Bertinotti: «Larghe intese? Cavallo ruffiano di Confindustria»
Rifondazione contro il tentativo di «spostare il baricentro della maggioranza»
ROMA — Il subcomandante Fausto è tornato, ha dismesso (per il tempo di un'intervista) i panni del presidente della Camera, ha indossato quelli del leader e ha ribadito quanto, da giorni, vanno gridando i vertici di Rifondazione. E cioè che dietro l'opposizione di Montezemolo alla Finanziaria ci sarebbe il tentativo di condizionare Prodi, di spingerlo al centro perché faccia la stessa politica di un governo di larghe intese. Tesi sostenuta da Franco Giordano sul Corriere e che Fausto Bertinotti rilancia dalle pagine di Left Avvenimenti in edicola oggi, scatenando le proteste dell'Ulivo e in particolare dei Ds: «Parole improvvide».
Con la lunga intervista al settimanale, concessa tre giorni fa nel suo studio della Camera ornato da splendide tele di Sironi e Mafai, il presidente lancia severi ammonimenti al leader dell'Unione. Chiede la testa del direttore del Sismi, Nicolò Pollari: «Nella condizione in cui ci troviamo, il cambio dei vertici si impone». E chiede l'attuazione dell'accordo sui Pacs, con la premessa che se Udeur e Margherita votassero no si aprirebbe un problema nell'Unione: «Il compromesso raggiunto va rispettato. Il presidente del Consiglio non può dire che non lo riguarda, visto che l'ha scritto nel suo programma».
Il tema portante del colloquio è però la «totale avversione» alla grande coalizione e il conseguente attacco agli imprenditori. «Confindustria — è il messaggio di Bertinotti a Prodi, Fassino e Rutelli — sceglie la linea di opposizione al governo per un intento strategico». Quale? «Pretendere lo spostamento del baricentro della coalizione in direzione moderata, in modo da stabilire, con questa maggioranza, una politica come quella che farebbe una grande coalizione». Scenario che a Bertinotti non pare nel novero delle cose possibili, perché darebbe luogo al taglio delle ali estreme e alla crisi delle principali forze politiche. Tutti i partiti dell'Unione dicono che se cade Prodi si va al voto, perché allora si continua a parlare di grande alleanza? «Perché è un cavallo ruffiano — conclude il presidente —. Si fa correre non perché deve arrivare al traguardo, ma per deviare la corsa».
Chissà se Piero Fassino aveva letto le anticipazioni dell'intervista quando, da Berlino, ha definito «strumentali e infondate» le accuse di un eccessivo sbilanciamento dell'Unione verso gli interessi del mondo imprenditoriale... Marina Sereni, vicecapogruppo dell'Ulivo alla Camera, le ha lette eccome, le parole di Bertinotti. «Dichiarazioni improprie e improvvide, un'offensiva che mi lascia stupita — ribalta le accuse l'esponente della segreteria Ds —. Si sospetta una offensiva di alcune forze per tagliare le ali? Noi non ne facciamo parte ed è strano che il Prc accrediti una tesi del genere. Non fanno che parlare di grande coalizione e non vorrei che siano proprio loro a reputare interessanti simili scenari... Non staranno pensando di mettere in crisi la maggioranza?». No, l'Ulivo non si muove sotto dettatura di Confindustria, respinge le insinuazioni il coordinatore della Margherita, Antonello Soro: «Più Rifondazione e Pdci gridano al lupo più mettono in fibrillazione la coalizione. La questione non è che il governo è troppo moderato, è che le riforme bisogna farle perché senza crescita non c'è equità». A spaccare l'alleanza di Prodi è anche la manifestazione dei precari domani a Roma, dove tra gli slogan e gli striscioni contro la legge 30, la Bossi-Fini e la riforma Moratti rischia di scapparcene qualcuno contro la «Finanziaria ammazzaprecari» e il ministro Damiano «amico dei padroni», come recitava l'appello dei Cobas pubblicato sul Manifesto.
Ci sarà la Cgil, ma non tutta. Ci saranno i ds, ma solo quelli di sinistra come Cesare Salvi. Ci sarà Rifondazione, ma non il ministro Paolo Ferrero. Che su Liberazione spiega: «Non partecipo per sottrarmi a polemiche e strumentalizzazioni, ma porterò in Consiglio dei ministri le istanze dei lavoratori». Il corteo dei precari, centomila i manifestanti previsti, divide e imbarazza. Il rischio fischi per gli esponenti del governo è altissimo, ma il sottosegretario all'Economia Paolo Cento ha deciso di correrlo. E così Rosa Rinaldi, sottosegretaria al Lavoro di Rifondazione, che sfilerà anche dopo l'attacco dei Cobas al «suo» ministro.
l'Unità 3.11.06
Zingari sterminati dai nazisti, una storia da film
di Gabriella Gallozzi
DOCUMENTARI I nomadi uccisi furono 500mila, forse un milione, il numero preciso non si saprà mai: lo sterminio dimenticato ora in un doppio dvd in libreria
Cinquecentomila, un milione. I numeri ufficiali, probabilmente, non si sapranno mai. Perché se la Shoah ha finalmente avuto una sua «legittimazione», l’olocausto degli zingari, no. Ed è per rompere questa cortina di silenzio che A editrice, rivista anarchica, ha dato alle stampe un prezioso cofanetto di dvd: A forza di essere vento, lo sterminio nazista degli zingari (in libreria e sul sito www.arivista.org, 30 euro), dai versi di Khorakhané, brano di André dedicato ai rom. Sono due dvd ricchi di testimonianze e musiche, insieme a quelle yiddish di Moni Ovadia, che raccontano dello sterminio di rom e sinti da parte del nazifascismo. «Porrajmos», si dice in lingua romanes la distruzione, il divoramento. Contro gli zingari, la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini si sono subito accanite. «Ladri, truffatori, pericolosi per cause genetiche», gli zingari vengono bollati come asociali da allontanare e poi da eliminare. Le prime deportazioni in Germania sono del ‘36, a Dachau, quando Himmler, capo delle Ss, diventa responsabile della «questione zingara». L’Italia fascista già nel ‘26 ordina l’espulsione di tutti gli «zingari stranieri». E poi il loro internamento nei campi di prigionia di Agnone (Molise), Tossicia (Abruzzo), Perdasdefogu (Sardegna). Ma è Auschwitz il luogo più legato al loro sterminio. Lo racconta lo storico Marcello Pezzetti, mostrando una mappa del lager polacco. Per gli zingari un’unica baracca: la Zigeunerlager, dove tra il ‘43 e il ‘44 morirono in oltre ventimila. Se lo ricorda bene Hugo Hollenreimer, sinto tedesco che ad Auschwitz è sopravvissuto persino agli esperimenti di Mengele: «Avevo 9 anni e insieme a mio fratello Mengele ci prese tra le tante cavie. Ho visto ragazzi trasformati in ragazze e viceversa, pieni di cuciture tra le gambe». Rotti dal pianto, sono i ricordi di Mirko Levak, rom italiano, pure lui internato ad Auschwitz. Dalla Croazia a Trieste le sue memorie testimoniano anche della barbarie degli ustascia, di donne incinta squartate, di sepolti vivi nelle fosse. Eppure, racconta con entusiasmo Pezzetti, il 16 maggio ‘44 alla notizia della soluzione finale l’intero Zingeunerlager si è rivoltato: «Le donne in prima fila a proteggere i bambini, gli uomini con coltellini preparati di nascosto sono riusciti a mettere in fuga gli assassini. Questa pagina di resistenza tra le più belle della storia non deve più restare sconosciuta».
l'Unità 3.11.06
Dagli studi sul materialismo di Epicuro a quelli sul calcolo differenziale applicato all’economia
Marx, la matematica della liberazione
di Pietro Greco
SCIENZA Frugando tra le carte del filosofo di Treviri salta fuori una zona poco conosciuta dei suoi interessi: i quaderni matematici. Ora vengono pubblicati e testimoniano la scientificità di un metodo e di uno stile di lavoro modernissimi
IL BOOM EDITORALE La riscoperta di un classico che pareva sepolto e oggi rilanciato dai conflitti della globalizzazione
Karl Marx? Un matematico. Autore di pregevoli saggi Sul concetto di funzione derivata e Sul differenziale e studioso di matematica pura. È una dimensione poco conosciuta al grande pubblico quella del grande pensatore tedesco che emerge dalla lettura dei Manoscritti matematici, appena usciti in edizione italiana (pp. 196, euro 25,00) per Spirali a cura di Augusto Ponzio. È inutile ricordare che il pensatore di Treviri è molto più noto come il grande economista che ha scritto Il Capitale; come il filosofo che ha fondato il «materialismo storico», come il pensatore che ha inaugurato il «socialismo scientifico» e come l’attivista politico che, insieme a Friedrich Engels, ha scritto il Manifesto del partito comunista.
Tuttavia Marx non è stato solo questo. È stato anche altro ancora. Un matematico, appunto. Capace di penetrare i fondamenti della scienza dei numeri. E critico della scienza e della filosofia naturale del suo tempo, perché convinto che senza un’analisi attenta della scienza e delle nuove conoscenze che essa produce non si può essere né buoni economisti, né buoni filosofi, né buoni politici. Tuttavia se leggiamo i suoi Manoscritti matematici ci accorgiamo che sarebbe riduttivo, come peraltro rileva Augusto Ponzio, pensare che l’interesse che mostra Marx per la «serva e padrona di tutte le scienze» sia funzionale ai suoi interessi di teorico dell’economia, di filosofo e di pensatore politico. Marx riconosce il valore culturale in sé della matematica. E la studia anche e soprattutto per questo. Con obiettivi assolutamente ambiziosi, comuni a molti tra i più grandi matematici del suo tempo. Ma, forse, è meglio andare con ordine. I «manoscritti matematici» sono un insieme di lavori sulla matematica scritti da Marx nel corso dell’intera sua vita, pubblicati per la prima volta nel 1933 in Unione Sovietica e apparsi successivamente solo per frammenti in lingua italiana. Per formazione culturale Karl Marx è molto attento alle scienze. Non si è forse laureato discutendo una tesi sulla filosofia naturale di Democrito e di Epicuro? Ma nel corso della sua vita è la matematica che lo affascina. Sia perché la conoscenza matematica è necessaria a chiunque si avvicini all’economia. Sia perché Marx si convince che nessuna scienza, neppure l’economia politica, può dirsi davvero sviluppata se non si fonda sulla matematica.
E i suoi manoscritti matematici hanno un doppio e ambiziosissimo obiettivo: fondare l’economia politica sulla matematica, ma anche fondare su solide basi la matematica stessa e, in particolare, quel nuovo modo di fare matematica che è il calcolo differenziale inventato da Isaac Newton e Gottfried Wilhelm Leibniz. Il primo obiettivo - fondare l’economia su solide basi matematiche - è degno di un economista teorico del suo calibro e comune ai grandi economisti del suo tempo, da Léon Walras a William Jevons.
Il secondo obiettivo - fondare il calcolo differenziale su solide basi concettuali - è ancora più ambizioso e comune solo ad alcuni grandi matematici del suo tempo, come Augustin Cauchy ed Eric Weierstrass. I motivi di fondo che inducono Marx a cercare una teoria profonda del calcolo differenziale risiede nelle «fondazioni mistica» che ne hanno dato Newton e Leibniz: ovvero, lo hanno introdotto ma non ben definito. Questo limite del calcolo moderno - decisivo per la matematizzazione e quindi per lo sviluppo della fisica - è stato colto e affrontato a partire dal XVIII secolo da grandi matematici, come Jean Le Rond d’Alembert e poi da Joseph Louis Lagrange, ma mai davvero risolto. L’intenzione di Marx è, dunque, proprio questa. Andare oltre d’Alembert e Lagrange e fondare su basi concettuali finalmente solide il calcolo differenziale.
Karl Marx non è un matematico di primaria grandezza. Non è aggiornato sugli ultimi sviluppi della letteratura matematica. Mentre esperisce il suo tentativo non sa che Cauchy e Weierstrass stanno risolvendo proprio i problemi che lui pone. Tuttavia i suoi tentativi, che subiscono un’accelerazione proprio negli ultimi anni di vita, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del XIX secolo, non sono affatto banali e si muovono nella medesima direzione di Cauchy e Weierstrass. In definitiva, Marx non risolve il problema. Ma ha capito qual è e quale strada occorre seguire per trovare la soluzione. Non è davvero poco.
Ma Marx ha capito qualcosa di più. Ha capito che occorre fondare su basi matematiche l’economia. Che il calcolo differenziale costituisce un elemento indispensabile di questa fondazione. E che per fondare su solide basi l’economia, occorre avere una matematica a sua volta ben fondata. Quello della doppia fondazione è stato un problema intuito solo da Marx. D’altra parte poche persone hanno una conoscenza profonda di due discipline così distanti nello spazio delle scienze.
Nelle stesse settimane in cui l’editore Spirali pubblicava i Manoscritti matematici di Marx, l’editore Meltemi pubblicava un libro, Darwin e la filosofia, in cui Patrick Tort ricostruisce il rapporto tra il pensiero del naturalista inglese e quello dell’economista tedesco. Un rapporto per certi versi mancato. Perché Marx si lascia fuorviare dall’interpretazione sociale che del darwinismo propone Herbert Spencer. E che tuttavia, al netto di questo errore (Darwin non intende nel modo più assoluto estendere al sociale l’idea di selezione naturale mediante sopravvivenza del più adatto) contiene un’intuizione profonda da parte di Marx. L’evoluzione biologica per selezione naturale costituisce il substrato di quel materialismo storico con cui egli legge la storia umana. La teoria biologica di Darwin costituisce, dunque, il fondamento naturale della sua teoria politica e sociale. Il tema fondazionale è, dunque, ricorrente in Karl Marx. E costante è l’idea che la ricerca di solide basi concettuali per ogni teoria economica, filosofica e politica possa essere fruttuosa solo se avviene facendo riferimento all’ambito, rigoroso, delle scienze naturali e della matematica. Un’idea che sarà ripresa, in termini diversi, da un altro grande tedesco, Albert Einstein, secondo cui «la scienza senza filosofia è arida, ma la filosofia senza la scienza è vuota». E che ancora oggi è più che mai attuale.
l'Unità 3.11.06
Attali e gli altri, tutti a rileggere il Barbone
Ritorno a Marx? Ben più che una bizzaria, ormai. Dopo la fortunata messe di riedizioni del Manifesto dei Comunisti nel 1998, in occasione del centocinquantesimo anniversario. Dopo che l’anno scorso il filosofo di Treviri è finito in testa ai filosofi più letti nel mondo, in una lista della Bbc on line, staccando Hume, Russell, Platone e Aristotele. Dopo gli allori conquistati da Impero di Negri e Hardt. Ma soprattutto dopo che i fasti della globalizzazione sono stati sottoposti a critica da gente come Stieglitz, Nobel per l’economia e già vicepresidente della Banca Mondiale. Per non dire degli accenti marxiani in tal senso presenti in Soros, e persino in un «neocon» come Luttwak (il «turbocapitalismo»).
Insomma, è tutto un rifiorire di marxismo, rivisitato criticamente. Ma anche recuperato in alcune istanze vitali: finanza globale ed economia-mondo. Al centro la prima delle critiche «lavoristiche» alla neoborghesia finanziaria di studiosi come Luciano Gallino. E la seconda dell’approccio globalistico di storici marxisti come Immanuel Wallerstein. Che riabilita temi leniniani come lo sviluppo ineguale e lo sfruttamento delle aree regionali subalterne, sorretti da categorie marxiste. Non c’è che l’imbarazzo della scelta quanto a bibliografia e spunti, per riprendere un filo che sembrava spezzato e che invece si rivela indispensabile per ricucire la trama del terzo millennio.
Intanto, a differenza degli anni 60 non è un ritorno a Marx ripulito dalle scorie per ritrovarne la «purezza originaria» scientifica. Benchè come dimostra l’interesse matematico di cui ci parla Pietro Greco, Marx stesso si muovesse proprio da scienziato, teso a fabbricarsi gli strumenti rigorosi a contatto con un oggetto inafferrabile: economia e relazioni di potere. Piani complementari e rischiarabili a vicenda, con differenti linguaggi, ma sempre speculari e traducibili (calcolo differenziale/tendenziale delle quantità di lavoro e smascheramento del rapporto di lavoro). No, oggi la rivisitazione è da un lato generale: il debito della modernità anche tarda verso Marx. Dall’altra investe il laboratorio e i problemi insoluti di Marx, incluse le aporie che hanno consentito il «traviamento» del marxismo a beneficio delle sue applicazioni dispotiche. Ci prova adesso Jacques Attali, economista di formazione e già consigliere di Mitterand, a rilanciare le azioni di Marx in una prospettiva comparata col presente e senza sconti di sorta, nel suo Karl Marx, ovvero lo spirito del mondo, in questi giorni tradotto per Fazi (pp. 418, Euro 22), non a caso in cima alle classifiche francesi.
Primo merito di Marx per Attali: la conquista teorica della forma egemone del moderno. Cioè la messa a fuoco del modo di produzione capitalistico. Due: l’integrazione prospettica in quel modo diffusivo, di tecnica, comunicazioni e scienza. Tre: il carattere non naturale di quel modo di produzione, e però termine inarrivato del progresso e dello sviluppo delle forze produttive. Quattro: l’intuizione modernissima della forza smaterializzante e anarchica della finanza. Che realizza su un piano più alto la smaterializzazione del lavoro del processo lavorativo capitalistico. Talché il «valore» di merci, beni e servizi diviene stregamento spettrale (per dirla con Derrida) dell’astratto valore monetario. Il cui incremento detta la divisione del lavoro, gli impeghi e ciò che è socialmente necessario. Incluse compatibilità di bilancio e parametri macroeconomici.
Altro merito di Marx per Attali: l’aver teorizzato per primo la radicalità di una democrazia sovranitaria. Svincolata dalle mistiche burocratiche, eticistiche e censitarie. Infine: la prognosi tendenziale di crisi capitalistiche ricorrenti, che solo nei punti alti di sviluppo potevano trovare soluzioni socialistiche.
E qui incominciano i problemi. Intanto non è vero che Marx non ipotizzasse anche la possibilità di una transizione in Russia. Scriveva nel 1882 a Vera Zasulic: non sono così schematico da pensare a un percorso obbligato dentro il Capitale sviluppato. E infatti immaginò comuni industrializzate in Russia. Inoltre, e ciò non sfugge ad Attali, la democrazia di Marx si ferma agli anni giovanili. Per divenire via via dittatura democratica (del proletariato): dittatura assembleare di mandato revocabile, senza «garanzie borghesi» e di tipo russoiano (la Comune di Parigi). Infine c’è il problema della «legge del valore/lavoro». Conti che non tornano: tra valori e prezzi. Infatti nel valore delle merci entrano lavori non operai esclusi dal calcolo marxiano: inventiva, organizzazione, qualità e uso delle macchine, intuizioni manageriali, marketing, servizi. Resta l’asservimento al profitto e lo stregamento del lavoro nascosto dalla merce e dal denaro. Gran merito averlo svelato! E resta il legame inverso tra profitti e salari, ribadito da Sraffa. Ma occorre riaggiornare il catalogo del lavoro e dei lavori produttivi. Proprio per rilanciarne la liberazione.
Corriere della Sera 3.11.06
UNGHERIA '56 Raccolte in un volume le corrispondenze per il «Corriere della Sera»
Elogio della pazzia, la Budapest di Montanelli
Così raccontò la resistenza degli insorti agli invasori sovietici
di Piero Ostellino
Nel 1956 — l'anno della denuncia dei crimini di Stalin da parte di Kruscev, della crisi di Suez, della rivolta e della repressione sovietica in Ungheria — Indro Montanelli aveva 47 anni ed era l'inviato di punta del Corriere della Sera. Ma gli articoli di fondo, di riflessione sulla situazione internazionale, li faceva Augusto Guerriero, uno che bazzicava sulla stampa specialistica mondiale (nei suoi articoli si sentiva spesso l'eco delle analisi di The World Today, un mensile inglese di altissima qualità); quelli di politica interna li faceva Panfilo Gentile, un liberale che aveva frequentato i classici del pensiero da Aristotele ad Adam Smith a Marx. Solo col passare degli anni e la maturità professionale, Montanelli, smessi i panni dell'inviato speciale, sarebbe diventato un abituale estensore di articoli di fondo.
Il mestiere dell'inviato speciale è, innanzitutto, frutto di una curiosità quasi maniacale; poi, di una inclinazione all'osservazione non comune anche per i particolari apparentemente più insignificanti; e, ancora, di una capacità di descrizione quasi fotografica che, nelle circostanze difficili e pericolose di una guerra o di una sommossa, richiede anche una buona dose di coraggio.
Tutte qualità, queste, che, infine, si concretano e si esprimono in una scrittura essenziale, diretta, emozionante, che sconfina — se sorretta dal talento — nella letteratura. Questo è stato l'inviato speciale Indro Montanelli nelle sue corrispondenze sulle giornate della rivolta ungherese e della dura repressione sovietica, raccolte ora nell'agile libretto La sublime pazzia della rivolta (Rizzoli).
Arrivando a Budapest, egli vede una cosa «che non avrei mai creduto di poter vedere: i carri armati sovietici che abbandonavano la città... Se i carri avessero un capo, quelli russi lo avrebbero mostrato chino; se avessero una coda, quelli russi l'avrebbero tenuta fra le gambe. Invece avevano un cannone... Ma lo avevano coperto con un tappo». Si trattava della messinscena con la quale Mosca avrebbe ingannato, illuso e tradito non solo le aspettative del popolo per una maggiore libertà, ma la parola data agli stessi capi comunisti magiari con i quali aveva trattato quello che avrebbe dovuto essere un passaggio di consegne fra la vecchia dirigenza stalinista e la nuova. La messinscena che era servita a preparare la durissima repressione di qualche giorno dopo. Meglio, l'analista politico non avrebbe potuto spiegare. «Ora, dieci divisioni corazzate precipitavano sulla capitale. I carri armati vi entrarono alle sei e un quarto e fu una terrificante colata di acciaio. Venivano da tutte le direzioni, sempre accompagnati da quel cupo rombo di artiglieria, e dilagarono sui grandi viali che menano al centro, affiancati a tre per tre... Ed ecco, d'improvviso, verso le dieci e mezzo, giungere l'eco lontana d'una mitraglietta leggera, subito coperta da quella delle armi pesanti sovietiche. "Il solito pazzo" pensammo... Ma quando quel primo diluvio di fuoco si fu placato, ci accorgemmo che i pazzi a Budapest erano molti: un intero manicomio».
Perché, allora, tanta lucida «pazzia»? «Chi ha visto quella città sorpresa nel sonno da cinquemila carri armati, avventarglisi contro compatta, ogni casa trasformata in fortino, ogni finestra in feritoia, e pavimentare di morti le sue strade... eppoi, rimasta senza munizioni, incrociare le braccia e lasciarsi arrestare, fucilare, deportare, morire di fame e di freddo, piuttosto che collaborare; eh no, chi ha visto questo, all'ipotesi della sbornia non può più credere... è costretto ad ammettere che sotto c'era, c'è qualcosa di più grosso». Come si direbbe oggi, c'era un valore non negoziabile chiamato libertà.
Corriere della Sera 3.11.06
LA LETTERA INEDITA
Togliatti scrisse a Pertini per colpire Lombardi «È ostile al Pci e cerca la spaccatura a sinistra»
di Antonio Carioti
Un saggio di Andrea Ricciardi inserisce la vicenda nel dibattito interno al Psi
L'attacco del «Migliore»
Assai critico verso il capitalismo e convinto fautore dell'alternativa di sinistra, Riccardo Lombardi viene spesso considerato un socialista indulgente verso i comunisti: non a caso si dimise da presidente del Psi, nel marzo del 1980, quando Bettino Craxi, con il ritorno al governo, accentuò il distacco dal Pci. Molti anni prima però Lombardi aveva dato un gran fastidio a Palmiro Togliatti, che non esitò a lanciargli un duro attacco sotterraneo.
Lo testimonia un documento ritrovato nell'archivio del Pci, presso l'Istituto Gramsci, dal giovane studioso Andrea Ricciardi, che ne ha parlato in un saggio incluso nel volume Per una società diversamente ricca (Edizioni di storia e letteratura, pp. 261,
e 34), curato da lui e da Giovanni Scirocco con prefazione di Nerio Nesi, che raccoglie vari scritti in onore di Lombardi.
Nessuno finora ha dato rilievo alla scoperta, eppure si tratta di una vicenda assai significativa. Poco dopo il soffocamento della rivoluzione ungherese, il 14 gennaio 1957, Togliatti scrisse a Sandro Pertini. All'epoca il futuro presidente della Repubblica svolgeva una funzione di freno, all'interno del Psi, rispetto al superamento dell'alleanza frontista deciso da Pietro Nenni. Lombardi, invece, si era convinto che l'«ispirazione dogmatica» del gruppo dirigente comunista fosse una palla al piede per il movimento operaio e voleva perseguire l'unità della sinistra dal basso. Verso il Pci, a suo parere, bisognava adottare «una politica di critica aperta ai vertici e di profonda e costante unità alla base». In sostanza proponeva di delegittimare la leadership che si era schierata con l'Urss sulla crisi ungherese.
Ovviamente il leader comunista andò su tutte le furie: Lombardi, scrisse Togliatti a Pertini, si era ridotto a fare «colui che cerca la spaccatura in casa altrui», il che rischiava di provocare «un antipatico inasprimento dei rapporti» tra Pci e Psi, ragion per cui la direzione socialista avrebbe dovuto prendere «l'iniziativa di dargli un ammonimento». Insomma, nel momento in cui accusava Lombardi di mettere il naso nelle faccende interne comuniste, Togliatti entrava a piedi uniti in quelle del Psi, invocando la messa alla berlina del reprobo.
Non si sa quali conseguenze abbia avuto la lettera scoperta da Ricciardi, ma certo il segretario del Pci aveva scelto l'interlocutore giusto. Oltre che comprensivo verso l'Urss (ma molti anni dopo, al Quirinale, avrebbe avanzato l'ipotesi di complicità sovietiche con le Brigate rosse), Pertini era ostile a Lombardi e ai suoi seguaci. Più tardi, nel 1963, li avrebbe bollati come un gruppo di «falliti di altri partiti venuti a covare le uova nel Psi».
D'altra parte lo scontro del 1957 aveva un precedente. Nel 1948, dopo la disfatta frontista del 18 aprile, Nenni aveva perso il controllo del partito a vantaggio della corrente autonomista di «Riscossa socialista», di cui Lombardi era l'esponente di maggior spicco. Ma poi i sostenitori dell'asse di ferro con il Pci ripresero il sopravvento: una rivincita cui non fu estraneo l'appoggio sovietico. Quindi i filocomunisti, riconquistato il Psi, lo gestirono (parole di Vittorio Foa, intervistato da Ricciardi) «in modo chiaramente stalinista, non soltanto per la dipendenza dall'estero ma anche per il modo di governare le dinamiche interne al partito». La svolta politica auspicata da Lombardi sarebbe arrivata solo nel 1956, dopo l'Ungheria.
Repubblica Firenze 3.11.06
Cinema, poesia e politica ricordi di un cercatore di isole
Pietro Ingrao parla del suo "Volevo la luna"
Oggi l'incontro con l'autore a "Leggere per non dimenticare"
Mezzo secolo di vita e ideali per un protagonista della nostra storia
di Anna Benedetti*
«Ricordi». Pietro Ingrao risponde così alla mia domanda se il suo libro, Volevo la luna, sia un´autobiografia, un racconto corale di un secolo di storia, una ricerca di se stesso, un ripensamento autocritico. Forse è la risposta più intima: chi poteva immaginare che il protagonista più amato nella storia degli ultimi cinquant´anni del Pci, rileggendo la storia contemporanea e il ruolo che lui stesso ha avuto nelle alterne vicende italiane, rivelasse una dimensione così personale, quasi dicesse «io sono anche questo, non appartengo solo alla politica»?
Ma non sorprendiamoci troppo. Accanto all´Ingrao autore di Masse e potere, Tradizione e progetto, Interventi sul campo, La guerra sospesa. I nuovi connubi tra politica e armi (titoli che sprofondano nella riflessione ideologica della sinistra marxiana), esiste da anni un Ingrao che ha affidato alla poesia un diverso racconto di sé. Dove niente della passione politica è dimenticato, della sua appartenenza al corpo e al cuore del partito, ma dove la scrittura più intimista offre spazio alla riflessione e si interroga da tempo sui limiti della politica, sulla soggettività che non si esaurisce nel ruolo sociale che occupa. È la dimensione dell´uomo accanto all´unicità del singolo che prende il sopravvento, alla ricerca di nuove verità tra gli errori e le incertezze del proprio operato e della memoria che ognuno si racconta. «Pensammo una torre - ha scritto - scavammo nella polvere» e ancora: «L´indicibile dei vinti. Il dubbio dei vincitori».
Oggi alle 17.30, alla Biblioteca comunale centrale in via Sant´Egidio 21, Pietro Ingrao presenta il sui libro Volevo la luna. Ne parleranno Pietro Barcellona, Giuseppe Cantarano, Sergio Givone e Bruno Schacherl. Per me, che curo «Leggere per non dimenticare» per il Comune di Firenze da più di dieci anni, l´appuntamento con Pietro Ingrao è una consuetudine che mi ha insegnato come l´arte del pensiero sia essenziale a qualsiasi buona pratica. Come la vocazione poetica possa diventare vocazione politica accogliendo la rinuncia all´arte come una necessità. E quindi come si possa arrivare alla politica dalla cultura e dalla poesia. E poi ancora mi ha dato un´altra idea della politica, quella della capacità di fermarsi sul limite, di interrogarsi, ricominciare da capo.
Organizzando questi incontri, dove anch´io in qualche modo ho sempre "voluto la luna", sono riuscita a suscitare in lei una maggiore vicinanza a Firenze?
«La vicinanza c´era anche in altre occasioni. Qui il dialogo, non so perché, era più denso. Lasciava tracce. Continuavi a pensarci anche quando uscivi dalla sala. E poi l´ascolto umano lo toccavi con mano. E anche la volontà di intervenire».
Le bellissime pagine dell´ultimo capitolo di Volevo la luna sono dedicate al libro di Nuto Revelli Il disperso di Marburg: all´isola di verde che il soldato cercava ogni mattina all´alba. La speranza di un´isola in cui ritirarsi è dunque vana, irrealizzabile? La luna è troppo lontana, davvero irraggiungibile?
«Cancellerei la parola vana. La domanda di un´isola, almeno dentro di me, si è congiunta sempre con il mescolarsi nella folla e nelle grandi passioni comuni. Stiamo nella mischia, ed esploriamo in cerca dell´isola. Siamo contraddittori, complessi, multipli: è quello che cerco di spiegare nelle mie memorie. A volte in noi stessi siamo clamorosamente discordanti».
Qual è stato il suo rapporto con Firenze, dai libri omaggio che le giungevano dal gruppo Bonsanti-Solaria all´incontro con Montale alle Giubbe Rosse?
«C'era il rapporto antico, costruito dal lontano ginnasio, studiando Dante. Poi, per me, si creò un nuovo legame quando cominciai ad appassionarmi alla letteratura del Novecento ed incontrai le figure che lei ha ricordato: Montale, Bonsanti e anche i cattolici di Giuliotti. E Montale (anche Saba, in verità) significava avvicinarsi a Svevo e anche alla letteratura europea: Joyce, Kafka, scoperte cruciali del pensiero e dell´immaginario nuovo che scavalcavano frontiere e dilagavano nei continenti».
Firenze città chiave della sinistra italiana da La Pira a Agnoletti. Che idea si è fatta della Firenze del dopoguerra?
«Per la mia formazione la Firenze del dopoguerra contò molto. Dirigevo allora l´Unità, che aveva anche una sua pagina fiorentina. E quindi da Roma correvo spesso a Firenze. Là divenni amico stretto di quel singolare scrittore che era Romano Bilenchi, presto sorse la calda amicizia con La Pira, con cui c´era al tempo stesso competizione politica e grande comunicazione umana. Questo legame di pensiero e di passioni civili si stabilì con sacerdoti fiorentini arditi nella ricerca e nel vincolo umano, e legati alla lezione di don Facibeni, come Balducci, don Nesi...»
Come visse i giorni dell´alluvione del ‘66? Quali emozioni le suscitò l´immagine della città devastata?
«L´idea che pesava nella mente era il contrasto amarissimo, materiale, tra la rovina fisica e la ricchezza della storia umana della città».
Lei ama il cinema. Firenze è stata la culla di un pezzo di cinema italiano, ad esempio quello ispirato dai libri di Pratolini.
«Firenze è città dove le figure espressive dell´umano sono state altissime e poliedriche. Non mi pare però che essa sia stata città del cinema. È vero, ci sono volti della sua storia consegnati alla forma cinematografica. È indimenticabile quel tratto di Paisà in cui nel silenzio della piazza, invasa dalla guerra, si levano solo gli spari e il nudo, amaro lamento del partigiano morente. Su Metello di Pratolini io ho dubbi, ma non sono sicuro: su quel testo, quando uscì, ci fu nella cultura di sinistra un lungo contrasto».
Le sue grandi passioni, il cinema, la letteratura, furono spezzate dalla guerra di Spagna. Che accadde allora in lei, che cosa determinò questa cesura nella sua vita da cui nasce il suo impegno politico?
«Cambiò quasi tutto nella mia giornata. Mutarono i libri sul mio tavolo. Iniziò la mia partecipazione alla cospirazione antifascista. Ma l´amore per la poesia e per il cinema non morirono mai».
E infatti Pietro Ingrao ha scritto: " Mordi musica./Grida il desiderio deriso: le fragili comunioni./Leva in alto la sconfitta"
*L'autrice cura la rassegna "Leggere per non dimenticare"
l'Unità 3.11.06
Geertz, lo specchio dell’antropologia
di Marino Niola
«L’uomo è un animale sospeso nelle reti di significato che egli stesso ha tessuto e queste reti costituiscono la cultura». Lo scriveva negli anni Settanta Clifford Geertz, il grande antropologo americano scomparso lo scorso 30 ottobre. Era nato nel 1926 a San Francisco e aveva avuto come maestri alcuni dei mostri sacri delle scienze sociali degli States. Primo fra tutti Talcott Parsons, il faro della sociologia americana, massimo esponente dello struttural-funzionalismo, poi Clyde Kluckohn, l’antropologo autore di importanti studi sugli indiani del Nord America. E soprattutto di A mirror for man, un libro tradotto in tutti i paesi, compreso il nostro, dove comparve col titolo Specchiati uomo. Proprio al suo maestro Geertz deve l’idea di un’antropologia come specchio non solo e non tanto della società oggetto dello sguardo antropologico, ma soprattutto dell’antropologo medesimo che guarda sé e la sua cultura in una società lontana che lo riflette come uno specchio, rendendolo visibile a se stesso. Non a caso proprio con Geertz inizia quella corrente conosciuta come antropologia riflessiva. Un modo di fare ricerca che non considera le altre culture come insiemi chiusi e omogenei ma piuttosto come reti di significato in perpetua trasformazione, mai date una volta per tutte e soprattutto impossibili da spiegare in maniera oggettiva, da ridurre a leggi generali e tanto meno universali. In questa metafora «aracnidea» della cultura come rete di significati fluttuanti - che ricorda l’immagine baudelairiana della foresta di simboli - affonda le radici l’idea geertziana della nuova antropologia. Che non è una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una conoscenza interpretativa in cerca di significati. E questi significati non stanno nella mente dell’antropologo che li attribuisce dall’esterno, alla società messa sotto osservazione quasi fosse un oggetto, bensì nel conflitto delle interpretazioni, in un incessante negoziato ermeneutico che pone l’osservatore e gli osservati gli uni accanto agli altri come parti di un medesimo processo, come attori di uno stesso dramma umano e conoscitivo.
Lo studioso diventa così una parte della sua stessa indagine, soggetto ma anche oggetto. Questo principio d’indeterminazione che fa della cultura una rete e non un sistema chiuso, consente di vedere nell’opera di Geertz l’eredità delle correnti più feconde del pensiero del Novecento, da Werner Heisenberg a Ludwig Wittgenstein fino ai maestri dell’ermeneutica filosofica, Paul Ricoeur e Hans George Gadamer. Se in libri come Interpretazioni di culture e altri (in Italia il suo editore è stato Il Mulino) Geertz aveva elaborato la sua concezione dell’antropologia come ermeneutica, in Opere e vite egli estende la sua indagine riflessiva al linguaggio stesso usato dai grandi dell’antropologia per descrivere il loro oggetto. Da Ruth Benedict a Bronislaw Malinowski, da Edward Evans Pritchard a Claude Lévi-Strauss.
E proprio quest’ultimo sceglie come interlocutore per prendere le distanze dallo strutturalismo, finendo però di fatto per riconoscere la modernità insuperata dell’autore di Tristi Tropici che, pur senza enunciarlo programmaticamente, aveva fatto dell’indagine etnografica il dispositivo – quasi letterario - dove l’io dell’antropologo si riflette nella società studiata per scoprirvi una umanità comune. Negli ultimi anni Geertz aveva volto il suo sguardo al fenomeno della globalizzazione offrendo un contributo decisivo all’analisi della complessità contemporanea, spesso abbandonata al riduzionismo predicatorio delle sociologie à la Baumann o al vaniloquio minimalista dei Cultural studies. La sua attenzione alle ragioni del «local» gli consentiva, inoltre, di sottrarsi a quelle generalizzazioni affrettate e apocalittiche che prefigurano l’ineluttabile scomparsa di ogni differenza, e di ogni identità. Nel suo Mondi locali mondo globale Geertz ha mostrato come il contrappeso alla globalizzazione non sia solo nel recupero grottesco e «integralista» della tradizione, bensì nella capacità di innovazione e di reinvenzione che ogni cultura ha nel suo genoma. L’idea di una cultura capace di reinterpretarsi per tirar fuori risorse imprevedibili è in fondo l’antitesi teorica più convincente al grossolano teorema dello scontro di civiltà.
Agi 3.11.06
UNGHERIA: SECHI, PATTO SEGRETO KRUSCIOV-NENNI GIA' NEL 1955 (1)
di Carlo Patrignani
(AGI) - Roma, 3 nov. - Nel 1955, un anno prima dei tragici fatti d'Ungheria, il leader del Pcus, Nikita Krusciov, e il segretario del Psi, Pietro Nenni si incontrarono, segretamente, a Mosca per concordare quale linea i socialisti italiani avrebbero dovuto tenere nei confronti del Pci di Palmiro Togliatti nell'evenienza di situazioni di crisi.
E' quanto sostiene lo storico Salvatore Sechi, ordinario di Storia Contemporanea, Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, sulla base di documenti rintracciati nei National Archives di Washington e Londra. Da questi atti emerge che, in quegli anni di confronti, a volte roventi, tra socialisti e comunisti, Nenni era, al pari di Togliatti, tenuto al corrente dai vertici del Pcus su quanto accadeva all'interno dell'orbita sovietica. "Che vincesse i Premi Stalin era arcinoto - afferma Sechi - Quel che non e' mai stato rivelato e' che Nenni aveva concordato con Krusciov di respingere la proposta di rompere il patto di unita' d'azione col Pci avanzata da Saragat, di criticare, ovviamenteper dar credibilita' alla sua azione, il Cremlino, esser paladino del neutralismo in politica estera italiana per sottrarre alleati agli Usa e arrivara' a scrivere una lettera al Pcus che Krusciov interpreto' come voglia di marciare al fianco dell'Urss". Fino a "quel gran capolavoro di ambiguita' che fu l'incontro di luglio '56 con Togliatti - prosegue Sechi - dal quale riceve il nulla osta alla rottura del patto di unita' d'azione e all'unificazione con i socialdemocratici a condizione che la politica di rafforzamento del Psi non avesse come prezzo l'isolamento del Pci". (AGI)
Agi 3.11.06
UNGHERIA: SECHI, PATTO SEGRETO KRUSCIOV-NENNI GIA' NEL 1955 (2)
di Carlo Patrignani
(AGI) - Roma, 3 nov. - E' esistito, dunque, un patto ed un asse Krusciov - Nenni - Togliatti? "Si', ed aveva tra i suoi obiettivi quello di isolare Riccardo Lombardi ed in generale la cultura azionista - risponde Sechi - Non a caso chi comprese per tempo che il comunismo non era 'riformabile' e con coerenza e coraggio persegui' una via diversa fu proprio Lombardi che condanno' alla Camera dei Deputati, per il Psi, l'invasione sovietica comunque inammissibile". Pertanto, "non e' vero che Nenni ebbe ragione su Togliatti", taglia corto lo storico al quale negli anni '70 il Pci sospese la tessera per le critiche al centralismo democratico.
"Prima di rievocare quei drammatici avvenimenti d'Ungheria i dirigenti del vecchio Pci dovrebbero confessare di aver coltivato una illusione micidiale ed alimentato una speranza miseramente fallita con la quale si sono ingannati milioni di iscritti e di elettori", avverte Sechi, autore di 'Compagno, cittadino. Il Pci tra via parlamentare e lotta armata' dove tratta la 'doppiezza' congenita del Pci, di cui il Migliore fu abile stratega.
"Restiamo ancora su Nenni - osserva Sechi - anche dopo il XX° Congresso del Pcus, a Washington non si fidano di lui, tanto che Eisenhower lo ritiene 'un maestro insuperabile nell'arte di ingannare e far confusione', opportunista e cinico". Cosi' dagli "archivi Usa emerge un quadro di grande ambiguita' di Nenni che, e' detto, si esibisce in una serie di finzioni, di classiche mosse dettate da fini elettoralistici, come le amministrative della primavera del '56. Punzecchia il Pci sul culto di Stalin, ma poi si candida a fare il leader del fronte popolare al posto di Togliatti se i comunisti avessero subito una sconfitta popolare". Insomma, agli Usa Nenni non piace... "Il guidizio ricavato dalla carte esaminate e' spietato - rivela Sechi - Si dice chiaro e tondo che Nenni cerca di vendere al meglio 'il prodotto di Mosca', cioe' lo si accusa di fare il gioco del Cremlino facendo finta di esserne autonomo. In generale gli americani lo ritengono una persona poco affidabile, un uomo debole, che agiva sentendosi minacciato, come disse il segretario del partito radicale, l'ex ambasciatore Nicolò Carandini".
Minacciato, addirittura, e da cosa? "La mia impressione e' che venisse minacciato dai comunisti - risponde Sechi - per qualche circostanza che, come confermo' lo stesso Ministro dell'Interno Tambroni in agosto, aveva avuto luogo in Spagna durante la guerra civile. Ad essa prese parte insieme al leader il repubblicano Randolfo Pacciardi che lo defini' 'un codardo che temeva per la propria vita'. I comunisti lo ricattavano". (AGI)
Agi 3.11.06
UNGHERIA: SECHI, PATTO SEGRETO KRUSCIOV-NENNI GIA' NEL 1955 (3)
di Carlo Patrignani
(AGI) - Roma, 3 nov. - Nel suo libro, Sechi si sofferma sulla 'doppiezza' congenita del Pci e di Togliatti: lotta antifascista e riappacificazione nazionale, 'via italiana al socialismo' e fedelta' all'Urss, richiami alla Costituzione e messa in opera di un apparato militare di riserva, una sorta di 'esercito rosso' clandestino, rivendicazione della diversita' morale e incasso di tangenti sull'import-export verso i paesi dell'Est attraverso imprese affiliate.
"Questa doppiezza duro' per tutti gli anni dei governi centristi e anche successivamente: Togliatti - sottolinea lo storico - la esprime prestissimo dalla svolta di Salerno del '44, al voto favorevole sull'art. 7 della Costituzione poi con l'amnistia promulgata in nome di una sorta di riconciliazione nazionale con i fascisti". Nel giugno del '46, infatti, come Ministro di Grazia e Giustizia, presenta i suoi provvedimenti come qualcosa di giusto nelle intenzioni ma sbagliato nella sua applicazione e non per colpe sue. "Quella legge non solo recava in calce la sua firma autografa, ma fu da lui stesso scritta con l'obiettivo - chiarisce Sechi - di pescare nuovi comunisti nell'apparato pubblico, militare, giudiziario, intellettuale del ventennio. E l'operazione gli riusci': tra il 1942 e il 1948 gli iscritti al Pci passarono da 3 mila appena a quasi 2 milioni".
Una legge, l'amnistia, su cui c'e' l'accordo sottinteso con Alcide Gasperi, come sul voto favorevole all'art. 7. "In queste due circostanze chi si fece sentire non fu Nenni ma Lombardi che critico' l'ambiguo comportamento di Togliatti sull'art. 7 e sull'amnistia contesto' il testo togliattiano nella terminologia laddove si dice 'sevizie particolarmente efferate' come se 'sevizia efferata' non fosse sufficiente ad indicare qualcosa di orrendo: con quel 'particolarmente' si impedi' l'epurazione di quanti avevano collaborato con il ventennio fascista e si misero in liberta' i piu' feroci gerarchi".
Quale lezione trarre da tutto cio'. "E' ovvio che al Pci e a Togliatti era piu' funzionale un confusionario come Nenni che un coerente come Lombardi che non fu mai comunista ne' tanto meno catto-comunista ma un 'acomunista', socialista libertario, altamente riformatore e il Pci, come la Dc, lo teme e anzi lo osteggia come tutta la cultura azionista", conclude lo storico che considera ancora 'vitale e viva' l'opera politica di Lombardi. (AGI).