuttosto malato di una sindrome che, al di là della sua specificità, è l'esito soprattutto di una situazione generalizzata di «spaesamento». Vale a dire che l'interessato non parte già malato, ma si ammala qui e adesso. Ne consegue che la raccomandata conoscenza del suo retroterra culturale può anche essere una condizione necessaria, ma non è certo sufficiente per far decollare il processo di cura. Che fare allora? Ci si può avvicinare a una soluzione praticabile, considerando la dimensione transculturale alla stregua di un processo in cui lo psichiatra transita tra diverse culture mediante una feconda contaminazione con il mondo dell'altro. A questo punto, e qui sta la fecondità della proposta di Ancora, occorre individuare in quella terra di nessuno che è la turba mentale una soglia o confine in cui lo psichiatra incontra l'altro, tenuto conto del fatto, in sé incontrovertibile, che un confine non serve solo a dividere, ma anche a mettere in comunicazione gli esseri umani. Di fatto la cura può nascere non già dall'applicazione alla malattia di una prassi terapeutica consolidata e magari raffinata da qualche nozione di etnopsichiatria, ma dall'incontro tra paziente e psicoterapeuta. Detto così, sembra unicamente una mozione degli affetti, una mera irruzione dei buoni sentimenti in ambulatorio, la spia del nascosto - tra l'altro neppure tanto - terzomondismo dell'autore. In realtà non è così e a dimostrarlo sono i numerosi casi clinici esposti nei Costruttori di trappole del vento, di cui uno è particolarmente significativo. Ha per protagonista Ahmad, un giovane fotografo iraniano fuggito dal suo paese per evitare il carcere: è stato accusato dalla polizia di sovversione, perché sorpreso a fotografare un moto popolare. Ricevuto in Italia, in qualità di rifugiato politico, in un centro di accoglienza, manifesta ben presto i sintomi di una depressione che si aggrava progressivamente sino al punto di sfociare in un tentativo di suicidio. Dimesso, si presenta nell'ambulatorio di Ancora con una cartella clinica in cui è riportata la diagnosi «sindrome depressiva grave con tentativo di suicidio». Il terapeuta, prima di iniziare il trattamento, cerca di entrare in contatto con il giovane fotografo, invogliandolo a parlare di sé e del suo mondo e, per vincere il muro di diffidenza, si spinge sino ad accompagnarlo a visitare con lui una mostra di arte persiana. Segue un periodo in cui Ahmad non si fa vivo e le notizie che arrivano dal centro parlano di un ulteriore aggravamento della crisi depressiva e di un nuovo tentativo di suicidio. Ahmad ritorna un ambulatorio e parla con il terapeuta della moglie e della figlia, una bambina, che ha dovuto lasciare in Iran. A questo punto Ancora ha un'idea, mettere in comunicazione il paziente con il suo nucleo familiare, convincendo la direzione della struttura a farlo telefonare direttamente in Iran. Mentre la conversazione è in corso, Ancora, fa discretamente per allontanarsi, ma il paziente lo richiama, dicendogli «resta, anche tu fai parte della famiglia». Il trattamento può davvero decollare.
Che cosa è avvenuto? La solitudine di Ahmad è stata contrastata facendo dell'ambulatorio una sorta di cabina telefonica che, resa una «quasi casa», simula le pareti domestiche della casa iraniana adatta all'incontro del giovane con le persone che ama, sul filo di un contatto che, se non è fisico, non è, per questo, meno intenso. Resta l'angoscia di Ahamad, la sua malinconia, che però, divenute oggetto di colloquio con un amico, non sono più irretite nella solitudine della depressione. Resta lo psichiatra istituzionale romano Alfredo Ancora, che ha trasformato il suo bagaglio professionale, mettendolo alla prova con il dolore del paziente, senza spocchia e senza faciloneria.
Repubblica 29.12.06
La polemica. L'Italia divisa tra laici e laicisti
di Miriam Mafai
CHI sono i laici, e chi sono i cosiddetti «laicisti» nel nostro paese? La domanda mi viene spontanea dopo aver letto l´intervista con la quale la senatrice Anna Serafini, dei Ds, mette in guardia il centrosinistra dal pericolo di scivolare nel «laicismo», con il rischio di provocare una «lacerazione della nostra società». Laici sì, laicisti no. Ma come distinguere gli uni dagli altri?
Qualche giorno fa, ho molto apprezzato la presenza del senatore Ignazio Marino ai funerali di Piergiorgio Welby e l´impegno che in quella sede ha pubblicamente confermato di voler portare avanti, fino al positivo esito, il dibattito già in corso nella commissione Sanità, sul tema del «testamento biologico». Il problema, ricorda lo stesso Marino, non è di oggi.
Le prime pronunce relative al diritto di morire con dignità riconoscendo legittima la volontà del soggetto sono state emesse negli Usa più di trent´anni fa, e anche nel nostro paese è ormai cresciuta la richiesta dei cittadini di poter esprimere in piena lucidità le proprie scelte da realizzare nel momento del trapasso. Era questo che Welby chiedeva in piena lucidità. Ma questa legge in Italia non c´è e per ottenerla bisognerà superare molte difficoltà e riserve delle gerarchie cattoliche. E dunque, il senatore Marino che su questo fronte è impegnato, va iscritto tra i laici o tra i laicisti?
Lo stesso senatore Marino ha condiviso e sostenuto la decisione presa dal ministro Fabio Mussi in sede europea a favore della ricerca sulle linee cellulari di staminali embrionali esistenti, e a favore della ricerca sugli embrioni attualmente congelati e abbandonati, una volta accertato il momento in cui gli stessi embrioni perdono la capacità riproduttiva. Anche in questo caso è legittima la domanda: il ministro Mussi è laico o laicista?
Il senatore Marino è un cattolico. Un cattolico laico, come ne abbiamo conosciuti molti nella storia della nostra Repubblica (anche in momenti di grande tensione e problematicità) e come ne conosciamo ancora molti. Laici e quindi disponibili al dibattito, al confronto, anche al compromesso che, in politica, è un passaggio non solo inevitabile, ma anche augurabile per raggiungere soluzioni condivise. Non solo quando siano in discussione materie che definiamo «eticamente sensibili».
Onestamente, non ho capito le preoccupazioni espresse ieri dalla senatrice Anna Serafini quando ci metteva in guardia dal pericolo di un presunto «laicismo». E non capisco bene, in verità, nemmeno cosa si intenda per «laicismo». In Italia nessuno ha proposto o propone, come è accaduto in Francia (ma ogni paese ha la sua storia) la esclusione dalla sfera pubblica di ogni forma e manifestazione della propria fede religiosa. In Italia siamo di fronte al fenomeno contrario. Se la religione cattolica, con il Concordato del 1984, non è più la sola religione dello Stato, la complessiva debolezza della politica consente, ormai da anni, una progressiva invadenza delle gerarchie e del Pontefice in prima persona su tutti i temi di pubblico interesse e materia di dibattito e decisioni politiche. Che si tratti di aborto o di procreazione assistita, di malattia o di autodeterminazione del paziente, della ricerca scientifica o dei diritti delle coppie di fatto e degli omosessuali. Tutti temi che definiamo «eticamente sensibili» e sui quali nessuno nega, naturalmente, alla Chiesa di esprimere le sue opinioni (e le sue preoccupazioni). Ma ciò che colpisce è la violenza e la mancanza di pietà di alcune affermazioni e la pretesa che la politica si pieghi alle sue richieste. Una pretesa che viene rivolta in modo specifico e particolare all´Italia ed alle sue assemblee rappresentative, cui si nega o si pretende di negare il diritto di legiferare liberamente su una serie di materie.
A questa situazione faceva riferimento mercoledì scorso un passaggio dell´articolo di fondo di Eugenio Scalfari, quando chiedeva al presidente Prodi di inserire tra i suoi impegni urgenti «la difesa della laicità delle istituzioni senza cedimenti intollerabili alle pretese della lobby della Conferenza Episcopale». Eugenio Scalfari è certamente un laico. Non so se possa essere collocato tra i «laicisti». A meno di non voler collocare tra i «laicisti» non solo il Conte di Cavour che voleva «una libera Chiesa in libero Stato», ma anche Enzo Bianchi, priore di Bose, che recentemente metteva in guardia il clero interventista dalla tentazione di occupare il vuoto lasciato dalla politica, ammonendo: «Non spetta alle figure ecclesiali della gerarchia entrare nella tecnica, nella economia e nella politica per trovarvi specifiche soluzioni»
La Sicilia 28.12.06
Se Kant fa i conti con l'«Apocalisse»
L'illuminista e l'eternità: nuova edizione italiana del saggio «La fine di tutte le cose»
di Roberto Fai
Negli anni in cui Federico Guglielmo II imperava in Prussia, in un clima di censura teso a difendere la fede positiva luterana, l'illuminista Immanuel Kant inviava all'amico ed editore Johann E. Biester un breve ma intenso saggio intitolato «La fine di tutte le cose», che sarebbe apparso nel numero della rivista dell'amico editore nel giugno del 1794, suscitando l'immediato rescritto censorio regio di Guglielmo II, il quale, in una missiva inviata tramite il ministro del Dipartimento per il Culto prussiano minacciava l'illustre filosofo di «provvedimenti spiacevoli» nei suoi confronti nel caso in cui avesse proseguito ancora con scritti di natura teologica, che invece dovevano essere riservate alla competenza dei teologi della Chiesa luterana.
Già nel titolo, il denso scritto kantiano mostrava il suo intento di operare un serrato confronto con «L'Apocalisse» di Giovanni, quale testo fondamentale, che, chiudendo la Scrittura, rappresentava, ad un tempo, la fine del Libro dei Libri e la profetica fine del mondo: la storia umana trovava il proprio senso attraverso la trama grandiosa che il «Libro» esponeva nell'annuncio del compimento escatologico.
Se è vero, come è stato efficacemente sostenuto, che nel toccare il tema della «fine di tutte le cose», in Kant aveva anche agito l'istanza di una «meditatio mortis», in ragione del suo stato di vecchiaia, aggravato dal timore dei pesanti provvedimenti censori che da diversi anni il governo prussiano minacciava nei suoi confronti, nel saggio del 1794, due sembrano essere le domande a cui Kant intendeva rispondere: affermare il "primato" geneaologico della ragione umana, rivendicare la priorità dell'azione morale dell'uomo, e - sul tema della "eternità", che il testo dell'Apocalisse evoca, in quel versetto cruciale dove recita che, alla fine dei tempi, «non vi sarà più il tempo» - riaffermare il "limite" del pensiero.
Di questo straordinario testo kantiano giunge in questi giorni una nuova edizione italiana, «La fine di tutte le cose», (Bollati Boringhieri, Euro 7,00), per la cura di Andrea Tagliapietra, che aggiunge un intenso saggio esplicativo.
Già alcuni decenni prima, il giovane Kant era stato attratto da interessi scientifici, affrontando il problema della "fine" da un punto di vista "fisico", tracciando un parallelo tra il declinare della Terra, il suo possibile tramonto e quello della vita umana. Tutti gli enti naturali - dalla terra all'uomo - connessi in un comune destino entropico sono destinati, per Kant, ad una "fine", dovuta al loro inevitabile dispendio energetico. Nel saggio del '94, il tema della "fine di tutte le cose" - in un serrato confronto con L'Apocalisse - assume invece una connotazione metafisica.
«Ma perché gli uomini si aspettano in generale una fine del mondo? E… perché proprio una fine accompagnata dal terrore?». Di fronte a tale angosciante domanda, c'è un modo attraverso cui la ragione può neutralizzare proprio "quell'Anticristo", la cui attesa/venuta annuncia drammaticamente il Giorno del Giudizio, e che il filosofo di Königsberg aveva risolto liberando il tempo dall'angoscia dell'attesa escatologica, dal momento che «l'apocalisse è ora» (Tagliapietra), è «già» ora: già, «a sempre».
Così come, per Kant, l'idea stessa di un passaggio dal tempo all'eternità, implicando «una fine di tutto il tempo» è, di per sé, un'idea contraddittoria, perché il «passaggio» esige sempre un «tempo», e se c'è tempo, non solo l'eternità è impossibile, ma rimane un concetto inaccessibile al pensiero. Finché pensa - come scrive magistralmente Tagliapietra - il pensiero non può che pensare temporalmente. La fine di tutte le cose diviene pensabile - scrive Tagliapietra - come immagine presente dell'azione morale, non «futura», come la speranza, ma «vicina» come l'amore. Corrispondendo così proprio a quanto annunciato nell'Apocalisse di Giovanni: «...perché il tempo è vicino».