L'intervista/ Il ministro del Prc attacca Ds e Margherita: il loro liberismo temperato ha già fallito "Montezemolo ha un disegno punta a un'altra maggioranza"
Ferrero: sulla previdenza non c'è nessuna urgenza
di Umberto Rosso
Ma quali massimalisti. Rifiuto questa etichetta, non vogliamo la luna Il fatto è che alzando l´età pensionabile si ottiene solo un aumento dei giovani disoccupati
la pancia vuota Confindustria protesta ma ha la pancia piena Noi sabato scendiamo in piazza con chi ce l´ha vuota: la nostra gente è ancora sconfitta
ROMA - Rifondazione di lotta e di governo, ministro Ferrero?
«Direi proprio di sì. Rifondazione è un partito che lavora a costruire canali di comunicazione fra i problemi sociali e la politica, e quindi il governo. I centristi lavorano invece solo a cancellare la linea di confine fra centrodestra e centrosinistra».
Di quali centristi parla?
«La Confindustria persegue questo disegno, Luca di Montezemolo l´ha dichiarato in modo esplicito. Sul versante politico, Casini si muove in quella direzione».
E nel centrosinistra, teme qualche talpa centrista?
«Per adesso l´Unione va avanti in modo assolutamente netto. Persegue la realizzazione del programma. Prodi, nella riunione di Villa Pamphili, su quel punto è stato chiaro, con un discorso di grandissima responsabilità».
Rifondazione non voterà nulla fuori dal programma?
«Il programma è la bussola. Su alcuni punti è dettagliata, su altri è di indirizzo. Nel primo caso, basta seguirli. Nel secondo, dobbiamo orientarci secondo le linee indicate».
Per quel che manca?
«Serve una discussione nuova».
Come per le pensioni?
«Nel programma si parla, e tanto, di pensioni. Si dice che va abolito lo scalone, che vanno aumentate le pensioni minime, i contributi per i precari. Quel che non è previsto? Noi poniamo due paletti. No ad un´operazione sulle pensioni solo per fare cassa, e no all´innalzamento generalizzato dell´età».
I massimalisti del Prc che bloccano le riforme appoggiate da Rutelli e Fassino...
«Rifiuto l´etichetta di massimalista. Non vogliamo mica la luna, siamo gradualisti. Restiamo sulle pensioni. Dov´è l´urgenza? I conti dell´Inps vanno bene, non siamo alla bancarotta, la casa non brucia. Ma poi: che cosa ottiene il paese, con la gente al lavoro per qualche anno in più? Una cosa sola: far crescere il numero dei giovani disoccupati, mentre le aziende chiedono proprio nuove leve».
E´ la sfida della modernità, dalle liberalizzazioni alla flessibilità nel pubblico impiego, lanciata da Ds e Margherita.
«In molte di queste ricette siamo alla riproposizione di un liberalismo temperato che ha fallito ovunque, regalando il governo alle destre. La strada, detto in una battuta, è invece quella di una via alta allo sviluppo. Su tre pilastri. Qualificazione dell´apparato produttivo. Lavoro non precario. Taglio degli sprechi, cominciando dalla sanità privata».
Ministro, in tanti scendono in piazza contro la Finanziaria.
«Premetto: io, e mi sono beccato molte battute ironiche, l´avrei spalmata su due anni. La manovra è pesante, al di là del previsto. Un errore. Ciò detto, c´è chi protesta con la pancia piena e che ha preso un sacco di quattrini dalla Finanziaria. Parlo della Confindustria. Lacrime di coccodrillo».
Perché la protesta allora?
«Puntano ad una maggioranza diversa. Ma anche a beccare altri soldi, e a mettere i piedi nel piatto in vista delle pensioni».
Nel centrosinistra però c´è chi presta ascolto alle loro ragioni.
«Cerco di essere neutrale, e mi affido alla risposta del ministro Padoa Schioppa alle imprese: se volete, tagliamo via insieme il Tfr e il cuneo».
Però ci sono anche le proteste di piazza a pancia vuota, i pensionati...
«Si aspettavano gli aumenti, hanno ragione».
C´è Cacciari al fianco di artigiani e autonomi...
«L´evasione fiscale nel nostro paese è targata in un modo preciso. Capisco il grido di sofferenza di qualcuno, ma per tanti altri francamente no. Bisogna andare avanti, Visco sta facendo un gran lavoro».
In piazza contro la Finanziaria va Berlusconi...
«Il disastro dei conti lo abbiamo ereditato da lui. Le sue parole d´ordine sono perciò un inganno. Che possono anche suggestionare qualcuno di quei pensionati a pancia vuota».
E infine sabato prossimo scendete in piazza pure voi di Rifondazione...
«Alle elezioni, noi abbiamo vinto. Ma la nostra gente è tuttora sconfitta nel paese. Voglio dire che ancora, allo stesso modo, come sei mesi fa, è costretta con il cappello in mano a chiedere un posto per il figlio, che magari durerà solo due mesi. Non è cambiato nulla nelle condizioni materiali. Ecco, la manifestazione contro la precarietà è sacrosanta».
Al governo ci siete voi, sembra una ammissione di impotenza.
«Alcune cose sono state fatte. Altre non ancora. Ed è bene sentire le voci e gli stimoli dei movimenti. I precari parlano con la piazza, non con gli editoriali o con gli strumenti che ha la Confindustria».
E se il corteo si trasforma nella prima manifestazione di sinistra contro il governo, di cui lei fa parte?
«Non è stata convocata con questo obiettivo, la piattaforma è chiarissima. Ci sarà poi, in piazza, chi griderà contro il governo? Sì, è prevedibile, ci sarà. Ma noi, le contraddizioni, vogliamo risolverle in avanti».
Repubblica 1.11.06
VIVERE SENZA DIO
Parla Richard Dawkins, grande biologo evoluzionista e ateo militante
di Enrico Franceschini
Il suo nuovo saggio, un attacco alle "ossessioni religiose", è in testa alle classifiche inglesi
La rivista "Prospect" lo ha indicato tra gli intellettuali più influenti del mondo
Non esitiamo a dire che un bambino è cristiano, mentre non ci sogneremmo di definirlo marxista
La visione scientifica dell'esistenza è poetica e intensa fino a risultare trascendentale
LONDRA. Insieme a Umberto Eco e a Noam Chomsky, l´anno scorso Richard Dawkins è stato indicato come uno dei tre intellettuali più influenti del mondo in un sondaggio internazionale condotto dalla rivista Prospect. Biologo evoluzionista, titolare della cattedra di comunicazione della scienza all´università di Oxford, autore di libri folgoranti come Il gene egoista e Il racconto dell´antenato (quest´ultimo appena pubblicato da Mondadori), il professor Dawkins è probabilmente anche l´ateo più militante del pianeta.
In pubblicazioni accademiche, conferenze, trasmissioni televisive, conduce da anni un´accanita battaglia contro la religione. Ora ha dedicato all´argomento un libro intero: The God delusion (L´illusione di Dio), da poco uscito in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, il cui scopo dichiarato è dimostrare "scientificamente" l´inesistenza dell´Essere Soprannaturale che tutte le religioni della terra, e in particolare le tre monoteistiche, pur chiamandolo con nomi diversi e attribuendogli differenti poteri, considerano il nostro Creatore.
Due avvenimenti lo hanno spinto ad agire. Uno è l´attacco terroristico all´America dell´11 settembre 2001, il risultato più impressionante del fanatismo religioso. I kamikaze islamici pensavano di compiere la volontà di Dio. Condannare simili zeloti è facile, osserva Dawkins, ma che rapporto hanno quei terroristi suicidi con i credenti ordinari, sensibili, pacifici?
«Il problema», si risponde da solo, «è che i credenti, diciamo così moderati, a qualunque religione appartengano, contribuiscono a costruire un´atmosfera più confortevole e sicura per gli estremisti, perché promuovono l´idea della fede come virtù assoluta e obbligano tutti a un rispetto esageratamente pio della religione». L´altro elemento che lo ha ispirato è l´ascesa al potere della "destra religiosa" negli Stati Uniti. «L´America di Bush è una teocrazia», afferma lo scienziato. «Mentre in Europa si è continuata a sviluppare una tendenza all´illuminismo e al raziocinio scientifico, in America e nel mondo islamico è in corso un´esplosione di fanatismo teocratico. In effetti, i cristiani americani da una parte e i musulmani dall´altra combattono la stessa battaglia, in cui gli europei rimangono presi nel mezzo. Bush e bin Laden sono dalla stessa parte: la parte della fede cieca e della violenza, contro la parte della ragione e della discussione».
La prima metà di The God delusion si ripropone di dimostrare che non esiste alcun Dio. L´uomo, nota il professor Dawkins, è il prodotto della lentissima evoluzione che in circa tredici miliardi di anni, attraverso la naturale selezione della specie, ha portato a ciò che siamo oggi. Armato della teoria di Darwin, l´autore comincia col contraddire i creazionisti che prendono alla lettera le sacre scritture, convinti che il mondo è stato fatto effettivamente in sette giorni (anzi sei, perché nel settimo il creatore riposò), e i più sofisticati ragionamenti del teologo Tommaso d´Aquino. Più oltre, a chi riconosce che siamo il prodotto dell´evoluzione ma sottolinea che soltanto un Essere Supremo avrebbe potuto creare un universo perfettamente calibrato per svilupparla, il biologo risponde con una domanda: «E allora chi ha creato Dio? Perché ogni Dio capace di disegnare un universo del genere deve essere una entità supremamente complessa e altamente improbabile, la cui esistenza necessita di spiegazioni ancora più grandi di quelle necessarie a spiegare la nostra esistenza».
Dawkins ammette che non si può fornire prova assoluta che Dio non esiste: «Ma possiamo valutare», osserva, «se la sua esistenza è più o meno probabile. Ci sono un´ìnfinità di cose di cui non possiamo provare in modo definitivo l´inesistenza, gli unicorni, i lupi mannari, tazzè da te che ruotano attorno a Marte. Eppure non le prendiamo sul serio, a meno che non vi sia qualche ragione concreta per credere che esistano. Perché dovremmo ragionare diversamente su Dio?».
La seconda parte del libro affronta quesiti più filosofici. Se l´uomo è il prodotto dell´evoluzione darwiniana e la maggior parte dell´umanità crede in Dio, quale pressione esercitata dalla selezione naturale ha originariamente favorito l´impulso a credere in una religione? La tesi dell´autore è che i bambini sono "programmati" in modo da avere una fiducia innata in ciò che raccontano loro gli adulti: poiché gli adulti raccontano che Dio esiste, i bambini ci credono, e questa fede viene trasmessa di generazione in generazione. «Non esitiamo a dire che un bambino è cristiano o che è musulmano, quando in realtà sono troppo piccoli per comprendere argomenti del genere», nota Dawkins. «Eppure non ci sogneremmo mai di dire che un bambino è keynesiano o marxista. Con la religione, invece, si fa un´eccezione».
Altre motivazioni citate a sostegno dell´universalità della fede in Dio: la morte dei membri del clan o della famiglia deve avere influito sullo sviluppo della religiosità nell´uomo primitivo. Odierne statistiche indicano che i credenti vivono più a lungo, hanno una salute migliore, sono mediamente più sereni dei non credenti: una prova, anche questa, che la spiritualità ha probabilmente rafforzato la specie umana nel suo cammino evolutivo. Ma riconoscere che la fede è utile alla sopravvivenza della specie non dimostra che quella specie è stata creata dal Padreterno.
Se Dio non c´è, tuttavia, perché dovremmo essere buoni? Ovvero, da dove ha preso l´uomo i valori morali che gli fanno soppesare il bene e il male, propendendo per il primo, se non glieli ha ispirati la religione? Dawkins sostiene che anche la morale è un risultato dell´evoluzione, perché consentì agli uomini di trarre beneficio dalla solidarietà e dalla cooperazione; e aggiunge che il mondo sarebbe un luogo decisamente migliore se la morale predicasse soltanto di fare del bene al prossimo, senza il contorno di "ossessioni religiose" sui peccati della carne e le tentazioni del piacere sessuale.
«Senza la religione», conclude polemicamente, «staremmo tutti meglio. Saremmo liberi di esultare per il previlegio che abbiamo di essere nati, grati di vivere una vita, questa, terrena, abbandonando il presuntuoso desiderio di averne una seconda, eterna, nell´aldilà». In tal caso, però, quale sarebbe il significato dell´esistenza, una volta eliminata l´illusione di Dio? «L´esistenza avrebbe un significato assai maggiore», ecco la sua opinione. «La visione scientifica dell´esistenza è poetica fino a risultare quasi trascendentale. Siamo incredibilmente fortunati ad avere avuto il previlegio di vivere per alcuni decenni su questa terra, prima di morire per sempre. E noi che viviamo oggi siamo ancora più fortunati, perché possiamo comprendere, apprezzare e godere l´universo come nessuna delle generazioni precedenti ha potuto fare. Abbiamo il beneficio di secoli di scoperte e progressi scientifici alle spalle. Aristotele sarebbe sbalordito da ciò che uno scolaretto qualsiasi potrebbe insegnargli oggi. Ecco cosa dà significato alla vita. E il fatto che questa vita abbia un limite, e sia l´unica vita che abbiamo, ci rende ancora più determinati ad alzarci ogni mattina e cercare di partecipare al meraviglioso ciclo della natura».
Nonostante l´ondata di fanatismo religioso che attraversa il mondo, il professor Dawkins è ottimista, non solo perché si augura scherzosamente di «convertire all´ateismo» un po´ di credenti con il suo libro. «I miei amici americani temono che il mondo stia sprofondando di nuovo verso i Secoli Bui. Ma la direzione della storia va chiaramente nel senso opposto, verso l´illuminismo, il raziocinio, la modernizzazione. Penso che l´America stia attraversando solo un temporaneo regresso. Ho buone speranze per il futuro. Queste cose passano». Intanto, The God delusion è in testa alla classifica dei best-seller nel Regno Unito ed è il titolo più venduto su Amazon. com, la maggiore libreria digitale del mondo. «Quest´anno un mucchio di gente comprerà un libro contro la religione», predice laicamente il Times di Londra, «come regalo di Natale».
Repubblica 1.11.06
La scoperta. L'elefante davanti allo specchio riconosce la sua immagine
Un esemplare supera il test: è accaduto solo a scimmie e delfini
ROMA - Gli elefanti si riconoscono allo specchio. Potrà non sembrare una notizia sensazionale eppure ha destato meraviglia nel mondo scientifico, perché riconoscere la propria immagine riflessa sta a indicare coscienza di sé, una caratteristica che si pensava appartenere solo ai grandi primati e, unica eccezione, ai delfini. La scoperta è stata realizzata da Joshua Plotnik, psicologo alla Emory University di Atlanta, studiando il comportamento di tre femmine adulte di elefanti asiatici dello zoo di New York (Usa), poste di fronte a specchi sufficientemente grandi da potersi riflettere interamente. Oltre a ripetere movimenti che dimostravano di aver capito che l' immagine riflessa non apparteneva ad altri animali, ma alla propria, uno degli elefanti, chiamato Happy, ha superato la prova inconfutabile a cui è stato sottoposto dai ricercatori. Happy ha tentato ripetutamente di toccarsi con la proboscide una X bianca disegnata da Plotnik dietro l' orecchio, che Happy poteva vedere riflessa dallo specchio, ma non direttamente su se stesso. «Il fatto che gli altri due elefanti non sono andati alla ricerca della X bianca può indicare che essi non erano interessati al segno e non che non si riconoscessero nell' immagine», spiega Plotnik. Dopo il primo "non-primate" a superare l' esame dello specchio, il delfino Tursiops Truncatus, l' elefante è riuscito là dove altri animali ritenuti intelligenti - quali gatti, cani, pappagalli - falliscono, ignorando la propria immagine oppure rivolgendosi ad essa in modo aggressivo, come se si trovassero di fronte ad un estraneo. I pappagalli cenerini (Psittacus erithacus) sono in grado di distinguere più di 50 oggetti riflessi da uno specchio, ma non si rendono conto che esso riflette la propria immagine. La capacità di riconoscersi allo specchio, secondo vari ricercatori, è segno che tali animali possiedono la capacità di avere un' empatia nei confronti dei propri simili e dunque di avere con essi rapporti sociali molto evoluti. (l. bi.)
Liberazione 2.11.06
A colloquio con il noto genetista. Dall’attualità della teoria dell’evoluzionismo di Darwin all’inquietante revival del concetto di razza, da lui contestato in una recente pubblicazione e in un romanzo
Guido Barbujani: «Le razze esistono solo nel nostro cervello»
di Luca Tancredi Barone
Anche quest’anno uno dei protagonisti principali del festival della scienza è Charles Darwin, cui sarà dedicato l’anno 2009, a 150 anni dalla pubblicazione dell’Origine delle specie, il libro che ha cambiato per sempre la biologia, e a 200 anni dalla sua nascita.
Un’idea per celebrare uno dei più grandi (e contestati) scienziati di tutti i tempi la propone il vulcanico Patrizio Roversi: il progetto Darwin, presentato in una affollatissima conferenza a Genova. Il prossimo dicembre, la nave Adriatica e i Velisti per caso ripercorreranno un tratto significativo del viaggio che Darwin compì sul brigantino Beagle nel 1831. A bordo si alterneranno equipaggi composti da docenti e studenti di sette università italiane: Bologna, Ferrara, Padova, Milano Bicocca, Roma Tor Vergata, Siena e Firenze e un gruppo del Museo Civico di Storia naturale di Milano. Le tappe saranno 12, partendo dalle celeberrime isole Galapagos, toccando Ecuador, Perù, Cile, Argentina e Brasile.
Guido Barbujani, genetista delle popolazioni a Ferrara e scrittore, fa parte del team di volenterosi scienziati.
«L’idea è stata di Patrizio - spiega Barbujani - vorremmo raccontare la scienza nei luoghi di Darwin, mettendo insieme zoologi, evoluzionisti, esperti di biologia riproduttiva, primatologi, filosofi della scienza, antropologi e genetisti come me. La sfida è quella di smentire sia i giornalisti che pensano che gli scienziati siano noiosi, sia gli scienziati che inorridiscono all’idea di dover raccontare le storie della scienza con parole diverse dalle loro».
Cosa aveva imparato Darwin dal suo viaggio durato cinque anni?
I punti centrali della sua teoria sono due. Se due specie affini vivono in zone contigue, la spiegazione più semplice, diceva, è che discendano entrambe da un antenato comune. La seconda è che è l’effetto della selezione naturale a dirigere questo cambiamento.
Lei su Darwin ha anche scritto Dilettanti, un romanzo (Sironi 2004). Cosa la affascina di questa figura di scienziato?
Spesso cito una lettera che Darwin scrisse a Leonard Jenyns, un naturalista che non credeva nell’evoluzionismo, in cui gli diceva di essere arrivato alla conclusione che specie diverse si sono evolute discendendo con modifiche da un antenato comune partendo dall’opinione opposta. «So quanto mi esporrò al biasimo per questo, ma almeno ci sono arrivato onestamente e cautamente. Non pubblicherò queste cose per molti anni». Nella apparente incongruenza, soprattutto di quest’ultima frase, vedo tutto il dramma di un uomo che si trova impreparato ad accettare la critica che sa che la società gli muoverà per la novità delle sue idee. E’ un personaggio letterario formidabile, perché è pieno di contraddizioni ed è spaventato da se stesso. Da un certo momento della sua vita iniziò addirittura a inventarsi malattie che non aveva pur di non essere esposto al conflitto, che lo atterriva. Ma non temeva il confronto scientifico, che cercava con lettere ad altri scienziati. Io non ho mai trovato altri scienziati che avessero tanta ricchezza di inventiva e tante idee per il dibattito scientifico e allo stesso tempo tanta consapevolezza dei limiti della propria conoscenza.
Darwin è ancora attuale?
Certamente, perché dopo 150 anni in cui sono state scoperte il 99% delle cose più importanti in biologia, fra cui le leggi dell’ereditarietà, il Dna e il codice genetico, non è stato necessario modificare la spina dorsale della sua teoria. Aveva ragione lui quando concludeva poeticamente l’ultimo capitolo del suo libro con «c’è della grandezza in questa idea della vita». Oggi Darwin viene attaccato solo da chi non lo conosce e non lo vuole conoscere.
A proposito di ignoranza sui temi di cui si occupa, lei ha appena pubblicato un libro: L’invenzione delle razze, edito da Bompiani, dove affronta il revival del concetto di razza.
A me piace scrivere, e stavolta volevo riprendere in un saggio che potesse essere letto in treno una nota che avevo scritto nel mio romanzo Questioni di razza. Volevo fosse come una specie di chiacchierata dopo cena, con molti aneddoti, su un tema che mi appassiona, e su cui tutti abbiamo un’opinione: la biodiversità umana.
«Tutti parenti, tutti differenti», come scrive...
Le differenze fra gli esseri umani sono evidenti: ciascuno di noi sa riconoscere un africano da un asiatico o da un sud americano. Ma tutti i tentativi di introdurre una classificazione razziale coerente, da Linneo fino a 20 anni fa sono falliti. O tutti tranne uno si sbagliano, oppure - come credo - il compito è impossibile: le caratteristiche morfologiche e quelle genetiche della popolazione umana sono distribuite in modo tale che fissate alcune caratteristiche (ad esempio il colore della pelle) non è possibile prevederne altre (ad esempio l’altezza). Ma non basta. Gli studi genetici ci dicono che la maggiore variabilità è in Africa, mentre nel resto del mondo è inferiore: si chiama “effetto fondatore”. Siamo nati lì, poi una piccola sotto-popolazione ha colonizzato gli altri continenti, portando con sé una variabilità genetica minore. Infine, a me non pare che ci sia alcun motivo sensato per risuscitare oggi le razze. A che scopo pratico?
Si può quantificare la nostra diversità?
Tanti studi diversi confermano che la percentuale globale di variabilità del nostro genoma è vicina all’85%. Ciò significa che se nel mondo rimanesse una sola popolazione umana qualsiasi, conserverebbe comunque l’85% della nostra variabilità attuale. D’altra parte, le varianti dei geni sono cosmopolite, sono cioè diffuse in tutti i continenti. Solo il 7% di tutti i geni sono specifici di un unico continente, cosa su cui si basa la nostra capacità di riconoscere la provenienza delle persone. Come si vede, è impossibile tracciare i confini di razza. Come diceva Richard Lewontin, le razze esistono, ma solo nel nostro cervello.
il Riformista 2.11.06
GALLERIE DALLA VOLPE DI MARBURGO FINO AL SECONDO MARITO, EX COMBATTENTE SPARTACHISTA
Tutti gli uomini di Hannah, “Vita activa” al femminile
di Livia Profeti
«Hannah Arendt è stata una delle donne di maggior spicco del nostro secolo. Penso di concordare con lei se parlo di “donne” e non di “pensatori” (una definizione che sta come la parte al tutto) o di “persone” (un modo per sfuggire alla caratterizzazione sessuale)». Così la ricorda l'amico Hans Jonas nel 1977, due anni dopo la sua scomparsa.
Per un insieme di fattori non facilmente definibile, è indubbiamente “da donna” che la Arendt occupa un posto alla pari in un olimpo più che riservato agli uomini. Sarà per l'importanza accordata ai rapporti interumani, che tanto difetta a molti dei suoi solipsistici colleghi. O forse per quel rifiuto dell'astrazione che si percepisce anche quando si occupa di temi impalpabili come il pensiero. O forse ancora per il posto centrale che la nascita umana occupa nella sua elaborazione teorica, a differenza di una filosofia maschile che si è sempre occupata solo di morte. Difficile dirlo.
Dichiaratamente distante dal pensiero femminista («semplicemente, io sono all'antica»), era convinta che fosse importante per una donna «mantenere le proprie qualità femminili» (Conversazione con Günther Gaus, 1964). Di lei Benno von Wiese affermò: «La cosa che si notava subito era la forza suggestiva dei suoi occhi, in essi si sprofondava letteralmente, e si doveva temere di non poter più riaffiorare alla superficie». Gli amori più importanti della sua vita sono stati quelli nei quali passione sessuale e intellettuale si sono indissolubilmente intrecciate: quello giovanile e disastroso con Heidegger e quello felice con il secondo marito Heinrich Blücher.
La Arendt conobbe Heidegger a 18 anni frequentando a Marburgo i corsi universitari di lui, trentacinquenne. Era bella, intelligente, molto corteggiata. Fu Heidegger “la volpe” - come lo avrebbe definito lei stessa dopo molti anni - ad attrarla nella sua tana. Dapprima la invitò ad un colloquio, poi le scrisse una lettera, «un misto di ossequio sottile e messa in scena di se stesso come guida spirituale» (R. Safranski in Heidegger e il suo tempo), dalla quale lei rimase «sopraffatta e confusa». «Che fosse attratta da lui non è sorprendente. Considerato l'ascendente che aveva sui suoi studenti, era quasi inevitabile. Né il suo passato - quello di una bambina sensibile rimasta senza padre - né la sua natura vulnerabile e malinconica, l'avevano preparata a resistere allo sforzo determinato di Heidegger di conquistare il suo cuore» (E. Ettinger, in Hannah Arendt e Martin Heidegger). Hannah ne divenne infatti l'amante. Dopo un anno, sull'orlo del baratro mentale descritto nel frammento autobiografico Le ombre del '25, sarà lei a cercare di allontanarsi «per proteggere se stessa», afferma ancora Safranski. Venticinque anni dopo scriverà, proprio alla moglie del suo antico amante Elfride Heidegger: «Quando lasciai Marburgo ero assolutamente decisa a non amare più un uomo; e poi mi sono sposata, giusto per sposarmi, con un uomo che non amavo [Günther Anders nel '29; ndr]. Tutto questo è cambiato quando ho conosciuto il mio attuale marito».
Siamo a Parigi, 1936: la profuga ebrea Hannah Arendt incontra l'ex combattente spartachista e poi aderente al Partito comunista Heinrich Blücher, anch'esso in fuga da Berlino, «talmente fuori legge che il suo recapito non era noto nemmeno a lui» (E. Young-Bruel in Hannah Arendt). «Attento al benessere spirituale e fisico di Hannah, per nulla spaventato di venire coinvolto in ogni aspetto della sua vita, egli se ne assunse la responsabilità senza mai essere invadente, con naturalezza», aggiunge la Ettinger. Una grande passione («così, ti ho trasformato da ragazza in donna? Che meraviglia!») che gradualmente riporta Hannah alla gioia di vivere: «Mi sembra incredibile che posso avere entrambi, il “grande amore” e un'identità integra. E solo adesso so di avere il primo perché ho anche la seconda. Finalmente, so cos'è davvero la felicità» (Within four walls, carteggio Arendt-Blücher). Se da Heidegger aveva appreso gli arnesi della filosofia, nel rapporto con il nuovo compagno impara a fonderli con quelli della teoria politica: «Grazie a mio marito ho imparato a pensare politicamente e a vedere con senso storico». Ne nacque un creativo sodalizio intellettuale durato tutta la vita, il cui primo frutto maturo fu Le Origini del totalitarismo, a lui dedicato.
Differentemente, Heidegger non accettò mai di buon grado la sua creatività, confinandola in una posizione di sottomissione anche quando i loro rapporti divennero solo intellettuali. Nel '55 “punì” la pubblicazione in Germania del suo Vita Activa con un lungo silenzio che lei commentò così a Karl Jasper: «So quanto sia insopportabile per lui che il mio nome appaia in pubblico, che io scriva libri, ecc. Per tutta la vita io l'ho praticamente imbrogliato, comportandomi sempre come se tutto questo non esistesse, e come se, per così dire, non fossi capace di contare fino a tre, tranne quando si trattava di interpretare le sue stesse cose».
Contrariamente a quanto spesso si legge, quindi, Heidegger non è stato l'«unico grande amore» della Arendt, ma certamente il più pericoloso, come lei stessa confesserà a Blucher nel '37: «Ho avuto il terrore di perdermi […] da quando ti ho incontrato, improvvisamente, io non ho più paura». La ripresa dei rapporti con il filosofo nel dopoguerra, così come l'influenza heideggeriana sulla sua opera, sono questioni troppo grandi per essere affrontate in questo contesto. Festeggiando il centenario della sua nascita è più bello ricordare il rapporto che invece non le ha impedito di diventare «una delle donne di maggior spicco del nostro secolo», aiutandola a sottrarsi a quel silente ma inesorabile comando che le ordinava di non saper «contare sino a tre». Di non aver alcun dio all'infuori di Heidegger.
Repubblica 2.11.06
Il cardinale sul tema rianimazione: tutto si cura, ma la guarigione è altro
Barragan: "L'uomo moderno ormai non accetta il dolore"
CITTÀ DEL VATICANO - «L´uomo moderno trova assurdo il dolore. Accoglie quello acuto, sintomatico come segnale che aiuta i medici alla cura. Ma il dolore cronico lo trova assolutamente inutile, è qualcosa che va eliminato. E io dico: certo che bisogna eliminarlo. Ma sorge anche una domanda: questo dolore ha un valore?».
La "sofferenza" è il pane quotidiano del cardinale Javier Lozano Barragan, ministro vaticano per la pastorale della salute. Ma il porporato è convinto che l´uomo d´oggi rimuova disperatamente il problema del dolore dal suo orizzonte. «La cultura attuale - spiega - non dà una risposta al dolore e perciò si arriva all´eutanasia o alla soppressione del feto. Per trovare una riposta bisogna andare al di là, comprendere che c´è qualcosa che trascende le apparenze».
Cardinale Barragan, lei ritiene che l´uomo moderno non accetta la realtà del limite?
«Non c´è un Homo sapiens, piuttosto un Homo pavidus. Ha paura totale della morte e cosa fa? La nasconde. Prima si moriva in famiglia, oggi in clinica. Prima c´era il cordoglio nelle case, durava due, tre giorni, anche i riti funebri si svolgevano in casa. Oggi il morto viene lasciato in camera, mentre nella stanza accanto si vede la tv. Poi c´è la messa in chiesa, si applaude la bara all´uscita e il carro funebre va da solo al cimitero».
Adriano Sofri ha scritto che oggi si cura molto e si guarisce sempre di meno.
«È un´osservazione pregnante. Oggi tutto si cura, ma la guarigione è altro. È personale, è integrale. La salute non è assenza di malattia, è tensione verso l´armonia. Dove c´è armonia, c´è guarigione. Perciò può esserci cura e non guarigione. Al contrario, una persona ammalata, può essere guarita. Sembra un paradosso, ma non lo è. Anche la morte non è la fine di tutto, ma la maturità massima».
Lei sostiene che il cristianesimo ha una parola in più su questo argomento?
«Sì, perché non gira intorno alla questione, la risolve. La risposta è in Cristo sulla croce, la sofferenza di Cristo è l´unica soluzione. Già Tertulliano diceva credo quia ineptum, credo perché è inetto. E questa inettitudine, che pare pazzia, è invece l´unica via».
Perché la sofferenza cosmica di Cristo dovrebbe alleviare il dolore di un individuo?
«Se la mia sofferenza in questo 2006, Cristo se l´è presa su di sé duemila anni fa, se io riesco a mettermi in sintonia con lui come ci si sintonizza su un apparecchio radio, se nella preghiera riesco ad offrire me stesso insieme a lui, allora arriva la guarigione. Non la cura, ma la guarigione».
Il laico Veronesi afferma che la chiave sta nella com-passione. Tra medico e paziente, tra paziente e chi gli sta intorno.
«Assolutamente sì. Com-patire con le altre persone in Cristo. Mettersi tutti insieme nella Passione di Cristo è la vera compassione».
Resta l´urgenza di una riflessione complessiva, laica, da parte di tutti. C´è un elemento da incoraggiare?
«La solidarietà. Tra il medico e il paziente, tra la famiglia e chi patisce, tra la società e il malato. Se posso dire una cosa a livello mondiale, senza entrare negli affari italiani: mai tagliare le spese della sanità».
Spesso si sentono sul dolore parole bellissime. Poi però un cittadino si chiede perché il magistero della Chiesa costringa una madre a non poter diagnosticare se l´embrione da impiantare abbia un tumore. Non può apparire sadico?
«Il magistero propone, non impone. Il magistero deve interpretare il Vangelo in una situazione concreta e formare i fedeli affinché agiscano secondo coscienza».
È un caso di coscienza anche decidere cosa fare quando un uomo, incapace di vivere normalmente, continua l´esistenza soltanto attaccato ai tubi di una macchina. Che decisione prendere?
«Distinguiamo bene. Eutanasia è l´azione diretta o indiretta che toglie la vita ad un uomo. La Chiesa dice no, perché la vita appartiene a Dio. L´accanimento terapeutico è un trattamento che prolunga l´agonia di fronte ad una prospettiva di morte reale. Il testamento biologico riguarda cosa fare in una simile situazione».
La Chiesa cosa dice?
«È giusto prevedere di non prolungare l´accanimento terapeutico e non è lecito decidere l´eutanasia».
(m. pol.)