l'Unità 31.10.06
Qui Budapest, la voce libera di Fossati
di Vittorio Emiliani
IL RICORDO Fu il primo giornalista italiano ad arrivare nella capitale ungherese. E su l’Avanti! del 23 ottobre 1956 comparve la sua prima cronaca dall’insurrezione
Luigi Fossati fu il primo giornalista italiano ad arrivare a Budapest, nell’ottobre del 1956, cioè all’epoca dei fatti di Polonia e di Ungheria. Il suo primo articolo per l’Avanti! di Milano, dove lavorava da quando aveva poco più di vent’anni (all’epoca ne contava una decina di più) reca la data del 23 ottobre. «Lo ricordo benissimo a Berlino, pieno di vitalità, con la sua 1100 scassatissima - mi dice il “ministro degli esteri” di Berlinguer, Sergio Segre, sodale di quegli anni berlinesi. Abitavamo a Berlino Est dove anche l’Avanti! aveva un ufficio di corrispondenza».
Quando si manifestano a Budapest i primi segnali di reazione all’occupazione sovietica e al regime imposto da Mosca (presidente del Consiglio, Mathias Rakosi, segretario, davvero ottuso, del partito, il burocrate Geroe) Fossati può accorrere più rapidamente dalla sua sede di Berlino Est. Un altro giornalista italiano, Ilario Fiore del Tempo di Roma, è arrivato nella capitale. Il 27 ottobre vi approderà anche Vittorio Mangili inviato della Radiotelevisione Italiana, autore di ottimi e documentati servizi. Più tardi giunge Indro Montanelli, il quale vedrà fortemente incrinato nelle giornate dell’insurrezione il suo cinismo da reazionario (quale si definisce con una punta di compiacimento).
Fossati annota fin dall’inizio: «Le interpretazioni sui fatti di Budapest si accavalleranno, nei prossimi giorni. Assisteremo certo a deformazioni e a interpretazioni di comodo, a speculazioni e a tentativi di minimizzare (…) sentiamo il dovere di sottolineare che i soldati sovietici hanno sparato su manifestanti che, nella loro maggioranza - operai e studenti - non erano nemici del socialismo, ma auspicavano uno sviluppo democratico del loro paese, secondo le proprie tradizioni, secondo i propri bisogni». A rischio della vita, sta fra la gente, nel vivo degli scontri (che racconta con una prosa tesa, lucida, appassionata), segue pure di notte i gruppi giovanili più attivi. I ragazzi agitano bandiere nazionali con lo stemma dell’eroe risorgimentale Kossuth. All’uscita dagli uffici e dalle fabbriche si uniscono a loro impiegati e operai i quali scendono dai tram ormai fermi. Non ci sono incidenti. Fossati nota gruppi «che mostrano di cercare intenzionalmente incidenti… per sfogare rancori e delusioni vecchie di anni. Fino alle venti però non ci furono incidenti». La polizia non interviene, quando è apparsa è stata applaudita, i soldati ungheresi fraternizzano coi dimostranti.
Ora parla alla radio il segretario del partito Geroe. «La sua è una dichiarazione assurda, pericolosa, priva di qualsiasi contatto con la realtà, schematica, provocatoria», osserva a caldo Fossati. «Guardo le persone che mi stanno intorno, mentre l’interprete mi traduce e vedo i loro volti farsi cupi, delusi». Geroe, di fronte a tanta urgenza, rinvia il Comitato centrale ad una settimana più tardi. Poco dopo la polizia interviene con le armi facendo i primi morti: «Ho visto due morti (un ragazzo di vent’anni e una donna di mezz’età) e una decina di feriti … In altre zone della città scoppiano incidenti a catena, si cominciano a udire il crepitare dei fucili, le raffiche di mitra». Una colonna di manifestanti marcia verso piazza Stalin e vi abbatte, a colpi di mazza e di fiamma ossidrica, la statua bronzea del dittatore russo, alta più di quattro metri.
Le sparatorie si fanno più forti e frequenti. Il giornale Szabad Nep diffonde un volantino nel quale «saluta il corteo e la manifestazione possente del popolo di Budapest che ha lo scopo di sviluppare la democrazia socialista e il rinnovamento della vita pubblica ungherese». Fossati si dirige subito alla redazione di Szabad Nep, tentando di collegarsi col suo giornale a Milano. Ci prova per tre ore, vanamente. Non può neppure tornare all’Albergo Duna dove è alloggiato. Sono le quattro del mattino, la nebbia invade Budapest, si odono sempre degli spari anche se più radi. «Ormai si udiva lo sferragliare dei carri armati che stavano arrivando in città», è la conclusione di questo suo primo servizio da Budapest in rivolta, datato 23 ottobre.
È un noto direttore d’orchestra, Mario Rossi, alla guida, allora, dell’Orchestra della Rai di Torino, in Ungheria per concerti, a portare a Milano i primi scritti di Fossati. Sono corrispondenze del tutto «oneste», sul piano politico e cronistico. In Italia le informazioni risultano assai scarse e di parte. L’Unità ha assunto quasi subito un atteggiamento di condanna dei moti ungheresi allineandosi alla versione sovietica. Palmiro Togliatti li ha bollati come «controrivoluzione». I giornali borghesi, dal canto loro, cercano in parte di accreditare (non lo farà invece Indro Montanelli) la versione di una rivolta, tout court, di destra, contro il comunismo.
L’articolo del 24 ottobre ha un titolo esplicito: Operai e studenti sono per il socialismo. I fatti smentiscono dunque la versione che la radio di stato ungherese continua ad accreditare, l’alibi cioè degli «elementi fascisti e reazionari» ai quali la sicurezza è costretta a rispondere col fuoco e i sovietici con essa. Ai gruppi di insorti si affiancano reparti dell’esercito magiaro. L’inviato dell’Avanti! viene sorpreso dal coprifuoco lontano dall’Hotel Duna. Passa la notte in una caserma «improvvisata degli insorti, vicino a piazza Deak». Assiste ad una sorta di assemblea. I giovani sono, nonostante tutto, «ottimisti, pieni di entusiasmo».
Finalmente, il 26 ottobre, il giornale del Pc ungherese deplora la repressione violenta. I sindacati chiedono la cessazione dei combattimenti, la formazione di un governo largamente rappresentativo guidato da Nagy, la costituzione di una Guardia nazionale formata da studenti e operai, l’immediato ritiro delle truppe sovietiche. Anche gli operai sono in armi e presidiano le fabbriche. Finalmente si giunge ad una tregua. «Forse i morti di Budapest - scrive Fossati - sono più di duemilacinquecento, i feriti nell’ordine di sei o settemila». Anche il mestiere del cronista è diventato rischioso. «Oggi un giovane fotoreporter, Jean-Pierre Pedrazzini di Paris Match, è stato gravemente colpito da una raffica e si teme per la sua vita. Due altri colleghi sono rimasti feriti leggermente». L’ex presidente della Repubblica, Zoltan Tildy, ha invitato il primate, cardinal Mindszenty «a tornare nella sua sede e a contribuire alla pacificazione degli animi… Ma comprenderà il cardinale, che in più di un’occasione s’è fatto sostenitore delle posizioni politiche più intransigenti e reazionarie, la situazione particolarmente delicata del proprio paese?» Le notizie si accavallano, febbrili. In una città «che non ha fiori sufficienti per tutti i suoi morti».
Purtroppo il governo di Imre Nagy fatica a controllare la situazione. Rispondendo alla richiesta che sale dal popolo, compie un gesto esemplare e denuncia il Patto di Varsavia pur ribadendo i vincoli di amicizia coi Paesi vicini e con l’Unione Sovietica. Il Pc ungherese si è sciolto per dare vita al Partito operaio socialista ungherese, di cui è segretario Janos Kadar il quale dichiara solennemente: «Il nostro sarà un Partito senza dogmatismi, che si appoggerà alle tradizioni progressive della storia e della cultura ungheresi. Non vogliamo più la dipendenza politica, non vogliamo che il Paese diventi teatro di guerra». L’inviato dell’Avanti! traccia il quadro variegato delle formazioni politiche: oltre al Partito operaio socialista, ci sono il Partito dei piccoli agricoltori, il Partito contadino, il Partito Socialdemocratico che si pensa raccoglierà consensi nei distretti industriali, il Partito cattolico democratico e il Partito popolare democratico. Hanno tutti vita difficile. La socialdemocratica Anna Ketly è bloccata a Vienna dove si è riunita l’Internazionale Socialista.
Domenica 4 novembre il tragico epilogo col ritorno in massa dei carri armati sovietici. Ormai, «circolare per le strade è praticamente impossibile». Lo stesso Kadar è il capo del governo imposto da Mosca. La battaglia torna a divampare. Fossati si mescola agli insorti e parla a lungo con loro, soprattutto con alcuni intellettuali del Circolo Petoefi. «Olasz», italiano, annota, è «un lasciapassare di amicizia». Domenica 11 novembre è il giorno, tristissimo, degli addii, «dopo essere stato testimone per venti giorni dei sanguinosi avvenimenti di Budapest». La capitale è ancora imbandierata, uomini e donne portano «il nastrino tricolore listato a lutto, con un atto di decisione accorata». E conclude: «Il carattere popolare della sollevazione ungherese è innegabile» e lui ha sentito «un obbligo morale» raccontare quei venti giorni con grande scrupolo, cronistico e politico.
Le corrispondenze di Gigi Fossati usciranno nel gennaio successivo con la prefazione di Pietro Nenni, raccolte e arricchite da due saggi, nel primo dei «libri bianchi» che per Einaudi cura proprio quell’Antonio Giolitti uscito, all’ultimo Congresso, dal suo ex partito, il Pci, dopo aver pronunciato un chiaro, inequivocabile discorso di radicale, dissenso. Ha lasciato la sala e il Pci nel gelo della platea. Nel chiudere la prefazione a Qui Budapest di Fossati, Nenni scrive (ed è già un manifesto politico per gli anni a venire) che i fatti ungheresi «investono la stessa concezione comunista della conquista del potere e della dittatura del proletariato, quale si è storicamente configurata nel corso degli ultimi quarant’anni». Certo, il racconto di quei giorni, esaltanti e insieme terribili, che noi ventenni ascoltammo alla radio, in preda ad una grande emozione e commozione, o leggemmo sulle colonne dell’Avanti! soprattutto grazie ad un testimone come Luigi Fossati, ci fece capire che il comunismo era la strada sbagliata, anche in Italia, e che il socialismo democratico era invece quella giusta. Fossati ebbe poi una bella carriera giornalistica, corrispondente del Giorno da Germania, Gran Bretagna e Urss, condirettore (con Italo Pietra) del Messaggero e poi direttore dello stesso giornale sino al 1979. È scomparso, a soli 64 anni, nel settembre del 1991, nella stessa clinica e negli stessi giorni in cui si spegneva Italo Pietra, eccellente conoscitore dell’Est e amico dello scrittore ungherese Tibor Dery.
il manifesto 31.10.06
Germania Incontro con i due leader di Die Linke
Gysi e Lafontaine, prove tecniche di nuova sinistra
«In Germania, e anche in tutta Europa, comincia a emergere il rifiuto delle politiche neoliberali. Ma spesso la protesta sfocia a destra o nel distacco dalla politica. Obiettivo di una sinistra alternativa è ridare risposte e rappresentanza al malessere sociale»
di Luciana Castellina
È il più stravagante e popolare (persino un po' adoccidente, dove il suo partito non riesce a prender voti) dei leaders della austera Pds: Gregor Gysi, qui a Roma su invito della «sorella» Rifondazione comunista, assieme a Oskar Lafontaine, che con lui condivide la direzione del gruppo parlamentare, forte di più dell'8% dei voti conquistati nelle elezioni di un anno fa dalla lista formata dal vecchio partito ex comunista della Germania orientale e dalla nuova aggregazione nata a occidente per protestare contro la deriva neoliberale di Spd e Verde(la Wasg).
È il dissidente più celebre d'Europa, protagonista di un gesto di rottura clamoroso: l'abbandono del partito dove aveva militato per anni, ricoprendo nientemeno che la carica di presidente e di ministro delle finanze, e questo solo poco dopo la riconquista socialdemocratica del governo, perso sedici anni prima. Di lui, l'ex cancelliere Schroeder ha detto, nel libro di memorie appena uscito, che è il più grande uomo politico della Germania e che avrebbe potuto essere a capo del governo, al posto suo, solo che l'avesse voluto. Ma - aggiunge Schroeder - ha avuto paura di assumere questa reponsabilità ed è scappato.
Ricordo quando, indiscusso leader della Spd, eletto a furor di popolo dai delegati del suo partito a un congresso dove l'apparato aveva scelto una figura assai più scialba e moderata, Lafontaine aveva presentato il «suo» candidato alla cancelleria. «Schroeder sembrava il cavallo esposto per la corsa dal padrone della scuderia» - aveva commentato ironico un gionnalista. E così in effetti era. Perché non si era presentato lui stesso alla sfida? Perché poi ha repentinamente abbandonato ogni responsabilitè ritirandosi, silenzioso, per anni, nella sua Sahr? È vero che ha paura?
Sebbene qui per parlare dell'oggi è inevitabile partire da queste domande, che dominano del resto la stampa tedesca in queste settimane, perchè Lafontaine ha naturalmente risposto alla provocazione contenuta nelle memorie del suo ex compagno di partito.
«Che io abbia paura di governare è naturalmente una sciocchezza: sono stato a capo dell'esecutivo, come sindaco e poi come presidente di Land molti più anni di Schroeder. Se ho scelto lui come candidato per la cancelleria è perché ormai sono i media a inventare i presidenti: tutta la stampa tedesca aveva condotto una campagna - non innocente - per imporlo nei sondaggi e non era più possibile fare altrimenti».
Un po come con Segoline in Francia?
«Per l'appunto. La tendenza si rafforza. Ma io con Schroeder avevo fatto un patto. Scritto e sottoscritto: lui, una volta cancelliere, si impegnava ad attuare il programma del partito, punto per punto. E io mi ero anche preso, personalmente, la responsabilità più «rognosa»: il ministero delle finanze. Altro che paura! Quel patto lui l'ha violato. E io non avevo altra scelta: o aprire una tremenda crisi nel partito e nel paese, o andarmene».
Siamo seduti a un tavolo in attesa della conferenza che i due leaders della nuova forza politica tedesca, la quarta dopo Cdu, Spd e Liberali, prima dei Verdi, debbono tenere in una sala del Parlamento, una iniziativa pubblica fra molti incontri istituzionali di alto livello. E nella conversazione si intrecciano le voci di Gysi e quella di Lafontaine, del resto molto consonanti.
La prima domanda è ovviamente sull'Italia: qui i loro compagni del Partito della Sinistra europea sono al governo, loro in Germania hanno rifiutato anche solo l'ipotesi di coalizzarsi con la Spd ( che peraltro, bisogna riconoscerlo, non avrebbe acconsentito). È possibile che sia la socialdemocrazia che il partito della Sinistra che state costruendo cambino d'avviso?
«Perchè si possa - risponde Gysi - la Spd deve tornare a essere socialdemocratica» (in Germania, nonostante tutto, questa parola non ha l'accezione negativa che ha tutt'ora da noi, almeno nella sinistra alernativa. Evoca anzi una tradizione gloriosa, che ancora si rimpiange). «Noi poniamo tre condizioni molto semplici. Primo: uscire completamente dalla guerra in Afghanistan e in Iraq». Però Schroeder non ha mandato truppe in quel paese... «Sì, ma abbiamo offerto le nostre basi aeree perché altri bombardassero. È quasi lo stesso», incalza Lafonaine.
«La seconda condizione - riprende Gysi - è invertire la rotta della politica neoliberale, smetterla con il dumping sociale, garantire un minimo di giustizia sociale. Per esempio: introdurre il salario minimo garantito, come lo Smig in Francia. Infine: rendere la condizione della gente dell'est uguale a quella dell'ovest. Il nostro paese è tutt'ora diviso in due».
Tutti parliamo di un'alternativa al neoliberismo, ma per ora nessun governo di sinistra, o meglio di centrosinistra, perchè questi abbiamo avuto e abbiamo, è riuscito a praticarla. Cosa avete in mente voi per battere la Cdu?
«Innanzi tutto - dice Gysi - se non si fa una politica alternativa la Cdu, così come le forze politiche analoghe, sono destinate a vincere sempre». «Il fatto è - aggiunge Lafontaine - che la sinistra ha perduto nella società, non ha più egemonia. Il neoliberismo in questi ultimi vent'anni ha penetrato la cultura della stessa sinistra. È anche per questo che dobbiamo costruire un nuovo partito, un partito 'gramsciano', che si ponga l'obiettivo di riconquistare l'egemonia. Stiamo cercando di farlo. E non sono pessimista. Perchè c'è un nuovo problema sociale emergente, una nuova classe mal pagata, senza sicurezza nè avvenire. I precari sono oggi in Germania 10 milioni. Diffidano della democrazia, non partecipano alle elezioni, non hanno rappresentanza. Così come del resto i piccolissimi imprenditori, espulsi dal mercato, anche loro in qualche modo precari. Dobbiamo cercare di dargliela, una nuova rappresentanza».
Per fare un nuovo partito dovete anche creare una coalizione fra est e ovest: la presenza del Partito della Sinistra è tutt'ora del tutto sproporzionata, vuol dire che non c'è intesa fra i due pezzi di società. Come fare?
«Il fatto è che quelli dell'ovest guardano a quelli dell'est accusandoli di esser responsabili dei loro nuovi guai; quelli dell'est guardano a quelli dell'ovest giudicandoli complici dei loro disagi. E nessuno guarda invece in alto, a chi detiene le vere reponsabilità. Bisogna creare fiducia reciproca, prima di tutto».
Né Oskar né Gregor sono comunque sfiduciati, anzi. «Il pendolo sta girando - dicono. Comincia a esserci un rifiuto dei valori e delle ipotesi neoliberali».
E però nelle ultime elezioni, quelle per il Senato di Berlino, non solo avete perduto parecchi voti ma i due tronconi del nuovo partito, la ex Pds ora partito della sinistra e la Wasg, l'aggregazione dell'ovest, hanno addirittura presentato due liste distinte, quest'ultima disperdendo il 3,5 per cento dei voti, perché non è riuscita a passare lo sbarramento del 5 per cento.
«Proprio il fatto che ci siamo presentati divisi è all'origine della nostra flessione. Ma non bisogna sopravvalutare il fatto - dice Lafontaine - perchè a Berlino, ma solo qui, abbiamo un gruppo che resiste fortemente all'unificazione con la Pds. Non è così ovunque».
In questi giorni sono in corso negoziati fra Wasg e Pds da un lato e Spd dall'altro per ridar vita alla coalizione che ha governato il Land della capitale negli ultimi quattro anni, la prima coalizione «rosso-rosso» (la Spd viene chiamata ancora con questo colore) che si sia mai avuta in Germania. Cosa farete, ripeterete l'esperimento che pure è costato così caro, perchè la Pds ha dovuto condividere i pesanti tagli alla spesa sociale operati dal Senato, e che ora rischia di essere anche più grave, visto che la Corte ha ritenuto che i debiti di Berlino, essendo eccessivi e ingiustificabili, non debbano esser ripianati dal governo federale?
«Credo che il negoziato andrà in porto e che la coalizione si rifarà - dice Lafontaine - ma chiediamo qualche garanzia perché non si ripeta quanto è accaduto in passato. Una soluzione al deficit c'è, è una nuova politica fiscale. In Germania la media del contributo è la più bassa d'Europa: 34per cento contro la media europea che è a 40, senza contare i paesi scandinavi dove è al 50 e più. Con l'introito si potrebbero ripianare tutti i deficit pubblici. Ma è evidente che una decisione simile può prenderla solo il governo federale. E comunque occorrerebbe un'armonizzazione fiscale nell'Unione europea. E non dovrebbero esserci gli obblighi di Maastricht. In fondo una cosa buona Schoreder l'ha fatta - commenta Lafontaine - non ha tenuto conto di Maastricht e ha sforato allegramente il tetto previsto. Il risultato è che oggi in Germania c'è una ripresa economica che altrove manca».
È difficile unire in un solo partito anime e tradizioni culturali così diverse come quelle che si stanno congiugnendo ora nel Partito della sinistra? Da noi in Italia vediamo quanto pervicaci e resistenti sono le radici di ognuno....
«Sì è difficile», rispondono i due leader quasi in coro. «Ma ci sono oggi nuove domande sociali che hanno bisogno di nuove risposte, dunque di nuove culture». «Il rinnovamento della Pds - aggiunge Gysi - è stato più complesso proprio perchè avevamo scarsissimo contatto con la «Germania occidentale, siamo rimasti un partito popolare (e spesso di governo, a livello locale) dell'est. Ora abbiamo l'occasione per cambiare. Così come i sindacalisti dell'ovest avranno la possibilità di capire meglio l'est».
Un'ultima domannda a Lafontaine. C'è speranza di un recupero della Spd? Qual è la forza delle sue correnti di sinistra?
«La mutazione del partito è stata profonda e ha intaccato anche la sua sinistra. Non c'è più niente che somigli al Frankfurter Kris, la potente corrente di sinistra che per molti anni ha avuto molta influenza sul partito. Deve prima cambiare la società, è qui che deve esserci una ripresa dell'egemonia della sinistra. Deve cambiare il Zeeitgeist, lo spirito del nostro tempo»
TgCom 31.10.06
"La prigione non mi fa paura"
La verità della Franzoni in un libro
''In tutti questi anni non sono mai stata angosciata dalla prospettiva del carcere, o del manicomio. Sono stata inquisita come responsabile dell'omicidio di Samuele e condannata in primo grado. Questa certezza accusatoria mi perseguita". E' quanto scrive Annamaria Franzoni, condannata a 30 anni per l'omicidio del figlio, nel libro ''La verita''' in uscita il 12 novembre e di cui il settimanale Gente pubblica alcuni stralci.
Il libro della Franzoni scritto con l'inviato di Gente Gennaro De Stefano si apre con il ricordo di Papa Giovanni Paolo II, che, nel luglio del 2001, in vacanza in Valle d' Aosta e, di passaggio vicino a Cogne, prese in braccio e accarezzò il piccolo Samuele, "un ricordo che io e mio marito Stefano conserviamo gelosamente''. Nel volume dopo aver ripetuto ''Non sono un'assassina, e non sono pazza. Sono soltanto una madre'', la donna ripercorre, attimo per attimo, le emozioni provate la mattina del 30 gennaio 2002, a Cogne, quando lei è appena rientrata nella villetta dopo aver accompagnato allo scuolabus il figlio maggiore. ''Il piumone copre completamente il letto - si legge - penso che Samuele si sia nascosto per farmi lo scherzo del cucu, ma, nello stesso momento, sento un respiro strano, prendo il piumone e lo alzo, buttandolo sul letto. Un sussulto. Urlo Samuele, ma la voce è affogata. Lo choc è grande, un tonfo al cuore, tutto si ferma e il respiro manca. Sobbalzo indietro, non capisco ciò che vedo, non capisco, lo chiamo ma lui è lì fermo, solo un rantolo del respiro, gli occhi socchiusi, il viso pallido, bianco, tanto sangue intorno a lui. Una grossa e profonda ferita in mezzo alla fronte fino all' occhio (...) lo tocco, mi accorgo di avere sul dito una sostanza bianca (...) penso che forse mi ha chiamato talmente forte che, insistendo, gli è scoppiata la testa''.
Poi, dopo aver raccontato del suo arresto in piena notte a casa del padre, la triste e rassegnata ammissione: ''Ero certa che non sarei sopravvissuta a un figlio, perché non c'è dolore più innaturale, straziante e terribile (...). Sono stata inquisita come responsabile del suo omicidio assurdo e condannata in primo grado. Secondo la giustizia italiana, l'avrei ucciso con lucidità, cinismo e spietata freddezza. Poi un gruppo di cosiddetti scienziati della mente, senza mai incontrarmi, ha stabilito che soffro di crepuscolo della memoria e che, se a uccidere mio figlio sono stata io, allora in quel momento ero inferma di mente (...). 'Non può essere stata che lei è la frase più ricorrente, perché in quella stanza non c'era nessun altro''. Questa certezza accusatoria mi perseguita fin dalla detenzione alle Vallette di Torino (...) dove il magistrato, anche sulla base di una consulenza errata, mi disse: ''Non le credo, lei capisce. Gli zoccoli... chi poteva indossare i suoi zoccoli?''. Ma la Franzoni, con amarezza aggiunge: ''Alla fine gli zoccoli, assunti dal pm come prova della mia colpevolezza, persero di significato. Io, intanto, m'ero dovuta difendere da un'accusa basata su una prova non veritiera''.
La ''mamma'' di Cogne conclude così il suo racconto: ''In tutti questi anni non sono mai stata angosciata dalla prospettiva del carcere, o del manicomio. La detenzione mi ha sempre fatto meno paura dell'ospedale psichiatrico, è vero, ma io non ho mai accettato nessuna delle due ipotesi".
Infine l'ammissione dell'angoscia più grande che la perseguita dal 30 gennaio del 2002: "Nel pozzo nero nel quale qualcuno, volontariamente o no, mi sta facendo sprofondare, il terrore è sempre stato solo quello, pur volendolo con tutte le mie forze, di non riuscire a conoscere il nome dell'assassino del mio piccolo Samuele (...) ucciso in quel modo da qualcuno che ancora gira libero''.
Liberazione 31.10.06
Intervista a Franco Giordano. “L’Unione deve respingere le ingerenze. Non basta dire che non c’è alternativa a Prodi: non c’è alternativa al programma”
«Con la minaccia della Grande Coalizione Confindustria vuole spingere a destra il governo»
di Stefano Bocconetti
Franco Giordano è in una pausa del seminario con i leader della sinistra tedesca, della Linke. Gli portano le agenzie della mattinata. Dove, come ormai accade da qualche giorno, tiene banco il tema della “grande coalizione”. Molti -a destra - la invocano, anche se ieri è stata un po’ la giornata delle “seconde file”. Ma sono anche tanti quelli che, magari dopo qualche ambiguità iniziale, ora la negano. Senza mezzi termini. Fassino per fare l’esempio che conta di più. E’ netto come rare volte gli è capitato: «Centrosinistra e centrodestra sono alternativi», dice. Resta il fatto però che il tema è entrato nell’agenda politica.
«La destra fa il suo lavoro, non c’è dubbio. - dice il segretario del Prc - Però a me piacerebbe che chi, nel nostro schieramento, avesse voglia di larghe intese si fermasse un attimo ad analizzare quel che è successo davvero in Germania. Sarebbe bastato che fosse venuto qui, al nostro seminario».
E cos’è accaduto in Germania?
Che la socialdemocrazia è crollata e che il governo con la destra è quasi paralizzato. Col risultato di una crescita della passività politica delle persone, che ha portato a cifre di astensionismo sconosciute in Germania. E con una politica sociale che ha prodotto solo una ripresa del conflitto. Per dirne una, è di pochi giorni fa, un’imponente manifestazione contro le scelte economiche della Merkel e dei suoi alleati.
Come si traduce questo in Italia?
Che chi dalle nostre parti fosse attratto da quella sirena deve sapere che il risultato sarà la distruzione dei soggetti politici organizzati. In particolare i diesse, esattamente come sta avvenendo coi socialdemocratici in Germania. Ma anche la Margherita difficilmente ne uscirebbe indenne.
Eppure gran parte del dibattito politico italiano ruota attorno a questa proposta.
Ecco il punto. Io non credo che gli ispiratori di questa proposta pensino davvero alla possibilità di una Grosse Koalition a Roma. Questa opzione però viene usata esattamente come una frusta. Viene agitata, viene mostrata non tanto e non solo per disegnare un diverso quadro politico, quanto per imporre, qui ed ora, politiche neocentriste, neoliberali.
Gli ispiratori, dici. Chi sono? Le destre? Berlusconi? Casini?
Più semplicemente la Confindustria. Montezemolo, i suoi giornali. Hanno deciso di intervenire nelle scelte programmatiche del governo, hanno deciso che è arrivato il momento di ridimensionare il ruolo di Rifondazione, della sinistra della maggioranza. E guarda che tutto ciò è di una gravità senza precedenti.
Senza precedenti? Ma l’associazione degli industriali non è nata proprio per strappare soldi e commesse dai governi? Da tutti i governi?
Mai però era accaduto quel che sta avvenendo in queste settimane, in questi giorni. Con la Confindustria - e i suoi strumenti - che entrano direttamente, senza mediazioni, nella politica. Nella sfera autonoma della politica. Dettando programmi, formule di governo, dettando alleanze ai partiti.
Ma perché proprio ora?
Perché finita la Finanziaria, sono convinto che comincerà la partita vera. Quella sulla riforma delle pensioni e su tutti quei temi che si dovranno discutere a quello che chiamano “il tavolo delle compatibilità”.
Cosa vuole davvero Montezemolo?
A me sembra chiaro. Vogliono elevare l’età pensionabile, per garantirsi la lucrosa gestione dei fondi pensione. E vogliono, finalmente - finalmente per loro - arrivare a quello che il contratto dei metalmeccanici è sempre riuscito a stoppare: la flessibilità degli orari di lavoro.
A quel punto, che fa la sinistra?
Inutile spiegare che per noi quei temi sono irricevibili. Non se ne parla nemmeno. Ma aggiungo che a chi vuole difendere davvero questo governo non può più bastare la cautela. No, non può bastare.
Che vuoi dire?
Che davanti all’offensiva della Confindustria, non basta più dire che occorre stare tranquilli, o limitarsi a spiegare che non esiste una “fase due”. Così come non basta più sostenere che questa maggioranza non ha alternative. Credo che a questo punto, sia diventato indispensabile far capire che non esistono alternative al programma dell’Unione. Voglio essere ancora più chiaro: mi fa piacere sentire che molti, anche oggi, insistono sul fatto che l’Unione deve essere autosufficiente. Benissimo, ma bisogna fare un passo in più: l’importante è che le pretese confindustriali non “entrino” nelle scelte di questo governo, nelle sue opzioni strategiche.
E siamo alla cronaca, al vertice di sabato a Villa Pamphili.
Vedi, anche lì. Io sono d’accordo con Rutelli quando dice che c’è la necessità di aumentare il consenso sociale attorno al governo. Ma il punto è proprio questo: il consenso lo si recupera facendo leva sul programma, come io credo, o c’è qualcuno che pensa ad altro? E poi, a cosa pensa?
Già, a che cosa pensano?
Davvero non lo so. E ti dico di più: credo che lo stallo nella definizione di una piattaforma riformista, quella che avrebbe dovuto essere alla base del partito democratico, diventa uno dei varchi dentro cui passa la Confindustria. Senza progetto, insomma, Montezemolo ha gioco facile ad imporre il suo.
Per capire: stai dicendo che i “riformisti” sono generici? E’ così?
Sento che Rutelli, e anche un po’ Fassino, dicono che ora è arrivato il momento del rilancio della crescita. Ma esattamente che vuol dire? Non capisco. A quello, non doveva essere destinato il cuneo fiscale? Alle imprese sono finiti 2,5 miliardi di euro, saranno cinque i miliardi di euro a regime. Soldi - diciamocelo, francamente - distribuiti sulla base della vecchia filosofia per cui il taglio del costo del lavoro fa sviluppo. Ipotesi falsa, sbagliata, negata dalle vicende di questi anni. E ora che vogliono? Chiedono altri soldi? E c’è ancora qualcuno disposto a darglieli? Non mi pare che si possa neanche discutere di questo.
E allora, tornando al vertice, com’è andato davvero?
Mi sembra che sia andato bene soprattutto per un elemento. Che tutti - ma proprio tutti - abbiamo deciso di rinsaldare il legame col blocco sociale che ha consentito di mandare le destre all’opposizione. E le possibilità di emendare, di modificare la Finanziaria mi sembra che siano inserite in quell’obbiettivo. Per capire: dobbiamo garantire che fino a 40 mila euro - netti, parlo di netto - anche se piccolo, dovrà esserci un primo risarcimento. Dovrà vedersi in busta paga, insomma. E dobbiamo parlarne già da domani (oggi per chi legge c’è il vertice dei capigruppo sull’argomento, ndr). Così come non dovrà esserci l’obbligo alla privatizzazione dei servizi pubblici, quello che pretendeva la Lanzillotta. Restare al programma, insisto. E tornare ad ascoltare la nostra gente. Penso ai pensionati in piazza oggi, ai ricercatori, agli universitari, tutti in lotta per chiedere più risorse. E penso ai precari che saranno in piazza il quattro novembre. Mobilitazioni che devono trovare un governo in grado di ascoltare.
Visto che ci siamo, parliamo anche delle altre sollecitazioni esterne. Quelle che arrivano, per esempio, per cambiare subito la legge elettorale. In senso ipermaggioritario. Che ne pensi?
Al vertice siamo stati chiarissimi. Anche a noi, ovviamente, interessa, come a tutti i democratici, modificare questa legge, brutta e sbagliata. Noi pensiamo ad una soluzione alla tedesca. Se ne può discutere, comunque. L’unica cosa che non si può fare è che qualcuno, magari attraverso il referendum, provi a rafforzare il potere dei partiti più grandi, a scapito non delle forze più piccole, ma a scapito della rappresentatività del sistema elettorale. Questo aprirebbe un problema serissimo all’interno della coalizione. Ecco perché abbiamo chiesto che non ci sia alcun apporto al referendum da parte delle forze organizzate dell’Unione. Altrimenti, come dire?, liberi tutti.
E Prodi?
M’è sembrato importante il suo assenso.
L’ultima cosa. Ma dì la verità: sei tranquillo per il voto sulla Finanziaria? Anche al Senato?
I numeri sono quelli che sono, lo sappiamo tutti. Però io sono convinto di una cosa: che la compattezza della maggioranza al Senato può essere la condizione per aprire contraddizioni fra le destre. Per questo atteggiamenti come quello di Dini o di De Gregorio mi sembrano francamente inaccettabili. Semplicemente perché aprono la speranza alla destra. Che altrimenti non ne avrebbe.
Liberazione 31.10.06
Il presidente della Camera ieri a Torino per la conclusione di “Terra Madre”
Bertinotti: «La grosse-koalition sarebbe un tradimento»
di Checchino Antonini
«Anche la democrazia deve lottare contro le sofisticazioni. Come il cibo». Quando Fausto Bertinotti ha concluso così il suo intervento dalla tribuna di “Terra Madre”, l’incontro mondiale delle comunità del cibo, c’è stato chi s’è chiesto se, tra le adulterazioni della politica, ci sia la grosse-koalition che aleggia a intermittenza sul dibattito politico nostrano, già da prima delle elezioni.
Il cibo, d’altra parte, è una potente metafora della politica se è vero che «il cibo è cultura e l’uomo è ciò che mangia». Le migliaia di delegati di Terra Madre lo reclamano «buono, pulito, giusto», con le parole di Vandana Shiva, fisica ed economista indiana, figura di spicco del pensiero no-global. E quei tre aggettivi dovrebbero connotare anche la qualità della politica. E così si augura anche il ministro degli Esteri D’Alema chiudendo i lavori. Allora c’entra la grande coalizione? C’entra. ma non è una causa in sé. E’ la conseguenza di un processo in cui «l’economia prende il sopravvento sulla politica. Un processo da mettere radicalmente in discussione», si augura il presidente della Camera a margine dell’assemblea di contadini, cuochi, pescatori, nomadi ricercatori di cinque continenti. Dopo il tormentone domenicale innescato dalle anticipazioni del nuovo libro di Vespa, Bertinotti chiarisce ai cronisti che la coalizione ampia «è un tradimento del mandato elettorale, una lesione dello spirito profondo della democrazia». Anzi, sarebbe, perché il problema di un governo di larghe intese che arrivi a scalzare Prodi, semplicemente, «non esiste». Uno scenario che lui non immagina. Bertinotti scommette sulla durata del Professore, «con tutti i suoi problemi». Non che gli sfugga «la sotterranea agitazione sul tema». Ma, quando a tirarlo fuori è stato Berlusconi, «è stato rifiutato esplicitamente e unanimemente da tutto lo schieramento della maggioranza».
6500 delegati in rappresentanza di 1600 comunità sparse per il pianeta e messe in connessione da internet. Non hanno una struttura piramidale e nemmeno la cercano. Terra madre - parole di Vandana Shiva - «è un’alleanza globale in difesa delle singole diversità». A Bertinotti, platea e palco così varipopinti, fanno venire in mente l’assemblea dei Sem Terra brasiliani di Porto Alegre. Prima di lui “Carlin” Petrini, fondatore di Arcigola, prima, e di Slow food poi, aveva introdotto l’ultima delle cinque giornate di dibattiti in parallelo al Salone del Gusto, abitato nelle stesse ore da 200mila visitatori. E’ la seconda volta che Terra madre, scadenza biennale, “contamina” la principale kermesse enogastronomica italiana. E se dieci anni fa, il 75% degli espositori del salone erano commercianti e il rimanente produttori, oggi quella relazione s’è invertita. Una missione che pareva impossibile, tacciata di anacronismo, e che Carlo Petrini, «sciamano riconosciuto» - per Bertinotti - indica «riconquista della centralità del cibo». Sarebbe «un’ovvietà» ma l’economia di mercato trasforma le persone in consumatori e consumati, produce disastri ambientali e umanitari. Terra madre, invece, crea («ogni produttore è creativo») gesti di fraternità altrove impossibili come quando, incontrandosi al Lingotto le delegazioni mediorientali hanno bagnato il pane nel sale.
Giusto, il Lingotto. C’era una volta una fabbrica, sorta dalla «lunga e tormentata fase dell’industrializzazione del nord del mondo», spiega ai convenuti l’ex sindacalista divenuto da sei mesi il presidente della Camera dei deputati. Sono stati gli operai di fabbriche come questa a «costruire la democrazia ma al prezzo del cibo e della memoria oscurata dalla crescita impetuosa e contraddittoria». Intrecciando globale e locale, Bertinotti entra in sintonia con la platea. Racconta delle Langhe che Nuto Revelli aveva visto come “Terra dei vinti” e che ora sono state reinventate dalla riscoperta di saperi e sapori antichi. Dice di papà Cervi che andò in Urss e riuscì a conversare con contadini della Moldavia, contadini come lui, senza sapere una parola di russo. «La cultura di chi produce è universale», segnala Bertinotti. Quello che tiene insieme le comunità del cibo è «il cemento dell’intelligenza affettiva», aveva detto anche “Carlin”. E’ il contrario della globalizzazione reale, «gigantesca ristrutturazione del capitalismo» che trasforma natura e umanità in «variabili dipendenti dall’economia». Bertinotti l’ha imparato a Marcinelle da un vecchio minatore che gli spiegò di come il carbone valeva più della vita umana: «Non ci sia più nulla che valga più della vita», dice allora ai produttori di vita. Vandana Shiva la globalizzazione la chiama «fascismo del cibo» perché produce malnutrizione al sud e obesità al nord, desertificazione e distruzione delle biodiversità ovunque. E uccide e solo in India - denuncia - processi come la cosiddetta proprietà intellettuale dei semi - l’80% è di Monsanto - hanno indotto 140mila suicidi tra gli agricoltori poveri. E semina contraddizioni la globalizzazione. Per dire: Lula stravince in Brasile, e tutti applaudono. Bertinotti vi riconosce il «rinascimento latino americano» malgrado «la sua esperienza di governo difficile e controversa». Vandana ricorda che quel Paese è anche il maggior produttore mondiale di semi di soja ogm. Altra contraddizione: Vandana incita a sfruttare «l’agonia del Wto». D’Alema la fredda: «Sarebbe un guaio, dobbiamo aprire i nostri mercati». Ma anche lui riconosce che «l’omologazione è totalitarismo» e che si potrebbe interpretare «in un modo diverso il mondo globale». Lui lo chiama multilateralismo. Chissà però se s’è riportato alla Farnesina il “Manifesto per il futuro dei semi”, programma che i delegati riporteranno nei rispettivi territori per cercare alleanze in nome della libertà: dalle privatizzazioni, dai brevetti, dalla biopirateria, dalle tecnologie suicide (perché le sementi ibridate non si riproducono) che producono i «semi della schiavitù». Prossima stazione, a gennaio, il Forum sociale mondiale di Nairobi e fra due anni di nuovo a Torino.
I delegati si scambiano saluti e doni, abbracciano il loro “sciamano”, i cronisti riportano le domande sulla politica italiana mentre il presidente della Camera si avvia a concludere il breve tour nella “sua” Torino con una visita alla mostra sulla “Rinascita del Parlamento. Dalla Liberazione alla Costituzione (50mila visitatori tra Roma, Genova e Torino, ndr) ”. «Che effetto le fa sentire che è la destra a scendere in piazza contro la Finanziaria?». «In un certo senso è un bene - risponde Bertinotti - vuol dire che sta all’opposizione».
Liberazione 31.10.06
Intervista ai due portavoce del gruppo unico Die Linke-Pds al Parlamento tedesco. “Oskar il rosso”: «Ci vuole una ripartenza, dobbiamo saper parlare ai precari»
Lafontaine e Gysi: «Una sinistra nuova con una nuova lingua»
di Anubi D’Avossa Lussurgiu
Oskar Lafontaine e Gregor Gysi in Germania sono, in due persone, la voce unica del gruppo parlamentare di “Die Linke”-Pds: nato dal processo di convergenza del Partito della sinistra democratica a dominante tedesco-orientale e della Wasg che all’Ovest ha scelto l’uscita da sinistra dalla crisi socialdemocratica dell’era Schroeder. Un esperimento che ha dato abbondanti frutti nelle ultime elezioni tedesche. Mentre lo sviluppo ulteriore delle scelte della punita Spd è stato il governo di Grande Coalizione con i democristiani e cristiano-sociali della Cdu-Csu, che lo guidano con la cancelliera Angela Merkel. Fuori da questo gioco, Die Linke è un pezzo importante, significativo oltre le dimensioni nazionali, della vicenda della “Sinistra europea”. In qualche modo, questa si misurerà anche nei successi e nei limiti che incontrerà questa sinistra tedesca.
Ai due presidenti della rappresentanza di “Die Linke”, a Roma, chiediamo come e dove va quest’esperienza di sinistra nuova, in quel quadro politico tedesco. Parla Gysi, ex segretario della Pds. «E’ lui l’esperto», commenta Lafontaine. E Gysi la prende da lontano, apparentemente: «La sinistra - dice - ha dovuto subire una dura sconfitta in Europa e nel quadro globale. Il crollo del “socialismo di Stato” ha colpito anche la sinistra democratica. Quando ho fondato la Pds l’obiettivo era, in sostanza, trovare una via di salvezza per quel che c’era da salvare, ossia la giustizia sociale. Allora dissi che una nuova idea per la sinistra poteva venirci da quanto accadeva in America Latina. E in effetti questo adesso sembra confermato con gli esperimenti in corso, anche al governo, come in Venezuela e Bolivia. Anche in Europa, gli sviluppi del capitalismo fanno ora sì che la sinistra ridiventi una calamita di consensi. In Germania, dove la Pds era diventata un grande partito all’Est ma non all’Ovest, quando Schroeder ha insediato il suo primo governo la gente ha pensato a possibilità di miglioramenti. E’ sulla delusione di queste aspettative che è nato un nuovo partito di sinistra ad Ovest, una formazione socialista a sinistra della Spd, per la prima volta dal 1949. Nel 2005 ci siamo uniti e questo ci ha fatto raggiungere risultati singolarmente impensabili. Il processo, ora, va avanti - conclude Gysi -; il 16 giugno 2007 si formerà organicamente il nuovo soggetto, con il congresso costitutivo». E qui Lafontaine aggiunge, scandendo in italiano: «E’ quello che voi chiamereste congresso d’unità».
E’ ad “Oskar il rosso” che chiediamo quanto e come questa «unità» configuri una possibilità di rappresentanza efficace. Lafontaine ci risponde filosoficamente: «Puntiamo al fatto che lo spirito dei tempi (Zeitgeist) cambi. Intanto è cambiata la società, per la prima volta in Germania c’è un precariato diffuso. Sono 10 milioni di persone non rappresentate dai partiti classici. E non a caso la metà dei tedeschi tende ora a non andare alle urne. Così se i due grandi partiti, Spd e Cdu-Csu, sommati hanno il 62 per cento, in realtà rappresentano per il 31. C’è - chiosa l’ex leader e ministro socialdemocratico - un grande problema democratico. E il nuovo partito dovrà presentarsi anzitutto come un progetto per la democrazia». Come, però? «Deve, intanto, lavorare fianco a fianco con i sindacati e i movimenti. Si tratta anzitutto di conquistare una nuova credibilità politica. Perché il dramma degli ultimi decenni è stato questo: l’abbandono della rappresentanza sociale da parte della sinistra». Lafontaine prende una pausa e riprende pensosamente: «Ci vuole una ripartenza, con un’azione che riconquisti fiducia. Prendiamo gli studenti: vogliono lavoro e reddito ma anche loro possono inviare centinaia di curricula senza ottenere altro che precariato. E’ interessante vedere se Die Linke riesce ad intercettare questo disagio».
Ma, intanto, c’è la Grande Coalizione: non rischia di acuire quella crisi democratica, al tempo stesso bloccando il quadro politico? «Sulla prima parte hai ragione, certamente è un fattore di crisi ulteriore», annuisce Lafontaine. E prosegue Gysi: «Ma per noi la Grosse Koalition rappresenta anche una chance per affermare una maggiore credibilità. Naturalmente, sarebbe meglio se fossimo già uniti. E il processo unitario comporta l’impegno degli otto decimi del tempo». Come contate, allora, di qualificare il nuovo soggetto rispetto a questo quadro? Risponde ancora Gysi: «Avremo un nuovo programma e un nuovo statuto. E una nuova composizione dei delegati. Saremo a tutti gli effetti un partito nuovo. Anche agli effetti giuridici». E Lafontaine commenta: «Saremo riuniti sotto una nuova bandiera». Poi, sorridendo, prosegue in italiano: «Una rossa bandiera». Serio, soggiunge: «Un nuovo programma sociale, soprattutto, che sia in grado di esprimere la passione dell’utopia».
A proposito: la pace. Il governo di Grande Coalizione ha appena pubblicato il Libro bianco della difesa, nel quale si ripromette di rompere i “tabù” che parevano positivamente acquisiti in Germania e indica l’orizzonte della «proiezione globale» della «forza militare tedesca». Si anima Lafontaine e interviene con foga: «E’ la continuazione della politica del governo Schroeder, sin dai tempi del Kosovo». E Gysi: «Allora la Cdu si arrabbiò solo perché non erano loro a guidare l’intervento». Riprende Lafontaine: «Si può dire che in Germania, su questo piano, c’è da 10 anni una Grosse Koalition che comprende non solo Spd e Cdu-Csu, ma anche verdi e liberali. Io pongo sempre, al Bundestag, la domanda: cos’è il terrorismo? Siamo i soli a darne una definizione. A dire che il terrorismo è l’uccisione di innocenti in spregio al diritto. Sosteniamo che perciò è terrorismo l’11 settembre, come lo sono gli attentati kamikaze: e che lo sono anche le guerre in Afghanistan e in Iraq. E siamo i soli a sostenere che il terrorismo non può essere combattuto col terrorismo». Conclude Oskar il rosso: «La nuova sinistra serve anche ad avere una nuova politica estera. E la nuova sinistra deve parlare una nuova lingua. Noi pensiamo in concetti, ma i concetti sono quelli informati dal neoliberismo. Dobbiamo condividere una nuova grammatica e un nuovo lessico».
Se è così, e se è chiaro che questa “missione” deve dotarsi quanto meno d’una dimensione europea, qual’è la vostra aspettativa nella sinistra europea? E visto che si parla di rappresentanza, il passaggio delle elezioni europee del 2009 vedrà affacciarsi novità di una qualche potenza e influenza sui destini dell’Ue? Lafontaine fa ancora il filosofico: «Non siamo che all’inizio del processo. E c’è un detto poetico tedesco: ogni inizio riserva una magia». Interpola Gysi: «L’esperienza si sta costruendo, il 2009 potrà essere una verifica, adesso è il momento di un vero slancio, ma i cambiamenti ce li aspettiamo dopo». Riprende Lafontaine: «Comunque, si vede luce al fondo del tunnel. C’è stato il no al Trattato costituzionale europeo, per la sua genesi ademocratica e i contenuti socialmente insoddisfacenti, in Francia e nei Paesi Bassi. Poi la lotta contro la direttiva Bolkestein. Poi gli scioperi dei portuali e la grande lotta che ha sconfitto il Cpe in Ffrancia. Per la sinistra che intendiamo la questione è costruire un programma davvero alternativo, a livello europeo. Qualcosa che abbozzi una nuova, effettiva Costituzione per l’Europa».
Liberazione 31.10.06
I leader tedeschi della Die Linke incontrano il segretario del Prc,
la vicepresidente del gruppo alla Camera Mascia, la senatrice Gagliardi
Sinistra europea, identità e culture a confronto
di Angela Mauro
Il proletariato non c’è più. Al suo posto c’è il precariato. Parola di Oskar Lafontaine. E’ questa una delle fondamentali cifre del nostro tempo e senza decifrare il nostro tempo la sinistra non può fornire risposte alla crisi del neoliberismo, ragiona “Oskar il rosso” che insieme a Gregor Gysi, ex leader della Sed della Germania dell’est, dà battaglia alla Grande Coalizione di Angela Merkel nel gruppo parlamentare della Die Linke, collocato all’opposizione a Berlino e nella Sinistra Europea con Rifondazione comunista in Europa. Lafontaine e Gysi si sono confrontati con il segretario nazionale del Prc Franco Giordano, la vicepresidente del gruppo di Rifondazione alla Camera Graziella Mascia, la senatrice del Prc Rina Gagliardi nel dibattito “Identità e culture per la Sinistra del XXI secolo”, organizzato da Rifondazione comunista in occasione della visita a Roma dei due capigruppo tedeschi al Bundestag.
«Per individuare i compiti della nuova sinistra, dobbiamo prima chiederci cosa c’è di nuovo nella società», pungola Lafontaine che elenca subito i dati. «C’è un capitale finanziario internazionale che conta solo 500 grandi gruppi come produttori di più della metà dei prodotti a livello mondiale; c’è un flusso di denaro costituito per il 95 per cento da speculazioni finanziarie e per il restante 5 per cento da economia reale, mentre prima avveniva esattamente il contrario; non c’è più il proletariato, ma c’è il precariato, vale a dire ci sono sempre più persone con contratti di lavoro non duraturi, con nessuna sicurezza sul piano sociale, impossibilitate a programmarsi un futuro». Sono le conseguenze di un nuovo tipo di capitalismo che reca in sé anche la «riduzione della democrazia». Spiega Lafontaine: «I precari non vengono alle manifestazioni, non hanno le forze per farlo. Inoltre, non votano e non si presentano alle elezioni». Ed ecco la prima risposta: «Nella democrazia classica la partecipazione alla vita politica era definita dalla proprietà, dal posto di lavoro. Ora: le sinistre non sono solo un movimento che deve definire lo stato di diritto in senso classico, ma servono a rinnovare la democrazia». La sinistra, insiste Lafontaine, deve interrogarsi sul «nesso tra potere e proprietà». Eludere questo interrogativo, significa «non arrivare a risposte», significa che la «precarietà continua a crescere».
In America Latina, Chavez e Morales hanno dato delle risposte. Ora tocca all’Europa, dove non ha fornito soluzioni la “Grosse koalition” tedesca, quel tentativo, sempre più invocato in Italia, di «far poggiare su spalle più larghe riforme impopolari». Gli ospiti tedeschi elencano i risultati negativi della Grande Coalizione della Merkel: «Calo di consensi, aumento dell’astensionismo elettorale, maggiore conflittualità sociale». Giordano coglie la palla al balzo: «Se qualcuno pensa di seguire la stessa strada in Italia, non si sfugge: questo è il rendiconto. Siamo contrari alla Grande Coalizione e se il progetto maturerà davvero, cosa che non pensiamo possa accadere, noi saremo all’opposizione». Ma attenzione: ci sono anche i tentativi di stravolgere il programma dell’Unione e attuare una politica economica e sociale che vari riforme in stile “larghe intese”, anche se targata come centrosinistra. «No - redarguisce il segretario - Vogliamo una politica economica fatta di risarcimento sociale, in linea con il programma dell’Unione».
«La sinistra in Europa ha una nuova possibilità», è l’ottimismo di Gysi che ricorda i tempi in cui, fino a due anni fa, in Germania «non si sentiva il bisogno di una forza che stesse a sinistra della socialdemocrazia di Schroeder». Poi il fallimento dell’ex cancelliere e, nel 2005, l’alleanza elettorale tra la Linkspartei-Pds, partito di riferimento di Gysi, e la Wasg, partito di riferimento di Lafontaine (in corso il processo di fusione che verrà ultimato al congresso l’anno prossimo). «La sinistra non ha i media, fa più fatica a farsi sentire, ma è chiaro che il capitalismo non è la voce alta della storia - continua Gysi - In Italia siete riusciti a cacciare Berlusconi e non era semplice. Adesso il nostro compito comune è partire dal fatto che certe questioni non si possono risolvere a livello nazionale, ma solo con un intervento di livello europeo».
Graziella Mascia parla di «periodo di transizione». Molte le differenze tra Italia e Germania, ma tante anche le affinità. In negativo. «Grande coalizione in Germania, progetti neocentristi in Italia; solo il 5 per cento dei precari trova un posto fisso in Italia, in Germania nel giro di cinque anni i lavoratori interinali sono arrivati ad un totale di un milione di persone; in Italia c’è uno scontro aperto sulle pensioni, in Germania la Grosse koalition sta approvando una riforma che innalza l’età pensionabile da 65 a 67 anni». E’ tempo di una politica comune, è tempo di «accelerare il processo di costituzione della sezione italiana della Sinistra Europea», sottolinea Giordano. «Dobbiamo puntare su un accordo internazionale sulle remunerazioni - suggerisce Lafontaine - Come diceva Rousseau, i deboli hanno bisogno di “pioggia e leggi”. Bene, noi dobbiamo agire affinché ci sia un sistema di protezione che permetta ai precari di essere liberi». Ma, insiste “Oskar il rosso”, la sinistra deve «ricordarsi del proprio linguaggio, deve interrogarsi sul nostro tempo e dire che è terrorismo l’attentato dell’11 settembre, sono terrorismo i kamikaze, ma sono terrorismo anche le guerre in Iraq e Afghanistan. Se usiamo il linguaggio degli avversari politici, non creiamo una nostra politica».
Precarietà cifra del nostro tempo. In Germania è difficile far scendere i precari in piazza. In Italia si punta alla mobilitazione. Giordano ricorda l’appuntamento di sabato prossimo: «Una manifestazione né contro e né a favore del governo, perché Rifondazione non ha governi amici né governi nemici. Quello del 4 novembre è un corteo contro la precarietà che dilaga, che cambia le relazioni umane, cambia il “tipo umano” del nostro tempo».