martedì 19 dicembre 2006

il manifesto 19.12.06
Il regno dei preti
di Marco d'Eramo


«Odio il regno dei borghesi, il regno dei poliziotti e dei preti, ma odio ancora di più chi come me non lo odia con tutte le sue forze». Così scriveva nel 1931 il poeta francese Paul Eluard. Si sentirebbe davvero molto solo nell'Italia di oggi Eluard, soprattutto nei giornali che servili corteggiano i borghesi, sommessi obbediscono ai poliziotti, e untuosi s'inchinano al cospetto dei prelati. Non c'è telegiornale «laico» da cui non imperversi il cardinale di turno. Non c'è elezione in cui la Curia non ponga condizioni per concedere il suo appoggio. Non c'è politico di sinistra che non si riscopra una fede forse ben nascosta per decenni, ma pur sempre ardente come brace sotto la cenere (Piero Fassino e Fausto Bertinotti docent). Mangiapreti di ieri come l'ex radicale Francesco Rutelli sono diventati «ranocchie d'acquasantiera», secondo l'espressione francese. Fini letterati che cantarono la Finis Austriae, dell'impero asburgico sembrano rimpiangere anche la cultura tridentina, come Cluadio Magris che sul Corriere definisce Benedetto XVI «molto meno conservatore di quanto si creda», forse perché Ratzinger è intellettuale mitteleuropeo.Ma il culmine ineguagliato dell'ossequiosità al Vaticano lo si coglie nel variegato fronte contrario ai Pacs, che brandisce lo «scandalo» delle coppie omosessuali per negare status legale e legittimo a tutte le unioni di fatto, anche quelle eterosessuali. Come spesso gli è capitato nel corso della storia, il Vaticano combatte un'altra battaglia di retroguardia, e già persa. Basta contare i bambini nati fuori dal matrimonio nei paesi cattolici d'Europa. Escludiamo pure la Francia giacobina, in cui i bimbi nati da mamme non sposate sono il 48% del totale. Ma nella cattolicissima Polonia sono il 37%; nell'ultra clericale Irlanda il 32 %; nel Portogallo del miracolo di Fatima il 18,4%. E in Italia sono il 14%, cioè un bambino su sei. E, per quanto inattendibili e sottostimati siano i dati dell'Istat (in tutti gli altri paesi la percentuale di convivenze di fatto è pari a quella dei bambini nati fuori dal matrimonio, solo in Italia è misteriosamente meno della metà), essi indicano pur sempre che negli ultimi 10 anni tali unioni sono triplicate.Quel che queste nude cifre dicono con inoppugnabile chiarezza è che ormai la Curia non ha più contatto con il diffuso sentire dei cattolici europei. È sconnessa dal suo gregge. Come negli anni '70, su temi quali divorzio e aborto non era semplicemente più ascoltata dai suoi fedeli. E oggi, solo per compiacere il clero, e sempre per l'antico vizio di correre in soccorso dei potenti, o supposti tali, i politici del centrosinistra s'incamminano su questa stessa via di estraniazione del comune sentire di polacchi e irlandesi, portoghesi e italiani. Se la chiesa maledicesse le biciclette, è sicuro che i Mastella, i Casini, i Rutelli (con qualche diessino di scorta) proporrebbero un disegno legge per limitarne l'uso. E non è una battuta balzana, visto che a fine '800 L'Osservatore Romano si scagliò con inaudita violenza contro il «bicicletto», come allora si chiamava, considerato simbolo della sovversione sociale e del disordine moderno. Chissà se i nostri pronipoti reagiranno alle condanne dei Pacs con la stessa ironica bonomia con cui noi leggiamo gli anatemi contro il «velocipedismo». Ma sui Pacs noi non possiamo ancora sorridere.

l'Unità 19.12.06
Partito Democratico Targetti e la nuova questione cattolica
di Carlo Flamigni e Maurizio Mori


Caro Targetti,solo falsando o edulcorando la realtà italiana si può accusare di «conservatorismo» chi mette in luce che non si può formare il Pd senza prima aver chiarito la linea sulle questioni attinenti l’etica e la laicità, in risposta alle difficoltà poste dalla «nuova questione cattolica». I preti hanno il sacrosanto diritto (come tutti) di esprimere le proprie opinioni, ma non possono pretendere che l’etica cattolica regoli la vita pubblica e assuma una valenza politica come invece fanno quando gettano fango sulle posizioni laiche o pongono precisi veti su chi sostiene posizioni «non gradite». L’elenco in proposito è ormai così lungo che non può, caro Targetti, essere più ignorato.Poiché i progressi della scienza impongono riforme strutturali, il Pd non può continuare a lasciare la libertà di coscienza sui cosiddetti «temi eticamente sensibili» o restare ostaggio del ricatto di cattolici pronti a passare all’opposizione. Questo porta a soluzioni negative (vedi legge sulla fecondazione assistita) o all’immobilità (vedi divorzio breve!), oppure, nella più rosee delle soluzioni, a vedere le riforme richieste come un «male minore» da accettare turandosi il naso, e non come un valore positivo di cui essere orgogliosi. Invece di avere una precisa impronta progressista, le nuove leggi sarebbero dei pataracchi frutto di estenuanti compromessi, con un danno per la crescita civile della società italiana. Le questioni etiche e bioetiche vanno discusse prima, perché vogliamo che il Pd sia progressista, e non ancorato al conservatorismo di chi continua a proporre come «non negoziabili» valori che ormai sono fuori dalla storia e bloccano la vita sociale.

l'Unità Firenze 19.12.06
Tarkovskij, Firenze non dimentica
di Edoardo Semmola


A vent’anni dalla morte del grande regista russo, la sua città d’adozione gli dedica da stasera quattro appuntamenti
Non lo possiamo chiamare un fiorentino d’adozione. Perchè quello di Andrej Tarkovskij con la terra toscana, più che un rapporto filiale è stata una vera storia d’amore. A questo fiorentino, dunque, di seconde nozze, autore di indimenticabili pellicole cinematografiche come Solaris e Nostalghia, Firenze ha dedicato una targa commemorativa e 4 eventi per ricordarlo a 20 anni dalla morte. Come ha affermato l’assessore alla toponomastica Eugenio Giani, «Firenze è onorata di aver fra i suoi concittadini il grande regista russo. Per questa ragione, per ricordarne la sua figura e il suo rapporto con la città, come Amministrazione comunale abbiamo voluto l’apposizione di una lapide in via San Niccolò 91, dove lui visse. La cerimonia si svolgerà il prossimo 29 dicembre». In contemporanea è stato aperto al pubblico l’Archivio Tarkovskij, in passato oggetto di aspre contese tra Firenze e Mosca. L’archivio, unico in Europa e tempio sacro di tutta l’eredità del regista esistenzialista russo, sarà custodito in via dell’Oriuolo nei locali che il comune di Firenze ha riservato per le attività e gli uffici dell’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij. Stasera alle 21 al Teatro Goldoni il primo dei quattro appuntamenti di questo ventennale con un concerto in prima assoluta: Stefano Maurizi e Talya G.A con il World Music Quartet. Mentre venerdì 29 alle 21, sempre al Goldoni, sarà la volta del pianista e compositore contemporaneo francese, François Couturier con Nostalgia - Song for Tarkovsky. Innamorato da sempre del cinema di Tarkovskij, Couturier ha realizzato 12 brani per pianoforte, violoncello, sassofono soprano e fisarmonica, ispirati alle immagini e all’opera del maestro russo. Il concerto è stato realizzato in collaborazione con l’etichetta Ecm Nostalgia il cui direttore, Manfred Eicher, sarà presente in teatro insieme a Stefano Maurizi del World Music Quartet. Dal 19 gennaio al 18 febbraio sarà poi allestita presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze la mostra fotografica dal titolo Lo specchio della memoria. Prendendo spunto dal film autobiografico del regista, Lo specchio appunto, la mostra propone 60 vecchie fotografie della famiglia Tarkovskij risalenti alla prima metà del Novecento.

Repubblica 19.12.06
I simboli universali della natività
IL BUIO DELLA GROTTA E LA LUCE DELLA NASCITA
di UMBERTO GALIMBERTI


Tempo. La venuta di Cristo ha diviso in due il tempo della storia: il ciclo della natura ha lasciato il posto alla promessa del futuro

La nascita non è mai così sicura come la morte. Si può infatti morire anche senza essere mai nati, si può passare nella vita come giorni senz´alba. Il richiamo alla nascita, che il cristianesimo ripropone ogni anno alla cultura dell´Occidente sul registro della memoria religiosa e della festa, allude a quel compito che Pablo Neruda, senza troppa enfasi, affidò a uno dei suoi versi: «È per rinascere che siamo nati». E così la vita riassume la sua serietà, sottraendosi all´ingenuità dei buoni sentimenti con cui cerchiamo, ogni anno di questi tempi, di recitare la bontà, la serenità e la pace; un po´ goffamente, come capita a chi non è proprio di casa tra queste disposizioni d´animo.
Venire alla luce da una grotta, questo evento che il cristianesimo celebra il 25 dicembre, era già noto al mondo orientale e poi greco-romano, che in quella data festeggiava la nascita di Mitra, il dio della luce celeste, garante dei giuramenti, custode della verità, avversario della menzogna.
Amico del sole, Mitra è rappresentato dai bassorilievi come colui che inizia il sole, inginocchiato davanti a lui, con un braccio steso sul suo capo, affinché il sole apprenda il suo corso e lo persegua con regolarità e senza sconvolgimenti. Era preoccupazione del mondo antico che fosse assicurata la regolarità del ciclo, che il tempo trascorresse nella regolarità delle sue cadenze, che solo il sole con le sue albe e i suoi tramonti poteva assicurare. Mitra siede al banchetto con il sole, stringendo con lui un patto, e poi sale sul suo cocchio per percorrere insieme gli spazi celesti regolati nelle loro distanze dalla giusta misura. Il culto di Mitra non ebbe templi, ma grotte, in origine naturali, e poi artificialmente riprodotte nel sottosuolo. Dall´oscurità della terra alla luminosità del cielo. Questo è il simbolo di Mitra e il simbolo di Gesù.
Ma probabilmente è il simbolo di ogni uomo che per nascere deve "venire alla luce" da quel "fondo oscuro" che è il ventre della madre, l´antro dove siamo concepiti per una nascita, quella nascita che da sola non basta e che invoca una rinascita per trovare il suo senso. La festa di Mitra e di Gesù ribadisce questa vertigine simbolica dove ciascuno deve diventare antro di se stesso, grotta di generazione, notte buia che ha in vista il nuovo giorno, il dies natalis.
I simboli martellano la nostra depressione, non ci lasciano nella serena amicizia che spesso intrecciamo con la rinuncia. I simboli ci costringono a vivere, organizzano feste gioiose per riportarci alla vita, quando la nostra partecipazione all´esistenza non ha più i toni forti dell´entusiasmo, o quelli seducenti della voluttà. I simboli, questa macchina collettiva di vita, a cui interessa solo la vita, la vita di tutti, la vita del gruppo, del genere, dell´umanità, i simboli che cosa sanno della mia morte? Quel giorno, per ognuno di noi, potrebbe anche cadere il sole. Un altro antro è già pronto. L´antro di un´altra madre: madre-terra. Mitra, con la sua alleanza con il sole, voleva garantire la regolarità del ciclo, Gesù si congeda dal ciclo e dalla sua regolarità per annunciare un nuovo tempo: nuovi cieli e nuove terre. La storia ha un sussulto e si lacera in prima e dopo Cristo.
Nel ciclo ogni epoca non ha una finalità, ma semplicemente una fine. A sancirla è la morte, il giudice implacabile che amministra il ciclo, non nel senso che lo destina a qualcosa, ma nel senso che lo ribadisce come eterno ritorno. Nel ciclo non c´è rimpianto e non c´è attesa. La trama che lo percorre non ha aspettative né pentimenti. La temporalità che esprime è la pura e semplice regolarità del ciclo, dove non c´è futuro che non sia la pura e semplice ripresa del passato che il presente ribadisce. Non c´è nulla da attendere se non ciò che deve ritornare. Questa è la scansione del tempo prima di Cristo.
Dopo Cristo si fa strada una parola dirompente che spezza la ciclicità del tempo e la sua regolarità. Il suo suono è éschaton, una parola che nella direzione dello spazio significa "lontano" e nella direzione del tempo significa "ultimo". L´éschaton è dunque un tempo fuori portata, dove solo alla fine può apparire il fine di tutto ciò che è accaduto nel tempo, che a questo punto cessa di essere puro divenire per tradursi in storia. Guardare il tempo come storia è possibile solo se già si è ospitati nella prospettiva escatologica, dove il primato del fine sulla fine irradia sul tempo la figura del senso. Alla fine si adempie ciò che all´inizio era stato annunciato.
Inaugurando il punto di vista del fine che si realizza alla fine, il cristianesimo genera una temporalità che è assoluto futuro. E così non solo si separa dalle mitologie primitive che leggono il tempo a partire dal passato, da un paradiso perduto, ma proietta la salvezza in quel possibile futuro a cui si agganciano sia l´utopia sia la rivoluzione, quando la nuova figurazione del tempo, inaugurata dal cristianesimo, si contamina con l´ateismo della speranza.
Per lontane che sembrino, utopia e rivoluzione sono eventi cristiani, appartengono al tempo dopo Cristo, scavano il motivo della speranza e della rinascita, sondano possibilità di salvezza, credono che la storia abbia un senso, guardano con sospetto il nietzschiano "tempo senza meta". L´Occidente è stato sedotto da questo nuovo modello di temporalità e, in versione cristiana, utopica o rivoluzionaria, celebra nel natale non il ritmo del ritorno, ma l´atmosfera della rinascita, l´entusiasmo di ciò che ancora è in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo.
Non guardiamo il natale con occhi innocenti. Non nascondiamoci dietro lo sguardo dei bambini. Nel loro incanto sappiamo che c´è provvisorietà e un po´ d´inganno. Una festa può essere così universale solo se raccoglie le metafore di base dell´umano e non solo semplicità e innocenza. Di questi temi ne abbiamo percorsi alcuni. Siamo partiti da una grotta da cui presero le mosse sia Mitra sia Gesù, ma subito dai loro messaggi siamo stati scaraventati da Mitra in cielo a seguire l´andamento del sole, da Gesù a seguire il percorso della storia sulla terra. Il tempo si è spaccato in due, la natura e il suo ciclo hanno ceduto al futuro e alla sua promessa. Tornati tra gli uomini e alle loro quotidiane cadenze, li abbiamo seguiti nei loro passi fuori dalla solitudine, in cerca d´amore. Un amore universale per un giorno di rinascita. Ma torniamo all´inizio: il natale non è nato per la confezione dei buoni sentimenti. Il timbro di questa festa è molto più forte: in gioco c´è l´uomo e la sua storia guardati da un punto di vista molto esigente. È il punto di vista per cui: "Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati".

Repubblica 19.12.06
La festa religiosa e il rito pagano
Cosa significa per noi la nascita di Cristo
di Corrado Augias e Mauro Pesce


Per i credenti un giorno che evoca l'evento fondamentale della fede
Per la società una tradizione che rischia di smarrire il senso originario

Se si considera la figura di Gesù esclusivamente dal punto di vista storico, è possibile, entro certi limiti, dire dove, quando, da chi egli sia nato. Il suo nome in ebraico è Yoshua ben Joseph. Gesù infatti viene dal greco Jesùs, calco del nome ebraico Jeshu, abbreviativo di Yeoshua. Quanto a "Cristo" riflette la parola greca Christòs, che traduce l´ebraico Mashiah, cioè "messia"; vuol dire "unto" ed è uno degli attributi che a Gesù sono stati dati. I fedeli spesso pensano che "Cristo" sia un nome di persona, in realtà è un titolo che indica un ruolo, appunto quello di "messia". L´impressione che danno i racconti dei Vangeli di Marco, Luca e Matteo è che Gesù sia nato in Galilea, cioè nel Nord della Terra d´Israele, verosimilmente a Nazareth o che, comunque, lì abbia vissuto a lungo con la famiglia. Giovanni invece colloca sua madre Maria sempre in Galilea ma nel villaggio di Cana. E Betlemme? Sulla base di una valutazione solo storica l´ipotesi di una nascita a Betlemme è debole. Solo due vangeli, Matteo e Luca, parlano diffusamente della nascita e, dei due, è Matteo che rende esplicite le ragioni per le quali quel minuscolo villaggio è stato scelto. In un libro della Bibbia ebraica (Michea, 5,1) è scritto: «Ma tu, Betlemme di Efrata,/ la più piccola tra i clan di Giuda,/ da te uscirà per me/ colui che dovrà regnare sopra Israele». I vangeli sono resoconti che hanno lo scopo di suscitare la fede in Gesù detto il Cristo, colui che l´onnipotenza divina ha fatto risorgere dai morti. A questa luce, anche la nascita in Betlemme diventa un dato teologico più che biografico. Gesù doveva nascere in quel minuscolo villaggio perché lì le scritture avevano profetizzato che sarebbe venuto al mondo il futuro re d´Israele.
Nato quando? Poiché siamo nell´anno 2006 dell´era cristiana (5766 dell´era ebraica) dovremmo pensare che egli sia nato 2006 anni fa (cioè nel 3760 d´Israele). Gesù in realtà è nato verso gli ultimi anni del regno d´Erode il quale morì nel 4 a.C. circa. Dunque dovremmo essere come minimo nel 2010, se davvero contassimo a partire dalla sua nascita. Nato il 25 dicembre come ci apprestiamo a celebrare tra pochi giorni? È anche questa una data discutibile. Più o meno in quel giorno cade il solstizio d´inverno dopo il quale le giornate cominciano ad allungarsi; la terra per dir così riprende il suo cammino verso la primavera. Il 25 dicembre è per conseguenza una data simbolica, i romani la definivano del "sol invictus". Infatti anche un altro dio si diceva fosse nato in quel giorno: il misterioso Mitra, divinità benevola che ebbe largo seguito a Roma. La religione a lui ispirata, il mitraismo, contese a lungo il primato al cristianesimo. Una delle leggende diceva che aveva preso forma nel ventre di una vergine; sempre secondo la leggenda, sarebbe tornato in cielo all´età di 33 anni. Del resto solo intorno al 335 d.C., il 25 dicembre venne accettato dalla chiesa come effettiva data di nascita di Gesù.
Nato da una vergine? Per Giovanni, Giuseppe sembra essere il padre fisico di Gesù. Per giustificare l´origine divina di Gesù questo vangelo non ricorre alla nascita verginale. La teologia ha discusso per secoli su questo punto sostenendo che Giuseppe non sarebbe il vero padre, perché Gesù, secondo i vangeli di Luca e Matteo, sarebbe nato in modo miracoloso da una vergine, grazie all´intervento dello Spirito santo. Come spiegare, al di fuori di un´obbedienza dogmatica, un´ipotesi così ardita? Il termine ebraico di riferimento è almàh che vuol dire "giovane donna" e, se si vuole, vergine in quanto giovane donna. Solo che almàh è stato tradotto in greco con "parthenos", che significa "virgo intacta", a dispetto del fatto che in numerose occasioni i vangeli parlino dei fratelli e delle sorelle di Gesù.
Gesù detto il Cristo, era in primo luogo un profeta ebreo, figlio di quella fede, obbediente in tutto alla Torah, ma nello stesso tempo profondamente innovatore, consapevole di possedere qualità straordinarie, ansioso di conoscere da Dio quale uso dovesse farne. Secondo un documento della Santa Sede del 1985: «Gesù era un ebreo e lo è rimasto sempre».
È assai probabile che egli parlasse il dialetto della sua regione, vale a dire il dialetto aramaico della Galilea. Sappiamo che frequentava le sinagoghe ed era capace di leggere i testi biblici, dunque conosceva anche l´ebraico, lingua della Bibbia. Quale diffusione avesse l´ebraico è materia di discussione. Diversi studiosi sostengono che era la lingua corrente. Altri, invece, magari di tendenza antisionista se non proprio antisemita, sostengono che l´ebraico non era più una lingua parlata. Nel complesso possiamo descrivere la situazione come diffusamente multilingue conseguenza di una certa ellenizzazione della Galilea. In ogni caso alcuni indizi nei vangeli sembrano indicare che Gesù parlasse non l´ebraico, ma l´aramaico-galileo. Inoltre conosceva forse un po´ di greco e anche qualche elemento di latino. Infatti non bisogna mai dimenticare, leggendo i vangeli, che la Terra d´Israele ai tempi di Gesù era militarmente occupata dalle truppe romane, che a Gerusalemme risiedeva un procuratore (il famigerato Ponzio Pilato) il quale dipendeva a sua volta dal governatore della Siria. Imperatore regnante in quegli anni era Tiberio.
Gli storici discutono sulle forme e sui limiti del dominio romano. Alcuni tendono a limitare la presenza fisica dei soldati romani in Galilea. Da un punto di vista politico, comunque, quei territori erano dominati dalla potenza romana ed Erode ne era lo strumento. Gesù viveva in una situazione multiculturale ed era ben consapevole dell´importanza di questo dominio. Se non si tiene conto di questo sfondo la sua azione diventa incomprensibile anche se bisogna aggiungere che, vivente Gesù, non si ebbero episodi di violenta rivolta antiromana come quelli che ci saranno nei quaranta anni successivi.
Il giudaismo di quei tempi attribuiva certo al messia una funzione politica, ma in modi molto vari e non sempre diretti. La funzione politica era invece chiara in figure designate con appellativi esplicitamente politici, come ad esempio "re". I testi però non dicono con chiarezza se Gesù si sia mai considerato un messia. È come se Gesù, che certamente si considerava inviato da Dio con una missione particolare, stranamente non avesse scelto in modo esplicito questo titolo per sé stesso. Messia infatti è usato piuttosto dai suoi discepoli. Anzi, in alcune occasioni si ha l´impressione che egli cerchi d´impedire dichiarazioni esplicite sulla sua dignità messianica. Non è facile definire la sua fisionomia anche perché nella letteratura del primo cristianesimo gli vengono attribuiti diversi altri titoli, come quello di profeta o di figlio di Dio. Anche questi vanno ovviamente interpretati nel contesto storico e religioso dell´epoca, non secondo concezioni cristiane successive.

Repubblica 19.12.06
La festa dei bambini e quella degli adulti
Il nostro stupore di fronte al Natale
di Joaquìn Navarro-Valls


Mistero La nascita di Gesù ci mette davanti al mistero che si cela dietro la venuta al mondo di un uomo: la gratuità del dono

Tra le molte storie che narrano l´origine di Babbo Natale particolarmente significativa è quella dello scrittore popolare tedesco Hermann Löns.
Babbo Natale se ne va triste per i boschi nella neve ed incontra Gesù Bambino. L´appuntamento tra i due ricorre ogni anno. Ma questa volta, Babbo Natale ha qualcosa che non va: è triste.
Davanti all´anziano sconfortato per la noia del suo girovagare di casa in casa e di luogo in luogo, oppresso dal peso degli anni, Gesù rimane colpito. Allora, decide di consolarlo. Guardandosi intorno, vede uno splendido albero e glielo indica.
Vincendo lo scetticismo di Babbo Natale, Gesù Bambino comincia a decorare l´albero, addobbandolo e facendolo splendidamente colmo di luci, palline e regali da portare nelle case della gente. Questa ingegnosa invenzione di Gesù Bambino consola e solleva Babbo Natale, che può dire soddisfatto: "Ecco! Finalmente qualcosa di nuovo!".
Arrivati in paese, Babbo Natale e Gesù Bambino giungono in una casetta, aprono lentamente la porta ed entrano. Pongono al centro della sala l´albero decorato e si addormentano. Al risveglio, il padrone di casa rimane stupefatto dalla bellezza che vede e decide di accendere le luci dell´albero. Davanti alla gioia incontenibile dei suoi, tutto assume finalmente un clima di festa. Sia l´uomo e la sua famiglia e sia Babbo Natale si rivolgono a Gesù appagati e grati per il bellissimo dono di serenità e di felicità che hanno ricevuto.
Questa storia parla di un aspetto rilevante del Natale.
La ricerca della cosa insolita ed ambita e la soddisfazione di una sorpresa ricevuta da qualcuno sono infatti ingredienti essenziali della festa.
Il fatto emerge anche in altre narrazioni popolari e rimanda direttamente all´allestimento del presepe. In questo caso, l´origine della devozione spiega bene il significato della solennità.
San Francesco, dopo il suo viaggio a Betlemme, rimasto stupefatto dai luoghi e dallo scenario della natività che aveva visto, fece allestire a Rieti una rappresentazione figurata della nascita di Gesù in occasione del Natale del 1223. Il suggestivo evento colpì tantissimo la gente. Infatti, anche Giotto ha reso immortale l´avvenimento nello splendido affresco che orna la Basilica Superiore di Assisi. L´allestimento del presepe, successivamente, ha preso rapidamente piede con popolarità, diffondendosi ben presto come una tradizione.
Il motivo del trionfo è forse relativo al fatto che il presepe è capace immediatamente di far rivivere con la medesima intensità percepita da Francesco l´immagine della Natività, ogni anno rievocata e riproposta. Anche in questo caso, oltre lo stupore generale, dietro il ricordo scenografico della raffigurazione si nasconde il significato profondo di ciò che esprime per l´uomo la Natività.
Ogni bambino, concentrato davanti alle statuine del presepe, apprende molti aspetti fondamentali della sua vita. Dinanzi alla raffigurazione scenica dell´Avvento viene trasportato all´interno del significato autentico della nascita di una nuova vita, della fragilità ma soprattutto della gratuità dell´esistenza umana.
La Natività è in fondo la figura emblematica della bella sorpresa. La Natività è la celebrazione e l´attesa rituale della felicità provocata da l´unico evento capace di trasformare realmente le cose: l´arrivo inaspettato di qualcuno che ci trascende. La novità della nascita di Gesù spiega chiaramente quale mistero si cela all´interno della nascita: il carattere gratuito della donazione.
E´ chiaro che davanti allo spettacolo del presepe nessuno crede veramente di avere a che fare esclusivamente con una ricorrenza, ma sente di essere trasportato nell´aspetto più intimo e profondo della vita personale, che si esprime nell´inesorabile consumarsi del tempo.
Proprio per questo il Natale non è soltanto la festa per eccellenza dei bambini, ma è anche la festa degli adulti che vengono fermati per un momento dallo scorrere dell´immanenza.
I grandi, totalmente immessi nelle loro attività, sono distolti dalla grande novità, un po´ come avviene per i pastori del presepe. Quello che accade non li lascia indifferenti, ma li coinvolge e li trascina fino a scoprire il senso ultimo della loro esistenza, liberandoli da se stessi e dal proprio irrilevante solipsismo.
Come per i Re Magi, anche per noi la certezza sull´imminente arrivo della persona attesa guida il nostro cammino, lento, costante, perseverante, e ci apre finalmente alla presenza dell´Altro.
Certo al Natale si accompagnano inaudite implicazioni teologiche, ma forse proprio per questo è il valore allusivo dell´elemento poetico che più chiaramente rivela il valore autentico dell´avvenimento.
D´altra parte, il sogno di avere qualcosa di desiderato, qualcosa di sperato, qualcosa di gratuito sfavilla splendidamente nello sguardo scintillante di un bambino che scrive la lettera a Babbo Natale o che dorme attendendo i regali o che finalmente li scarta entusiasta. Tale fiducia, come quella dei personaggi del presepe, si appoggia in noi sulla sicurezza di ricevere il dono promesso, perché è stato assicurato da qualcuno che ci ama veramente.
Dire che il Natale è la festa dei bambini significa, dunque, parlare della Natività, come dell´incedere del nuovo, come del presentarsi dell´atteso o dell´inatteso, ma anche come fiducia di essere amati da qualcuno.
In tal modo, davanti alla grotta di Betlemme, ci troviamo di fronte ad un occasione veramente inaudita, perfino inconcepibile.
In quello scenario, infatti, gli adulti possono tornare un po´ bambini, per stupirsi ancora di qualcosa, per uscire dalla routine della monotonia quotidiana, e i bambini possono aprirsi ad una dimensione definitiva e significativa della vita che trova il senso ultimo nella fedeltà gratuita verso le offerte ricevute.
In fondo, la nostra vita, che spesso chiude lo spazio a tutto ciò che non può essere controllato o previsto, davanti ad una nuova nascita si trova sospesa nel vuoto e direttamente protesa verso lo sconosciuto. Ma, mentre i bambini si immergono nel mistero dell´esistenza, facendo esperienza dell´intangibilità del nuovo regalo della vita che vivranno, gli adulti possono riscoprire e fare emergere in se stessi l´impressionante forza della loro generosità.
E´ per questo che ricevere un regalo a Natale o in un´altra occasione non è la stessa cosa, perché a Natale riceviamo regali senza nessun motivo e senza nessun merito da parte nostra. E´ una vera donazione di qualcosa, che ci attraversa e ci muove verso gli altri, perché ricevuta gratuitamente dagli altri. Questo atto generoso si configura come il significato realmente autentico della natività.
Nascere è, in definitiva, qualcosa di originario e di imprevedibile, che si ripete continuamente nell´incontrollabile sviluppo del nostro presente verso il nostro domani e che ha il suo senso ultimo nella donazione di una nuova vita.
Ed è proprio con questo sentimento che l´uomo vive veramente questi giorni di vigilia, aspettando con impazienza ciò che normalmente accade senza essere visto e senza essere rilevato. Ci affrettiamo perciò anche noi a fare gli ultimi acquisti con speranza e con una gioia inspiegabile nel cuore, preparandoci alla festa.
A Natale ci nutriamo, in definitiva, del sentimento di stupore quotidiano, assaporando l´imprevedibilità della vita e tante altre cose ancora, ma soprattutto vivendo felicemente il vero desiderio di novità che pervade la nostra esistenza personale. Questo avviene perché il Natale è in fondo una festa che ci distoglie per un po´ dal nostro presente e ci spinge ad accogliere con maggiore disponibilità il trascurato presente degli altri.
Chissà se alla fine riusciremo anche noi a esclamare con sorpresa e gioia: "Ecco! Finalmente qualcosa di nuovo!".

Repubblica 19.12.06
LA VITA IN SCHIAVITÙ
di Massimo Livi Bacci


Un saggio ricostruisce il commercio di uomini fra il Cinquecento e l'Ottocento
In quattro secoli sulla tratta atlantica furono trasportati undici milioni di persone
Fu un mercato pianificato su larga scala. E non solo un fenomeno di subalternità
Viaggiavano stipati e incatenati nelle stive per guadagnare spazio
Si diceva che fossero più curati i dromedari degli esseri umani

La tratta degli schiavi - cioè l´infame processo di cattura, trasporto e vendita di esseri umani - ha coinvolto decine di milioni di persone in epoca moderna. L´epicentro è l´Africa, l´irraggiamento vastissimo, verso l´Asia, l´Europa e l´America; le conseguenze sociali, economiche e demografiche molteplici. Olivier Pétré-Grenouilleau (La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, Il Mulino, pagg. 472, euro 29) costruisce un quadro che incrocia la storia delle idee, con quella economica e sociale, contrapponendo teorie e paradigmi interpretativi di un fenomeno colossale.
In epoca moderna, la classe degli schiavi non è più il prodotto dell´esclusione o della subalternità permanente e stratificata di una società autoctona, o della sottomissione permanente di popolazioni nemiche, ma il risultato di un commercio organizzato su larghissima scala, in un vasto mercato con ben identificati intermediari, venditori e compratori. Secondo l´autore, l´affermarsi della tratta è subordinato a cinque requisiti: l´esistenza di una stabile rete di approvvigionamento di prigionieri; l´incapacità degli schiavi di riprodursi ed accrescersi demograficamente; la netta separazione (con distanze di migliaia di chilometri) tra luoghi di "produzione" (razzie) dei prigionieri e luoghi di utilizzazione degli stessi; la compravendita per denaro, preziosi o mercanzie; il consenso delle entità statuali dei luoghi di origine, di transito o di destinazione.
La tratta negriera (perché il sesto requisito fu che lo schiavo fosse nero e africano) ha avuto dimensioni enormi. Si calcola che tra il 1500 e la sua abolizione definitiva alla fine dell´Ottocento, la tratta atlantica abbia coinvolto il trasporto di 11 milioni di schiavi dalle coste africane a quelle americane, per quattro quinti circa dopo il 1700. Le cifre della tratta atlantica derivano da fonti attendibili quali il traffico marittimo registrato delle navi negriere o le capacità di trasporto delle navi, che dopo il 1700 potevano normalmente imbarcare dai 250 ai 350 schiavi.
Di non minori dimensioni fu la tratta "orientale", dal Sud del Sahara verso il nord dell´Africa e successivamente verso il levante, oppure dalle coste orientali verso la penisola arabica e l´Asia. Più labili sono le stime delle dimensioni di questa tratta, che consisterebbe di numeri non inferiori a quella atlantica: secondo Austen tra il 650 e il 1920, 9 milioni di schiavi avrebbero percorso le piste sahariane e 8 milioni sarebbero partiti dalle coste orientali, metà da quelle del Mar Rosso e metà da quelle swahili. Un traffico dai costi umani spaventosi: «Sulla pista da Kano a Tunisi, a volte cambiando padrone di tappa in tappa, gli schiavi neri potevano fare anche tremila chilometri. All´arrivo potevano essere spediti verso Levante, oppure nuovamente venduti».
I mercanti di schiavi, si diceva, avevano maggior cura dei loro dromedari che dei disgraziati trasportati. La mortalità in questi trasferimenti era molto alta e si è calcolato che nell´Ottocento variasse da un minimo del 6 ad un massimo del 20 per cento, superiore (in media) alla mortalità della tratta atlantica, che nell´Ottocento era dell´ordine del 10 per cento. Dati attendibili mostrano, sorprendentemente, che anche nei secoli precedenti, la mortalità degli schiavi nel middle passage (la traversata atlantica) fu minore di quella delle ciurme che li trasportavano, nonostante che i primi fossero stipati e incatenati (a coppie) nelle stive dove stavano coricati in formazione testa-piedi per guadagnare spazio durante le interminabili notti delle molte settimane di viaggio.
Antecedente al trasporto c´era la fase della "produzione" di schiavi, ovvero della loro cattura, mediante spedizioni organizzate da intermediari africani, quasi sempre musulmani, capaci di attraversare le barriere linguistiche ed etniche, di piombare sui villaggi al loro risveglio, di neutralizzare eventuali reazioni, di condurre le loro prede per lunghe distanze ai depositi dei porti d´imbarco rivendendoli ai negrieri europei.
Questi - portoghesi, inglesi, francesi, danesi - armavano le navi, che dovevano essere provviste delle mercanzie accettate per lo scambio: tessuti, tele indiane in particolare, utensili, ferro e piombo, recipienti di ogni foggia e misura, asce e cunei per disboscare, alcolici, oggetti di pregio per le élite, armi bianche e da fuoco. Gli armatori negrieri costituivano, nelle città europee, una élite agiata e rispettata, una sorta di aristocrazia minore con incarichi di un certo prestigio ed accesso alle cariche pubbliche. Tuttavia una certa storiografia ha esagerato enormemente i profitti della tratta - gravati da rischi molto elevati - che gli studi più recenti mostrano non discostarsi grandemente dai profitti di altre attività commerciali contemporanee; per la tratta francese tali profitti erano dell´ordine del 6 per cento, per quella britannica del 7-8 per cento.
Nel Settecento, la crescita economica e l´accelerazione della popolazione europea alimentano l´espansione della domanda di zucchero e di altri prodotti coloniali; si moltiplicano e si estendono le piantagioni in America e cresce in conseguenza la domanda di schiavi. Schiavi africani, perché le popolazioni autoctone di America o si erano estinte (come nei Caraibi) o si erano rivelate inadatte (come in Brasile) e, comunque, secondo la legge non potevano essere ridotte in schiavitù.
Importati in ragione di due uomini per ogni donna, impediti nella mobilità, falcidiati dall´alta mortalità, ostacolati nella vita familiare (spesso i padroni scoraggiavano - quando non vietavano - le unioni stabili), le popolazioni in schiavitù non riproducevano se stesse e sarebbero state condannate all´estinzione in mancanza di un continuo flusso di nuovi arrivi. La vulnerabilità della popolazione in schiavitù era massima nei Caraibi, molto alta in Brasile, meno grave nella terraferma Ispanica, mentre negli stati meridionali degli odierni Stati Uniti dove gli ostacoli alla normale vita familiare furono assai minori e le condizioni di vita meno drammatiche, la demografia degli schiavi permetteva la loro crescita naturale. Nei quattro secoli successivi al 1500, più del 40 per cento della tratta si diresse verso le Antille (britanniche, spagnole, francesi ed olandesi), più del 40 per cento verso il Brasile ed il residuo finì nella terraferma ispanica e britannica.
Ad un controverso tema Pétré-Grenouilleau dedica un´interessante parte del suo saggio. Quale fu l´impatto economico della tratta? E quale quello demografico? Si è molto esagerata la rilevanza della tratta sull´economia dei paesi negrieri dell´Europa, che non fu una componente particolarmente rilevante dello sviluppo settecentesco, anche se parte integrante del sistema del commercio internazionale. Per i paesi africani si è anche sostenuta la tesi paradossale che la tratta avrebbe avuto effetti positivi, avendo allentato gli effetti negativi della crescita della popolazione oltre a fornire numerario e merci che avrebbero favorito lo sviluppo; essa poi non avrebbe avuto effetti demografici sensibili.
La realtà fu probabilmente assai diversa: se è vero che sull´intero continente subsahariano - che nel Settecento contava forse 70 milioni di abitanti - gli effetti quantitativi di un flusso complessivamente imponente, ma assai diluito nel tempo, non furono rilevanti, ciò non è vero sicuramente per le aree che pagarono il più alto prezzo alla tratta. Questa non solo era selettiva, privilegiando uomini e donne giovani di età e robusti di costituzione, ma era anche quantitativamente importante, influenzando la stabilità e la crescita demografica. Ve ne sono prove, nel corso del settecento, in varie regioni dell´Africa occidentale. Infine, quale calcolo economico potrebbe mai valutare il costo del degrado umano, sociale e civile (e la sua durata nel tempo) che la tratta inflisse alle popolazioni africane?

il Riformista 19.12.06
Eccesso di religione? No, difetto di politica
di Emanuele Macaluso


Può capitare, anche sotto Natale, che l’agenda politica sia sintonizzata su questioni come le coppie di fatto, l’accanimento terapeutico, il diritto-dovere di vivere. E può capitare, contemporaneamente, che nell’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro - pubblicato dalla Commissione Ue - spunti una rivelazione secondo cui ben il 63 per cento degli italiani ritiene che la religione abbia un «posto troppo importante» nella società. Soltanto i ciprioti (81%) e i maltesi (70) sono più insofferenti degli italiani sull’«invadenza» (virgolette d’obbligo) della religione mentre la media europea di coloro che la ritengono «troppo importante» si attesta al 46 per cento.
Morale della favola? «Parlare di religione in generale non è corretto, basta guardare alla “discrezione” di valdesi, metodisti, evangelici. È forse la Chiesa cattolica ad essere troppo “invasiva”», è la risposta del filosofo Giulio Giorello. Che poi aggiunge: «Ma le gerarchie vaticane fanno il loro lavoro. Il problema sono i politici, di destra e di sinistra, che sono sempre in prima fila per mettere in pratica, rispetto alla Chiesa cattolica, le vecchie parole di Gianni Morandi quando cantava “ritornerò in ginocchio da te...”». Giorello cita, come esempio di autonomia, «Zapatero, premier di un paese in cui, storicamente, ci sono state molte vittime in nome della religione; e, nella Gran Bretagna della religione di stato, Tony Blair». Poi il filosofo chiede: «Arriverà in Italia qualcuno che, cavourianamente, sarà in grado di applicare il principio “libere Chiese in libero stato”?».
Anche il senatore - diessino e cattolico - Giorgio Tonini sembra giungere alle stesse conclusioni di Giorello. Seppur con qualche distinguo, e soprattutto partendo da un’analisi diversa. «Dov’era - è il pungolo di Tonini - questo 63 per cento di italiani quando si votò sul referendum della fecondazione assistita? Il 25 per cento andarono a votare. Ma gli altri?». Il problema, sottolinea il senatore ds, «non è della Chiesa. È la politica che continua a dimostrarsi sempre troppo debole. Un tempo c’erano i politici cattolici, che stavano in un partito solo. Oggi abbiamo addirittura correnti di partiti in competizione tra di loro. Solo nella Margherita, ci sono i teodem, i popolari e i prodiani...». Risultato? Per Tonini aumenta la confusione e, soprattutto, «spuntano correnti di politici che sono più papisti del papa stesso. Come se fossimo tutti in un gioco di ruolo». E poi, aggiunge il senatore, «ci sono volte in cui i messaggi che arrivano dalla Santa Sede risultano amplificati, e quindi più “invasivi”, se li rileggiamo sull’Osservatore romano e sull’Avvenire».
Per Massimo L. Salvadori, i dati di Eurobarometro erano ampiamente prevedibili. Quasi fossero un film già visto. Ad esempio, «nel 1974, quando la Dc si sentiva la vittoria in tasca nel referendum sul divorzio e il Pci, al contrario, aveva affrontato la consultazione referendaria con timore e più d’una timidezza». Ancora oggi, sostiene Salvadori, «i partiti sono sempre molto sensibili alle parole della Santa Sede soprattutto perché credono che, se non lo facessero, pagherebbero un caro prezzo in termini elettorali. I dati di Eurobarometro dimostrano l’esatto contrario. E io, nel mio piccolo, me ne rallegro».