l’Unità 30.11.06
Spagna 1936, l’unica democrazia possibile
ANNIVERSARI. Nel suo ultimo libro Gabriele Ranzato analizza passato e presente della nazione iberica e critica forzature ed estremismi dei repubblicani. Ma allora nessun paese democratico era davvero tale sino in fondo e quello fu pur sempre un tentativo cruciale
Un libro di storia è importante per la documentata serietà con cui veicola le argomentazioni che contiene, e anche per gli interrogativi che suscita. È questo il caso del bel libro di Gabriele Ranzato, Il passato di bronzo. L'eredità della guerra civile nella Spagna democratica (pp. 153, Euro 15, Laterza 2006). Al centro vi è il il confronto tra le tante Spagne di questo secolo (la monarco-conservatrice, la repubblicana, la franchista catto-fascistoide, la democratico-pluralista e costituzionale). Essenzialmente due, sono i temi delineati. Il primo riguarda el pacto del olvido, ossia il patto dell'oblio tra le forze politiche, e in realtà tra gli stessi cittadini della nuova Spagna, nel difficile e lungo periodo della transizione dalla dittatura franchista alla democrazia, transizione iniziata nel 1975 con la morte del Caudillo. Il secondo tema, che ha una portata ancora più generale ha invece a che fare con l'insidioso rapporto-raffronto tra la democrazia odierna e la democrazia degli anni drammatici della repubblica (1931-1939). Per quel che riguarda il primo tema Ranzato ha il grande merito di contestualizzare puntigliosamente la questione e di renderla concreta, cosa che in Italia non era stata fatta quando era uscita La lezione spagnola di Víctor Pérez-Díaz (il Mulino, 2003), una riflessione certo di gran peso sulla transizione, ma più politologica che storica. Tale riflessione aveva oltre tutto suggerito, nel nostro paese, improbabili confronti, non privi talora di rimpianto, tra l'Italia del 1945 e la Spagna del 1975. Ranzato, infatti, parte dall'amnistia decretata nell'ottobre 1977 per i delitti politici dell'una e dell'altra parte e percorre le difficoltà della giovane democrazia spagnola, posta a lungo sotto la tutela di una casta militare burbanzosa e nostalgica. Quello di Tejero - «¡todo el mundo al suelo!» - non fu infatti un rozzo tentativo golpista isolato. L’insofferenza dei militari, e le manifestazioni concrete di tale insofferenza, furono per molti anni evidenti. E il «patto dell’oblio» non fu il risultato della saggezza delle élites politiche, ma una spontanea invenzione dei cittadini appena usciti dalla frustrazione causata dalla marginalizzazione europea e desiderosi di voltare irreversibilmente pagina. La democratizzazione era partita dall'interno di un regime ormai impresentabile e penalizzante per gli assetti economici e sociali della Spagna, ma aveva avuto molti nemici politici all’interno dello stesso regime agonizzante, della Guardia civil e delle Forze armate. I cittadini, troppo presi dalla libertà ormai acquisita per rischiare di perderla esibendo con troppo di vigore memorie che non potevano essere condivise, assecondarono così, con sorprendente pacatezza, una democratizzazione che sgusciava fuori da un involucro politico che ormai si era disfatto. Decisiva - e su questo Ranzato avrebbe forse potuto dire di più - fu anche la capacità di attrazione esercitata proprio dall'Europa democratica, che mai, a sua volta, avrebbe potuto essere compiuta senza il grande apporto della Spagna. L'Europa stessa, con i suoi consumi e con i suoi costumi, con la sua tensione verso l'unità, stava infatti, tra «miracoli economici» e ampliamenti delle libertà, cambiando. Nel decennio 1965-1975, a confronto con gli altri grandi Stati eurooccidentali, la Spagna sembrava un residuale anacronismo. Non così era sembrata nel decennio 1950-1960. Il gollismo aveva nel frattempo calcato la mano sull’indipendenza del continente. Willi Brandt aveva inaugurato la stagione dell'Ostpolitik, prerequisito di medio periodo della caduta del muro di Berlino e quindi dell’allargamento dell’Europa. Sull'Atlantico e nel cuore del Mediterraneo erano infine cadute la dittatura portoghese e quella greca. Il franchismo, in questo contesto, era già moribondo prima della morte di Franco. Ma i suoi colpi di coda potevano - Ranzato lo documenta - essere molto pericolosi. I separatismi secessionistici e gli efferati terrorismi, che spesso avevano di mira i militari, rendevano la situazione ancora più pericolosa. La paura nella fase della transizione fu palpabile e fu essa che, pur nell’effervescenza del momento (basti pensare all'attività editoriale, e di recupero del passato, degli anni tra il 1975 e il 1980), produsse il cosiddetto patto dell'oblìo. Un patto che in realtà tale non fu, perché nulla fu dimenticato. Si può però forse dire che la memoria fu inserita nella lotta politica di quegli anni in forma meno arroventata di quel che ci si sarebbe potuto aspettare. Peculiare fu dunque il contesto, tanto che esso - non si può che accogliere il giudizio di Ranzato - non poté «configuare una lezione spagnola da impartire, in prospettiva o ex post, a chiunque realizzi un passaggio dalla dittatura alla democrazia».
E qui si arriva al secondo tema. All’aspetto benigno del cosiddetto patto dell'oblìo. Vale a dire alla creazione progressiva di una democrazia matura e distante da quella, assai problematica, del periodo repubblicano. Ranzato, con lucidità e coraggio, si sofferma, a questo punto, pur restando netta la sua condanna del franchismo come responsabile primo di quel che accadde, sulle brutalità dei repubblicani nel periodo della guerra civile, così come sulle insufficienze e sulla debolezza della democrazia repubblicana, che non può, e non deve, essere il modello, e neppure il fondamento ideale lontano, della democrazia odierna, la prima vera democrazia della storia spagnola. Se si escludono le perplessità suscitate da alcune citazioni isolate di esternazioni di Azaña e di Prieto effettuate in tempi tumultuosi - cosa si potrebbe infatti dire dell'Italia del 2001-2006 tra settant'anni se, con una contestualizzazione assai smilza, si citasse Bossi che afferma in tempo di pace che si sarebbe dovuto fucilare i democristiani ? -, nessuna obiezione può essere fatta a Ranzato sul terreno concreto dei fatti. Ma qui prorompe la questione di metodo. Quale democrazia del passato appare, anche in assenza di una guerra civile, una democrazia se osservata con gli occhi delle democrazie odierne? Probabilmente nessuna, con la parzialissima eccezione, forse, della repubblica di Weimar. Il fatto è che la democrazia non è un’essenza immutabile che resta tale indipendentemente dalle forme del suo precipitare in storica esistenza, non è un semplice e immodificabile idealtipo. La democrazia è un processo, provvisto di tortuose anse e non immune, complici le crisi economiche (o morali) e le guerre, da regressivi arretramenti. Nulla è mai veramente conquistato e nulla è mai veramente perduto. Gli storici non posseggono del resto verità assolute e non possono permettersi di condannare il relativismo. Chi potrebbe altrimenti considerare democratico oggi un paese che non fa votare le donne, che non concede i diritti civili ai neri o ad altre minoranze, che esercita con la forza e la repressione il dominio sulle colonie, dove vivono cittadini senza diritti o con minori diritti? Con il nostro sguardo odierno, e con le nostre non negoziabili esigenze, la Germania del 1914 non è certo democratica, alla stessa stregua però della Francia repubblicana e rivale in guerra, così come non è democratica l'Italia del 1919-'22 (pur affossata dal fascismo), non è democratica l'America ancora discriminatrice di Roosevelt (pur «arsenale delle democrazie» e poi restauratrice della libertà europea), non è democratica l'imperiale Inghilterra di Chamberlain (che però resistette poi, a lungo sola, con Churchill, al nazismo e al fascismo). Le democrazie, dunque, in quegli anni, non erano veramente tali, se paragonate ai nostri elementarissimi valori condivisi. Erano quantomeno, se ci si arrampica sino al punto di vista dell'eterno oggi (ma gli storici possono farlo?), larghissimamente «imperfette», termine a sua volta ambiguo perché non crediamo alla possibile esistenza di democrazie «perfette».
Per di più le democrazie «imperfette» erano pochissime. Tra le due guerre mondiali, nella stessa Europa, il quadro era infatti sconfortante. Dilagarono infatti le dittature e il totalitarismo. Ecco il quadro: repubblica dei Soviet (1918, soppressione dell'Assemblea Costituente, 1922, creazione dell'URSS), Italia (1922, marcia su Roma, 1926, formazione dello Stato totalitario), Bulgaria (1923, putsch militare), Spagna (1923, dittatura di Primo de Rivera), Turchia (1923, inizio dell'autoritarismo kemalista), Albania (1925, larghissimi poteri a Zogu, poi re), Portogallo (1926, putsch militare), Polonia (1926, colpo di Stato), Lituania (1926, dittatura), Jugoslavia (1929, colpo di Stato monarchico e serboslavo), Romania (1930, governo personale del re), Portogallo nuovamente (1932, inizio del salazarismo), Lituania definitivamente (1932), Germania (1933, presa del potere da parte di Hitler), Austria (1933-'34, clericofascismo di Dollfuss), Estonia (1934, dittatura), Lettonia (1934, dittatura), Grecia (1936, colpo di Stato), Spagna nuovamente (1936, rivolta militare, guerra civile, franchismo su tutto il territorio a partire dal 1939), Austria definitivamente (1938, annessa al Terzo Reich), Cecoslovacchia (1938-'39, smembrata e in parte annessa al Reich). Se si aggiunge che anche l'Ungheria - con i suoi governi antisemiti - non ebbe credenziali democratiche, si vede che nel 1939 esistevano in Europa ben pochi Stati retti con una democrazia che peraltro oggi non sarebbe accettabile, e che tuttavia molti storici, naturaliter relativisti lungo il filo del tempo, comprensibilmente si ostinano, con molti distinguo, a definire appunto «democrazia».
In questo contesto visse e morì la repubblica spagnola. Grazie ad essa, peraltro, e sia pure tra impazienti smanie di rivoluzionario riscatto sociale e rigide chiusure ideologiche, germogliarono i primi frutti di quell'antifascismo che contribuì a rendere progressivamente sempre più democratiche le democrazie di quell'Europa libera che nel 1975 era in grado di attrarre irresistibilmente una Spagna già in rebus ipsis postfranchista. Le democrazie di oggi, è vero, sono molto diverse dalle democrazie del +passato prossimo. E ancor più diverse sono dai sussulti democratici presenti nelle repubbliche del passato più remoto. Noi infatti non accetteremmo più le violenze presenti nella rivoluzione americana (ci furono, eccome) o la giustizia sommaria dei tribunali del periodo del Terrore giacobino. Eppure, senza quelle esperienze, e senza i valori e gli slanci a quelle esperienze connesse, noi non saremmo quel che siamo. Ranzato fa bene a insistere sulla «differenza». Non possiamo però illuderci di essere giganti sulle spalle di nani. Dietro di noi non c'è una tabula rasa. E se lo sguardo di Ranzato sulla repubblica spagnola può oggi essere tanto severo, il merito è anche, piaccia o no, della repubblica spagnola stessa e della pur incerta grammatica della democrazia che lì venne a tratti compitata. È questa la lezione che ricaviamo non dalla sola Spagna, ma dalla faticosa traiettoria, talora lineare, talora interrotta e carsica, di tutte le democrazie.
il manifesto 30.11.06
Il fascino degli slogan «Ribellarsi è giusto» e «Bombardare il quartiere generale». Parole d'ordine che sembravano adatte al Sessantotto
L'utopia interrotta dei cento fiori
«Mao's last revolution», un saggio sulla rivoluzione culturale cinese. Non l'atto di un dittatore impazzito, ma neppure il frutto della spontaneità delle masse
di Silvia Calamandrei
Già dal titolo - Mao's Last Revolution, «L'ultima rivoluzione di Mao» -, il libro di Roderick Mc Farqhuar e Michael Schoenhals (Harvard University Press, Cambridge, pp. 693) annuncia che non si tratta di una ricerca storica volta a una interpretazione riduzionista della rivoluzione culturale cinese, come avviene invece in molte analisi pubblicate in questi anni che vi vedono l'ultima lotta di palazzo di un dittatore impazzito o l'ultimo sussulto rivoluzionario prima della restaurazione del capitalismo in Cina. I due storici, profondi conoscitori, anche come testimoni diretti, della rivoluzione culturale hanno lavorato principalmente su fonti cinesi, un ricchissimo materiale accumulatosi nei quaranta anni trascorsi, che comprende documenti ufficiali, testimonianze dirette, autobiografie e biografie dei vari protagonisti, dai massimi dirigenti alle semplici guardie rosse. Il risultato è una ricostruzione pacata e dettagliata degli eventi, ivi compresi quelli più controversi, come l'episodio degli scontri nella cittadina di Wuhan in seguito all'istituzione di scuole separate per contadini e «cittadini» o il complotto e la fuga di Lin Biao.
In una recensione scritta sulla «New York Review of Books», il sinologo Jonathan D. Spence sottolinea la difficoltà di fornire un resoconto lineare di eventi drammatici che hanno coinvolto milioni di persone e che si sono a lungo protratti nel tempo. Spence dà però atto ai due studiosi di aver padroneggiato la complessità del tema, dedicando giustamente il volume non solo a coloro che li hanno aiutati con i loro scritti e le loro testimonianze, ma soprattutto ai futuri storici cinesi che potranno scrivere con maggiore libertà su questi eventi.
La rottura con l'Urss
La rivoluzione culturale, documentano i due studiosi, non è stato il prodotto di un atto folle di un dittatore sanguinario, ma neanche una rivolta spontanea delle masse in sintonia con un dirigente geniale che tenta di uscire «da sinistra» dal socialismo reale. Semmai, la rivoluzione culturale cinese è il frutto di un'operazione progettata e gestita dallo stesso Mao e da una parte del gruppo dirigente cinese per portare a termine il percorso rivoluzionario intrapreso dalla «Lunga marcia» e trovare così una via diversa per il socialismo rispetto a quella sovietica. La sua genesi è nel 1956, un anno cruciale per il movimento comunista mondiale. Mao rimane molto colpito dal rapporto Kruscev e dalle rivolte polacca e ungherese. Ed è proprio in quell'anno che comincia a lavorare a un'alternativa alla «via kruscioviana», mentre l'incubo di un possibile «Circolo Petöfi» cinese lo tormenterà fino alla morte(in seguito alla pubblicazione del rapporto sui crimini di Stalin, un gruppo di intellettuali ungheresi iniziò a organizzare una serie di incontri e discussioni pubblici spesso molto critici verso il partito comunista, n.d.r.). Il nipote del «grande timoniere», Mao Yuanxin, che negli ultimi mesi di vita dello zio era uno dei pochi che gli parlava, usò proprio questo riferimento per convincere un Mao ormai allo stremo che le manifestazioni in onore della memoria di Zhou Enlai sulla piazza Tienanmen dell'aprile 1976 erano ordite da controrivoluzionari e meritavano la messa sotto accusa di Deng Xiaoping, da poco recuperato dall'esilio.
E' nella analisi delle rivoluzioni ungherese e polacca e del suo impatto sui vari partiti comunisti che affondano le radici il testo di Mao sulle «contraddizioni in seno al popolo», la campagna dei «cento fiori» e la repressione degli «elementi di destra» immediatamente successiva. Il pericolo del «revisionismo» che apre la strada alla restaurazione del capitalismo, identificata con la perdita del controllo del partito-stato sulla società, tiene quindi unito il gruppo dirigente del Pcc nella controversia con l'Unione Sovietica (Deng Xiaoping e Chen Boda si alternano come ghost writers dei lunghi documenti di controversia ideologica con il Pcus, ivi compreso lo scritto «Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi»). Ma è nel corso degli anni Sessanta, dopo la parziale correzione dei disastri causati dal «Grande balzo in avanti», che Mao comincia a sentirsi emarginato nel gruppo dirigente.
Non si fida più dei vecchi compagni d'armi e comincia a sospettare che «personaggi tipo Krusciov» stiano prendendo il controllo del partito comunista. Quella che si configura come un lotta di successione viene gestita dal vecchio leader con sentimenti alterni di onnipotenza e fatalismo. Mao cerca a tentoni dei successori fidati, scatenando così una vera e propria guerra civile, anche se si è in precedenza assicurato il controllo di alcuni gangli vitali: l'esercito, il ferreo controllo sugli affari correnti da parte di Zhou Enlai, i servizi segreti e la politica estera. La rivoluzione culturale è dunque un'operazione collettiva lanciata e gestita da un gruppo dirigente assemblato fase per fase e che ha in Mao l'autorità indiscutibile, ma le cui colonne portanti sono, di volta in volta, la destra o la sinistra del partito, in un dosaggio più o meno accortamente fissato dal vecchio timoniere e gestito con abilità consumata da Zhou Enlai, che non si sottrae all'ultima avventura, pur cercando di limitarne i danni.
Se il partito diviene il bersaglio della critica, la fedeltà dell'esercito è indispensabile. Per questo, Mao punta al consolidamento nell'esercito popolare di liberazione della posizione di Lin Biao, «il più fedele compagno d'armi», l'iniziatore del culto della personalità attraverso la diffusione del «Libretto rosso». Gli viene data mano libera per sbarazzarsi del maggiore ostacolo alla sua leadership, il generale Luo Ruiqin, capo di stato maggiore e presidente della Commissione degli affari militari. Messo sotto pressione, Luo tenta il suicidio, ma sopravvive perdendo solo l'uso delle gambe, per poi essere più volte esposto a sedute di critica di massa trasportato su una carriola.
Una differenza evidenziata tra stalinismo e maoismo è la gestione delle epurazioni. In Unione Sovietica è il terrore poliziesco a gestirle, anche se non mancano zelanti delatori; in Cina, invece, è il terrore di massa nella forma di «campagne tematiche» che individua gli obiettivi (i dirigenti) da colpire: questo spiegherebbe il fatto che in Cina ci siano stati più suicidi e meno esecuzioni nel gruppo dirigente che non in Urss. Ma c'è da rabbrividire a leggere i commenti che vengono fatti dai massimi dirigenti dopo il fallito suicidio di Luo Ruiqin, pur sempre un veterano della «Lunga marcia». E' Liu Shaoqi, ignaro di che cosa lo attenda tra poco, a riferirne con le seguenti parole: «Se ti suicidi, almeno devi avere una certa tecnica, buttandoti di testa e non di piedi: invece è caduto di piedi e non si è fatto male alla testa». Al che Deng Xiaoping commenta: «Si è tuffato come le donne, di piedi e non di testa, come un ghiacciolo col bastoncino».
Le varie fasi del terribile decennio 1966-76 vengono ricostruite da MacFarquhar e Schoenhals, sia per quanto riguarda la discussione nel gruppo dirigente cinese che nella «guerra civile» che si scatena soprattutto nel biennio 1967-1968, con momenti in cui il paese sembra precipitare in una situazione di anarchia che si diffonde a macchia d'olio. Mao non esita a rendere protagonisti gli studenti e gli operai di una mobilitazione prolungata che ha come bersaglio l'apparato del partito-stato, particolarmente nel settore della cultura-istruzione e in quello della politica estera, mentre blocca rapidamente ogni tentativo di investire l'apparato dell'esercito e dell'economia, che resta in mano a Zhou Enlai, alle prese con l'arretramento della produzione industriale a seguito dei disordini che si concentrano prevalentemente nelle aree urbane. Meno toccate invece le campagne, dove i contadini godono quasi di un momento di respiro grazie all'indebolimento dell'apparato di controllo, salvo dover accogliere le guardie rosse spedite a rieducarsi: tra il 1967 e il 1979 sono 16 milioni e mezzo i giovani istruiti inviati in campagna, svuotando le città e disperdendo le roccaforti dei «ribelli».
Di recente, presentando il nuovo libro di Federico Rampini L'ombra di Mao (La Repubblica del 10 novembre), Adriano Sofri individua nella povertà e nel volontarismo le «ombre cinesi» che avrebbero adescato a suo tempo la sinistra occidentale e accosta, assai disinvoltamente, l'iconoclastia delle guardie rosse con la Jihad islamista, invitando i cinesi ad un esame di coscienza simile a quello compiuto dalla Germania dopo il nazismo. Avendo vissuto quella fascinazione, sottolinerei soprattutto il fascino dello spontaneismo e degli slogan lanciati dal dirigente supremo: «Bombardare il quartier generale» e «Ribellarsi è giusto» erano parole d'ordine che sembravano adeguate anche per il Sessantotto e la sua critica alla sinistra storica. Leggendo Mao's last revolution si scopre però che la frase «bombardare il quartier generale» viene pronunciata per primo da Liu Shaoqi, in visita all'Università di Pechino, in un ultimo sforzo per sfuggire al cerchio che gli si sta stringendo attorno, autocriticandosi per non avere consentito agli studenti di ribellarsi. Agli inizi aveva creduto che si applicasse lo schema dei «cento fiori»: allentare la briglia e lasciare esprimere le masse, per poi ricondurre il movimento sotto l'autorità del partito, dopo averne liquidate le ali estreme. Ma Mao, invece, decide di allentare ulteriormente le briglie al movimento, scrivendo il 5 agosto 1966 un manifesto in cui loda l'operato delle «gardie rosse». Si stabilisce un apparente cortocircuito: leader supremo-masse, con quest'ultime autorizzate a «liberare se stesse» in base alla «Decisione in 16 punti» promulgata l'8 agosto del 1966.
Come ricostruiscono bene Mac Farquhar e Schoenhals, la spontaneità delle masse è dunque assai relativa, utilizzata e tenuta sotto controllo fin dove possibile per essere ricondotta a più miti consigli con l'intervento dell'esercito o l'invio in campagna. Da non trascurare, inoltre, l'uso sistematico dell'apparato poliziesco, soprattutto nella campagna contro il misterioso «complotto controrivoluzionario del 16 maggio», scatenata nell'autunno del 1967 e diretta principalmente contro l'«ultrasinistra». Coincide con lo stop ai movimenti di massa e l'invito a formare «grandi alleanze» e a creare comitati rivoluzionari per assemblare vecchi quadri del partito, dell'esercito e rappresentanti scremati dei ribelli per epurare i vecchi funzionari dell'apparato statale. La campagna contro il fantomatico «complotto del 16 maggio» si protrarrà a lungo: Wang Li, uno dei dirigenti accusati di esserne tra gli ispiratori, calcolò nel 1983, una volta scarcerato, che ci furono almeno 3 milioni e mezzo di arresti. La contabilità delle vittime del decennio deve tener conto dei diversi fronti delle epurazioni, dirette di volta in volta contro nuovi bersagli, nonché degli scontri tra le diverse fazioni e delle repressioni armate.
La memoria impossibile
Il Nobel per la letteratura Gao Xingjian ha scritto: «Ognuno è stato vittima della grande catastrofe nota come Rivoluzione culturale e ha dimenticato che prima di essere colpito personalmente dal disastro anche lui è stato in una certa misura tra gli assalitori. La storia della Rivoluzione culturale viene perciò continuamente revisionata. E' meglio non cercare di scrivere una storia ma limitarsi semplicemente a ricordare le proprie esperienze». Il coinvolgimento attivo di milioni di persone, alternativamente vittime e persecutori, rende difficile un bilancio oggettivo ed è un'operazione imparagonabile ad altre operazioni di memoria storica. Mac Farquhar e Schoenhals hanno tentato comunque di scrivere la storia di quel decennio, scorgendovi la premessa della riforma intrapresa dopo la morte di Mao da Deng Xiaoping, la carta di riserva che Mao si era sempre tenuto in caso di defaillance di Zhou Enlai. Paradossalmente, secondo gli autori, Deng, che realizza il peggior incubo di Mao, la modernizzazione capitalistica, ha trovato la strada spianata dalla disastrosa pratica utopica messa in atto con la rivoluzione culturale.
il manifesto 30.11.06
Processi / Un mostro lombrosiano nell'Italia di fine Ottocento
Fra il 1873 e il 1875 nel borgo di Incisa Val d'Arno, vicino Firenze, quattro bambini scomparvero senza lasciar traccia. Un quinto, Amerigo, venne ritrovato sul punto di essere ucciso da Callisto Grandi, detto Carlino, carraio ventiquattrenne responsabile anche della morte dei quattro fanciulli spariti i cui resti giacevano nella sua bottega, sepolti sotto un palmo di terra. Seguì una rapida istruttoria, poi la confessione, le perizie mediche e il dibattimento processuale che condusse a una condanna finale di «vent'anni e più di casa di forza». Il caso, fra i primi a essere accompagnato dalla grande curiosità di un'opinione pubblica avida di particolari, è al centro di L'ammazzabambini. Legge e scienza in un processo di fine Ottocento (pp. 256, euro 15) di Patrizia Guarnieri, una ricostruzione rigorosa e coinvolgente, con un ricco apparato di fonti, che approfondisce il dibattito fra scienziati della mente e giuristi mantenendo un occhio attento alle reazioni del pubblico e in particolare dei lettori di quotidiani e giornali popolari. Il libro, uscito nell'88 per Einaudi poi tradotto nel 1992 da Polity Press, viene ora meritoriamente riedito da Laterza (pp. 256, euro 15) per l'inequivocabile attualità del tema.
Carlino Grandi aveva ammesso: «tutti i ragazzi mi canzonavano, mi prendevano burla, mi dileggiavano, mi dicevano pelato, ventundito, perché in un piede ho sei diti, mi dicevano guercio e nano e quando venivano in bottega mi facevano sempre qualche birichinata e ora che ne avevo ammazzati quattro stavo meglio, e mi lasciavano in pace». La sua colpevolezza, dunque, fu da subito indiscutibile. Tuttavia questo processo rappresentò un banco di prova per le teorie del positivismo, della psichiatria e della nascente antropologia criminale, l'occasione per un confronto fra la prassi giurisprudenziale, la scienza e il senso comune ma anche fra le diverse definizioni di follia. Tanto che, a visitare il detenuto in cella, «accorsero quasi tutti i medici più sapienti di Firenze e non loro soltanto».
Ma gli insulti dei bambini di Incisa ritornavano come una nenia martellante nelle parole di giornalisti, medici psichiatri, giudici e impedivano di dimenticare le difformità fisiche dell'assassino che, perennemente sullo sfondo, rappresentavano la base ideale per gli studi sui tratti somatici della malattia mentale e della predisposizione al crimine secondo le teorie divulgate in quegli anni da Lombroso. I giornali invocavano il parere degli scienziati: che misurassero il cranio, che esaminassero il corpo del colpevole dimostrando, così, come il sapere scientifico potesse e dovesse rivelare una verità sconosciuta persino al soggetto stesso. Sullo sfondo di un'Italia da poco unita e ancora impegnata nel porre le basi del suo ordinamento giuridico, la scienza e la legge giocarono, nel processo a Carlino, la loro partita. In particolare era evidente il desiderio di affermare lo status della psichiatria come disciplina e di confermare la prerogativa degli alienisti, rispetto ai semplici medici e ai magistrati, di giudicare la reale responsabilità dei comportamenti criminali. Una microstoria, dunque, capace di rimandare, in un gioco di scala, peculiarità e contraddizioni di un'epoca storica e suggerire più di un elemento destinato a durare nel discorso pubblico e in quello scientifico. Alla fine, scontata la pena, il problema di cosa fare di Grandi si ripresentò. A decidere, in base alla strampalata diagnosi di «megalomania paranoica, anestesia morale, ipocrisia, alopecia congenita», il 5 novembre 1895 fu il tribunale di Firenze che ne decretò il ricovero definitivo nel manicomio di San Salvi appena inaugurato. Eppure Carlino, pur mantenendo fino alla sua morte un comportamento quieto, questa storia «per cui lo prendevano, lo sbattevano nelle prigioni, poi lo mandavano fuori e lo chiudevano in manicomio» non riusciva proprio a spiegarsela. «Se era pazzo non dovevano metterlo in galera né tenercelo tanto; e se non lo era, come avevano detto i giudici al processo, allora dovevano lasciarlo in libertà appena espiata la pena. Non era forse logico?». Alessandra Gissi
il Quotidiano 30.11.06
Anoressia maschile in aumento
I pazienti anoressici uomini rappresentano il 4,1% della popolazione, t ra i sintomi manifestati, depressione (35,6%), attacchi di panico (9,5%), alcolismo (3,4%) o nessun sintomo (35%)
Roma, 28 novembre 2006 - L'anoressia è malattia che riguarda esclusivamente le donne? Ci si ammala per indossare la famigerata taglia 38 delle modelle? Oggi si scopre che non è così: risale infatti al 1689 il primo caso di anoressia maschile: un ragazzo di 16 anni, figlio di un pastore protestante inglese, era affetto da anoressia nervosa dovuta ad una progressiva mancanza di appetito causata da «studio eccessivo» e «dalle sofferenze della mente», e non rispondeva alle cure tradizionali.
Il dottore inglese Richard Morton formulò un'ipotesi sensazionale per l'epoca: il problema non era di natura organica, ma nervosa. Consigliò al giovane di abbandonare gli studi e trasferirsi in campagna per distrarsi: la strategia funzionò. Quindi il «paziente zero» del più drammatico e pericoloso dei disturbi alimentari era un maschio. Ci sono voluti due secoli prima che altri scienziati prendessero in considerazione l'anoressia negli uomini. Del problema parla il settimanale Grazia, in edicola domani.
Ancora oggi rinunciare ad alimentarsi fino alle estreme conseguenze è visto come un problema esclusivamente femminile. Invece è sbagliato: le statistiche descrivono il fenomeno dell'anoressia maschile in aumento, nonostante il rapporto sia ancora tutto sbilanciato in favore delle donne (10 a 1). Le stime variano secondo le fonti, ma gli esperti concordano nel collocare intorno alle 14-15 mila unità i casi di anoressici nel nostro Paese. Ed è possibile che siano valutazioni sottostimate.
Da un'indagine del Centro Ricerche Aba, Associazione bulimia anoressia - Anna Maria Speranza dell'Università La Sapienza di Roma, risalente al periodo 1997-2001, i pazienti anoressici uomini rappresentano il 4,1% della popolazione e hanno i primi sintomi in media a 17 anni. Il 48,7% di loro è uno studente, mentre il 26,3% è rappresentato da impiegati; il 13% sono, invece, disoccupati o lavoratori saltuari.
Tra i sintomi manifestati, depressione (35,6%), attacchi di panico (9,5%), alcolismo (3,4%) o nessun sintomo (35%).
La diagnosi di anoressia nervosa nei maschi non è affatto semplice: «I medici, spesso, non si aspettano di trovarsi di fronte un uomo anoressico e associano i sintomi del paziente ad altre patologie», spiega, sul settimanale Grazia, la psicologa Maria Concetta Cirrincione, consulente del sito psiconline.it. «I criteri diagnostici dell'anoressia sono stati finora incentrati sulla donna. Uno dei più importanti sintomi della malattia è considerata l'alterazione del ciclo mestruale. Molti casi di anoressia maschile, quindi, non sono riconosciuti come tali».
Di anoressia maschile si parla poco e malvolentieri, quasi fosse un tabù: difficile far accettare a un uomo l'idea di essere colpito da una malattia «da donne». Rispetto alle donne i maschi tendono a negare il problema e, anche se ne prendono coscienza, non ne parlano apertamente. Come si spiegano allora i casi in aumento di cui parlano le statistiche? Su questo aspetto gli specialisti sono divisi. Alcuni parlano di un incremento reale, dettato soprattutto dall'influenza dei media e dai cambiamenti dei modelli culturali. «L'immagine mediatica del maschio ideale non è incentrata sulla magrezza, come per le donne», dice ancora la dottoressa Cirrincione, «ma sulla forma fisica. Non deve sorprendere, quindi, che la principale causa di perdita di peso nei maschi anoressici sia l'eccesso di esercizio fisico».
Altri hanno una teoria diversa: il dottor Fabio Galimberti dell'Associazione bulimia anoressia (Aba) non crede in un aumento numerico, come spiega su Grazia, ma piuttosto in una crescita di «uomini che cercano una cura, perchè ormai si parla sempre di più dei disturbi maschili del comportamento alimentare ed è dunque diventato socialmente più lecito per un maschio chiedere aiuto».
E mentre nelle donne il momento in cui si manifesta per la prima volta la malattia coincide con lo sviluppo sessuale, negli uomini avviene più tardi. Proprio la sessualità è un elemento fondamentale per indagare sulle differenze tra anoressia maschile e femminile: «I maschi usano l'anoressia come uno strumento per arrivare più disinibititi al primo incontro con l'altro sesso», dice Galimberti. « Dimagrendo e raggiungendo il proprio ideale estetico hanno la conferma del proprio valore».
Tutto il contrario delle donne, «che usano l'anoressia per mettere alla prova l'altro (»amami a prescindere dal mio corpo, desiderami come persona«) o per tenerlo a distanza attraverso la negazione della sessualità». Uno studio dei medici tedeschi Manfred Fichter e C. Daser ha dimostrato che l'80% dei maschi anoressici del campione era cresciuto «in famiglie che consideravano il sesso come un tabù» e, aggiunge la dottoressa Cirrincione, «quasi il 50% dei soggetti anoressici dichiara di essere incerto sulla propria identità sessuale». Ma non è tutto. L'anoressico - tipo è un «soggetto depresso, ipersensibile, con forti sensi di colpa e scarsa autostima», prosegue la psicologa, «l'ambiente familiare in cui cresce ha un ruolo centrale nello sviluppo della malattia. Un padre poco presente e una madre dominante e iperprotettiva sono quasi una costante nella vita degli anoressici».
liberta.it 30.11.06
Bellocchio, pronta la scuola di regia
Prende corpo il sogno di Marco Bellocchio di proporre a Piacenza una scuola di regia cinematografica sull'onda dei seminari estivi che da diversi anni il cineasta piacentino tiene a Bobbio sotto l'etichetta di Farecinema.
Sono aperte infatti le iscrizioni, che si chiuderanno sabato 18 novembre, al corso di regia, che verrà realizzato proprio a Bobbio, con la direzione dello stesso Bellocchio.
Il corso ha l'obiettivo di mettere in grado gli allievi di concepire ed analizzare una sceneggiatura e progettarne la realizzazione, programmare e dirigere la realizzazione della rappresentazione e delle riprese, progettare e collaborare alla realizzazione del montaggio delle scene girate.
Il progetto, che ha una durata globale di 500 ore è suddiviso in quattro fasi: "Dal soggetto alla rappresentazione", "La rappresentazione e le riprese", "Il montaggio" e "Edizione, distribuzione e promozione dei prodotti cinematografici e teatrali".
Il corso rientra in un progetto finanziato dalla Regione Emilia-Romagna tra quelli riguardanti figure di alta professionalità nell'ambito artistico e sarà realizzato dal Centro Itard in collaborazione con il Comune di Bobbio e l'adesione della Provincia di Piacenza.
L'attività didattica prevede momenti d'aula che saranno condotti da esponenti di spicco della cinematografia italiana, nella scia di quanto già sperimentato nei laboratori estivi che hanno visto la collaborazione di sceneggiatori come Stefano Rulli, Domenico Starnone, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia, Vincenzo Cerami, registi emergenti e affermati come Fulvio Ottaviano, i Manetti Brothers, Piergiorgio Gay, Edoardo Winspeare, Francesco Maselli, Francesca Comencini, Mimmo Calopresti, Emanuele Crialese, Franco Battiato.
Sono previsti anche momenti di esercitazione dove gli allievi sperimenteranno la propria creatività, producendo praticamente ciò che viene concepito in aula e verificandolo poi con i docenti: una vera e propria "scuola", come la intendevano i grandi artisti del Rinascimento, dove il fare esperienza è al centro della crescita professionale e l'insegnamento è legato alla condivisione di esperienze con maestri che hanno realizzato opere importanti.
Il progetto è finanziato dalla Regione tramite il meccanismo dei voucher. Il costo per partecipante è di 8.000 euro. Chi sarà selezionato, tra quelli che avranno chiesto di partecipare, riceverà un finanziamento dalla Regione che coprirà 5.600 euro. Il resto dovrà essere versato dal partecipante come quota di iscrizione.
Il corso è riservato a 15 allievi che saranno selezionati, tra chi avrà richiesto di partecipare, da una commissione formata dagli organizzatori e da esperti.
Per chi voglia intraprendere questa difficile professione è un'occasione unica per sviluppare le competenze necessarie nel rapporto con maestri del cinema.
Il corso inizierà mercoledì 13 dicembre e fino a domenica 17 avrà luogo il primo stage con la presenza di Bellocchio e di uno sceneggiatore che spiegheranno il meccanismo del corso ai partecipanti.
Sostanzialmente si tratta di 7 stage di 5 giorni l'uno, da tenersi a Bobbio, che comprendono lezioni delle varie materie e verifiche del lavoro fatto. Queste lezioni, cui prendono parte i docenti che saranno scelti nei prossimi giorni, sono intervallate dal project work, un ciclo di 6 stage da dicembre a maggio in cui i partecipanti lavorano in gruppi e autonomamente ai loro progetti.