Apcom 31.10.06
Prc/ Bertinotti: non confluiremo nei socialisti europei
Sì a battaglie comuni, ma rafforzare il progetto della Sinistra europea
Roma, 31 ott. (Apcom) - "Una discussione tra amici, sui temi che si possono affrontare tra gente che ha in comune il progetto della Sinistra europea, con scambio di valutazioni sulle condizioni dei rispettivi Paesi": così il presidente della Camera Fausto Bertinotti spiega ai cronisti il senso del suo pranzo privato con i due leader del partito tedesco 'Die Linke', Oskar Lafontaine e Gregor Gysi.
Bertinotti non entra nel merito della discussione "per una questione di garbo", ma sull'ipotesi, lanciata ieri nel corso di un convegno dall'ex ministro socialdemocratico Lafontaine, di rapporti più stretti della Sinistra europea con il Pse, Partito dei socialisti europei, fino a una possibile, futura, confluenza, precisa: "E' un rapporto che si può determinare alla ricerca di convergenze, sia a livello di parlamento europeo sia nella costruzione di movimenti, come è stato fatto con alterne fortuna nella vicenda della lotta contro la direttiva Bolkestein".
Nessuna convergenza organizzativa? "Assolutamente no", replica il presidente della Sinistra europea. La questione "riguarda la ricerca di convergenze e possibili alleanze su singole questioni, restando, anzi, ancor più affermandosi la necessità di un progetto autonomo del Partito della Sinistra europea".
Apcom 31.10.06
Ungheria '56/ Giordano: il Pdci legittima i carri armati sovietici
Dal 2001 a oggi distanze più larghe tra noi e loro
Roma, 31 ott. (Apcom) - "No!", il punto esclamativo è testuale: è la risposta del segretario del Prc Franco Giordano a uno dei partecipanti al Forum online sul sito di Rifondazione, il quale chiedeva se le distanze fra i due partiti non siano superabili.
"Paradossalmente, dal 2001 ad oggi, le distanze - spiega Giordano - si sono vieppiù allargate. 2001...Genova: il PdCI criticò la nostra partecipazione a quel movimento, noi fondammo, proprio da quell'evento, una nuova cultura politica che ha innovato in maniera irreversibile, il nostro modo di essere ed innovare il mondo e la società. Da quel giorno abbiamo prodotto un'esperienza di innovazione politico culturale su grandi temi a partire dalla non-violenza".
"2006...Fausto Bertinotti Presidente della Camera, nell'anniversario dell'invasione dell'Ungheria, dice che i vinti di ieri sono i vincitori dell'oggi, il PdCI - sottolinea ancora il segretario del Prc - lo contesta apertamente, fino al punto di legittimare in qualche forma, i carriarmati sovietici (la storia deciderà). Per me, quell'idea di concezione dello stato, del partito e del partito-stato non è declinabile con la parola comunismo. Sempre di più quella parola allude ad una grande idea di trasformazione sociale e si allontana dalla semplice occupazione del potere".
"La parola 'comunista' sempre di più la coniugo - afferma ancora il leader del Prc - con il grande tema dell'uguaglianza e della libertà. La mia identità la verifico e la misuro ogni giorno nell'iniziativa sociale. Siamo proprio due mondi diversi, per questo la Sinistra Europea ha una grande tensione anti-capitalistica che nasce dal rapporto con i movimenti e dalla grande innovazione culturale e politica".
Liberazione 1.11.06
Polemiche nella maggioranza sulle pensioni e sulla manifestazione di sabato prossimo contro il precariato. Il giornale della Margherita attacca il Prc, il ministro Ds mette in discussione il programma. La risposta di Franco Giordano
Bertinotti a Chiti: il programma c’è. Ed è vincolante per tutta l’Unione
Il “Rutellismo”, cioè il feticismo di governo
di Rina Gagliardi
Tre giorni al 4 novembre, e alla prima vera prova di movimento, nell’era del governo Prodi. A dispetto dei problemi (politici), delle polemiche e delle strumentalizzazioni che fin qui l’hanno accompagnata, la manifestazione Stop precarietà si annuncia grande, partecipata, multiforme. Da Rifondazione comunista, per dire, arriveranno quasi ventimila persone, su pullmann, treni, mezzi propri. Dalla Fiom, sono previste comunque diverse migliaia di partecipanti. Insomma, sarà un corteo “vero”, nient’affatto simbolico e neint’affatto - ci si può scommettere - “politicistico”. Naturalmente, la malattia del politicismo è tutt’altro che sconfitta e continua, anzi, a determinare con pesantezza il panorama politico nazionale.
Ne è un bell’esempio lo scomposto attacco che Europa - il quotidiano della Margherita, pardon il giornale quasi personale di Francesco Rutelli - riservava ieri a Rifondazione comunista. Nell’editoriale (non firmato, quindi attribuibile al direttore Stefano Menichini) si afferma che “il partito di Giordano rimane l’unica forza di notevoli dimensioni che aderisce ad un corteo ormai dichiaratamente antigovernativo”. Ecco due gravi inesattezze in una sola frase: primo, forze come il sindacato metalmeccanico e l’Arci, che il 4 saranno in piazza, sono di dimensioni rilevanti, assai più di quanto non lo sia (ancora) il Prc; secondo, il carattere “antigovernativo” del corteo non ha nulla di “oggettivo”, è la scelta “soggettiva”, soggettivissima, di alcune delle forze che vi aderiscono - come i Cobas. Ma questi, per Europa, sono trascurabili dettagli. Il suo bersaglio autentico è ben altro: è il programma dell’Unione sulla base del quale il governo Prodi è stato votato dalla maggioranza degli elettori italiani - sia pure una maggioranza “risicata”, come si usa dire nel linguaggio corrente. La lotta contro la precarietà del lavoro (e della vita) è scritta a chiare lettere in quel documento, ed è un impegno che il presidente del consiglio ha spesso ribadito con forza? Non importa, ai rutelliani interessa oggi, soprattutto se non esclusivamente, l’“allargamento del consenso sociale” nell’area moderata, sui contenuti che Confindustria indica con tanta precisione. La controriforma delle pensioni, all’opposto, non è contemplata dal programma, più o meno come le ossessive privatizzazioni di Linda Lanzillotta? Non importa, la campagna elettorale è ormai alle nostre spalle. E se è difficile, quasi impossibile, cambiare la maggioranza di governo e alterarne la “chimica” formale, si può sempre aggirare l’ostacolo: la coalizione resta la stessa, ma il programma si cambia - si stravolge, si rovescia come un calzino. Perciò, dice Europa, Rifondazione comunista è così “stucchevole”, con il suo “ambiguo rigorismo” di lotta e di governo: perchè si fa interprete delle attese e delle domande non della sua base, ma di milioni di elettori dell’Unione. E perchè tiene aperte, ohibò, le contraddizioni che in tanti vorrebbero rapidamente chiudere.
Ora, però, polemiche a parte, ci rendiamo perfettamente conto che - non solo dalle sponde margheritine - quella che si va esprimendo è anche una “solida” certezza della politica, uno schema ereditato da una tradizione che, mentre tutto passa e deperisce, sembra più viva che mai. Come recita questo schema? Non solo che in politica o stai al Governo o stai all’Opposizione - o così o Pomì, secondo un fortunato slogan pubblicitario di qualche anno fa - ma che è questa la determinazione essenziale della tua identità, delle tue lotte, delle tue iniziative. In conseguenza, la discriminante “vera” diventa quella che passa tra governisti - appiattiti, arrotolati, sprofondati nel governo di cui fanno parte - e antigovernisti - identificabili e identificati nella battaglia senza quartiere contro il governo di cui non fanno parte.
Il risultato di questa distorsione, pur confortata dalla autorevolezza della storia, è che l’unica soggettività sovraordinatrice - l’unico Fine per cui combattere o non combattere - è il Governo. E’ il trionfo dell’autonomia “assoluta” della politica, sganciata dal suo contenuto essenziale, la lotta paziente per la trasformazione della società e per un’alternativa al neoliberismo. E’ il politicismo, di cui - come si è visto nelle fasi che hanno preceduto la manifestazione di sabato - cade vittima anche una parte del movimento, e della sinistra radicale.
Forse, in questa concretissima circostanza di lotta, conviene anche avviare una riflessione di fondo sul rapporto governo-partiti-movimenti. Intanto, il governo è uno strumento - una delle leve importanti (ma non onnipotenti) che si possono (o non si possono) utilizzare per aiutare processi di cambiamento. In termini diversi, lo stesso principio vale rispetto alla presenza nelle istituzioni rappresentative - che pure, un tempo non poi così lontano, costò discussioni molto accese nel movimento operaio e nello schieramento dei rivoluzionari. Governo, parlamento, assemblee elettive, governi locali: in una democrazia sia pur malamente liberale, sono tutti luoghi, relativamente autonomi, della decisione e della lotta politica. Qual è oggi, dentro di essi, la funzione precipua che spetta alla sinistra alternativa? Quella, ovvia, di battersi sui contenuti (sociali, culturali, eccetera) che ne qualificano la “ragione sociale”. Ma, anche e sopratutto, quella di mantenere questi luoghi permeabili alle domande di massa - prima che, anche qui da noi, si chiuda il cerchio del processo di americanizzazione, e le istituzioni si separino radicalmente dalla vita normale delle persone. Ai partiti, come tali, e ai movimenti, spetta un’autonomia che - forse con un pizzico di retorica - possiamo definire come sacra: autonomia nella visione generale di società e nelle proposte strategiche, autonomia nelle piattaforme rivendicative e nelle proteste, autonomia nell’esercizio del diritto fondativo (rifondativo) della politica attuale, la partecipazione.
Vogliamo guardare, in quest’ottica, alla manifestazione contro la precarietà? Chi pensa che questo drammatico problema del nostro tempo («non c’è più il proletariato, c’è solo il precariato» diceva l’altro giorno Oskar Lafontaine, al convegno promosso dalla Sinistra Europea a Roma), questa scelta strategica del capitalismo contemporaneo, questa palese dimostrazione del suo carattere ormai regressivo e tendenzialmente barbarico, chi pensa che si possa cavarsela gridando quattro slogan incazzati contro Prodi o il ministro Damiano (anzi, Ferrero, secondo la logica che il più vicino è anche il più indiziato di colpevolezza), è certo libero di farlo. Otterrà, tutt’al più, lo spazio mediatico che, molto generosamente, i giornali di destra vorranno consentirgli. Ma forse il nemico da sconfiggere, l’opposizione da mettere in campo, l’identità programmatica da costruire - prima di tutto nel movimento - sono un po’ più grossi...
Liberazione 1.11.06
Una grande mostra a Milano restituisce l’immagine integrale
di un artista che non fu solo pittore
Umberto Boccioni, futurista anche nella scultura
di Roberto Gramiccia
Se fra gli artisti del XX° secolo in Italia non ci fossero stati De Chirico e Boccioni, il nostro credito internazionale nell’ambito delle arti visive moderne sarebbe molto minore. Il primo fu l’inventore di quella “avventura metafisica” che tanta e autonoma parte ebbe fra le Avanguardie Storiche. Il secondo fu l’artefice massimo, il teorico e il trascinatore del Futurismo in arte. Questo movimento fu anch’esso una avanguardia internazionale che nonostante la difficoltà a liberarsi dalla puzza di fascismo di cui era impregnato, alla fine, ha conosciuto la collocazione che merita nella storia dell’arte del secolo che ci ha preceduto.
I compromessi con il regime, infatti, e le contiguità con esso non debbono e non possono far velo ad un giudizio storico-culturale sereno ed equilibrato. E allora non si può negare che il Futurismo e Boccioni, nonostante le molte fesserie belliciste e filofasciste declamate, siano stati i portatori di un vero e proprio ciclone autenticamente innovativo, ove si eccettui il ricorso sbracato a trombonismi e a pratiche paracircensi.
E’ merito della grande mostra, “Boccioni pittore scultore futurista”, Milano, Palazzo Reale, fino al 7 gennaio, per la cura di Laura Mattioli Rossi, l’aver richiamato l’attenzione su questo grande pittore calabrese (nato a Reggio nel 1882) che si legò profondamente al capoluogo lombardo. A Milano infatti Boccioni visse e lavorò intensamente, divenendo il cantore di uno sviluppo urbano impetuoso e moderno che trovava in questa città la sua massima espressione.
Il pregio più grande di questa importante esposizione è la capacità di mettere a fuoco l’attività di scultore dell’artista che rappresenta uno degli aspetti meno studiati della sua febbrile e purtroppo breve attività (Boccioni morì in guerra cadendo da cavallo a soli 34 anni). Le settanta opere esposte, fra dipinti, disegni e sculture sono messe a confronto con quelle di illustri compagni di strada: Balla e Severini (futuristi anche essi), Picasso e scultori come Medardo Rosso e Rodin.
Nel 1912, dopo aver visitato gli studi parigini di artisti di come Archipenko e Brancusi, Umberto Boccioni pubblicò il “Manifesto tecnico della scultura futurista” per dare alle stampe, due anni dopo, “Pittura Scultura futuriste”. In quel breve periodo si concentra la sua attività plastica con la realizzazione di tredici sculture che definire innovative è poca cosa. Solo con gli anni questo suo “salto in avanti” sarà riconosciuto, sino a far sì che una delle sue celebri sculture “Forme uniche nella continuità dello spazio” sia stata persino scelta per rappresentare l’arte italiana sulla moneta da venti centesimi di euro; per non parlare del fatto che il recente Guggenheim Museum di Bilbao si ispira dichiaratamente al suo “Linee di forza di una bottiglia”. Nonostante ciò, mentre dipinti come “La città che sale”, tanto per citare un titolo, sono relativamente noti, non altrettanto si può dire della sperimentazione plastica del grande futurista.
Del resto per Boccioni pittura e scultura sono la stessa cosa. Entrambi debbono muoversi a partire dal tumulto della vita e del suo movimento (dinamismo plastico), oltre la staticità cézanniana e la tradizione realista, sviluppando e portando alle estreme conseguenze le ricerche del Divisionismo e dell’Impressionismo e, in scultura, quelle di Medardo Rosso. «Il dinamismo - si legge nel Manifesto futurista - è la solidificazione dell’impressione senza amputare l’oggetto o isolarlo dal solo elemento che lo nutre: la vita, cioè il moto». E ancora: «I nostri corpi entrano nel divano su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali a loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano». Tutto è complementare e soprattutto ogni cosa è in movimento. Linee di forza, quindi, piuttosto che piani proporzioni e eleganza di forme, “contrasti simultanei” di colori e di linee. Spirito antigrazioso e violenza espressiva completamente disinibita da ogni retaggio decorativo. In pittura e in scultura.
Ma ogni violenza si acquieta in presenza di un presagio di morte. Fu così che Boccioni che poi tanto gurerrafondaio non doveva essere - se è vero che confessò: «La guerra, quando si attende di battersi, non è che questo: insetti più noia più eroismo oscuro» - in una delle sue ultime opere, “Ritratto del maestro Ferruccio Busoni”, sembra “fermarsi” a riflettere.
Liberazione 1.11.06
Atlantide, l’isola fantastica si trova nelle mappe del dubbio
Intervista a Sergio Frau, autore di un libro-inchiesta che identifica la mitica terra con la Sardegna e le Colonne d’Ercole con il canale di Sicilia, un tempo molto più stretto di quanto sia oggi
di Marco Sedda
Le mappe del dubbio. Così le chiama Sergio Frau, inviato culturale del quotidiano la Repubblica, nel suo libro Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta. Come, quando e perché la Frontiera di Herakles/Milqart, dio dell’Occidente slittò per sempre a Gibilterra (edizioni Nur Neon, 2002, euro 30). Sono le cartine che illustrano lo Stretto di Gibilterra e il Canale di Sicilia come dovevano essere nel quarto millennio avanti Cristo, disegnate facendo emergere le terre che si trovano a 200 metri sotto il livello dell’acqua, ovvero riportando la geografia a prima dell’ultima glaciazione. Ma se lo Stretto rimane praticamente invariato, il Canale si restringe notevolmente, con la Sicilia che da una parte si salda con Malta e dall’altra lambisce la Tunisia. Il Canale diventa così un doppio stretto, «una vera tenaglia pronta a chiudersi», scrive Frau. E dalla visione delle due mappe nasce la domanda che darà lo spunto al libro e alla rivoluzionaria teoria che vuole dimostrare: «Era davvero quello di Gibilterra, laggiù, lo Stretto delle Colonne d’Ercole?». Nel tentativo di dare una risposta, Frau per tre anni studia e svolge un’accurata indagine sui tempi antichi. Il frutto di questo paziente lavoro è un’avvincente saggio di 672 pagine, arricchito da foto, disegni e ricostruzioni grafiche. Frau consulta e sviscera in modo sistematico le fonti e la geografia di ieri, mette sotto processo Eratostene, il geografo che colloca le Colonne d’Ercole nello Stretto di Gibilterra, esamina e compara il parere degli studiosi moderni, intervista e dà la parola agli esperti antichi: Platone, Esiodo, Pindaro, Erodoto, Aristotele, Omero, Strabone. Dall’inchiesta emerge una potente teoria che scombina la storia degli albori dell’uomo: le Colonne d’Ercole da principio si trovavano nel Canale di Sicilia. Lo spostamento delle Colonne, «la Cortina di Ferro dell’antichità», ha una conseguenza ancora più sconvolgente: «Perché al di là delle Colonne c’è un’isola - si legge nel Timeo di Platone - e da quest’isola si arriva alle altre isole e al continente che tutto circonda… Il suo re è figlio di Poseidone, il Mare. Il suo nome è Atlante». Quest’isola, cerca di dimostrare Frau, oggi è conosciuta col nome di Sardegna.
Allora Frau, nel suo libro sostiene una teoria rivoluzionaria.
Sì, ma ho preso tutte le precauzioni e un anno e mezzo di aspettativa dal mio giornale per verificare le fonti. L’idea mi è venuta leggendo il libro Quando il mare sommerse l’Europa, di Vittorio Castellani, accademico dei Lincei e astrofisico alla “Normale” di Pisa. Castellani scrive che nel Mediterraneo esistevano due stretti, di Gibilterra e quello tra la Sicilia e la Tunisia, molto più piccolo rispetto a come lo conosciamo oggi perché la Sicilia era attaccata a Malta e la Tunisia più estesa. Leggendolo mi è venuto il dubbio: se gli stretti erano due, chi ha messo le Colonne laggiù, quando quello della Sicilia era molto più pericoloso? Era il settembre 1999 e il libro è uscito nel 2002. In tre anni di studi ho setacciato le fonti antiche, sono partito da Omero che non cita mai le Colonne d’Ercole, per poi passare a Esiodo, che scrive dell’Etna, mentre è Pindaro il primo che le nomina, nel 476 avanti Cristo, e parla di lagune e bassi fondali, come è per l’appunto il Canale di Sicilia. E’ qui che San Paolo naufraga, è qui che Roma perde 150 navi e riesce a sconfiggere Cartagine solo quando riproduce lo scafo di una nave catturata.
E riposizionando le Colonne d’Ercole identifica Atlantide con la Sardegna. E’ così?
Premetto che non ho mai cercato e letto un libro su Atlantide, non mi piacciono i misteri. Il mio libro è un codice d’accesso, una mappa. In Platone c’è il ricordo di un’isola eccezionale e strabiliante che a un certo punto collassa. E questo coincide con tutto quanto gli antichi hanno scritto. Si parla di un paradiso di ventimila torri che d’improvviso diventa un inferno di malaria e fango. Per questo ipotizzo che la Sardegna sia stata spazzata da una sorta di tsunami. Platone scrive di terribili cataclismi marini che distruggono l’isola e che avvengono mentre i suoi abitanti, i Sardi-Shardana, navigavano verso l’Egitto.
Uno tsunami ha dunque posto fine alla grande civiltà che popolava l’isola?
Anche Giovanni Lilliu, accademico dei Lincei e massimo conoscitore della civiltà nuragica, parla della fine dell’età dell’oro e sente lo iato tra un prima e un dopo. E il nuraghe che Lilliu riporta alla luce, Su Nuraxi di Barumini, era sepolto sotto il fango. Inoltre i sardi convivono con il ricordo di un isola fantastica. Naturalmente questa teoria va verificata con analisi marine, geologiche e mineralogiche. Non pretendo di avere ragione ma chiedo il diritto di parlarne liberamente, mentre contro di me le Soprintendenze sarde per i Beni Archeologici hanno raccolto circa trecento firme, quasi tutte di loro dipendenti e collaboratori, ma senza mai farmi obiezioni vere. Mi portino le prove e mi dimostrino il contrario. Mi contestano ma non danno una risposta sul perché c’è il fango sui nuraghi. La verità è che hanno tentato di sporcare il mio lavoro per paura, per tigna. Per fortuna la mia tesi è condivisa dai più grandi esperti di storia antica.
A suo avviso quale risultato ha ottenuto con questa inchiesta?
Quello di aver esaminato una moltitudine di prove e documenti che vanno comunque ancora approfonditi. Il libro illumina alcuni indizi che danno una nuova prospettiva al problema: per cominciare non è ammissibile che si costruiscano migliaia di torri lì dove c’era la malaria. Quella dei nuraghi è una realtà sottostimata: si parla ancora di ottomila nuraghi, ma è un calcolo dei militari datato 1948. Da notare che abbiamo una doppia tipologia di nuraghi: quelli costruiti più lontano dal mare e in altura, come il nuraghe Losa e quello di Sant’Antine, sono rimasti perfetti, mentre se si scende di quota si trovano in condizioni disastrose. Inoltre ci sono una serie di segnali esterni, come lo Ziggurat di Monte d’Accoddi, che denotano contatti con il mondo esterno che cessano d’improvviso. Un altro esempio: quando i Fenici arrivano nell’isola, nel dodicesimo secolo avanti Cristo, Tharros è già distrutta. E in Sardegna trovi l’eterna primavera, gli agnelli che nascono due volte l’anno, la longevità, il dolce clima, come nella descrizione che gli antichi facevano di Atlantide.
Il libro come è andato?
Un successo che non mi aspettavo: sono state vendute 37 mila copie, altre seimila del secondo libro (Le Colonne d’Ercole, un bilancio, i progetti), venduto a prezzo di costo, 15 euro, e che ora esce con 70 pagine in più. E a marzo Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta uscirà in Germania e in Spagna.
Poi c’è la mostra Atlantikà: Sardegna, Isola Mito che supporta la sua teoria.
Dopo Cagliari, l’Unesco l’ha voluta ospitare a Parigi, e ora fino al 12 novembre si può visitare anche a Roma all’Accademia nazionale dei Lincei (al secondo piano di Palazzo Corsini in via della Lungara 10, dalle 9,30 alle 13,30, ingresso gratuito, ndr), e da dicembre si sposterà al Museo delle scienze di Torino.
Sta già pensando al prossimo libro?
Sarà un lavoro sui legami tra gli etruschi e i sardi. I punti fermi sono Strabone, Platone, Esiodo, quando parla dei Tirreni che governano sulle isole sacre, e Plutarco: in Vita di Romolo racconta che quando Roma celebrava la vittoria su Veio, città dell’Etruria, i sardi venivano venduti all’asta. E questo succedeva perché i romani erano convinti che gli etruschi fossero coloni dei sardi. Ma ci sono altri indizi: un popolo di mare come gli etruschi che si stabilisce sulle alture appenniniche, come se avesse una terribile paura del mare, e che paga Caronte per essere traghettato nell’isola dei padri. E che dire di tutti i bronzetti nuragici ritrovati nelle tombe etrusche?