lunedì 18 dicembre 2006

Corriere della Sera 18.12.06
Bilenchi
«Il mio Nuovo Corriere chiuso dal Pci perché stava con gli operai polacchi»
di Paolo Di Stefano


S i è parlato molto, in questi mesi, delle reazioni che suscitarono in Italia, e specialmente dentro il Pci, i fatti d'Ungheria. Pochi hanno rievocato la rivolta operaia di Poznan, avvenuta qualche mese prima, nel giugno 1956. Bene ha fatto dunque la moglie di Romano Bilenchi, Maria, ad autorizzare la pubblicazione, presso Alet, di una plaquette che contiene le carte di quello che per il Pci fu un vero e proprio caso politico che impose la chiusura del Nuovo Corriere di Firenze diretto dallo scrittore toscano e la sua conseguente fuoriuscita dal partito.
«Questa è la storia di una ferita». Così Benedetta Centovalli, che cura la raccolta del libretto, intitolato I fatti di Poznan. Premessa: parliamo di un quotidiano nazionale di sinistra, finanziato dal Pci pur non essendo un organo di partito. Bilenchi ne assume la direzione nel 1948, aprendo il primo numero con queste premesse: «Io sono per il colloquio con i cattolici, per l'unità sindacale, per l'unione delle sinistre, di tutte le sinistre di tutti i partiti, non credo alla dittatura del proletariato che porta alla dittatura della polizia politica». In effetti, come avrebbe rivelato in un'intervista degli anni Ottanta, i patti erano chiari: «Accettai di dirigere il giornale purché me lo avessero lasciato fare come dicevo io: pluralista, aperto, senza opposizioni da nessuna parte». Vi avrebbe collaborato, tra gli altri, gente come Aldo Capitini, Piero Calamandrei, Giorgio La Pira.
Su queste basi di libertà estrema, il Nuovo Corriere riuscì a consolidare il suo pubblico, anche se le 50 mila copie quotidiane non garantivano una sopravvivenza tranquilla. «Il giornale — scrive la Centovalli — fu sostenuto ed elogiato da molti, tollerato e osteggiato dai dirigenti di partito più conservatori e a poco a poco lasciato in balia di se stesso».
Si arriva così al 28 giugno 1956, quando quindicimila operai di una fabbrica di Poznan, in Polonia, esasperati dalla sordità del governo alle loro richieste sindacali, avviano una manifestazione di protesta che in poco tempo diventa una vera e propria rivolta. L'intervento della polizia e dell'esercito è durissimo e i morti tra gli operai alla fine sono un centinaio. Il 1˚ luglio esce sul Nuovo Corriere un editoriale firmato da Romano Bilenchi che sin dall'incipit non lascia dubbi sulle posizioni dello scrittore: «I morti di Poznan sono morti nostri. Intendete che cosa vogliamo dire? Vogliamo dire che anch'essi sono caduti sulla via che porta ad una società più giusta e più libera». Si tratta di un atto d'accusa contro i regimi socialisti e di un invito all'autocritica rivolta ai comunisti occidentali, italiani compresi. «E se dall'Est venissero prove che le cose sono in parte sbagliate, tutte sbagliate, noi affermeremmo tranquillamente che quell'esempio, quelle esperienze di socialismo non vanno bene, faremmo di tutto per correggerne gli errori».
Ovviamente, a scanso di equivoci, non manca la denuncia contro chi vuol «dare lezioni di libertà e di giustizia» pur aiutando «una minoranza di sgherri a calpestare il popolo del Guatemala che era riuscito a liberarsi dei suoi pochi sfruttatori», contro «chi favorisce il linciaggio dei negri». Tuttavia, aggiunge, «comprendiamo come in questi giorni Poznan sia un fatto favorevole a Washington, a Londra e a Parigi».
Un mese dopo, il giornale viene chiuso. Il Pci sospende i finanziamenti nonostante la promessa da parte di Enrico Mattei di investire in pubblicità dell'Eni per favorire la sopravvivenza del quotidiano.
Il 7 agosto, esce l'ultimo numero con un congedo in cui il direttore saluta e ringrazia i lettori e i collaboratori, ma non il partito. Lo scambio di corrispondenza che segue tra Bilenchi e Togliatti avrà toni piuttosto acidi. Il segretario del partito condanna come «menzogna» l'opinione che vorrebbe la chiusura legata a questioni politiche; ricorda di essere stato «costretto a letto» con un lieve attacco di polmonite proprio nei giorni in cui fu presa la decisione; lamenta la mancanza di riconoscenza. Lo scrittore, da parte sua, gli rimprovera di essere stato «messo così brutalmente dinanzi al fatto compiuto» per ragioni essenzialmente politiche. E si interroga: «Ma che concetto si ha degli uomini?». In una conversazione con Pino Corrias dell'85, Bilenchi ricorderà l'editoriale di Poznan come la vera causa della soppressione del giornale, ma cercando di attenuare la responsabilità di Togliatti: «Sugli operai non si spara, dissi. Togliatti, che mi aveva sempre appoggiato, era ammalato e la segreteria era retta ad interim da Scoccimarro (…). Dopo un anno riconsegnai la tessera che accettai di riprendere solo nel 1972. Ma comunista sono sempre rimasto».
In una lettera in risposta a Elio Vittorini, che a un mese circa dalla chiusura del giornale manifestava tutto il suo stupore per una soppressione inaspettata, Romano Bilenchi avrebbe precisato che «i migliori redattori del giornale, tutti solidali con me, hanno dato le dimissioni dal Partito: Nomellini, che era vicedirettore, Carnevali e Signorini, Modellini e Domenichini e altri». Elio cerca di attenuare la rabbia dell'amico: «Io non so che cosa augurare. Vorrei che avessi almeno un periodo di calma, di distacco da tutto, anche a caro prezzo, per scrivere un libro come ti meriti di scrivere».
Nel 1959 la ferita è lungi dall'essere rimarginata. In un'intervista di Roberto De Monticelli, Bilenchi dice che il ricordo di quella vicenda gli «fa ancora rovesciare lo stomaco». Il che è dimostrato da una lettera molto dura che nel marzo dello stesso anno Bilenchi scrive all'amico Elio (il quale gli ha sottoposto, per ottenerne la firma, una lettera aperta al Psi), esprimendo tutta la propria rabbia e una più generale delusione ideologica: «Noi abbiamo fatto parte del Pci. Ce ne siamo staccati perché in fondo è un partito reazionario, i cui dirigenti sono dei carabinieri». L'opinione sulla sinistra italiana nel suo complesso è impietosa: «Io non credo a questi partiti: il Pci, il Psi, il Psdi sono sputtanati, sputtanatissimi. Io penso che noi dovremmo se mai agire perché si formi un partito di sinistra più moderno, democratico».
Ma ancora nel 1972, quando poi Bilenchi deciderà di rientrare nel partito, in una lettera all'amico Silvio Guarnieri, il ricordo di quella lontana vicenda continua a bruciare. Brucia soprattutto il fatto di essere stato scaricato, mentre negli ambienti politici circolavano voci artificiose su una sua ricollocazione all'Unità o alla Feltrinelli. Brucia il fatto di avere intuito loschi traffici interni al partito per tenere all'oscuro Togliatti (ma era davvero possibile che il leader fosse rimasto tagliato fuori dalla vicenda?): «In realtà non mi offrirono nulla e, approfittando della malattia di Togliatti, mi allontanarono (…). Dentro il Partito c'era e c'è ancora una banda nefasta». E aggiunge: «Io non sarei uscito per la soppressione del Nuovo Corriere, non sono uscito a causa dei fatti di Ungheria come molti hanno detto. Uscii perché ero stato trattato bestialmente, uscii per una incazzatura personale». Evviva la sincerità.

«Caro Elio, dicono che ero d'accordo. È falso»
La chiusura del Nuovo Corriere doveva essere motivata da ragioni economiche. E anzi, nei piani dei dirigenti Pci, doveva passare per una decisione presa in accordo con Bilenchi.
Lo dimostra una lettera che Elio Vittorini, a cose fatte, il 24 settembre 1956, invia all'amico: «Mio caro Romano, ho saputo del Nuovo Corriere mentre mi trovavo a Feltre da Guarnieri il quale sostiene la versione che tutto è avvenuto col tuo accordo e per "il meglio" (…). Ma qui a Milano sento altre voci». Le voci riguardano la nomina di Bilenchi come direttore dell'Unità milanese. Ma si trattava di «voci maligne», che tentavano di oscurare la portata politica della rottura e di far passare per consensuale la chiusura del Nuovo Corriere.
La risposta di Bilenchi a Vittorini fu rapidissima e tassativa: «Carissimo Elio, non dare retta alle chiacchiere. Le mettono in giro apposta. Figurati se vado all'Unità di Milano. I miei rapporti con loro sono tesi e se passerai da Firenze ti mostrerò i documenti. Il giornale non è morto con la mia complicità: tra l'altro non mi sarei mai sentito la forza di togliere il pane a un sacco di persone. Anzi se sono stato tanto tempo lì contro il mio stesso interesse era per non uccidere un giornale importante e per non mettere troppe persone nel mezzo di una strada (…). Entro due o tre mesi dovrò trovarmi un lavoro. Vedremo. Un lavoro non da loro. Me lo cercherò per conto mio». E poi: «Guarnieri è un bravo ragazzo, ma chissà che balle gli hanno raccontato. Quando hanno deciso di farci fuori io ero in ferie da cinque giorni».
La replica di Elio contiene una raccomandazione per il futuro: «Se vuoi ancora insistere nel giornalismo ti consiglierei in ogni modo di non assumere impegni che vadano oltre la direzione di una terza pagina». Bilenchi, infatti, seguirà l'invito, assumendo fino al 1971 la responsabilità della terza pagina della Nazione di Firenze.

Romano Bilenchi.
Nel '72 vinse il premio Viareggio con «Il bottone di Stalingrado»
Oltre alla plaquette «I fatti di Poznan», edita da Alet, che raccoglie i testi relativi alla chiusura del quotidiano fiorentino di cui Romano Bilenchi era direttore, «Il Nuovo Corriere», è uscito in questi giorni il romanzo dello stesso Bilenchi «Conservatorio di Santa Teresa» (Bur, pagine 245, e 8,60). Entrambi i volumi sono a cura di Benedetta Centovalli
Nato a Colle Val d'Elsa (Siena) nel 1909, Bilenchi fu giornalista e scrittore, collaborò con «Il Selvaggio» di Mino Maccari e diresse «Il Nuovo Corriere» dal 1948 al 1956. Morì nel 1989
Bilenchi vinse il premio Viareggio nel 1972 con il romanzo «Il bottone di Stalingrado». Tra le sue altre opere narrative: «Il capofabbrica» (1935), «Anna e Bruno e altri racconti» (1938) «La siccità» (1941), «Dino e altri racconti» (1942), «Il gelo» (1982)