martedì 28 novembre 2006

Liberazione 26.11.06
Indulto, bene culturale.
E l’amnistia è il suo completamento
di Cosimo Rossi


Finalmente un’antimafia d’indirizzo sociale (prima e più che giudiziario). Finalmente una commissione che si propone di lottare contro il fenomeno della mafia nell’integrità della sua dimensione, che è disastrosamente sociale non meno - e sicuramente prima - che algidamente giudiziaria.

Non se ne avrà a male Francesco Forgione, neopresidente, ma il significato del proposito da lui stesso espresso all’atto del suo insediamento travalica anche il legittimo compiacimento per il fatto che un esponente di Rifondazione comunista sia stato eletto alla guida della commissione. Appunto perché la dimensione sociale che si propone di imprimere all’impegno dell’antimafia, l’assunzione del profilo interno del fenomeno e la conseguente molteplicità di azioni e di strumenti di contrasto, qualifica la nuova presidenza; nel senso dell’efficacia, oltre che culturale.

E’ comunque da scontare che vi siano legittime riserve. Perché non si deve negare che lo sprezzo della legalità si sia manifestato negli ultimi due decenni al di là di ogni pudore; assumendo tratti di arroganza autoritaria e intimidatoria - oltre che criminale - dentro e rispetto ai più disparati aspetti della vita civile, sociale, economica e politica del paese. Gli abusi dei poteri sia illegali che anche legali, hanno generato una condizione di insicurezza generalizzata della società e anche una sua percezione talora esasperata. Lo scollamento sociale è attraversato e aggravato da fenomeni violenti; e la paura ingenera istanze repressive, extra democratiche, anti comunitarie. Ma proprio a partire da questo è particolarmente significativo il profilo completo che Forgione a delineato per l’antimafia. E proprio per questo il primo, principale detrattore della nuova antimafia è un pericoloso giustizialismo inquisitorio; tanto lontano anche dai principi costituzionali quanto è esacerbato e distorto a un’idea della giustizia e delle legalità come giustizialismo e legalitarismo, quanto è supino alla soluzione giudiziaria di tutte le contraddizioni e i conflitti sociali nonché politici.

In questi giorni contro Forgione si sono levati tetri indici inquisitori: contro Forgione e contro l’antimafia come la intende e la presiede. Ma anche contro un’idea della giustizia che non è giustizialismo bensì uguaglianza, e contro un’idea della legalità che non è legalitarismo bensì differenza, riconoscimento poliformità sociale e anche culturale. Marco Travaglio, tra gli altri, è stato sicuramente solerte in requisitorie. Ma sicuramente ha incontrato anche consensi, purtroppo anche a sinistra.

La repressione, il giustizialismo finiscono per spuntarla su tutto. Eccola qua la peggior cultura di destra. Finisce che ce la troviamo appiccicata addosso senza neanche accorgercene, annidiata come una tarma tra le altre cavità che produce la destrutturazione sociale, nutrita dalla paura e cucinata da chi ci specula sopra profitti di vendetta (sociale, civile o politica che sia).

E’ stato questo il motivo per cui il centrosinistra si è trovato alla sbarra, intimidito e sulla difensiva, per un provvedimento sacrosanto com’è stato l’indulto, del quale invece andava rivendicata l’ispirazione di profonda giustizia civile e sociale (oltre che di clemenza, come chiesto da Giovanni Paolo II, la cui autorità affissa sulle specchiere di tutto lo stivale quantomeno non sarebbe da santificare a intermittenza). Perché, certo, girano le palle all’idea che ci sia chi se ne approfitta, tanto più se è potente. Senonché la maggioranza delle persone che sono uscite dal carcere attraverso l’indulto non solo non ci sono rientrate ma erano dentro per reati legati alla marginalità e al disagio sociale, erano sfigati che non avevano mai avuto l’onore delle cronache come i giornalisti e gli imputati di grido, né mai lo avranno. Del resto, è per questo che la magistratura, a cominciare dalla sua componente etichettata dalla destra come di sinistra, chiede che adesso il parlamento faccia il passo conseguente all’indulto procedendo con l’amnistia. Perché il problema dell’inflazione carceraria tamponato con l’indulto non si riproponga immediatamente a causa dell’ingorgo dei tribunali, il cui sovraccarico di procedimenti sarebbe invece deflazionato dall’amnistia. Che anche in questo caso non agirebbe sulla grande criminalità bensì prevalentemente sulla marginalità e il disagio sociale. Se per una volta la gran parte della magistratura conviene con la gran parte del parlamento, uno straccio di fiducia si potrebbe darla. L’indulto è stato un bene culturale, oltre che sociale. E l’amnistia è il suo completamento.

Certo, forse la maggioranza dei cittadini non la pensa così. E questo spaventa da morire la classe politica, la sua ossessione per i sondaggi. Ma c’è davvero chi pensa che il carcere sia la soluzione? Che la galera sia il giusto per tre spinelli o una manifestazione non autorizzata, per due scippi o due autoradio rubate, oppure per una pianta d’erba in terrazza o un vilipendio al tricolore? E allora è evidente che si tratta di una questione culturale; e di una cultura che serpeggia minacciosa anche nella sinistra. Sono davvero problemi che il carcere risolve oppure che nasconde? E per giunta dentro un profilo autoritario e inquisitorio della società? Ed è davvero da preferire un’antimafia con la pistola fumante a una prodiga di analisi e intervento sociale in favore del mezzogiorno e contro la finanziarizzazione dell’economia che si gemella con quella della criminalità?

Fondare un’agire politico sulla democrazia e la partecipazione significa sapersi misurare anche con questo: misurarsi come classe dirigente con la capacità di proporre soluzioni e praticarle attraverso l’azione politica e parlamentare, sempre sottoposte alla verifica del suffragio. Cercando di produrre un’alternativa concreta, di ristrutturare una convivenza sociale. Magari fondata sulla democrazia e sul diritto, anziché sul delitto e sulla pena.

Liberazione 26.11.06
Uccide il figlio e tenta il suicidio: i perché di una tragedia

Gravidanza e disperazione
se non ti danno una via di uscita
di Lidia Menapace


Una donna, madre di un piccolo di 9 mesi e incinta di 6 mesi, ha - a quanto sembra - soffocato il suo bambino e tentato il suicidio.
Su questa tragedia naturalmente abbiamo letto sui giornali e ascoltato dai telegiornali le solite esecrazioni. Questa volta qualcuno ha anche cercato di capire il comportamento della donna attribuendolo alla famigerata “depressione post partum”, mentre altri, gli “esperti”, dicono che no, è passato troppo tempo dalla nascita del primo figlio perché la poveretta soffrisse di tale specifica forma depressiva.
Che si sia trattato invece di “depressione pre-parto” da parte di una donna disperata all’idea di ritrovarsi, dopo tre mesi, con un bambino di un anno e uno di un giorno?
Come si fa a non disperarsi di fronte a una simile eventualità se non si dispone di una solidissima struttura di appoggio, dei soldi per mantenere i figli e di quelli necessari a non soccombere nel gravosissimo compito di allevarli? E come si fa a non chiedersi perché la donna non usasse sistemi contraccettivi? O perché non avesse pensato di abortire?
Nella specie umana il controllo delle nascite è antichissimo. In parte “naturale”, in parte cercato. Naturale, benché non sicura, è la momentanea sterilità durante l’allattamento: una volta le donne allattavano anche troppo a lungo per avere cibo gratuito e adatto ai neonati ma anche per non rimanere incinte subito. Il coito interrotto, benché insicuro e sgradevole è di antichissima pratica.
Nella specie umana le femmine non hanno più l’estro da millenni e quindi i rapporti sessuali non soggiacciono solo all’istinto della riproduzione, che nel maschio si ecciterebbe appunto in corrispondenza dell’estro femminile: questo significa che nella specie umana sessualità e riproduzione sono distinte e governabili. La sessualità negli umani è dunque da antichissimo tempo un volontario rapporto profondamente conoscitivo e piacevole.
Il piacere sessuale in qualsiasi forma è uno dei più straordinari passi evolutivi della specie: ne derivano anche l’arte, la gastronomia e tutte le attività estetiche. Tra i mezzi “naturali” di controllo delle nascite ci sono anche epidemie, carestie, terremoti e disastri di ogni genere. E forse anche le guerre, che però non sono metodi naturali bensì storici. Nei periodi in cui non si conoscevano altri metodi e anche dopo, o quando quelli noti non funzionano, anche l’aborto e l’infanticidio erano metodi di controllo delle nascite. Fino a poche generazioni fa, non si indagava affatto sui bambini trovati soffocati per un rigurgito di latte o schiacciati nel lettone dei genitori e non veniva espresso neanche troppo biasimo: erano tutti “incidenti”.
Ma se le pratiche citate possono essere definite residuali, oggi tutto ciò è intollerabile: da quando la medicina sottrae i prematuri alla morte precoce e la produzione di beni a poco prezzo dalla fame (in Occidente, beninteso), chi impedisce l’informazione contraccettiva e le pratiche di controllo delle nascite o l’aborto auto determinato e la ricerca sulla riproduzione deve sentirsi responsabile quando una madre incinta uccide il proprio figlio e tenta il suicidio.
La giovane donna disperata che non conosceva metodi efficaci di controllo delle nascite, non sapeva di poter ricorrere all’aborto o ne era stata dissuasa e non conosceva neanche l’opzione di poter dare il nascituro in adozione, che dunque aveva, oggi, cognizioni ambientali e culturali peggiori di quelle della sua bisnonna, è vittima di una cultura antistorica e oscurantista, che vuole controllare la ricerca e il libero accesso ad essa e al suo uso.
I movimenti antistorici che anche oggi mettono freni alla libertà di conoscere e di decidere sono appunto antistorici e non possono passare, ma non per questo sono meno pericolosi. Ad esempio, un pontificato come quello di papa Benedetto XVI, così duro verso la scienza, la ricerca, tutto divieti e ostacoli per paura della secolarizzazione, titolare di un progetto neotemporalista, è antistorico, ma non per questo è meno pericoloso: arretriamo comunque se forze potenti ci spingono culturalmente indietro. Per questo di fronte alla giovane madre disperata pensiamo subito alla depressione post partum invece che alla disperazione da ignoranza e abbandono.