Nascere è come un sogno
di Rosalba Miceli
La nascita comporta una moltitudine di transizioni. I meccanismi che intervengono al momento del parto sono in gran parte sconosciuti. Cosa succede al bambino che sta per nascere? Come riesce a superare lo stress del travaglio? Sembra che alcuni segnali molecolari tra madre e feto abbiano lo scopo di preparare il cervello del feto alla nascita e di aumentare la resistenza al trauma. L’ossitocina materna, oltre ad indurre le contrazioni uterine, potrebbe avere il ruolo di sedare l’attività neuronale del feto poco prima e durante il parto, proteggendone il cervello dagli effetti di una ipossia transitoria. E’ quanto emerge dai risultati di uno studio realizzato in collaborazione tra l’Istituto di neurobiologia dell’INSERM di Marsiglia e l’Università di Amburgo, pubblicato sulla rivista “Science” del 15 dicembre.
Il feto umano è costretto entro il canale del parto per alcune ore, durante le quali la testa sopporta una notevole pressione e il nascituro subisce a intermittenza una privazione di ossigeno per la compressione della placenta e del cordone ombelicale in seguito alle contrazioni dell’utero. Il cervello deve essere difeso in qualche modo. I ricercatori franco-tedeschi hanno individuato un legame tra l’ossitocina e le variazioni di eccitabilità neuronale. Il processo è mediato dal GABA (acido gamma-aminobutirrico), un neurotramettitore il quale normalmente ha una funzione eccitatoria sui neuroni fetali e inibitoria una volta che essi maturano. L’esposizione all’ossitocina materna nelle fasi del parto agisce da interruttore molecolare che cambia il segnale del GABA da eccitatorio ad inibitorio, quietando il cervello del feto e mantenendolo in una sorta di “standby”. Un effetto opposto si verifica quando poco prima della nascita viene somministrato un antagonista che annulla l’azione dell’ossitocina. In questo caso si aggravano anche gli effetti degli episodi di ipossia sui neuroni fetali.
Gli esperimenti sono stati condotti sui ratti seguendo i protocolli standard sull’uso degli animali di laboratorio. Le tecniche adoperate prevedevano l’impiego di strumentazioni sofisticate per studiare la cascata di eventi che si realizza a livello cellulare e molecolare e la messa a punto di algoritmi per l’ottimizzazione delle analisi. Con le dovute cautele, è possibile ipotizzare che un meccanismo simile funzioni anche negli altri mammiferi, uomo compreso. I neuroscienziati sanno da tempo che l’ormone ossitocina è fondamentale per la sopravvivenza del feto e del neonato perché interviene direttamente nel travaglio e nell’allattamento e media il complesso meccanismo dell’attaccamento tra madre e figlio che si va organizzando in carezze, abbracci e una miriade di altre interazioni fisiche e simboliche. Sembra che la natura abbia predisposto anche un sistema per proteggere il bambino nel momento più rischioso e per far sì che la nascita assomigli il più possibile ad un sogno.
l'Unità 20.12.06
Il «caso Massimo» e Welby: le leggi ci sono
di Mariella Immacolato
Gli stralci della motivazione, riportati dalla stampa, con cui il giudice Angela Salvio ha respinto il ricorso di Piergiorgio Welby che chiedeva la sospensione della ventilazione assistita sotto sedazione, suscitano sorpresa e perplessità. Si legge che Welby non può far valere il diritto di rifiutare le cure che la Costituzione gli riconosce con ben due articoli, 13 e 32, perché manca nel nostro ordinamento una legge che preveda e tuteli tale diritto. Non è condivisibile questa impostazione, perché le leggi ci sono ma si tratta di darne applicazione. Ci si riferisce alla legge 833 del 1978, che ha istituito il sistema sanitario italiano, e alla legge 180 sulla salute mentale, sempre richiamate quando si parla di consenso informato, che all’art. 33 e all’art.1 stabiliscono, senza possibilità di equivoci, che i trattamenti sanitari sono di norma volontari. Per potere imporre un trattamento occorre, sempre secondo quanto previsto dalle leggi citate, dal nostro ordinamento più in generale e dal codice di deontologia medica, che questo sia previsto obbligatorio da una legge. E non risulta che vi sia una legge che imponga a Welby di proseguire la ventilazione assistita contro la sua volontà.
Si legge anche che nel momento in cui la coscienza di Welby si spegne nessun medico può essere obbligato a seguire la volontà del paziente precedentemente espressa. Vale a dire che le quattro sentenze del “caso Massimo” che nel ’92 hanno di fatto introdotto il consenso informato nella pratica clinica non hanno più alcun valore giuridico.
A chi avesse dimenticato quel leading case italiano, si rammenta che il chirurgo Massimo fu condannato per omicidio preterintenzionale perché durante l’intervento chirurgico aveva cambiato il tipo di operazione concordato precedentemente con la paziente. I giudici allora ritennero che il fatto che la paziente fosse addormentata non toglieva valore alla sua volontà e che il medico era tenuto a rispettare proprio per l’inviolabilità della persona umana sancita dalla Costituzione. Sentenza Corte di Cassazione n. 699 del 1992 «...la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che (...) riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare».
Ritornare a discutere su principi che con tanta fatica si sono affermati è doppiamente colpevole. Perché così si rischia di farli rientrare di nuovo tra i principi “di carta”, cioè tra quelli previsti dalle norme ma disattesi nella pratica. Perché si arresta il faticoso cammino della affermazione del linguaggio dei diritti in sanità.
Consulta di Bioetica
Direttore Unità operativa di medicina legale Asl 1
di Massa e Carrara
il manifesto 20.12.06
l'opinione
Strappi continui alla laicità dello stato
di Vera Pegna *
Un concetto quasi del tutto assente nel dibattito che riguarda la richiesta di Piergiorgio Welby di porre fine alla propria vita di intollerabili sofferenze è quello della laicità dello stato. Eppure se la richiesta di Piergiorgio Welby non viene accolta è perché la nostre legge in materia di eutanasia, lungi dall'essere laica, è basata su pregiudiziali di carattere religioso. Così come lo sono le attuali insulse elucubrazioni sulla famiglia e le coppie di fatto, persino in materia di successione. Nel caso di Welby basta chiedersi a chi appartenga la vita di ciascuno di noi, se a noi stessi o allo stato e che cosa significhi la libertà di coscienza sancita dalla nostra Costituzione per capire che la nostra legge conculca la libertà di coscienza di chi è perfettamente in grado di intendere e di volere.
Purtroppo non credo che le posizioni accomodanti dei nostri politici verso le gerarchie vaticane siano interamente dettate da opportunismo. Temo siano il frutto di una cultura intrisa di confessionalismo che non discerne il primo dei diritti umani che è la libertà di decidere della propria vita da un'inconsapevole subalternità ideologica ai precetti della dottrina morale cattolica. In questo senso le dichiarazioni rilasciate dal Presidente della repubblica in queste ultime settimane sono emblematiche, ma non sorprendenti. Non sorprendenti dato che Giorgio Napolitano ha fatto parte della Convenzione dell'Unione europea che ha redatto la bozza del trattato costituzionale europeo la quale tace sul principio della laicità delle istituzioni e riconosce alle chiese un ruolo istituzionale. E Benedetto XVI giustamente se ne rallegrò. Non sorprendenti poiché Napolitano si rivolge al Papa chiamandolo «Santità», appellativo nient'affatto protocollare e tanto meno laico che denota particolare riverenza e soggezione.
Lo stato e la chiesa dovrebbero ricercare «soluzioni ponderate e condivise sulla libertà di ricerca, sui suoi codici, sulle regole e i più complessi temi bioetici», ha dichiarato Napolitano in occasione della «Giornata per la ricerca sul cancro», riconoscendo pertanto alla chiesa cattolica - entità non eletta quindi non rappresentativa - la dignità di interlocutrice su temi di pertinenza parlamentare. Tale affermazione disturba gli equilibri democratici dato che fa pesare il piatto della bilancia a favore dei cittadini cattolici.
«Chiesa e stato sono chiamati a servire gli stessi valori di moralità e di equità» ha dichiarato il nostro Presidente, forse non pensando che lo stato non difende valori ma principi, quelli sanciti dalla Costituzione della repubblica, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, peraltro non sottoscritta dalla Santa sede. In sintesi: per lo stato la pedofilia è reato, per la chiesa (e per Ratzinger in persona) non lo è: è solo peccato. Per lo stato la contraccezione è lecita, mentre la chiesa condanna l'uso del profilattico anche nel caso di popolazioni decimate dall'aids come quelle del Ruanda: per noi tale condanna è assimilabile all'istigazione a delinquere. L'Italia ha firmato le convenzioni del Consiglio d'Europa che vietano la discriminazione delle donne, mentre la Santa sede non le ha firmate e discrimina le donne anche al suo interno. Per lo stato, le coppie di fatto non vanno discriminate, per la chiesa sì e lo stesso dicasi per gli omosessuali e per i non credenti i quali, per la chiesa, sono persone «senza fondamento». Lo stato vuole eliminare, almeno in teoria, privilegi e discriminazioni. La chiesa invece esige i primi e pratica le seconde.
Grave anche l'affermazione di Giorgio Napolitano secondo cui la chiesa e lo stato hanno una «comune missione educativa». La missione dello stato è di unire tutti i cittadini, di educarli allo spirito critico e alla libertà di coscienza. La chiesa cattolica divide, intimorisce, assoggetta.
Mi domando se davanti a tanti e tali strappi alla laicità dello stato non sia il caso di parlare di emergenza democratica.
* rappresentante federazione umanista europea presso l'Osce
il manifesto 20.12.06
bioetica
Quella politica della vita che invoca la giusta morte
La richiesta di Piergiorgio Welby mette in evidenza la pretesa dello stato di regolare vita e morte dei suoi sudditi. Un tema ampiamente discusso dalla filosofia contemporanea e che va al di là della contrapposizione tra cattolici e laici Un percorso di lettura a partire dalla riflessione di Michael Foucault, dove diritto statale e affermazione dell'autonomia individuale incontrano ciò che la norma non può regolare
di Roberto Ciccarelli
In un sondaggio condotto nel 2002 dal Centro di Bioetica dell'Università Cattolica di Milano tra 259 rianimatori, operatori di prima linea che curano persone la cui sopravvivenza è affidata a macchine, il 3,6% dei medici dichiarò di aver somministrato volontariamente farmaci letali (eutanasia attiva). Il 96,4% negò di averlo mai fatto. Il 15,8% degli intervistati considerò tuttavia questa iniziativa accettabile. Ma il dato più interessante fu senz'altro un altro: il 19,3% del campione negò di aver mai attuato la sospensione delle cure (ad esempio staccare il respiratore, interrompere l'erogazione dell'ossigeno). Il 38,6% riconobbe di averlo fatto almeno in un'occasione, il 42% «più spesso». In nessun caso questo «atto medico» è stato riportato sulla cartella clinica per il timore di essere denunciati dai parenti e finire in tribunale.
Nel 2004, in Gran Bretagna, 2865 malati terminali sono stati aiutati a morire dai medici. E' il risultato di un sondaggio condotto anonimamente tra 857 specialisti lo scorso gennaio. Tra questi decessi assistiti, 936 furono provocati a seguito di una domanda esplicita del malato. Gli altri (1929 casi) non hanno fornito istruzioni specifiche sulla modalità della loro morte a causa del coma sopraggiunto. La pratica della «morte opportuna» è illegale in Gran Bretagna come nella maggior parte dei paesi europei, salvo Olanda, Belgio e Svizzera, ma sembra che questi dati siano addirittura inferiori alla media europea.
La sovranità sulla vita
Queste informazioni sono tornate d'attualità dopo che Piergiorgio Welby, co-presidente dell'associazione Luca Coscioni, affetto da distrofia muscolare progressiva, ha riportato l'attenzione sul continente sconosciuto dei malati terminali in Italia, evidenziando la difficoltà delle istituzioni di affrontare il problema in maniera chiara e definita. La sentenza del Tribunale di Roma che il 16 dicembre scorso ha definito «inammissibile» il suo ricorso, ha riconosciuto allo stesso tempo il suo diritto di chiedere l'interruzione della respirazione assistita. Il «vuoto legislativo» che la giudice Angela Savio ha riscontrato nella legislazione ha evidenziato un corto circuito nella prerogativa «biopolitica» e costituzionale degli stati di diritto occidentali che impone la protezione della vita, anche a costo di separarla dalla persona che la detiene. Davanti alla richiesta di Welby di interrompere le cure e scegliere la morte piuttosto che continuare a vivere in maniera disumana, lo stato non può autorizzare alcuna forma di «accompagnamento alla morte» che mette fine all'esperienza di una vita che vegeta artificialmente negli ospedali o nel buio delle nostre case, pena la legittimazione dell'eutanasia.
Nei gioni scorsi, molti degli interventi di commento attorno al «caso Welby», hanno sostenuto che è la difficoltà di distinguere tra eutanasia e accanimento terapeutico ad impedire una definizione normativa della situazione delle persone come Welby. Se fosse solo così, duplice sarebbe la soluzione: «staccare la spina» come atto di disobbedienza civile in mancanza di una legge. Oppure attendere l'elaborazione di linee guida da parte del Comitato di bioetica. Nel primo caso, avremmo una disobbedienza civile che mette a un nudo non l'insopportabilità di una legge, bensì la sua assenza. L'attesa di un pronunciamento del Comitato di bioetica congela una situazione, quella di Welby, e rinvia ogni decisione a tempi futuri. Ma uno degli aspetti rilevante di questa vicenda e che radicalizza un tema molto rilevante nella discussione filosofica di questi anni. Il «caso Welby» porta infatti alle estreme conseguenze la prerogativa «biopolitica» che Michel Foucault attribuiva ai moderni stati di diritto costituzionali: la presa del potere sull'uomo come essere vivente e la «statalizzazione» della sua vita biologica.
Quella di Welby, e di coloro che la sostengono, è infatti la rivendicazione più estrema del ruolo biopolitico dello stato: difendere la vita sino in fondo, sia che si tratti di garantirne le prerogative più alte, sia che si tratti di impartirle una «buona morte». Da questo punto di vista, è comprensibile la reazione di chi negli ultimi giorni ha respinto l'accusa secondo la quale si vuole attribuire per legge al paziente, o ai suoi familiari, un potere «tanatopolitico» che stabilisce, in base alla contingenza di un dolore proprio o altrui, quale vita sia degna di essere vissuta. A loro avviso, deve essere lo stato ad occuparsi di un problema che riguarda la vita dei suoi cittadini, dato che è la sua stessa costituzione repubblicana a prevederlo all'articolo 32.
La sacralità della tecnica
Il Tribunale di Roma, il ministro della Sanità Livia Turco e il Comitato di bioetica sono dunque in imbarazzo perché il caso di Welby ha portato alla luce una crepa nella biopolitica statale. La richiesta di ricevere una «morte dignitosa» rivela infatti la difficoltà delle autorità politiche a riconoscere quello che è il rovescio della loro logica, oppure la sua logica continuazione. Il potere biopolitico non dovrebbe infatti occuparsi solo della vita, ma anche della sua parte oscura, quella che si manifesta nella malattia, nella sofferenza e porta anche alla morte. La morte rimane però un oggetto sul quale la biopolitica sembra esitare, quasi fosse estraneo alla materia che intende amministrare, sebbene le sue prerogative dicano esattamente il contrario.
Né rivendicazione al suicidio, né invocazione di un dovere dello stato ad impartire la morte, l'azione di Welby può essere tuttavia intesa come un potenziamento della biopolitica contemporanea, ma è anche il suo punto massimo di crisi. Sebbene questi diritti siano stati sanciti dalla Convenzione europea di biomedicina sottoscritta dall'Italia nel 2001, dalla Carta dei diritti dell'Unione Europea, dalla Convenzione sulla biomedicina, dal Codice di deontologia medica del 1999, come ha ricordato Stefano Rodotà nel suo La vita e le regole. Tra diritto e non diritto (Feltrinelli, pp.288, € 19), la vita che s'intende proteggere manifesta un carattere inquietante e irregolare che rende manifesto un limite non giuridico e non politico oltre il quale anche il potere politico più attento ai diritti delle persone preferisce non avventurarsi.
Il problema è dunque più ampio di un scontro tra cattolici e laici. I primi, è noto, sostengono che nessuno può sottrarre la vita al suo decorso naturale, anche quando essa va incontro a sofferenze indicibili, perché rischia di ledere la «dignità inviolabile della vita umana». «La vita è un dono di cui il soggetto non ha completa disponibilità», ha affermato Benedetto XVI nel messaggio per la «Giornata della Pace» del 12 dicembre scorso, un discorso teso a stabilire vincoli all'azione del governo e a bloccare ogni possibile apertura del parlamento alle richieste di Welby. I secondi sono invece portati a «moralizzare» la natura umana attraverso la creazione di «nuovi tabù artificiali» che legano la vita al rispetto dei valori stabiliti dalle autorità (la chiesa o lo stato). Entrambe queste posizioni si scontrano in un dilemma altrettanto gravoso: la sacralità della vita chiede al malato di dipendere dalla macchina o di dire no? A questa domanda il filosofo cattolico Giovanni Reale ha risposto con parole sagge: «Dobbiamo guardarci dal pericolo di trasferire l'idea di sacralità della vita nella sacralità della tecnica».
Una posizione di mediazione tra la rivendicazione della «sacralità», fatta dai cattolici, e dell'«intelligenza» della vita, fatta dai laici, è stata proposta da Umberto Veronesi nel dialogo con Giulio Giorello, La libertà della vita (a cura di Chiara Tonelli, Raffaello Cortina Editore, pp. 115, euro 9). Il direttore dell'«Istituto Europeo di Oncologia» di Milano e il filosofo della scienza della Statale di Milano hanno il merito di avere portato alla luce l'elemento inquietante che tormenta la biopolitica contemporanea. A destare il disagio degli ambienti teologici, come di quelli laici, è infatti una certa idea della «natura umana»: crudele, imprevedibile e spaventosa alla quale si cerca di rimediare mediante un'ortopedia medica o giuridica. Con il risultato, talvolta paradossale, di separare la «vita» dal vivente, considerandola un valore morale o giuridico trascendente alle sue condizioni oggettive. Capita così di considerare intoccabile la vita della persona, ma tecnicamente modificabile il Dna dei vegetali (come ritiene la Chiesa). Oppure di estenuare la vita con le tecnologie alla ricerca di un rimedio impossibile ad una malattia cronica (il dilemma che ossessiona i medici davanti a casi di particolare gravità). Il risultato, possibile ma non certo, che entrambe queste visioni possono trasformarsi in una tirannia: teocratica o tecnica. Contro questi paradossi, l'appello di Veronesi e di Giorello a ciò che unisce scienza e religione: la tutela della dignità umana.
Roberto Mordacci, docente di filosofia morale al San Raffaele di Milano, autore, tra l'altro, di Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica (Feltrinelli, pp.410, €26) ha condotto una riflessione utile per definire il contenuto della dignità umana dal punto di vista della bioetica. A differenza di Veronesi e di Giorello, Mordacci attribuisce alla bioetica un contenuto normativo che la distingue tanto dall'etica medica, il cui scopo è di orientare il giudizio morale nel contesto delle scelte cliniche, quanto dal bio-diritto che mira alla definizione della vita in ambito giuridico. La bioetica è una teoria morale di stampo kantiano che vincola il trattamento medico e giuridico della vita alla massima kantiana del rispetto: «agisci in modo da rispettare ogni persona come fine in sé». Da questo punto di vista, il bene del paziente è ritenuto superiore al «bene medico» e costituisce una sorta di ammonimento contro il «paternalismo» dello stato che intende occuparsi della sua vita fino al punto di portarla alla morte.
Davanti ai «casi cronici», scrive Mordacci, lo stato deve rispettare la dignità umana ed evitare di espropriare il bene di un paziente imponendogli l'obbligo della cura. In questo caso il rischio è di separare la protezione dei diritti della persona da quelli del suo corpo, considerando la vita come uno strumento del potere e non il suo fine. Casi come quelli di Welby, conclude Mordacci, dovrebbero essere trattati seguendo l'articolo 32 della Costituzione italiana: «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». All'individuo viene riconosciuto il diritto di decidere quando una cura diventa accanimento terapeutico e, nel nome del rispetto di sé, di rifiutarla senza per questo arrivare al suicidio o invocare l'eutanasia.
Non c'è dubbio che è proprio la rivendicazione della «dignità umana» ad avere provocato un cortocircuito nella biopolitica statale. Per il filosofo tedesco Ernst Bloch, di cui l'editore torinese Giappichelli ha di recente tradotto il classico Diritto naturale e dignità umana (Giappichelli, pp.327, euro 30, a cura di Giovanni Russo), la dignità invocata dagli «oppressi» e dagli «umiliati» è una richiesta non assimilabile ai criteri statali che regolano la «giustizia», cioè l'adeguazione di una situazione ad una norma universale. Oggi questa rivendicazione, che per Bloch indicava una via d'uscita dalla società borghese, fa capolino nelle nuove battaglie per i diritti dei malati e, più in generale, per i cosiddetti diritti di «quarta generazione» che fanno attenzione alla vita dei singoli.
Per Bloch, la dignità umana non è una norma universale ratificata dallo stato, ma un fine da raggiungere che muove il desiderio di ciascuno. Per questa ragione è impossibile fornirne una definizione precisa. La dignità resiste allo sfruttamento economico, non si piega al bisogno e all'umiliazione, sfugge alla gabbia d'acciaio della legge. La giustizia è invece la manifestazione autoritaria di un comando dello stato e le sue disposizioni sono sempre autoritarie. Un cortocircuito che illustra la ragione per cui, quando si parla di «diritto alla morte dignitosa», lo stato erge quasi sempre le barriere protettive della giustizia contro la richiesta di riconoscimento della dignità personale. Per Bloch la dignità è invece l'espressione di una solidarietà più ampia degli esseri umani, e non solo del diritto soggettivo che lo stato riconosce ad un singolo. L'individuo non è una monade responsabile e autonoma, ma è un soggetto sociale che si affida alla solidarietà dei suoi simili quando si tratta di stabilire i confini politici e giuridici di una «vita dignitosa».
Diritto di resistenza
La lettura di Diritto naturale e dignità umana può tornare utile per neutralizzare il conflitto tra la legge e la morale, la sindrome che colpisce laici e neoconfessionali quando si tratta di legiferare sulla vita e, in generale, sulle questioni bioetiche. Qualcuno, forse a ragione, potrebbe lamentarsi del giusnaturalismo blochiano che attribuisce all'«umano» un valore superiore alle umane leggi. In parte è così, ed è un rischio che corrono tanto le vie laiche quanto quelle neo-confessionali alla biopolitica. Ma Bloch attribuisce a questa «umanità» il significato storico ed immanente di una costruzione condivisa che deriva da un atto politico: il diritto di resistenza.
In principio diritto liberale rivendicato durante le rivoluzioni europee tra il XVIII e il XIX secolo per resistere ai soprusi del governo nella sfera personale e associativa degli individui, oggi quello della resistenza è un diritto comune evocato da chi chiede più dignità per sé e per gli altri nella malattia. Per usare il linguaggio di Bloch, la solidarietà umana che va oltre i legami parentali e si afferma come legame politico. Davanti alla crisi della biopolitica contemporanea, chi afferma la solidarietà tra gli uomini sani o malati, normali o anormali, auspica la prevalenza dei diritti soggettivi su quelli oggettivi, della dignità sulla giustizia, della vita sul potere normativo della legge.
lettera a "Liberazione"
di Carlo Patrignani
Caro Piero,
Appena tre mesi fa a 'Liberafesta' c'e' stato un animato confronto (davanti ad un folto pubblico, attento e preparato, colto ed intelligente, tanti giovani e soprattutto tante donne, cosa rarissima da vedere in giro.. ecco queste righe sono state tagliate.. ) sull'informazione in generale e di sinistra in particolare. Sarebbe bello non disperderne il ricordo ed il significato. Tre mesi dopo, una strage, tre donne e un bambino di due anni uccisi spietatamente, un tunisino di 25 anni, marito di una delle tre donne e padre del piccolo, e un indigesto indulto, generano un pericoloso 'corto circuito' nei maggiori mass media: il magrebino e' l'assassino, l'autore della strage che ha potuto compiere grazie all'indulto. Passano poche ore e i fatti smentiscono l'assurdo teorema: non e' stato il 25enne tunisino a compiere la strage e l'indulto non c'entra nulla come in altre occasioni. Quale sia il meccanismo mentale per cui certi mass media ma anche certi benpensanti costruiscono un falso, il Mostro che uccide grazie all'indulto, non lo so compiutamente: mi viene in mente 'volere che sia' che diventa 'sapere che e''. Ossia, il tunisino, in quanto extracomunitario, di altra cultura e altro colore della pelle, e' di per se un pericolo, una minaccia, e’ vissuto come il Mostro (il Male), (per l'occidentale, l'italiano che, evidentemente, crede, si considera 'Superiore' o, viceversa, ritiene l'altro, il tunisino, 'Inferiore'. Un tempo, si comportava cosi’ un certo Adolf Hitler, ma anche un certo Giuseppe Stalin: non a caso fecero il ben noto patto del 1939 per dividersi la Polonia: altro pezzo tagliato). L'orrenda strage familiare (si dimenticano le 450 vittime l’anno all'interno della 'Sacra Famiglia') da esorcizzare subito, ha pronto l'autore, il Mostro, (Il Male) che ha potuto agire grazie all'indulto: e il gioco e' fatto, salvo esser sonoramente smentito dai fatti. Si e' stravolta la realta', dunque: e forse non per disattenzione ma deliberatamente. Se questo e' il modo di fare informazione in generale, e lo e' anche se non sempre cosi' evidente e trasparente, l'informazione di sinistra puo' dirsi immune e fuori pericolo? Se volere che sia, lo si applica, che so io, alla politica o alla psichiatria, puo' accadere che si da' per scontato e certo che Marx e il comunismo non hanno fallito l'emancipazione e la liberazione dell'Uomo o che la legge 180 e il freudismo hanno risolto il problema della malattia mentale perche' e' stata trovata la cura e quindi la guarigione: dal volere che sia, si passa, allora, al sapere che e', che, ovviamente, non corrisponde alla realta' dei fatti. (Mi fermo qui, perche’ dovrei dire della Religione, del Papa: mi limito solo a rilevare che ogni giorno Sua Santita’ ci dice quello che e’ Bene e quello che e’ Male e i mass media dietro a ripetere… altre righe tagliate) Vorrei che non ti scordassi l'incontro di tre mesi fa e sia possibile proseguire quella "ricerca sulla realta' umana, sulla mente umana" che il tuo giornale ha, laicamente e coraggiosamente, avviato senza preoccuparsi del 'quieto vivere'.
Carlo Patrignani
Corriere della Sera 20.12.06
Alternativa socialista: la svolta di Bertinotti
Svolta di Bertinotti: un think tank «per il socialismo»
Il presidente sarà il direttore della rivista
ROMA — Da presidente della Camera non ha mai smesso di essere un leader politico, e se tutti si sono ormai abituati al suo «doppio ruolo», nessuno si sarebbe aspettato che Fausto Bertinotti decidesse di diventare anche il direttore di una rivista: «Alternative per il socialismo».
Già dal nome del periodico s'intuisce l'obiettivo che sta dietro il progetto editoriale, fa capire il motivo per cui Bertinotti ha deciso di guidarlo: perché «Alternative per il socialismo» non sarà solo un bimensile, ma soprattutto l'arma culturale di un disegno politico, la risposta al Partito democratico, il tentativo di costruire a sinistra un'area capace di raccogliere quanti non accettano di confluire nella nuova formazione riformista.
L'idea della rivista risale alla scorsa estate, quando venne sottoposta a Bertinotti, che sulle prime si mosse con grande prudenza, perché temeva di entrare in conflitto con la carica che ricopre di presidente della Camera. Sciolse la riserva appena seppe di un «illustre precedente», quello di Giovanni Spadolini che da presidente del Senato dirigeva anche «Nuova Antologia». Da quel momento si è gettato nell'impresa, e ha contribuito in prima persona a scrivere il piano editoriale. «Mi sento istituzionalmente coperto», sostiene Bertinotti, che si dice «affascinato» dal progetto, tanto da aver presieduto ieri la prima riunione di redazione del periodico.
Il nome incrocia da una parte l'esperienza di «Alternative», foglio culturale del Prc, dall'altra richiama lo storico giornale «Problemi del socialismo» fondato da Lelio Basso, uno dei fondatori del Psiup. Ovviamente si tratta di riferimenti non casuali, segnano il profilo dell'intrapresa, ne lasciano intravedere il percorso culturale. Ed era scontato che per realizzare il bimensile Bertinotti volesse al suo fianco persone di fiducia. Il nucleo della redazione è stato infatti affidato alla senatrice Rina Gagliardi e al sottosegretario Alfonso Gianni, e comprende il dirigente sindacale Tiziano Rinaldini, l'ex direttore di «Aprile» Aldo Garzia, e due giornalisti di «Liberazione»: Anubi Lussurgiu Davos e Angela Azzaro. Il direttore responsabile sarà Domenico Iervolino, professore di Filosofia teoretica all'Università di Napoli, che aveva già guidato «Alternative».
Il presidente della Camera ha impostato la linea editoriale della rivista, che dovrà essere «coraggiosa» e «assai poco ortodossa». L'ambizione è quella di far diventare «Alternative per il socialismo» ciò che furono i «Quaderni Rossi» alla vigilia del '68, un laboratorio di idee e dunque un punto di riferimento culturale. Per riuscirci, il «coraggio» a cui si riferisce Bertinotti sarà quello di avviare un processo di «revisione da sinistra e non da destra del comunismo»: «Solo così ci apriremo al nuovo». Ecco la sfida che intende avviare l'ex segretario del Prc, l'intento di una «nuova svolta», pari a quella del congresso di Venezia, quando portò Rifondazione ad abbracciare le tesi della non violenza. L'obiettivo politico è evidente. Nel nome della rivista quel richiamo esplicito al «socialismo» serve da magnete, riporta a un concetto assai caro a Bertinotti: «È ora che il comunismo libertario si riunifichi con il socialismo radicale». Non è il preannuncio di un cambio di nome del Prc, anche perché il presidente della Camera — sebbene coltivi da anni in cuor suo questo pensiero — sta attento a non pregiudicarlo, e si muove con la logica dei piccoli passi. Ma che qualcosa sia in incubazione lo si capisce dai ragionamenti svolti attorno alla rivista, che dovrà essere «un luogo dove si mettono a confronto non solo le esperienze del comunismo, ma anche quelle del socialismo e del cattolicesimo democratico».
A fronte della crisi identitaria che ha provocato a sinistra il Partito democratico, Bertinotti contrappone dunque un progetto alternativo, tanto ambizioso quanto difficile. Per riuscirci ha deciso di usare anche la rivista, così potrà piantare il seme di una nuova formazione politica, darle il tempo di mettere le radici sotto il profilo culturale, e poi lavorare per farla crescere, per arrivare a quel «quindici per cento» che il capogruppo di Rifondazione, Gennaro Migliore, definisce come «un obiettivo realizzabile».
Il «direttore» ha indetto una nuova riunione di redazione subito dopo le feste, per stilare la lista dei collaboratori: Pietro Ingrao sarà invitato a scrivere, e c'è chi pensa anche di coinvolgere Achille Occhetto, l'uomo della Svolta del Pci. Ci saranno poi economisti neo-keynesiani come Riccardo Bellofiore, esponenti del mondo ambientalista e femminista. Ma il fiore all'occhiello saranno i contributi internazionali. Su quelli sta lavorando Bertinotti in persona, sfruttando il suo ruolo di presidente della Sinistra Europea: sul primo numero, in programma tra febbraio e marzo, è previsto un contributo di Oskar Lafontaine, leader della Linke tedesca. Si parte e non solo per arrivare nelle edicole...