Ma la sinistra della Quercia non ci sta: è una condanna a morte, anche se differita
Salvi: è la conferma che questo sarà l’ultimo congresso Ds. Bandoli e Spini: sparisce un partito della sinistra europea. Caldarola: i nodi sono laicità e economia
di Vladimiro Frulletti
IL NUOVO Partito Democratico disegnato ieri dal segretario dei Ds Piero Fassino su l’Unità incassa il no delle opposizioni interne,
ma il pieno sostegno di Massimo D'Alema. Il vicepremier e ministro degli esteri (in un'intervista a Repubblica) non solo riconosce che Fassino «ha fatto un grande lavoro che ha dato grandi risultati» come dimostra sia il nuovo statuto del Pse che cambierà al prossimo congresso di Oporto aprendo i confini del socialismo anche ai partiti «democratici e progressisti», ma ribadisce anche che ormai il processo verso la costruzione del partito democratico «non si può più fermare», che certo occorre ridargli «fascino» e che quindi la federazione fra Ds e Dl «non basta». Che è poi l'invito fatto a suo tempo anche dal sindaco di Roma Walter Veltroni e che Fassino ieri ha messo nero su bianco nelle colonne de l'Unità parlando di «partito nuovo» e fissando anche i tempi del futuro parto: europee 2009. Progetto che alle opposizioni interne ai Ds non piace affatto.
«La nostra posizione non cambia - commenta Giuseppe Caldarola, esponente della cosidetta terza mozione "socialdemocratica" insieme a Gavino Angius - in discussione non è la durata del percorso, ma l'approdo. L'Italia non ha bisogno di un Partito democratico, ma di un partito socialista e democratico». «Fassino - fa notare Cesare Salvi che con Mussi, Bandoli e Spini sta preparando una mozione di sinistra e socialista - non è per nulla persuasivo perché il problema non è quando devono finire i Ds e cominciare il Pd, ma se questo deve accadere. Fassino su l'Unità conferma che il prossimo congresso, se vince la sua posizione e noi speriamo di no, sarà l'ultimo congresso dei Ds . Questo andrebbe detto chiaramente agli iscritti. Perché in ballo non c'è una questione di orgoglio di partito, ma la scomparsa di una forza di sinistra e socialista». «Mi pare che ci siano almeno 10 visioni del Pd - spiega Fulvia Bandoli - ognuno ha la sua, C'è quella di Fassino, quella di Rutelli, quella di Parisi e così via. Aumenta la confusione, e resta la mia contrarietà». E Caldarola fa esplicito riferimento alle parole di Rutelli sul Corriere della Sera di ieri dove, a proposito delle alleanze internazionali del Pd, spiega che dovrà avere relazioni «amichevoli» sia col Pd Usa, che con il Partito del Congresso indiano, che col Pse. Un'equivicinanza che per le opposizioni Ds la dice tutta sulle reali intenzioni della Margherita. «Per noi sarebbe un passo indietro - fa notare Caldarola - visto che nel Pse ci siamo già e dovremmo uscirne». «In questo modo - aggiunge Salvi - conta poco che poi il Pse cambi il suo statuto se poi "quelli" non ci stanno. Da qui si comprende come la proposta di Fassino sia una proposta sbagliata».
«Non dico che la strada del Pd sia moderata o sia una svendita della sinistra - commenta Bandoli - ma certo è sbagliata perché alla fine fa sparire un grande partito della sinistra legato al socialismo europeo». Insomma il nodo alla fine rimane sempre quello del rapporto del futuro Pd con il socialismo. «Chiedo a Fassino - dice il laburista Valdo Spini che è stato uno dei soci fondatori dei Ds e che ha fatti introdurre nel simbolo della Quercia proprio il nome per esteso del Pse - cosa vuol dire concretamente avere un "rapporto forte e organico" con le famiglia del socialismo europeo se poi la Margherita ha detto e continua a dire di no al Pse. Per questo penso che non ci siano proprio le condizioni per avviare al prossimo congresso lo scioglimento dei Ds». E il timore espresso da Salvi e Spini è lo stesso di Caldarola. «L'ho già detto e lo ripeto: è una condanna a morte con esecuzione differita. La federazione per noi è il compromesso massimo, anche perché così si avrebbe davvero il tempo di far maturare un processo unitario sui contenuti». Contenuti che oggi sono molto distanti. E Caldarola non cita solo il tema della laicità della politica («le posizione dei teodem sono più arretrate rispetto a quelle della vecchia Dc» dice), ma anche quelle economici e invita a mettere a confronto le parole di Rutelli sulle liberalizzazioni con quelle di D'Alema che «critica l'esaltazione del mercato e rilancia il tema di un'azione pubblica in economia». Differenze non di poco conto.
l'Unità 27.11.06
Sciostakovic, quelle note contro Stalin
di Adriano Guerra
MUSICA. Stasera a Roma torna la «Settima» del grande compositore russo, l’opera che fu il simbolo della lotta contro l’invasione nazista. Ma in quella partitura si cela qualcosa di più profondo: la resistenza contro il despota georgiano
Stasera lunedì 27 novembre all’Auditorium di Roma Valerij Gergiev dirigerà ancora una volta la Settima di Sciostakovic. Chi scrive non è un musicologo ma solo una vittima della Settima, di ciò che rende terribile, e ambigua e tuttavia irresistibilmente fascinosa, questa sinfonia.
La Settima ha all’inizio, come si sa, il cosiddetto tema dell’invasione. Improvvisamente, dopo un allegro assai robusto, ecco che a poco a poco nasce una melodia di forse venti note, che si ripetono sempre più incalzanti: una specie di bolero che coinvolge alla fine l’intera orchestra.
Invasione - si dice - coi nazisti che si avvicinano a Leningrado sino a cingerla d’assedio. Ma è proprio così? I primi dubbi sono nati subito. Anche perché quelle venti note, prima di diventare bolero, sono le stesse che annunciano l’entrata in scena del principe Danilo nella Vedova allegra. Quanto di più lontano vi può essere cioè da una vicenda di guerra e di sangue.
Ma a spingere milioni di persone in tutto il mondo a scorgere in quelle note che incalzano, i nazisti che avanzano verso Leningrado è stato con precise parole la sera della prima, il 5 marzo 1942, lo stesso Sciostakovic. E con lui registi che si chiamavano Stalin e Roosevelt, che avevano bisogno di strumenti per cementare l’unità antifascista. E poi Sir Henry Joseph Wood e Arturo Toscanini, chiamati a dirigere la sinfonia a Londra e a New York.
La Settima, con l’immagine di Sciostakovic che nella città in fiamme scrive intrepido nota su nota la sua sinfonia, è così diventata certamente uno dei più potenti manifesti antifascisti di quegli anni. Ad assicurare il successo dell’operazione sono state senza dubbio anche quelle venti note. Che hanno avuto però letture diverse. Non poteva quel motivo rappresentare la città sotto assedio che si difendeva, se non addirittura il ritorno alla vita della stessa? Alberto Arbasino, che della Settima conosce oltre alle vecchie interpretazioni di Mravinskij e di Bernstein anche quella di Georgiev della Filarmonica di Rotterdam, si è chiesto ad esempio se la marzialità delle marcette che si susseguono spigliate e scorrevoli (in anni per noi molto sinistri) si addica a una Wehrmacht che avanza motorizzata o agli assediati che muoiono di fame e freddo a centinaia di migliaia. Dubbio vero ma messo ai margini dalla sconcertante lettura che a poco a poco è diventata prevalente. Quelle note, ci è stato prima sussurrato e poi detto a piena voce da amici e parenti vicini a Sciostakovic, non erano nate nella città sotto assedio ma prima ancora che incominciasse il conflitto. Ed esse non si riferivano a Hitler e ai nazisti ma a Stalin e alle repressioni di Stalin. Sciostatakovic insomma, avrebbe, anzi ha, dedicato alla sua città in fiamme le note in precedenza destinate a denunciare il despota di casa e a ricordarne le vittime.
La musica come crittografia, dunque con due diversi livelli di lettura. E solo gli amici più stretti avrebbero potuto sapere la verità anche se il significato doloroso di requiem di quelle note avrebbe raggiunto l’animo più profondo del popolo russo.
Io non sono, dicevo, un musicologo. E rinvio a quel che su Sciostakovic ha scritto su queste pagine, anche recentemente, Rubens Tedeschi. Sono convinto però che quello musicale, più di tutti gli altri linguaggi, si muova in un’area aperta all’ambiguità. (Quanto c’è di «napoleonico» e di «antinapoleonico» nell’Eroica di Beethoveen?). Già si è visto del resto quanto cammino, da Lehar a Sciostakovic abbiano compiuto quelle venti note. Sino al punto che, come ci hanno fatto sapere i figli del compositore nella loro premessa all’ultimo libro di Salomon Volkov, - c’è stato chi ha visto in esse addirittura la mano del diavolo. L’episodio dell’invasione avrebbe - è stato calcolato - una durata di 666.666 secondi, e 666.666 è esattamente il numero della Bestia dell’Apocalisse (Sciostakovic dunque come il protagonista del Doctor Faustus?). Non credendo io all’esistenza del suo dirimpettaio, non credo all’esistenza del diavolo, per cui non mi dilungherò a discutere la stravagante ipotesi. Vorrei soltanto contribuire a togliere a Sciostakovic la sua immagine, la sua memoria - da questa sorta di groviglio davvero infernale - fatto di viltà, coraggio, paura, nel quale viene troppo facilmente racchiuso. Non perché nella vita del compositore manchino gli elementi prima elencati. Ma perché essi sono ingiustamente collocati sotto il segno unificante della menzogna sistematica. Sciostakovic - questo è il punto che vorrei mettere in chiaro - è stato un grande, forse un grandissimo, musicista che ha avuto in sorte di vivere nell’Unione sovietica negli anni di Stalin. Come altri intellettuali russi, da Majakovskij a Mejercholíd, da Blok a Malevic, Ejzenstein e Alítman, egli ha salutato con gioia, la rivoluzione che si affacciava. La Prima sinfonia, la Seconda (dedicata all’anniversario dell’Ottobre) e la Terza, dedicata al Primo Maggio) sono il risultato oltreché della dura lotta per la vita quotidiana («non abbiamo neanche un soldo- ha scritto ad un amico - «... Bisogna ben mangiare, no? La carta da musica ci vuole, no?») di una straordinaria fusione di possibilità che apparivano aperte, e che vennero colte, e di speranze. Poi sono venute le critiche e le condanne alla Lady Macbeth del «Distretto di Mcenskî». È venuto lo stalinismo. Le repressioni degli anni 30 hanno raggiunto pressoché tutte le case. Anche quella di Scistakovic. E per continuare a vivere e a produrre bisognava tener conto che la censura non leggeva soltanto le lettere che con mille precauzioni - scriveva agli amici (si veda il libro curato da Elisabeth Wilson) ma anche le note musicali.
La censura non poteva però impedire di pensare e di lottare contro di essa, anche aggirandola, (Quinta sinfonia) o di allineare nel capo, ad esempio, le note del Requiem per un’opera da buttar giù successivamente da dedicare alle vittime del Gulag.
Il tema dell’invasione è nato così, alla fine degli anni 30, sotto il segno del lutto. Le testimonianze raccolte su questo punto da Volkov non consentono dubbi. Ma ecco che a sconvolgere tutto giunge improvvisa la guerra. Il problema che sta di fronte a Sciostakovic è quello stesso che devono affrontare milioni di uomini in tutto il mondo. Che fare per fermare e battere Hitler le cui truppe dopo aver conquistato l’Europa in poche settimane hanno raggiunto la periferia di Mosca e stretto d’assedio Leningrado? Churchill per primo non ha dubbi: occorre dar vita ad un’alleanza che unisca le democrazie occidentali e l’Unione sovietica. E Sciostakovic a Leningrado sceglie le note nate per combattere Stalin per farne uno straordinario strumento di mobilitazione antifascista a livello mondiale.
Perché dovremmo mettere in dubbio la verità di Sciostakovic nella sua doppia lotta contro Stalin e contro Hitler? Di Sciostakovic che si schierò contro gli invasori con la speranza che il patto fra Stalin e la Russia potesse cancellare del tutto le tragedie del 1937-39? E che nel 1956, convinto che lo stalinismo fosse stato debellato, e che dunque ad un artista sarebbero state risparmiate gli interventi censori e le umilianti autocritiche, si spinse sino a chiedere la tessera del partito comunista? (Ma sarà poi proprio con Chruscev, che farà bocciare la Sinfonia dedicata a Baby Yar, che riprenderanno gli anni difficili).
Quel che bisogna vedere nell’opera di Sciostakovic, al di là delle paure, delle omertà, delle ambiguità, delle furberie, delle pagine regalate alla propaganda per avere in cambio un po’ di pace, è la prova di quanto sia stata dura la condizione nella quale si sono trovati a vivere molti intellettuali nel secolo del totalitarismo.(Si pensi anche a Silone, Vittorini, Bontempelli, Ungaretti, Habermas, Grass). E di quanta sapienza e intelligenza abbia dato prova Sciostakovic nell’utilizzare per le sue battaglie le armi che aveva tra le mani. Anche quelle fornitegli dalla Vedova allegra.
l'Unità 27.11.06
Noi esseri umani, così uguali e così diversi
di Pietro Greco
LA VARIABILITÀ del genoma umano tra individuo e individuo è molto alta, più di quanto si prevedesse. Può infatti interessare il 12% del Dna, secondo un nuovo studio pubblicato da «Nature»
La diversità è il primo motore dell’evoluzione biologica. In ogni specie vivente non esiste un singolo individuo esattamente simile a un altro. Ciò vale anche per l’uomo. Ciascuno di noi è diverso da ogni altro. Persino due gemelli omozigoti non sono del tutto identici tra loro. La diversità tra gli individui dipende dalla storia, unica e irripetibile, che ciascuno di noi vive. Ma è anche strutturale, dipende cioè dal nostro codice genetico. Non c’è infatti un solo filamento di Dna umano uguale a un altro.
Ma quante sono le differenze genetiche tra noi? Non possono essere molte, si pensava. D’altra parte anche gli studi più recenti ci dicono che tra gli uomini le differenze nel Dna riguardano non più di 10 milioni di basi. Tutti, ormai, sappiamo che il nostro Dna è composta da una sequenza di 3 miliardi di quattro diverse unità che i biochimici chiamano basi nucleotidiche. Una differenza di 10 milioni su una sequenza di 3 miliardi di basi significa che la diversità genetica tra gli uomini non supera lo 0,3% del Dna.
In realtà, la fonte genetica della variabilità umana è molto più articolata. E le differenze, anche a livello strutturale, possono essere molto maggiori. Ce ne hanno dato una plastica dimostrazione Richard Redon, del Wellcome Trust Sanger Institute di Cambridge, Gran Bretagna, e un gruppo di suoi collaboratori sparsi per il mondo, quando giovedì scorso sulla rivista Nature hanno pubblicato un articolo sulla «variazione globale del numero di copie del genoma umano» dove è possibile constatare che le parti variabili possono interessare anche il 12% del genoma umano. Nello stesso giorno è stato pubblicato online da Nature Genetics un articolo sullo stesso argomento.
La notizia ha catturato l’attenzione sia dei media che degli specialisti: nessuno si attendeva che la fonte genetica della diversità umana fosse così estesa. Ciò non significa, tuttavia, che il mio genoma differisce per il 12% da quello del lettore di questo articolo. Il genoma di un uomo e il genoma di uno scimpanzé differiscono per meno dell’1%: e ciò è sufficiente a determinare differenze insormontabili tra gli individui dell’una e dell’altra specie.
E, allora, cosa significano queste percentuali? Beh, per rispondere dobbiamo ricordare che esistono vari livelli ove si esplica la diversità genetica o, se volete, il polimorfismo tra gli individui di una specie. C’è il livello dei cromosomi, ovvero del modo in cui il Dna si organizza in una cellula. A livello di cromosomi, per esempio, le differenze tra uomo e scimpanzé sono superiori al 4%: noi infatti abbiamo 23 coppie di cromosomi, lo scimpanzé 24.
C’è poi il polimorfismo a livello di geni. Noi abbiamo oltre 22.000 geni che svolgono attività funzionali diverse. Sappiamo che ci sono geni responsabili della formazione del cervello, collocati nel Dna in un luogo diverso dal gene responsabile del colore degli occhi. Ma sappiamo anche che ci sono geni diversi responsabili del colore degli occhi situati nel medesimo locus. Questi geni diversi che esplicano una medesima funzione sono detti alleli. Gli alleli costituiscono una grande fonte di diversità tra gli individui.
C’è infine il polimorfismo a livello del singolo nucleotide, ovvero della singola base di Dna. A causa di mutazioni, le singole unità nel Dna di individui diversi possono variare. La gran parte di queste mutazioni non producono effetti. Altre singole mutazioni possono avere effetti rovinosi e provocare gravi malattie. È nel polimorfismo del singolo nucleotide che il Dna di due membri della specie umana non differisce per più dello 0,3%.
Tuttavia è possibile individuare nel Dna anche lunghe sequenze, composta da decine o centinaia di migliaia di unità nucleotidiche, che possono o meno includere dei geni. È di queste sequenze, chiamate varianti nel numero di copie (CNV) che si sono interessati i ricercatori, studiando il Dna di 270 persone europee, asiatiche e africane nell’ambito dell’International HapMap Project. I CNV possono presentarsi in maniera diversa nel Dna di individui diversi. Talvolta le copie di CNV sono ridondanti, qualche altra mancano del tutto. Qualche volta queste differenze non provocano effetti sull’organismo, talaltra generano malattie. Il gruppo ha verificato che su circa 26.000 CNV diversi, le variazioni sono state 1.447. Ciò significa che i luoghi potenziali in cui si può manifestare diversità a livello di CNV è pari al 12% del Dna. Naturalmente, le differenze in CNV tra due specifici individui sono inferiori al 12%. La percentuale è solo un indicatore dei siti di potenziale diversità. Ed è una percentuale alta. A riprova che la diversità individuale è un bene accuratamente tutelato nel mondo biologico e nella specie umana in particolare.
l'Unità 27.11.06
Quando la mente si mette a digiuno
di Luigi Cancrini
Leggere delle modelle che muoiono di anoressia fa davvero paura. Sono belle, sicure di sé, forti, almeno in apparenza. Quali contraddizioni si portano dentro? Quanto rischiano le nostre figlie e i nostri figli? Stiamo facendo davvero tutto ciò che è possibile per aiutarle?
Una madre angosciata
In un libro di alcuni anni fa, di Vandereycken e Van Deth, Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche, sono stati proposti i risultati di uno studio condotto in tema di anoressia e di santità. La vita di una serie di sante anoressiche è stata ricostruita sulla base di documenti dell’epoca utilizzando, in particolare, i verbali dei processi istituiti per la santificazione. Basati sulle testimonianze delle persone che le avevano conosciute, questi processi sono estremamente ricchi di particolari sui comportamenti e sulle abitudini dei candidati (in quel caso, delle candidate) all’onore degli altari e permettono una ricostruzione diagnostica sufficientemente accurata del loro problema o disturbo. Proponendo una consonanza estremamente interessante con la situazione di oggi.
Una pratica assai comune fra le sante di allora era quella del digiuno. Un digiuno presentato e vissuto come un sacrificio fatto a Dio e o a Gesù, lo sposo mistico di tutte le suore del mondo. Un digiuno praticato con misura e capacità di controllo dalla gran parte di loro. Ma anche un digiuno praticato in modo drammatico e fuori controllo da parte di quelle, fra loro, che ne facevano una ragione di vita, abbandonandosi lentamente, all’interno di una virtuosa competizione con le altre, a una sfida orgogliosa contro i limiti del proprio corpo. Morendo letteralmente di fame come Santa Caterina da Siena a Roma semplicemente perché i vizi (l’orgoglio smisurato dell’aspirante santo) quando diventano “moda” hanno la capacità straordinaria di trasformarsi in virtù. Come bene indicato, dall’alto del suo cinismo aristocratico, dal Don Giovanni di Moliére.
L’aspirazione nobile (santa) del sacrificio è stata sostituita oggi da una aspirazione più prosaica (realistica) e meno santa a raggiungere un ideale irrealizzabile (delirante) di bellezza? Io credo proprio di sì. L’idea che più sei magra, sottile, eterea, inconsistente, più sei bella si è aperta uno spazio importante nell’immaginario collettivo delle adolescenti di oggi. Praticare la dieta è, come allora, un sacrificio di cui le mode che cambiano hanno cambiato solo il destinatario. Non più Gesù, lo sposo mistico che ha avuto la capacità e la forza di soffrire e di morire per noi sulla terra ma il successo della velina e l’ascesa al cielo della notorietà: dove i Vip hanno sostituito i santi e dove si arriva, vincendo alla grande, come non tutti riescono a fare, la sfida che in tante fanno con la loro dieta. O, più modestamente e più malinconicamente, per quelle che questa ascesa non hanno la possibilità o l’occasione di farla, la famiglia che non ti capisce, che non accoglie e non approva il tuo tentativo di essere comunque bella, di avvicinarti a quello che comunque è l’ideale di bellezza in cui sei cresciuto e in cui credi.
Sono sempre così estreme le situazioni? Soffrire di anoressia vuol dire essere condannato a morte? Assolutamente no. Tutto il contrario, quello che dobbiamo dire con grande chiarezza è che le situazioni estreme sono rare. Il problema serio, è quello legato al fatto per cui tutte le donne (e i pochi uomini) che presentano una anoressia o un disturbo significativo del comportamento alimentare hanno livelli di sofferenza alti e sono causa involontaria di sofferenze spesso gravi in coloro che, volendo loro bene, stanno a loro intorno. Scivolando, nelle situazioni estreme, per ragioni diverse, fino al compiersi del dramma sacrificale. Ma proponendo in ogni caso un problema serio di interventi terapeutici che debbono strutturarsi intorno al vissuto della persona e alla rete complessa dei rapporti che la persona intrattiene oltre che sulle conseguenze pratiche, corporee, del rifiuto di alimentarsi. Come ci ha insegnato quarant’anni fa, per prima, Mara Selvini Palazzoli. Come in pochi, ancora oggi, dimostrano di sapere davvero.
Abbiamo fatto abbastanza, stiamo facendo abbastanza? Probabilmente no. Da almeno due punti di vista.
Prima di tutto quello della possibilità e della capacità di dare risposte all’altezza del problema. Troppo ignorata è la necessità di insegnare la complessità dei problemi personali e interpersonali con cui bisognerebbe sapersi confrontare ai medici di famiglia e ai pediatri di base che vengono consultati per questo motivo e troppi sono, ancora oggi, gli psichiatri che affrontano tutta questa complessità armati solo del loro povero riduzionismo biologico. Troppi dipartimenti di salute mentale non sono in grado ancora oggi di offrire il sostegno psicoterapeutico che sarebbe necessario alla persona anoressica e alla sua famiglia. Qualcosa di buono potrebbe accadere da questo punto di vista se il Parlamento porterà a termine il percorso della legge sull’accesso alla psicoterapia incardinato oggi presso la Commissione Affari Sociali della Camera ma molto impegno e molto tempo saranno necessari ancora perché si arrivi davvero ad una situazione in cui chi ha bisogno di curarsi possa davvero essere curato.
Sul piano culturale, in secondo luogo, quello di cui c’è un bisogno sempre più urgente è una campagna di informazione seria. Bisogna parlare con le famiglie e bisogna parlare a scuola delle diete in sé e delle implicazioni psicologiche che esse assumono quando vengono utilizzate all’interno di uno scontro con un famigliare importante o poste al servizio di una fantasia, più o meno delirante, sul corpo che si desidererebbe avere. Del come ci si dovrebbe alimentare, voglio dire, e della necessità di riflettere seriamente sul problema del modo in cui ci si nutre oggi perché paradossalmente quelle che stanno crescendo insieme, da noi come altrove, sono le anoressie e le obesità, gli eccessi dietetici e gli errori di nutrizione. Proponendo l’idea di un rapporto con il cibo che è sempre più problematico e carico di valenze affettive. Ma proponendo, soprattutto, la necessità di un discorso educativo capace di adattarsi ai problemi seri dell’oggi, alle manifestazioni più comuni del disagio e del disorientamento dei preadolescenti e degli adolescenti. Quelli di cui facciamo tanta fatica a decifrare ed a intercettare gli umori e le passioni, le difficoltà e le attese. Quelli che miglioreranno o peggioreranno un mondo che è il nostro a seconda del modo in cui sapremo aiutarli ad incontrare positivamente la vita che si apre davanti a loro: splendida e/o paurosa insieme in tutta la sua irresistibile complessità.
Corriere della Sera 27.11.06
Il premio Nobel, 97 anni: la conoscenza è per definizione un bene, ma gli scienziati non detengono il monopolio della saggezza
Rita Levi Montalcini: «Agnostica, difendo la vita e i principi morali»
di Barbara Palombelli
L'educazione laica avuta dai genitori e la religione della scienza
Ha 97 anni e si definisce come un'agnostica credente. Il suo dio è la scienza, i suoi comandamenti sono i principi morali che l'hanno guidata nel lungo percorso esistenziale. Gira il mondo, partecipa a congressi e convegni, è precisa e attenta nel suo impegno di senatrice a vita, si è battuta per conquistare finanziamenti agli istituti di ricerca, sta per mandare in libreria ancora un testo. E' una donna sempre molto elegante, in ordine, con i gioielli giusti sui meravigliosi abiti di Capucci che aderiscono al suo corpo magro e agile. «Nella prima infanzia, l'educazione assolutamente laica, impartita dai miei genitori a me e ai miei fratelli è stata motivo di imbarazzo, quando dovevamo confrontarci con coetanei e amici che facevano sfoggio della loro religione e chiedevano conto della nostra. Ripensandoci oggi, quel tipo di educazione ha avuto e ha tuttora il grande merito di rendere gli individui responsabili dei propri comportamenti in forza di principi etici e non allo scopo di ottenere un compenso o sfuggire ad una punizione in una ipotetica vita ultraterrena. Personalmente, pur dichiarandomi laica o meglio agnostica e libera pensatrice, mi ritengo tuttavia profondamente "credente", se per religione si intende credere nel bene e nel comportamento etico: non perseguendo questi principi, la vita non merita di essere vissuta». Rita Levi Montalcini ha appena consegnato all'editore Baldini Castoldi Dalai il suo ultimo saggio, «Tempo di revisione», scritto con Giuseppina Tripodi. Dal testo estrae una citazione di Albert Einstein e la usa come integrazione alla sua definizione di «fede». «Il fattore più importante dell'esistenza umana, diceva Einstein, è la creazione di un fine. E' necessario un grande sforzo interiore, da parte delle comunità di persone libere, per liberarsi dell'eredità di istinti antisociali e distruttivi. L'uso delle capacità intellettuali, basate su principi morali, dà contenuto e significato alla vita».
Lei ha vissuto il dramma dell'Olocausto e della persecuzione nazista. Come ricorda quel periodo?
«I giovani di oggi ignorano quasi completamente quanto è capitato, o non credono che l'Olocausto sia veramente accaduto. A me sembra che ricordare le tragedie che sono avvenute più di mezzo secolo fa sia assolutamente necessario, utile, ai fini di evitare per quanto possibile il ripetersi di simili catastrofi. Ricordare è importante, perché non passi nell'oblio la tragedia che ha distrutto decine di milioni di uomini. Difficile entrare nella testa dei pazzi che dirigevano, e anche di un popolo così ossequiente: non c'è dubbio che i tedeschi, ma in parte anche gli italiani, erano favorevoli ai dittatori. Il ruolo carismatico che hanno giocato Hitler in Germania, Mussolini in Italia, Mao in Oriente, Stalin in Russia, dimostra come l'uomo sia recettivo facilmente a tutti i messaggi che arrivano sia oralmente che per via visiva. Bisogna a tutti i costi cercare di rendere l'uomo libero dall'ossessiva ossequiosità agli individui con un forte carisma e privi di morale, come quelli che hanno diretto le tragedie della metà del secolo scorso».
Lei ha vinto un premio Nobel studiando la vita, analizzando e spiegando i meccanismi magici e perfetti della biologia. Che idea si è fatta della creazione?
«La conoscenza è per definizione un bene — forse il bene primario dell'uomo — perché senza di essa non possono esistere le altre libertà fondamentali alle quali ci si appella di continuo. Gli scienziati non detengono il monopolio della saggezza. La soluzione dei problemi che affliggono l'intero genere umano, fino a porne in pericolo la sopravvivenza, spetta in pari misura a filosofi, uomini di religione, educatori e appartenenti ad altre discipline. La recente rinascita del movimento creazionista, basata sulla concezione del "disegno intelligente", nega la validità delle selezione darwiniana. Una negazione, questa, derivante dall'ignoranza delle rigorose prove dei nuovi apporti della genetica. Le ipotesi espresse da esperti genetisti trovano consenso nei risultati delle ricerche eseguite con le tecnologie avanzate oggi a disposizione dell'uomo. Il programma genetico nell'uomo non gode di un potere assoluto, ma è soggetto a modifiche di natura epigenetica».
Mi sembra che il suo mondo — per fortuna — non risenta delle turbolenze politiche internazionali. La scienza vive al di fuori delle barriere e può giocare un ruolo importante per una riconciliazione fra le diverse identità.
«Oltre agli immensi contributi che la scienza e la tecnologia possono oggi apportare, per una migliore condizione di vita in tutte le regioni a vantaggio dei suoi abitanti, deve essere preso in considerazione quello che di gran lunga è il più importante: la promozione di un'amicizia basata su scambi di conoscenze e contatti reciproci. Soltanto così si può pervenire al superamento di differenze derivate da ostilità e intolleranze etniche. La scienza permette un linguaggio senza ambiguità e comprensibile nelle nazioni più diverse».
Esiste una zona grigia fra la vita e la morte, la scienza la sta allungando. Cosa pensa dell'eutanasia, che in Italia è ancora un reato punito con molti anni di carcere?
«Nessuno ha il diritto di sopprimere la vita, l'eutanasia potrebbe essere concessa, sempre e soltanto nella fase terminale di malattie che provocano gravi sofferenze, in seguito a processi degenerativi o neoplastici senza speranza di guarigione. Sono favorevole all'eutanasia soltanto per la propria persona attraverso un testamento "biologico" stilato, a norma di legge, in pieno possesso delle proprie facoltà mentali, nel quale si dichiari che qualora non si fosse più in grado di possedere le facoltà di intendere e di volere, una commissione di medici esperti può porre fine alle gravi sofferenze o ad una vita priva di capacità cognitive».
La scienza è il contrario della superstizione. Eppure, nel terzo millennio c'è chi crede ancora ai guaritori, alla lettura delle carte...
«Ritengo che questa credulità sia insita nella natura umana — almeno in un certo numero di individui — e non sia del tutto sradicabile. E' sufficiente vedere il favore che ancora oggi godono pratiche mistiche di natura medievale quali la magia nera, per renderci conto di quanto l'uomo non sia poi così diverso dai suoi antenati che vivevano in tempi preistorici e ritenevano che fenomeni naturali quali il fulmine, l'arcobaleno e altri effetti della stessa natura potessero significare il furore o i consenso di esseri soprannaturali identificati in divinità benigne o maligne».