Repubblica 29.11.06
E il partito gelò tutti i dissenzienti
Testimonianze/ Il 1956 e il Pci
di Alberto Asor Rosa
Ci fu una riunione alla sezione Italia e Pietro Ingrao non concesse nulla alle nostre ragioni
Agli orrori di Budapest e al tentativo di noi studenti di discuterne Botteghe Oscure reagì con durezza
Un piccolo gruppo con Tronti, Coldagelli ed altri si muoveva con una certa autonomia
In quell'anno eravamo già stati colpiti dal rapporto Krusciov sui crimini dello stalinismo
Ingrao era allora il nostro idolo e certamente era convinto di quello che diceva e scriveva
Innanzi tutto due brevi premesse. Non ho mai avuto simpatia né per il termine né per la pratica dell´autocritica. Quale che sia la storia precedente di questa parola (esigua e poco significativa in ogni caso, io credo), non c´è dubbio che essa abbia conosciuto un´insolita fortuna soprattutto in ambito comunista e in particolare staliniano. Un dirigente, un militante, uscito magari senza avvedersene dalla linea, riconosceva la propria colpa e veniva reintegrato (passando attraverso processi spesso umilianti e più o meno di lontana derivazione cristiana e/o cattolica: confessione, penitenza, assoluzione, ecc.). Dio mio (è proprio il caso di dirlo). In ogni caso (e questa è la seconda premessa), il termine massimo per esprimere una parvenza di autocritica seria non supera i quattro-cinque anni di distanza dall´accadimento a torto o ragione messo in questione: poi si entra nel campo della riflessione storica, dove le responsabilità e gli errori individuali si stemperano e dissolvono nel quadro complessivo. Da un po´ di tempo a questa parte, per giunta, io preferisco alla riflessione storica il racconto. Come sono andate le cose?
Come sono andate le cose per me, ed eventualmente per te, o per lui? Al lettore, all´osservatore, il compito di rimettere poi a posto i frammenti e dare un senso alle cose (ammesso che ce l´abbiano; visto che la riflessione storica, quanto più è seria e distaccata, porta sempre di più a concludere che non ne abbiano alcuno).
Nel 1956 avevo ventitré anni ed ero iscritto da un anno e mezzo alla Sezione Universitaria del Pci dell´università di Roma (allora unica e sola, e non ancora «Sapienza», come sarebbe diventata più tardi, oltraggiosamente offendendo ogni buonsenso). Quella sezione era uno splendido unicum nella rigida organizzazione comunista del tempo, perché riuniva al tempo stesso studenti, docenti e personale tecnico e cioè fungeva insieme senza paratie stagne da Sezione di Partito e da Sezione Fgci. Era diretta da un Segretario eccezionale come Mario Tronti e all´inizio di quell´anno fatidico, per come me la ricordo, viaggiava a gonfie vele.
Per rendere più comprensibile il racconto successivo, dovrei spiegare come e perché un ragazzo della piccola borghesia romana, con un padre antifascista e socialista da lunga pezza, si facesse in quegli anni comunista. Sarebbe troppo lungo e probabilmente irrilevante. Mi limiterò a dire che, per un giovane di quell´età e di quell´estrazione, l´idea comunista incarnava un progetto di trasformazione sociale mondiale, fondato sull´emancipazione e l´affermazione di una nuova classe dirigente, espressa e formata dagli strati espropriati ed oppressi, gli operai e, più genericamente, il popolo. Insomma, «giustizia e libertà», magari in modo nuovo e più allargato? Mah, non lo so, le formule mi sembrano inadeguate a contenere quell´empito passionale e ideale. Quel che so, - e lo so con certezza, - è che ad incarnare, come dicevo, quell´empito, non c´erano in Italia per me che i comunisti: tutto il resto appariva, e in gran parte era, vecchio, freddo, stento, rinunciatario e compromesso (vi risparmio le analisi politiche circostanziate).
Farei a questo punto un piccolo passo indietro. Non è mai entrato a far parte delle ricostruzioni storiche e autocritiche di queste ultime settimane un avvenimento che invece ebbe una grande importanza per la storia di un piccolo gruppo (Tronti, Coldagelli, De Caro, Asor Rosa e pochi altri), che già allora si muoveva con una certa autonomia in quel piccolo gruppo che era a sua volta la Sezione universitaria romana, aspirando forse confusamente fin da quel momento ad una sua propria storia (sono, ne convengo, piccole storie: ma di cosa è fatta la Grande Storia se non di piccole storie?). Nel marzo del 1955, nel corso delle elezioni per le Commissioni interne alla Fiat di Torino, la Cgil era crollata (scendendo più o meno, se non ricordo male, al 30% dei voti). Ahi. Com´era stata possibile una cosa del genere? Non c´era un rapporto indefettibile e indistruttibile fra classe e partito, fra la classe e il suo sindacato? Bastava il selvaggio attacco padronale-governativo (come scriveva l´Unità) a giustificare la rescissione di tale rapporto? Oppure le due cose, - la classe e il partito, - andavano guardate con ottiche diverse, che solo un´operazione intellettuale soggettiva avrebbe potuto in seguito rimettere insieme?
Basta, diciamo che questa fu per alcuni (ignoranti, giovani e soli) la vera premessa di alcuni ragionamenti successivi.
Nel corso del 1956 si abbatterono sulle nostre povere teste ben tre grandiosi avvenimenti epocali. Per comodità accennerò ai primi due insieme: in febbraio il XX Congresso del Pcus e poi, come se non bastasse, in giugno la divulgazione del Rapporto Krusciov sui crimini di Stalin.
Mica male per tornare a riflettere, in maniera ancor più globale, sui rapporti fra il partito e la sua (privilegiata?) base sociale e sulle incompiutezze e degenerazioni della grande «Patria del socialismo», l´Unione Sovietica. Noi giovani comunisti, se mi si presta fede, stalinisti nel senso proprio del termine non eravamo stati mai (piuttosto, gramsciani e/o critico-marxisti).
Però venire a sapere che il socialismo, nel punto più alto della sua storica realizzazione, aveva prodotto tanti e così vistosi aspetti negativi, rappresentò un grave motivo di sconcerto. Rappresentò un grave motivo di sconcerto anche constatare (tanto visibilmente, che potevamo accorgercene anche noi) che la dirigenza comunista italiana, - in una parola Palmiro Togliatti, - digeriva assai malvolentieri le denunce kruscioviane: si capiva benissimo, insomma, che ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Comunque, la prima metà dell´anno si esaurì in un´orgia di rivendicazioni democratiche: più democrazia nel partito, più democrazia nel socialismo, più democrazia nella società (nel frattempo, però, Fabrizio Onofri vedeva pubblicato su Rinascita un suo intervento non pronunciato al Comitato Centrale del partito, con il titolo infamante: "Un inammissibile attacco alla politica del Partito comunista italiano", dove compare un termine, «inammissibile», che rende bene il clima del dibattito interno di quel tempo).
Ma quel che accadde subito dopo fu molto più traumatico e catastrofico. La rivolta degli operai polacchi a Poznan nel giugno e ancora più quella budapestina e ungherese dell´ottobre aprirono una voragine nelle nostre coscienze. I capisaldi del nostro più profondo sentire, - e cioè l´idea che il socialismo fosse il sistema in cui la classe operaia portava a compimento la sua secolare lotta di emancipazione e la convinzione che il Partito comunista ne fosse al tempo stesso l´espressione e l´organizzatore, - venivano messi di fronte a numerose clamorose smentite: poiché, sulla base della inconfutabile documentazione giornalistica che ne veniva fornita, non sembrava dubbio che la rivolta in molti casi fosse partita soprattutto dalle fabbriche oppure le avesse investite fin dalle prime battute. Le foto, atroci, dei poliziotti del regime appesi a testa in giù per le vie di Budapest, circondati da folle ridenti, non facevano che aumentare l´orrore di quella scoperta.
A queste lancinanti interrogazioni il Partito rispose nella maniera più dura. A una delegazione della Sezione universitaria comunista, andata a chiedergli la pubblicazione di un proprio intervento sul giornale del Partito, non mi ricordo se poco prima o subito dopo la comparsa del famoso editoriale "Da una parte della barricata a difesa del socialismo", il Direttore Pietro Ingrao rispose senza la minima esitazione che della cosa non si poteva neppure parlare, perché, oltre a essere sbagliato avrebbe solo suscitato confusione e incertezza nella grande massa degli iscritti. Dopo pochi giorni seguì un´assemblea, affollatissima, della Sezione Universitaria.
Secondo una consuetudine ben radicata nel Partito, per cui il dirigente più di sinistra veniva spedito a confutare la platea più di sinistra e il dirigente più aperto e dinamico a confutare la platea più aperta e indisciplinata, a noi toccò di nuovo Pietro Ingrao, il nostro idolo del tempo. La riunione si svolse nella sede della leggendaria Sezione Italia (esiste tuttora), a due passi da piazza Bologna, cui facevano capo fra gli altri anche i tranvieri e gli operai dell´Atac, che lavoravano ai depositi che stanno all´inizio della via Tiburtina. Alla sala della riunione si accedeva per uno stretto corridoio: una fila di tranvieri, appoggiata al muro, ci costringeva a passare di sguincio, un po´ faticosamente, e ci guardava fisso negli occhi, da potenziali controrivoluzionari quali ormai eravamo. Ingrao non concesse nulla, né alla nostra ragione né ai nostri sentimenti. Appunto: o di qua o di là; o con il socialismo o con la reazione; o con l´Unione Sovietica grande «Patria del socialismo» o con gli operai ungheresi in rivolta, chiaramente suggestionati e deviati, poveretti, dalla reazione internazionale. Il ricordo cinquantennale può aver sbiadito le sfumature: ma a me sembrò allora che di quelle parole fosse pienamente convinto (o almeno apparisse perfettamente tale ai nostri occhi stupiti e delusi).
Nei giorni successivi la discussione, fino a quel momento giocata piuttosto sulle grandi questioni teoriche e ideali, prese un andamento vistosamente più drammatico. Le truppe sovietiche erano arrivate a Budapest, rovesciarono il legittimo governo Nagy, soffocarono nel sangue la rivolta popolare e operaia, presero prigioniere decine di intellettuali, fra i quali una figura del calibro di György Lukacs: ci misero di fronte ad angosciose alternative.
Questa piccola storia potrebbe avere da questo momento in poi uno svolgimento più largo e pubblico (il Manifesto dei Centouno intellettuali comunisti, che anche noi firmammo, la preparazione e lo svolgimento nel dicembre dell´VIII Congresso del Pci, con tutto quello che v´accadde, ecc.). Ma io vorrei restare nei limiti di una dichiarazione personale, quasi privata. Com´era possibile, mi chiedevo allora, che per tenere in piedi il sistema socialista fosse necessario sparare sugli operai in rivolta, i quali, oltre tutto, si limitavano a chiederne uno diverso e migliore? Non era possibile. Così mi coniai, mentalmente, una parola («intollerabile»), che contrapponevo a quella tipicamente usata dal partito per esorcizzare il dissenso («inammissibile»). Quel che era accaduto era «intollerabile»: e io, giovane e inesperto qual ero, non mi sentivo, per nessuna ragione al mondo, di accettare, introiettare e metabolizzare quella «intollerabilità». Per il 1957 ormai era fatta, siccome tra la fine dell´estate e l´inizio dell´autunno, si era già svolta come si soleva dire, la campagna di tesseramento per l´anno successivo e a me seccava di fare un gesto ridicolmente presuntuoso come la «restituzione della tessera». Ma nel 1958 interruppi la mia adesione al Pci, in cui sarei rientrato solo quindici anni dopo, quando mi sembrava iniziata un´altra storia (ma forse mi sbagliavo ancora).
In base alle mie stesse premesse, sarebbe scorretto, proiettare questa modesta (e giovanilissima) esperienza individuale su quella grande storia collettiva che, lo so bene, ubbidisce ad altre logiche e altre leggi. Pure, un paio di altre cose, e ora in questa nuova direzione, vorrei aggiungerle.
Allora, accanto alla sofferenza grande che provavo (grande, vi prego di crederlo), c´era una sorta di altrettanto e ancor più grande senso d´incredulità: come poteva essere che una massa così grande di dirigenti maturi ed esperti e, occorre aggiungerlo, una massa così grande di popolo, chiudessero gli occhi su di una tanto palese e clamorosa intollerabilità, su di una discrepanza tanto traumatica fra principi e azione, fra teoria e pratica? A dir la verità continuo a chiedermelo ancora oggi, e posso spiegarmelo solo con la tragicità della storia, in cui non c´è mai, mai, adeguazione tra ragione e fatti (e la politica prende parte a questo destino). In fondo, sarebbe stato sufficiente prendere atto che «la spinta propulsiva della Rivoluzione d´Ottobre» era venuta meno sulle sponde del Danubio nell´ottobre 1956 invece che sui colli di Praga ben dodici-tredici anni dopo: e la storia, tutta la storia, sarebbe stata diversa, in Italia e altrove. E´ per me motivo d´orgoglio registrare che quel mio io così giovane avesse scoperto e testardamente difeso il principio che il rifiuto dell´intollerabilità è (può essere) una forza della storia altrettanto e forse più grande della pratica (di sicuro più diffusa, e oggi almeno quanto allora, sebbene nella forma più celata della «dissimulazione onesta») della «inammissibilità».
Scoprii anche, allora, che è proprio, anzi consustanziale, della politica che il politico si sforzi sempre di cadere in piedi. Se salvare se stessi significa per il politico salvare la politica, tanto meglio. Ma non è condizione irrinunciabile. Nel 1956 i politici comunisti fecero quadrato per salvare innanzi tutto se stessi: il partito, nei casi migliori (c´è sempre un partito da salvare, in casi del genere); negli altri, il loro radicamento, la loro immagine e le loro fortune (politiche, beninteso, non private). Tutti. Quei pochi che non ci stettero, se ne andarono (oppure furono messi in condizione di andarsene). E la lunga transizione, di cui allora nessuno ebbe il coraggio, la voglia, la persuasione di scorgere l´inizio, durò, udite, udite!, un trentennio: una misura così lunga che poteva andar bene (forse...) per l´Impero Romano, non ad una frazione in movimento dell´Europa occidentale.
Di questa seconda lezione, io poi ho poco approfittato, lasciandomi sedurre di tanto in tanto dalla prospettiva che questo o quel politico imboccasse una strada nuova, dove quel che contava era la politica, ossia l´obiettivo e i modi per raggiungerlo: e accorgendomi ogni volta che ognuno di loro non aveva fatto, non stava facendo e non avrebbe fatto in primo luogo che il proprio personale interesse, contando se mai sul fatto che ad un certo punto esso si fosse incontrato, s´incontrasse o si sarebbe incontrato con quello collettivo. Ma questa, ne sono perfettamente consapevole, è la morale che dal 1956 trasse un ingenuo e irrimediabile minoritarismo. Per tirare avanti sereni, vi prego di non tenerne alcun conto.
lastampa.it 24.11.2006
Per i neonati l’ospedale diventa un calvario di dolori
C’è stato un tempo in cui i medici negavano che il neonato potesse provare dolore: l’immaturità del sistema nervoso l’avrebbe tenuto al riparo del provare questa sensazione. Non erano gli sciagurati cerusici tartassati dall’ironia vendicatoria di Molière; perché ancora negli Anni 70 si registrava la normalità di interventi chirurgici sui più piccoli praticati senza anestesia: «Tanto non soffrono...». Non è più, per fortuna, la realtà di oggi, visto che è scientificamente ormai monumentalizzato che il dolore è possibile compagno dell’uomo a partire dalla 24ª settimana di vita intrauterina.
Anzi più il bambino è piccolo più le sue reazioni al dolore aumentano e la ripetizione degli atti dolorosi ne accrescono l’intesità. Attenzione è una sensazione diversa, avvertono i medici: le cadute e gli urti, certo, lo fanno strillare, ma sono esperienze necessarie per apprendere, misurare i limiti del suo corpo e dell’ambiente, a dare una dimensione alle proprie possibilità. Invece il dolore della malattia e di una cura sono strappi che ne scombinano il fragile mondo. Siamo insomma nel territorio terribile del dolore assoluto, perché senza ragione. Il neonato ha paura e, più ha paura, più sente il male. Perché lui non può prevedere con l’esperienza cosa può derivare da un semplice medicamento come l’applicazione di un cerotto. Le sue reazioni variano a seconda dell’età, dello stato emotivo e delle esperienze precedenti, anche se il bambino non sa dire dove quando come e soprattutto quanto ha male. «Eppure ancora oggi molti medici hanno difficoltà ad ammettere questa realtà - spiega Daniel Annequin, presidente del comitato scientifico del “Centre national de ressources de lutte contre la douleur” - che impone di rimettere in discussione le pratiche mediche che sono poco compatibili con una rappresentazione idealistica del malato».
Proprio il «Centre» si è calato per la prima volta nel grande spazio silenzioso del dolore infantile: con cinque mesi di indagine, in 13 centri per nati prematuri e cinque servizi di urgenza pediatrica. Accumulando un campione di 909 bambini, assistiti da 652 medici e infermieri. Sotto la direzione del dottor Ricardo Carbajal dell’ospedale pediatrico «Armand-Trousseau» di Parigi i ricercatori hanno scoperto che, nonostante i progressi, ancora il 40% dei piccoli pazienti ha subito atti medici che provocano dolore senza aver ricevuto misure preventive. La statistica con i suoi numeri grigi come sempre attenua il senso del reale. Che appare più chiaro, ad esempio, che 431 prematuri sono stati «vittime» di 30 mila 161 atti che hanno loro causato dolore. Tra i più frequeneti le aspirazioni nella trachea, i prelievi di sangue, le asportazioni cutanee con diversi cerotti, i prelievi vascolari periferici e l’introduzione di sonde gastriche. In media ogni bambino è passato attraverso l’odissea di 70 gesti con dolore, seppure per una parte attenuati da analgesici e sedativi.
Proporzione che Carbajal giudica ancora insufficiente. Perché il dolore prevedibile, che deriva da una cura o da un esame clinico, ma anche dai gesti quotidiani come spostare o pulire il bambino, deve essere sistematicamente preso in considerazione per evitarlo. Come? Una crema anestetica o l’inalazione del Meopa sono utilizzabili. Ma, secondo il ministero della Sanità francese, dai tre mesi si può ricorrere alla morfina (0.2 miligrammi per chilo ogni quattro ore per via orale). Non costituisce un pericolo, perché i meccanismi di eliminazione sono attivi nel neonato e consentono di alleviare i dolori più intensi: quelli da interventi chirurgici, bruciature e fratture.
C’è un’altra realtà che il rapporto cita con forza. Solo nel 5% dei casi i genitori erano a fianco del medico, mentre il piccolo provava dolore. E invece questa semplice presenza può rassicurarlo, distrarlo, incoraggiarlo, consolarlo. Eterno, immemorabile rimedio allo scandalo del dolore.
Il Pensiero Scientifico Editore 28.11.06
"Distacco terapeutico"
"Di recente ho quasi pianto di fronte ad una paziente in punto di morte ed alla sua famiglia; ho sentito una grossa commozione ma, dopo aver spiegato al marito e al figlio della signora come sarebbero stati gli ultimi momenti della loro amata, ho stretto loro la mano e sono uscito. Sono andato nel vano scale dove un tempo stazionavano i fumatori e lì mi sono concesso un attimo di commozione", lo ha raccontato Kent Sepkowitz del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center sulle pagine del New York Times.
"I moderni ospedali sono diventati il luogo in cui personale qualificato si assume la responsabilità di comunicare al paziente le notizie sulla sua condizione nella loro crudezza e, sempre più spesso, accompagnarlo negli ultimi istanti della sua vita. Lo si fa con gesti precisi, routinari che a volte possono sembrare meccanici e come tali freddi. Per questo da più parti ci si lamenta che gli ospedali sono dei luoghi in cui le emozioni non traspaiono e, per estensione, che i medici siano glaciali. Non è proprio così, ma è bene che sia così", sostiene Kent Sepkowitz.
Secondo Sepkowitz l’accusa che oggi spesso viene rivolta ai medici, ossia che manchino di empatia, di comprensione, di conforto, è infondata. Non tanto perché realmente i medici e le strutture sanitarie non abbiano finito per avere un atteggiamento distaccato nei confronti del paziente, quanto per il fatto che oggi gli stessi medici e le stesse strutture si prendono cura del malato in altro modo: senza drammi ma con l’efficienza. L’efficienza richiede mente lucida e presenza di spirito, per questo "terrò i miei occhi asciutti in pubblico, almeno per ora", dichiara Sepkowitz.
Una posizione chiara e una voce fuori dal coro proprio in un momento in cui, soprattutto negli Stati Uniti, si parla di Medical Humanities e dell’importanza della riscoperta della figura “umana” del medico. Ci si interroga se il medico abbia, negli ultimi decenni, dato più importanza alla sua formazione come scienziato finendo per ritrovarsi impreparato al confronto diretto con un altro uomo, il paziente.
Adnkronos 29.11.06
Sanità, cresce il disagio mentale anche tra i minori
E' quanto emerso oggi al Convegno "Quando il paziente è al centro della sua cura?", che si e' svolto presso l'auditorium della Banca Toscana, a Firenze
Firenze, 27 nov. - (Adnkronos) - Nel 2005 sono risultati in carico ai servizi di salute mentale 90.241 cittadini toscani, di cui 72.106 adulti e 18.135 minori. In termini ancora piu' generali si stima (anno 2004) che oltre l'11% dei cittadini toscani abbiano fatto uso di una ricetta che prescrive antidepressivi o psicofarmaci maggiori. E' quanto emerso oggi al Convegno ''Quando il paziente e' al centro della sua cura?'', che si e' svolto presso l'auditorium della Banca Toscana, a Firenze.
Il convegno, a cui ha partecipato anche l'assessore regionale per il diritto alla salute Enrico Rossi, ha dato inizio alle manifestazioni che le varie province organizzeranno in occasione della Giornata nazionale per la salute mentale del 5 dicembre prossimo. I ricoveri ospedalieri (dati delle dimissioni ospedaliere) sono passati dai 20.219 del 2000 ai 17.379 del 2005. Il 75% dei ricoveri riguarda pazienti residenti in Toscana, il 23% pazienti che vengono da fuori regione e il 2% pazienti stranieri. Per quanto riguarda i ricoveri dei minori, in Toscana si e' passati dai 1970 del 2000 ai 1943 nel 2005, un dato che apparentemente e' stabile ma da valutare in considerazione della diminuzione complessiva dei ricoveri.
Il ricorso al Trattamento sanitario obbligatorio e' in diminuzione: da 510 Tso nel 2000 a 352 Tso nel 2005. ''La nostra direttrice di lavoro - ha detto l'assessore Rossi - e' quella di valorizzare le esperienze che in questi anni hanno caratterizzato l'esperienza toscana e mettere a fuoco nuove strategie, colmando lacune e uniformando i livelli assistenziali, e facendo quadrare carenza di risorse e obiettivi di fondo''. Di recente la Regione Toscana ha approvato la creazione di una rete dei servizi specializzati nella cura dei disturbi del comportamento alimentare, anoressia e bulimia, che sono in forte crescita, soprattutto tra i giovani.
Il Giornale 29.11.06
Tony Negri fa ciao ciao al socialismo
«In questo momento storico è ancora possibile usare per le nuove generazioni la parola “socialismo”?». La risposta è negativa persino da parte di Tony Negri, che forse non riuscirà mai a levarsi di dosso lo scomodo appellativo di «cattivo maestro», ma certamente, in riferimento a questa affermazione, può contare su ampi consensi.
L'ultima sua fatica editoriale echeggia nel titolo quel Good Bye Lenin! del regista tedesco Wolfgang Becker che tanto ci ha divertiti (e non solo) con il suo amaro e grottesco amarcord del socialismo reale della Germania dell'Est.
Dopo il successo internazionale di Empire, con Goodbye Mr Socialism (Feltrinelli, pagg. 200, euro 9.50) Negri prende definitivamente congedo dall'idea socialista, persuaso che la sua prospettiva, quella di prendere il potere (con le buone o con le cattive) e di mettere le mani sul capitale (con la rivoluzione o con la redistribuzione), sia del tutto inadeguata al mondo attuale, decentralizzato e polverizzato in una molteplicità di rapporti, reticolari e multiformi, in cui emerge una grandissima facilità di comunicazione storicamente inedita e carica di eccellenti potenzialità,
molte delle quali non ancora esplorate.
«Il socialismo ci ha dato tutto quello che poteva darci, un altro modello per gestire il capitale, un'altra figura per essere padroni. Adesso è possibile cominciare a pensare che essere produttivi possa coincidere con l'essere liberi»; fin qui non si può che convenire, anche perché affermazioni di questo tenore, nella loro genericità, possono essere lette in modi molto diversi; viceversa, il terreno su cui è più difficile seguire le sue analisi, sempre brillanti, è quello in cui viene rappresentata una prossimità politica fra la «moltitudine», che nel suo linguaggio rappresenta la massa dei subalterni dopo l'eclisse della classe marxianamente intesa (eclisse dovuta alla fine del sistema di fabbrica tradizionale, il cosiddetto taylorismo) ed i movimenti, a suo avviso i possibili attori di quella rivoluzione a cui non ha mai smesso di votarsi. In altri termini, Negri sostiene che i movimenti antagonisti siano l'espressione politica della moltitudine dei ceti popolari che, ai quattro angoli del pianeta, per lo più subiscono gli effetti perversi della globalizzazione; si tratta, con ogni evidenza, di un'operazione autoreferenziale che è tipica della cultura di sinistra: nella sfera politica, i ceti subalterni sarebbero necessariamente rappresentati da coloro che dicono di averli come proprio riferimento privilegiato, cioè dalla sinistra appunto, salvo poi scoprire che, il più delle volte, questi non solo votano altri partiti ma hanno cultura e mentalità di tutt'altro orientamento.
Vecchia storia sulla quale non è il caso di indugiare.
La parte più interessante del libro è comunque quella in cui Negri parla della politica italiana: «L'Italia è da oltre un secolo un'anomalia a livello mondiale» . È un modello politico valido su scala mondiale?, lo incalza l'interlocutore del libro, Raf «Valvola» Scelsi. Non senza onestà intellettuale, Negri riconosce la carica di modernizzazione portata da Berlusconi, e il fatto non casuale che la sua leadership sia stata mal percepita da Confindustria e dai «poteri forti»; segnata l'ovvia ed incolmabile distanza politica che lo separa della destra neoliberale, in ogni caso, le affermazioni più pensate le riserva alla sua parte politica, la sinistra, sottolineando impietosamente i limiti dell'attuale classe dirigente, sprovvista di un minimo di carica ideale e, cosa ancor più grave, di un qualsiasi programma politico a fronte delle radicali trasformazioni che la globalizzazione sta apportando nel mondo contemporaneo. «La sinistra attuale fa paura», arriva a dire, anche se indubbiamente fanno più paura i black bloc e gli altri gruppuscoli apertamente violenti attivi all'interno dei «movimenti», di cui non si stanca di tessere l'elogio.
I limiti di quanto ci viene esposto in questo libro sono gli stessi che da sempre accompagnano la sinistra radicale: come si diceva un tempo, la pars destruens è certamente brillante e non priva di acutezza; la pars construens inesistente e, per quanto emerge, inquietante nel suo costante sforzo di legittimare forme di inciviltà della lotta politica, che là dove si svolge in contesti democratici non ha alcuna giustificazione se sceglie di fare opzione per la violenza.