Voleva la luna
di Licia Pastore
VOLEVA la luna. Quella delle notti stellate, dei silenzi densi di suggestioni. Dei paesaggi di Lenola. Sognava un futuro da regista e invece scelse la via dell'impegno militante per la libertà. Ingrao. Così mi ha suggerito di chiamarlo quando, impacciata come una principiante, non riuscivo a decidere se chiamarlo presidente o maestro. Telefonai con questo dubbio nella sua casa di Lenola. «Mi chiami Ingrao... basta», disse intuendo l’imbarazzo.
E così chiesi un appuntamento per una intervista che solo dopo averlo incontrato ho capito di non essere riuscita a fare. Ha prevalso la passione per l'ascolto di racconti scanditi da parole lente, calme, anche se a tratti affilate, che descrivevano anche nei silenzi il suo legame con Lenola e con questa provincia mai stata molto riconoscente né nei confronti del leader né, tanto meno, dell'Ingrao 'artista' che si legge in Volevo la luna.
Volevo la luna. Una storia personale e sociale che si ferma al '78. Sessantatrè anni.
La guerra, la Resistenza, il primo dopoguerra, la 'guerra fredda', il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro, la guerra infinita. E resta sempre forte il rapporto con la terra d'origine dalle pagine del libro. Lenola, i monti Lepini, le coste. Formia, Gaeta, Sabaudia descritte con l'affetto di chi riesce a trovare l'efficacia delle parole giuste per rendere i luoghi coinvolgenti, diversi anche per chi li conosce.
Quindi la riflessione sul perché del rapporto così forte con un ambiente tanto ostico. Con l'aria di un ragazzo, Pietro Ingrao ha volentieri raccolto le richieste.
«Perché questo legame così forte? A me faceva molto impressione il rapporto con il mondo naturale. I cieli. Il trascolorare delle luci, il tramonto la sera, le albe quando suonava la campana della chiesa madre. Un mondo fisico che vedevo dinanzi a me inteso come terra, come fronde, come incarnati celesti... come variare anche delle stagioni, ciascuna con una propria fisionomia. Per esempio le notti estive erano una cosa che mi affascinava sempre. Contemporaneamente mi colpiva molto il calare dell'autunno quando sembrava che il paese si asciugasse, la gente si ritirasse e venivano altre luci. Un mondo io direi fisico che vedevo di fronte a me. Le campagne i boschi le montagne. I colori di certe ore. Tutto ciò mi prendeva molto. E questo io lo trovavo là dove ero nato. Quel fianco di collina in cima a cui c'era il Santuario. Un po' fuori dal paese c'era una specie di varco che era quello che noi chiamavamo "il capannale", c'era la grande scalinata che sale fino al Santuario. E lì all'inizio della scalinata c'è come un'arcata che era diventata una cosa favolosa e anche un po' terribile. Si diceva che lì si era impiccato un uomo e quindi quando io lo attraversavo venendo dal paese, quell'arco all'inizio della scalinata verso il colle, lo facevo sempre di corsa perché ci poteva sempre essere l'apparizione dell'impiccato. A me piaceva molto stare nel paese. Casa nostra era fuori, io la sentivo quasi come un luogo separato dalle altre case, dalle vie dove le persone si radunavano.
Tutte queste cose mi creavano uno stato d'animo doppio. Da una parte il desiderio di scendere in piazza e andare a casa di mio nonno, di andare vicino al caffè dove giocavano a carte, di seguire i grandi nelle passeggiate che facevano lì intorno, il desiderio di andare a trovare il centro dove si radunavano le persone. Contemporaneamente sentivo di stare in una dislocazione singolare, abbastanza solitaria e di essere continuamente richiamato dagli eventi naturali. In quel paese, alla distanza, tutto acquistava per me un sapore misterioso, inspiegato. Io non ho capito mai, tanto per semplificare, perché c'erano i rintocchi del campanile della chiesa all'alba quando ci si svegliava. Poi c'erano le campane di mezzogiorno. Poi alle tre del pomeriggio, non lo dimenticherò mai, c'erano sette-otto rintocchi assolutamente isolati. E io non sapevo capire. Mentre capivo il mezzogiorno, mentre capivo anche la sera, non sapevo capire questi rintocchi.
Mi sembravano assolutamente muti. Non sapevo collegarli ad un evento nostro, umano, e quindi mi sembravano muti. Il rapporto con questo mondo umano era fatto molto di queste cose diverse. Non mi venivano spiegazioni neanche dalla mia famiglia, dai miei nonni a cui ero profondamente legato. E allora mi chiudevo in me stesso e scrivevo versi. Avvertivo che ero un tipo un po' strano... Non ero bravo nelle cose che sentivo erano molto apprezzate. Ho cominciato a scrivere delle poesie da piccolissimo, poesie che non valevano niente.
Contemporaneamente tutti ambivano a fare i chierichetti, a servir messa... io non ero capace. Non ci riuscivo».
Alla domanda se abbia mai capito il perché di questa singolarità, non esita.
«Sì, era l'inserimento in un rito costruito artificialmente. Il mio paese era molto religioso. C'erano gli eventi e si muoveva tutto il paese, contadini e signori. Io sentivo che era un ordinamento artificiale. C'era la sfida, il confronto a comprare il diritto a portare il Santo. Lo legavano a un fatto materiale. Quando andavo a confessarmi sentivo che c'era una meccanicità nel rapporto con il sacerdote. Mi colpiva la partecipazione della gente all'esteriorità del rito».
Nonostante l'influenza forte della famiglia e in particolare della madre, Pietro Ingrao ricorda bene come non fosse mai stato trascinato dai contesti dei riti.
Le parole scorrono lentamente nel racconto di quegli anni che descrivono come era considerato nel paese. Contraddizioni curiose anche a distanza di tanti anni.
Ha ben presente il primo comizio a Lenola, quando nel mezzo dell'incontro arrivarono gli stendardi di una processione. E altrettanto chiaro è il ricordo della sua elezione a deputato e i momenti di grande distacco dal paese.
«Beh, comunque, nonostante questo... quei colori, quei cieli a me piacevano molto».
Quando è nata Latina, da Lenola che idea c'era di questa città?
«Ne ebbi un'idea positiva. Allora non avevo ancora compiuto il salto antifascista. Ricordo che stavo a Formia. Il '36 è la data fatidica per me, quando scoppia la guerra di Spagna, ma prima c'è tutta la relazione con questo mondo. Allora io non fui contro la "città nuova" che andava sorgendo, tant'è vero che poi feci quella poesia che mi è costata tanti attacchi. Quella la poesia che ho portato ai Littoriali di Firenze. La portati a leggere anche a Montale che fece una smorfia. Allora, all'inizio della bonifica delle paludi pontine, ci sono anni in cui io vesto la divisa, vado a fare tutte le esercitazioni che volevano e scrivo anche la poesia per la nascita di Littoria e partecipo ai Littoriali. E lì però conobbi uno come Antonio Amendola, figlio del martire ammazzato dai fascisti, Bruno Sanguinetti e altri che, insomma, mi hanno tirato via via verso la lotta antifascista. Il discrimine è stata la guerra di Spagna.
Quello per me è stato il passaggio cruciale, avvenuto mentre ero preso dalla passione del cinema. Volevo fare il regista. Avevo cominciato a collaborare con Visconti, volevo fare grandi film. Credevo e credo ancora adesso di intendermi di cinema più di tanti altri. Frequentavo il Centro Sperimentale di Cinematografia, poi nel luglio del '36 scoppia la guerra di Spagna con l'accelerazione dell'ondata nazifascista e a quel punto io cambio libri e strada. Dico basta con il cinema. Verranno anni tragici, terribili. Io ho imparato da quelli della mia età, la formazione fondamentale mi è venuta da Antonio Amendola, Mario Alicata, Paolo Bufalini e altri, e quei pochi operai con cui eravano riusciti a entrare in contatto.
Questa la mia formazione però, appena mettevo piede su quel colle di Lenola immediatamente avvertivo come una scossa. Quell'aria quei paesaggi».
Alla domanda se abbia mai capito il perché di questa singolarità, non esita.
«Sì, era l'inserimento in un rito costruito artificialmente. Il mio paese era molto religioso. C'erano gli eventi e si muoveva tutto il paese, contadini e signori. Io sentivo che era un ordinamento artificiale. C'era la sfida, il confronto a comprare il diritto a portare il Santo. Lo legavano a un fatto materiale. Quando andavo a confessarmi sentivo che c'era una meccanicità nel rapporto con il sacerdote. Mi colpiva la partecipazione della gente all'esteriorità del rito».
Nonostante l'influenza forte della famiglia e in particolare della madre, Pietro Ingrao ricorda bene come non fosse mai stato trascinato dai contesti dei riti.
Le parole scorrono lentamente nel racconto di quegli anni che descrivono come era considerato nel paese. Contraddizioni curiose anche a distanza di tanti anni.
Ha ben presente il primo comizio a Lenola, quando nel mezzo dell'incontro arrivarono gli stendardi di una processione. E altrettanto chiaro è il ricordo della sua elezione a deputato e i momenti di grande distacco dal paese.
«Beh, comunque, nonostante questo... quei colori, quei cieli a me piacevano molto».
Quando è nata Latina, da Lenola che idea c'era di questa città?
«Ne ebbi un'idea positiva. Allora non avevo ancora compiuto il salto antifascista. Ricordo che stavo a Formia. Il '36 è la data fatidica per me, quando scoppia la guerra di Spagna, ma prima c'è tutta la relazione con questo mondo. Allora io non fui contro la "città nuova" che andava sorgendo, tant'è vero che poi feci quella poesia che mi è costata tanti attacchi. Quella la poesia che ho portato ai Littoriali di Firenze. La portati a leggere anche a Montale che fece una smorfia. Allora, all'inizio della bonifica delle paludi pontine, ci sono anni in cui io vesto la divisa, vado a fare tutte le esercitazioni che volevano e scrivo anche la poesia per la nascita di Littoria e partecipo ai Littoriali. E lì però conobbi uno come Antonio Amendola, figlio del martire ammazzato dai fascisti, Bruno Sanguinetti e altri che, insomma, mi hanno tirato via via verso la lotta antifascista. Il discrimine è stata la guerra di Spagna.
Quello per me è stato il passaggio cruciale, avvenuto mentre ero preso dalla passione del cinema. Volevo fare il regista. Avevo cominciato a collaborare con Visconti, volevo fare grandi film. Credevo e credo ancora adesso di intendermi di cinema più di tanti altri. Frequentavo il Centro Sperimentale di Cinematografia, poi nel luglio del '36 scoppia la guerra di Spagna con l'accelerazione dell'ondata nazifascista e a quel punto io cambio libri e strada. Dico basta con il cinema. Verranno anni tragici, terribili. Io ho imparato da quelli della mia età, la formazione fondamentale mi è venuta da Antonio Amendola, Mario Alicata, Paolo Bufalini e altri, e quei pochi operai con cui eravano riusciti a entrare in contatto.
Questa la mia formazione però, appena mettevo piede su quel colle di Lenola immediatamente avvertivo come una scossa. Quell'aria quei paesaggi».
Licia Pastore
(Si ringraziano Fabio Pannozzo e Francesca Caddeo per la collaborazione)
(Si ringraziano Fabio Pannozzo e Francesca Caddeo per la collaborazione)
Mamadou Ly, “IRAN 1978-1982, una rivoluzione reazionaria contro il sistema” - Prospettiva Edizioni - 2003, pp. 160, €14
In questo libro si possono rintracciare molti spunti interessanti per un ulteriore approfondimento dei temi trattati nell’incontro con Antonello Sacchetti tenutosi alla libreria Amore e Psiche. L’autore fornisce un nucleo essenziale di informazioni storiche, indispensabili per contestualizzare la rivoluzione iraniana, e chiarisce i punti fondamentali della politica degli scià, illustrando con precisione sia cosa comportasse per la popolazione la subordinazione a potenze straniere, sia la vera natura della cosiddetta “rivoluzione bianca”, che ha portato più che ad una liberalizzazione dei costumi, ad un’importazione coatta di costumi liberali ed ad una riforma agraria che ha illuso e finito di devastare le economie dei contadini poveri.
La rivoluzione del ‘78 viene quindi interpretata come il movimento di un’intera società “[…] per esprimere e realizzare le proprie aspirazioni e speranze, per farla finita con l’oppressione, per cambiare radicalmente ed in meglio la vita […]”, un movimento fatto di scioperi, autogestioni, manifestazioni spontanee ed auto-organizzate.
Un movimento che però ha fallito, degenerando in “[…] una delle forme più brutali ed al tempo stesso più subdole di oppressione”. Nell’investigare le complesse dinamiche che hanno condotto a tale fallimento Mamadou Ly ne analizza i due principali protagonisti ideologici: l’islam ed il marxismo, non riconoscendo invece al nazionalismo il ruolo di pensiero autonomo. A tale riguardo un aspetto particolarmente interessante è quello del rapporto tra il concetto del martirio caro all’islam sciita e la brutale repressione messa in atto dall’esercito nei confronti di centinaia di migliaia di manifestanti pacifici che avevano liberamente optato per una lotta di tipo non violento. La religione - secondo l’autore - avrebbe annichilito ogni possibilità di riuscita della rivoluzione offrendo alla popolazione brutalizzata una chiave di lettura eroica delle perdite subite ed una via d’uscita facile e sicura: affidarsi al governo del clero per essere guidata a quella che presentavano come l’unica vera liberazione, quella ultraterrena. Da questa prospettiva, la guerra contro l’Iraq rappresenta solo un ultimo, pur fondamentale, passo di un processo ampiamente avviato. D’altra parte ai gruppi marxisti organizzati viene imputato l’errore di aver perso in contatto con le masse rivoluzionarie, optando per la violenza terroristica e lasciando così campo libero al clero sciita militante.
Sicuramente la sintesi qui riportata non rende giustizia alla levatura dell’opera che, pur essendo relativamente breve, offre un punto di vista sulle vicende trattate assolutamente originale rispetto all’ampia bibliografia esistente, più pienamente umano e scevro da atteggiamenti accademici o impostazioni dottrinarie.
Forse il testo non è di facile reperimento, ma può sicuramente essere trovato nelle due librerie della casa editrice Prospettiva Edizioni:
- Roma, via dei Sabelli 62 (San Lorenzo)
- Firenze, via Pisana 26/a
La casa editrice può essere contattata all’indirizzo e-mail prospettiva.ed@flashnet.it.
Per qualunque informazione o chiarimento sull’autore o altro, sono disponibile.
Luce Prignano
La Stampa 30.10.06
IL CENTROSINISTRA RIFIUTA L’IPOTESI «IL COMPROMESSO? UN ODIOSO TRADIMENTO DEGLI ELETTORI»
«Governissimo? Sarebbe un dramma»
Bertinotti lancia l’allarme. Prodi: vado avanti tranquillo e sereno
di Maria Grazia Bruzzone
ROMA. Non è un mistero che Rifondazione comunista veda come fumo negli occhi le ipotesi di Grande Coalizione o di un governo tecnico sulle quali continua ad esercitarsi il centrodestra, malgrado la netta chiusura di Romano Prodi, che dopo il vertice di sabato ha ripetuto ieri ostentatamente: «Andiamo avanti, tranquilli e sereni». Ma che un’eventualità del genere possa addirittura avere ripercussioni su una delle principali cariche dello Stato, ovvero sulla presidenza della Camera, è un’altra cosa. E attizza il dibattito, reso attuale dalle incognite che pesano sul passaggio parlamentare della Finanziaria.
E’ lo stesso Fausto Bertinotti, segretario del Prc prima di salire sullo scranno di presidente di Montecitorio, a dire che sarebbe pronto ad andarsene qualora una parte del censtrosinistra dovesse raggiungere un accordo con la Cdl, o con un pezzo di centrodestra, per fare un governissimo. Bertinotti lo ha detto in una intervista a Bruno Vespa, che lo riporta nel suo ultimo instant book in uscita il 4 novembre. Ma oggi, pur precisando, la terza carica dello Stato non smentisce. Grande Coalizione? «Sarebbe un momento drammatico della mia vicenda personale, uno scenario al quale non voglio pensare - dice Bertinotti a Vespa. - Per il nostro popolo sarebbe una sconfitta terribile. Non si potrebbe cambiare il presidente della Camera? Una situazione del genere sommerebbe la sconfitta, la resa, il compromesso inaccettabile. Non voglio usare toni troppo gravi, ma le sinistre dovrebbero ripensare tutto». Parole indubbiamente pesanti. Quanto al governo tecnico, Bertinotti ne dà «un giudizio perfino peggiore»: «Equivarrebbe a una forma di dimissioni dalla politica. Sarebbe una Grande Coalizione travestita, con la colpa aggiuntiva di occultare la sua vera natura dietro una presunta tecnicità».
Poi però il presidente di Montecitorio, interpellato, attenua il senso delle sue parole, chiarendo che non equivalevano a un annuncio di dimissioni, in quanto «ritengo di precisare che non vi sia alcun rapporto fra assetti istituzionali e quadro politico del governo». Una forzatura di Vespa, allora? Il giornalista nega. «Da vero gentiluomo Fausto Bertinotti non ha smentito. La sua frase “ma non si potrebbe cambiare il presidente della Camera?” era evidentemente frutto di una sofferenza personale e politica e non l’annuncio di una scelta istituzionale». Sofferenza vera e annuncio un po’ meno, insomma.
Resta il fatto che sulle larghe intese, nella forma della Grande Coalizione alla tedesca avanzata da Berlusconi, in quella del governo tecnico prospettato da Fini, a destra si continua a rilanciare. Provocando a sinistra risposte ovviamente tutte negative, dal Pdci all’Udeur, dove Clemente Mastella, prese le difese di Lamberto Dini («una persona per bene, oggetto di attacchi ingiustificati»), scandisce: «La verità è che dopo Prodi ci sarebbero solo elezioni anticipate o lo scioglimento del Senato».
Per il capogruppo alla Camera dei comunisti italiani Pino Sgobio, «le larghe intese sarebbero una sciagura, un odioso tradimento della volontà espressa dai cittadini». «Nel centrosinistra si discute di Finanziaria ma non è certo in discussione il governo Prodi. Su questo risultato chiaro e netto emerso al vertice di ieri c’è poco da arzigogolare», taglia corto dallo Sdi il vicepresidente Roberto Villetti. E Renzo Lusetti, responsabile informazione della Margherita: «È inutile che una parte della Cdl, sempre più divisa, evochi continuamente il fantasma della grande coalizione». «Se le possono scordare le grandi intese» gli fa eco il prodiano Franco Monaco che, preso atto che ad evocarle oggi siano anche due bipolaristi convinti come Berlusconi e Fini, osserva malizioso: «Ma non miravano alla spallata e a nuove elezioni subito?».
La Stampa 30.10.06
DOPO IL DISCORSO DEL PAPA A RATISBONA, BISANZIO E L’ISLAM AL CENTRO DELL’ATTENZIONE
Costantinopoli 1204
lo scontro di civiltà voluto dall’Occidente
di Silvia Ronchey
Quando Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona del 12 settembre ha evocato la frase antislamica di un imperatore bizantino, molti avrebbero potuto credere che l’idea della «cattiveria assoluta» di Maometto fosse diffusa nell’Impero cristiano d’oriente, quello che per otto secoli fu a più stretto contatto con l’Islam. Niente di meno vero. Se vogliamo comprendere la realtà di oggi, il cosiddetto «scontro di civiltà», dobbiamo tenere conto che la guerra santa e la disinvoltura nel convertire con la spada, durante il Medioevo, appartenevano più all’immagine degli occidentali che a quella degli islamici. Anzi, spesso Bisanzio si alleò con l’Islam proprio per difendersi dall’aggressione dei crociati e dal proselitismo confessionale dei papi nei Balcani e nella Mitteleuropa. È in funzione antioccidentale che l’alleanza col grande Saladino, ad esempio, fu inaugurata da un imperatore geniale e carismatico come Andronico Comneno, il protagonista maschile de L’Impero perduto. Vita di Anna di Bisanzio di Paolo Cesaretti (Mondadori, 381 pagg., 19 euro). Un libro polifonico, nella cui narrazione si incrociano molte storie, fra cui una straordinaria, tutta femminile: quella di Agnès, figlia del re di Francia, ribattezzata Anna e iniziata adolescente dal sessantenne Andronico, suo sposo, alla superiorità della cultura di Bisanzio. Le vicende romanzesche di questa imperatrice occidentale convertita all’oriente fanno da contrappunto simbolico a quelle, antitetiche, della definitiva frattura tra l’Europa occidentale e quell’oriente europeo che per un millennio fu Bisanzio.
La grande attualità e utilità de L’Impero perduto di Cesaretti sta anzitutto nella sua minuziosa, severa e anti-ideologica ricostruzione di uno scontro di civiltà diverso ma forse più radicale di quello odierno: il conflitto che otto secoli fa portò noi europei a distruggere l’impero che, da un lato, custodiva la culla stessa della nostra civiltà e, dall’altro, costituiva l’indispensabile interfaccia di mediazione e di dialogo con quel mondo asiatico, già allora sempre più islamico, con cui oggi sempre meno riusciamo a comunicare. Si parla di «deviazione» della Quarta crociata, quasi fosse stata un’idea repentina e non un preciso piano di conquista, già prospettato da Federico Barbarossa e da Enrico VI. Ben prima di entrare a Costantinopoli, i crociati avevano minuziosamente discusso e patteggiato tra loro, e soprattutto con Venezia, spiega Cesaretti, la spartizione dell’impero che avrebbero sostituito a quello bizantino, istituendo anche una gerarchia ecclesiastica cattolica in luogo di quella ortodossa.
L’irruzione del 13 aprile 1204 fu «il più grande saccheggio della storia del mondo», a detta dello stesso storico francese Goffredo di Villehardouin. Anche se Cesaretti getta acqua sul fuoco delle fonti, l’enormità sacrilega della presa di Costantinopoli, la portata simbolica degli atti di profanazione e distruzione dei latini segnano la più grande svolta della storia di Bisanzio e, dunque, del Mediterraneo medievale. Del resto, la ferocia della «guerra santa» di quei «precursori dell’Anticristo» che «portavano la croce cucita sulle spalle» ebbe come testimone oculare, da parte bizantina, il più acuto, spregiudicato e disincantato degli osservatori politici: lo storico Niceta Coniata, segretario del basileus allora in trono ma anche suo massimo critico, pensatore politicamente indipendente e non certo corifeo del potere. Proprio come nella celebre definizione di Steven Runciman, i veri «barbari», nelle frasi di Niceta, non sono i musulmani, che anzi i bizantini difendono a spada tratta quando viene dato fuoco alla locale moschea, ma i crociati, che scannano, violentano, depredano, devastano tutto, che portano «abominio e desolazione» nel Sacro Palazzo, sacrilegio e lerciume nella Grande Chiesa, Santa Sofia, di cui fanno a pezzi perfino il portentoso e maestoso altare: «Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e, anche se il suo fianco non è stato trafitto dalla lancia, il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra».
Ma più ancora delle parole di Niceta, e delle molte altre fonti annodate dall’alacre telaio narrativo di Cesaretti, a rendere la tragica primitività del saccheggio crociato di Costantinopoli è un mosaico della chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna. Le sequenze di questa stilizzata cronistoria visiva della Quarta crociata, una delle quali non a caso è proprio la copertina de L’Impero perduto, sembrano murales contemporanei. In questi disegni in bianco e nero, insieme naïf e raffinatissimi, l’unica differenza tra i crociati dalle spade sguainate e le loro vittime - tra i due popoli cresciuti nella stessa fede, nello stesso retaggio culturale, nella stessa tradizione giuridica - è il colore dei cappelli a punta dei bizantini, rosso come il sangue.
Corriere della Sera 30.10.06
La scienza è democrazia. E' questo che non piace?
LE CRITICHE DEL VESCOVO
di Edoardo Boncinelli
Per la scienza i tempi si fanno sempre più duri. Soprattutto per la scienza di base, quella volta a esplorare il mondo e a cercare di chiarirne i misteri. Si moltiplicano gli appelli ai giovani perché si dedichino alle discipline scientifiche; si moltiplicano le dichiarazioni ufficiali di appoggio alla ricerca; si moltiplicano i Festival che avvicinano sempre più gente, soprattutto giovane, al mondo della scienza e delle sue realizzazioni, ma l'atteggiamento globale verso la scienza non migliora, se addirittura non peggiora. Non più tardi di ieri, infatti, il vescovo di Genova, ha criticato il Festival della Scienza perché «troppo a senso unico», e indirettamente la scienza «che non può essere del tutto libera, senza alcun vincolo». In un paese che destina le briciole del suo bilancio alla ricerca e ai suoi operatori, ci si potrebbe almeno aspettare un atteggiamento positivo e di apprezzamento nei riguardi della scienza, ché tanto non costa nulla. Ma non è così. L'attacco viene da più parti ed è frontale: la scienza viene criticata nei suoi presupposti, nei suoi risultati e nelle sue applicazioni, il tutto nella patria di Galileo!
La scienza produce conoscenza, applicazioni pratiche e cultura ed è portatrice di un particolare atteggiamento mentale. Per quanto riguarda la conoscenza, il progresso scientifico ci ha permesso di comprendere cose inimmaginabili, del cielo, della terra, degli esseri viventi e della mente. Ma secondo alcuni questa non è vera conoscenza: si tratta di verità parziali, temporanee e settoriali. Come se esistesse un'altra attività umana che ci dà verità globali, eterne e universali.
La scienza ha portato, in concorso con la tecnica o indipendentemente da quella, uno stuolo di applicazioni pratiche in tutti i campi, che tutti, senza eccezione, utilizzano. Ma è vezzo comune parlarne solo male, evidenziandone i rischi e la potenza disumanizzante.
La scienza ha introdotto nel nostro linguaggio quotidiano concetti e argomenti che hanno dato nuova linfa alla nostra cultura, dischiudendo ai nostri occhi orizzonti ideali senza precedenti, sul mondo che vediamo come su quello che non vediamo, perché popolato di entità troppo grandi o troppo piccole per i nostri sensi. Se non si dedica primariamente alle cosiddette grandi domande di senso — colpa fondamentale per qualcuno — ha comunque contribuito a cambiare la formulazione della maggior parte di esse. Che secondo me è il massimo che si possa fare.
La scienza è infine un metodo, uno stile di lavoro e una mentalità. La scienza educa allo spirito critico, alla non accettazione di affermazioni date per scontate, alla messa in discussione del più alto numero possibile di presupposti a priori, all'ascolto delle argomentazioni dell'altro, alla critica e alla disponibilità a essere criticati. Tutto questo costituisce secondo me anche il fondamento della democrazia, almeno nella sua accezione moderna.
Probabilmente è il contributo dato alla cultura e alla diffusione dello spirito critico che i nemici della scienza vogliono colpire. Ma non osano e allora chiamano in causa e criticano il suo potere esplicativo e predittivo e le sue applicazioni pratiche, delle quali tra l'altro la scienza più vera e profonda potrebbe benissimo fare a meno.
Si dice che la scienza abbandonata a se stessa potrebbe portare guasti infiniti e addirittura autodistruggersi. Innanzitutto, questo è vero per qualsiasi cosa: niente è bene se abbandonato a se stesso. Ma non sarà certo la scienza quella che correrebbe più velocemente verso il disastro una volta abbandonata a se stessa, essendo opera di pochissimi individui, che sono per giunta scontrosi e individualisti per natura. In secondo luogo, se davvero si ravvisa questo pericolo, non lasciamola sola: studiamola, frequentiamola, esploriamola, tentiamola. E magari facciamola.
Corriere della Sera 30.10.06
Quel liberale di Karl Marx
Per Attali era vicino a Stuart Mill ma non credeva nella democrazia
di Jacques Attali
Il suo pensiero è stato saccheggiato, utilizzato, esaltato, con il risultato che il sogno più bello si è trasformato nella peggiore barbarie Jacques Attali è nato ad Algeri nel 1943. Economista di formazione, è stato consigliere di Mitterrand
PARIGI — Il comunismo è morto, evviva Marx. Lenin e Stalin? Scrocconi intellettuali, cinici manipolatori di un grande «pensatore liberale». La rivoluzione russa? Un incidente della storia, un tentativo prematuro, e non condiviso, da chi invece aveva previsto il mercato globale, la supremazia del capitalismo, la diffusione della cultura di massa come strumento di liberazione dell'uomo, l'impoverimento delle classi medie, un mondo in cui i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri (e più numerosi), il differenziale sempre più ampio e decisivo fra produzione e finanza: insomma il mondo di oggi, l'era della globalizzazione, l'anticamera della fine degli Stati nazionali e delle classi sociali.
Leggendo le 418 pagine di Karl Marx, ovvero lo spirito del mondo
(Fazi editore, e 22), si può avere l'impressione superficiale di un'ennesima «riscoperta» del marxismo, fra le innumerevoli biografie e saggi apparsi sull'autore del «Capitale», o di una rivalutazione del suo pensiero nell'epoca in cui è diventato di moda (e politicamente corretto) buttarlo nella spazzatura della storia, sia come ispiratore dei peggiori crimini e dei più fallimentari sistemi politici, sia — più benevolmente — come il teorico di un sogno irrealizzabile in cui sono morte le speranze di milioni di uomini.
Ma Jacques Attali, che non è mai stato marxista, compie con successo un'impresa diversa e affascinante: scrivere il romanzo della vita di Marx, scavarne in profondità l'uomo e restituirci l'attualità di analisi e intuizioni.
Come disse Engels nell'orazione funebre, Marx è stato il «Darwin della storia sociale dell'uomo».
«Non si tratta di rivalutare il marxismo. Ho semplicemente voluto dimostrare che in molti scritti e opere, forse lette male, forse sconosciute e censurate, forse interpretate a senso unico, è rimasta nell'ombra l'eccezionale modernità del pensiero di Marx. Nessuno, prima di lui, aveva intuito l'importanza della scienza e delle comunicazioni nell'evoluzione dei rapporti sociali. Nessuno aveva compreso l'ascesa della Cina e dell'India sulla scena mondiale.
«Nessuno come lui aveva esaltato il valore della democrazia parlamentare, della libertà di stampa e dell'indipendenza della giustizia. Nessuno prima di lui aveva fatto l'apologia del libero scambio e previsto la fine del colonialismo. Può sembrare un paradosso o una provocazione, ma proprio Marx aveva sostenuto che il capitalismo è il miglior sistema economico e sociale rispetto ai sistemi che l'hanno preceduto. Non solo: aveva detto che il socialismo non è realizzabile in un solo Paese e soprattutto che non era realizzabile in Russia».
Ex consigliere di Mitterrand, economista e saggista di successo, Jacques Attali si è impegnato in prima persona nei problemi dello sviluppo e della governance mondiale. È stato il primo presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e ha creato «Planet finance», organizzazione senza fine di lucro per la diffusione del microcredito nel terzo mondo. Ha finanziato alcuni progetti del premio Nobel per l'economia, Muhammad Yanus. La sua ricerca su Marx, molto più che un'opera intellettuale, appare quindi come uno «strumento di lavoro», un riferimento necessario «per capire il mondo di oggi» e cominciare a immaginare quello di domani.
Secondo Attali, si va infatti nella direzione di un mercato globale caotico e ingovernabile cui seguirà, se l'umanità vuole sopravvivere, una nuova forma di democrazia planetaria. «Marx è ancora oggi lo spirito del mondo, il sogno di un'umanità migliore mentre il mondo si avvicina alla catastrofe: economica, ecologica, militare».
In buona sostanza, tutto quanto è stato detto, scritto e fatto in nome di Marx sarebbe dunque una truffa ideologica ai danni dell'umanità?
«In un certo senso sì. Dal giorno della suamorte, è stata la vittima del suo eccezionale successo e del suo immenso lavoro di studioso e intellettuale. Il pensiero è stato saccheggiato, utilizzato, esaltato, con il risultato che il sogno più bello si è trasformato nella peggiore barbarie. Marx, ad esempio, non ha mai scritto una riga sulla nazionalizzazione dei mezzi di produzione e ha sempre sostenuto che il socialismo può nascere soltanto dopo l'estensione globale del capitalismo, mai al suo posto. Il Marx che voglio mettere in luce nella mia biografia era soprattutto un giornalista, un instancabile curioso, un uomo che alla ricerca aveva sacrificato tutto se stesso, la salute e persino la famiglia. A lui si deve l'invenzione di una scienza nuova — l'economia politica —, il miglior strumento ancora oggi disponibile per la comprensione del mondo e dei rapporti sociali. Se si considera a torto o a ragione soltanto il Marx rivoluzionario, non si capisce il Marx uomo, il suo essere profondamente legato alla cultura europea, alla filosofia tedesca e ai principi della Rivoluzione francese. E se si considera il «marxismo senza Marx» si perdono di vista le colonne della sua formazione culturale: il legame con il padre, avvocato impegnato per tutta la vita nella difesa dei diritti dell'uomo, e la visione universale dell'ebraismo».
Dovremmo quindi concludere che non soltanto Lenin e Mao, ma anche Sartre e Althusser, fino ai nipotini marxisti di oggi, hanno tutti preso un colossale abbaglio?
«Molti hanno letto testi di Marx e scritto libri sul pensiero di Marx. Lo stesso Engels ne fa in qualche modo una caricatura. Se mi si passa il paragone, è successa la stessa cosa con Gesù Cristo e le versioni e interpretazioni successive del Vangelo. Purtroppo, almeno fino alla caduta del Muro di Berlino, gli studi su Marx sono inevitabilmente connessi ai sistemi politici ispirati al suo pensiero. Io ho voluto dire che è tempo di sbloccare Marx dal marxismo. Ci sono centinaia di biografie di Marx, ma sono quasi tutte analisi di specialisti che lo analizzano da un certo punto di vista: il filosofo, il pensatore, l'ideologo. Io ho cercato di scrivere una vera biografia, in cui sono rintracciabili i nessi fondamentali fra gli scritti e la vita. In gran parte del Capitale si rintracciano idee liberali e influenze dell'epoca: Hegel, Napoleone, Ricardo, Stuart Mill. Marx c'insegna la forza della contraddizione, l'apertura del pensiero critico, la distinzione fra le cause e le responsabilità, la necessità che sia l'uomo al centro di tutto. C'è una frase emblematica che mi ha inseguito in tutto il lavoro: la scoperta dell'elettricità è più importante della Rivoluzione del 1848».
Attali non attribuisce a Marx doti di preveggenza, ma la lucida analisi dei processi economici.
«Basta guardare il mondo di oggi. La finanza internazionale è diventata un'economia virtuale rispetto al profitto della produzione industriale. Marx aveva anche previsto che il capitalismo, per sopravvivere, si sarebbe impegnato in opere solidali e sociali, come dimostrano le iniziative di Soros o di Bill Gates. L'altruismo nei confronti dei poveri è una necessità del mercato. Siccome resto un osservatore neutrale e non un esegeta, avrei voluto trovare nel pensiero di Marx il concetto di alternanza politica, la possibilità che dopo la rivoluzione, il potere potesse tornare alla borghesia in modo democratico. Purtroppo non c'è traccia di questo».
Liberale sì, ma fino a un certo punto.
l'Unità 30.10.06
Guerra alla pedofilia, cancro per la Chiesa
Dietro l’attacco del Papa ai «preti pedofili» 4mila casi negli States, parrocchie in rovina per risarcire i danni
di r.m.
GUERRA ai preti pedofili. È coerente Papa Ratzinger. La svolta è del 2002, dopo una riunione in Vaticano tra i vertici della Chiesa statunitense e i capi dicastero diCuria. Al termine di un lungo percorso, segnato anche da contrasti sulle soluzioni da prendere, passa la linea della «tolleranza zero». Quella caldeggiata dal cardinale Joseph Ratzinger, allora il custode dell’ortodossia. Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha carta bianca. Convince Giovanni Paolo II che era ora di chiudere con la pratica delle «coperture» nei confronti dei sacerdoti accusati di abusi sessuali. Non è più accettabile puntare solo sul recupero del «soggetto malato», da affidare alle cure di qualche specialista, e magari da «spostare» da una parrocchia all’altra. Né si può contare sul silenzio delle vittime. Prima, nel 2001 vi era stata la prima tirata di freni di Papa Wojtyla che con un suo Motu Proprio affida proprio all’ex Sant’Uffizio il compito di affrontare il problema. Ratzinger è già pronto. Dopo poco invia ai vescovi di tutto il mondo le sue «linee guida». Il prete che molesta sessualmente un minore non solo commette un crimine gravissimo contro la persona, ma anche contro la santità del sacerdozio. È la linea della lotta senza quartiere alla pedofilia. L’indicazione è chiara: al primo sospetto «oggettivo» del vescovo, la «pratica» dalle diocesi passa all’ex Sant’Uffizio. Che non archivia. La linea è quella dell’allontanamento immediato del prete accusato di pedofilia. È la risposta vaticana ad una crisi di credibilità fortissima che rischiava di mettere in ginocchio la Chiesa di Roma. E non solo per la reazione sdegnata dei fedeli o per i rimborsi milionari richiesti dalle vittime. Anche se certamente pesano. USA Molte diocesi statunitensi sono in ginocchio per i risarcimenti dovuti alle vittime. Un milione di dollari secondo gli avvocati degli «abusati». Tra le più colpite quelle di Boston, Filadelfia, Los Angeles, New York. Sono state oltre 10.667 le vittime solo negli Usa. Nel 2002 solo a Boston sono state centinaia le denunce presentate. A causa delle proteste per le «coperture» fornite dalla curia locale, l’arcivescovo della città, l’autorevolissimo cardinale Bernard Law, viene trasferito a Roma. Anche il vescovo di Palm Beach viene rimosso. Il fenomeno è diffuso. Solo negli Usa sono stati poco meno di 4.400 i preti ufficialmente posti sotto accusa. E nello stesso anno ben 456 le cause legali aperte. In genere si concludono con «rimborsi» che mettono in ginocchio le diocesi. Nel 2004 è costretta a chiudere per bancarotta quella di Portland.MESSICO Il fenomeno dei preti pedofili è esploso negli Usa, ma interessa la «Chiesa universale». Caso eclatante è stato quello del fondatore dei Legionari di Cristo, il messicano padre Marcial Maciel Degollado, ora ultraottantenne, accusato da alcuni suoi ex seminaristi di molestie sessuali e che recentemente è stato «invitato» dalla Santa Sede «a ritirarsi in una vita di preghiera». Denunce a valanga, circa 1.700 scuotono la Chiesa in Brasile. EUROPA Ma il fenomeno interessa anche l’Europa. In Francia il caso più eclatante è stato quello del vescovo di Bayeux, Pierre Pican, condannato a tre mesi di condanna per «omessa denuncia» per aver «coperto» un prete pedofilo, padre Bassey, condannato a sua volta a 18 anni di reclusione. La pedofilia non ha risparmiato la cattolicissima Polonia. È stato una sofferenza per Giovanni Paolo II accogliere le «dimissioni» di mons. Juliusz Paetz, l’arcivescovo di Poznan, suo amico personale, per anni impegnato in Curia, accusato di aver abusato di preti e seminaristi nella sua diocesi. In Austria il caso che ha fatto maggiore scalpore è stato quello del cardinale Hans Hermann Groer, ex arcivescovo di Vienna, costretto dopo un lungo braccio di ferro a dimettersi nel 1995 per le accuse di molestie rivoltegli da un suo ex allievo di seminario. Ne ha fatto le spese anche la cattolica Irlanda ai cui vescovi si è rivolto sabato il Papa. I casi denunciati sarebbero oltre 350. Quello più grave è avvenuto nella diocesi di Ferns dove il vescovo mons. Comiskey si è dimesso perché si è sentito responsabile per non aver fatto tutto il possibile per fermare un suo sottoposto, padre Sean Fortune, denunciato da 66 persone e morto suicida nel 1999.
l'Unità 30.10.06
Da Capote a Cogne:
perché «a sangue freddo»?
di Luigi Cancrini
Non si parla più come prima della Franzoni e del piccolo Samuele. Io continuo a pensarci e mi chiedo spesso se è davvero possibile che un delitto così sia stato commesso. Che colpevole sia o no la madre, alla fine, quello che è sicuro è che quel delitto, assurdo comunque, è stato commesso da un essere umano. Casi come questi sono stati studiati? Cosa ne può pensare uno psichiatra?
Anna Rossi
Lo studio più interessante è quello compiuto da un gruppo di psichiatri della Mayo Clinic negli anni Cinquanta. Uno studio citato, fra l’altro, nel libro di Truman Capote, «A sangue freddo», dedicato alla ricostruzione giornalistica di una strage compiuta ai danni di un’intera famiglia proprio in quegli anni. Fedele e in vario modo affascinante, il film che ne è stato tratto di recente, ha lo stesso titolo e ripropone le perplessità cui lei dà voce nella sua lettera: le perplessità della persona normale che si trova di fronte a una vicenda inspiegabile ma terribilmente reale.
Una sintesi del contenuto dell’articolo è chiara fin dal titolo che parla di «omicidi senza motivo apparente»: omicidi a danno di vittime «che non c’entrano assolutamente niente» e di cui si può capire qualcosa solo se si entra nel vivo di uno studio sulla disorganizzazione della personalità. Che sostituiscono, cioè, alla ricerca del “movente” su cui si basa tanta letteratura poliziesca, la ricerca delle ragioni profonde per cui una persona compie, in un certo momento della sua vita, un atto che gli appartiene solo in parte. Di cui sa che è suo solo dopo averlo compiuto e di cui da solo sente l’assurdità e l’insensatezza. Suscitando una domanda classica all’interno di questo tipo di situazioni: «come può una persona sana, come sembra essere quest’uomo, commettere un gesto così folle come quello per cui è stato condannato?». Nel caso di Thomas, ad esempio, un “normalissimo” capo della marina militare, di 31 anni, responsabile della sicurezza di un ospedale che mentre chiacchierava con la figlia di 9 anni di un suo superiore l’aveva improvvisamente afferrata e strangolata tenendole la testa sott’acqua fino ad ucciderla; che non ricordava l’inizio dell’aggressione; che si era «ritrovato improvvisamente» a strangolare la sua giovane vittima; o nel caso di Adams un caporale di 24 anni, senza precedenti psichiatrici o penali che, girando alla ricerca di una prostituta vicino ad una cittadina francese era stato avvicinato da un ragazzo di 13 anni che chiedeva di cambiargli moneta militare in moneta corrente francese: insistendo e offendendolo finché lui non l’aveva colpito a morte. Ricordando, Adams aveva insistito sul fatto che non era stata sua intenzione uccidere la vittima e non ricordava il frangente dell’omicidio ma nel momento in cui aveva “scoperto” cosa stava facendo, il cadavere della vittima era già stato gravemente mutilato. Commessi in una condizione di trance, a coscienza per così dire “sospesa”, delitti così sono caratterizzati proprio da una speciale confusione degli assassini riguardo al motivo che li ha determinati. In nessun caso c’era stato un qualche tipo di profitto, materiale o emozionale, da parte dell’aggressore. In nessuno dei casi c’era stata una qualche preparazione del delitto come provato dal fatto che l’omicida aveva ucciso o con le sue stesse mani o con ciò che aveva trovato a portata di mano. In tutti i casi, del resto, l’omicida non si era fermato subito dopo aver ucciso perché l’aggressione sulla vittima era continuata anche dopo la morte: come se l’obiettivo del gesto fosse non l’uccisione, insomma, ma lo sfogo di una furia cieca e incontrollabile.
Lo studio psicopatologico di questi quattro “mostri”, tre dei quali furono giustiziati nonostante il diverso parere degli psichiatri, mise in evidenza una serie di dati concordanti ed estremamente significativi. Il loro era regolarmente in effetti un passato costellato da episodi che mostravano una difficoltà importante di controllo dell’aggressività e da un (corrispondente?) sentimento di essere inferiori, deboli, inadeguati. Lo stato di coscienza era stato spesso alterato, in precedenza, seppure per brevi periodi, nei momenti difficili come se l’entrare in crisi determinasse più facilmente che in altre persone una perdita transitoria del principio di realtà. L’infanzia vissuta da ognuno di loro era un’infanzia infelice, segnata in particolare da episodi di violenza gratuita e crudele da parte di adulti significativi e da una serie di gravi privazioni emozionali.
La conclusione degli psichiatri della Mayo Clinic, che io sottoscrivo pienamente, è quella relativa alla presenza, in tutti questi casi, di un disturbo grave della personalità che può e dovrebbe essere diagnosticato (ed eventualmente curato) prima che un omicidio assurdo lo renda evidente. A fatti ormai avvenuti, in un Paese civile che ha definitivamente abolito la pena di morte altro obiettivo non ci si può dare, d’altra parte, in casi del genere, che quello di una cura centrata sul tentativo di aiutare la persona a riprendere il filo della sua storia e dei suoi comportamenti. Dall’interno di una struttura in cui si sconta una pena perché la cura comincia proprio da qui: dalla presa di coscienza dolorosa e pesante della gravità di ciò che si è fatto. Dal sentirne vergogna e pentimento. Dalla coscienza di dover cambiare qualche cosa dentro di sé per prevenire una ricaduta che altrimenti è sempre possibile.
Un uomo di poco più di 30 anni che aveva ucciso il padre in un modo simile a quello studiato dagli psichiatri della Clinica Mayo e che aveva tentato, dieci anni dopo un altro omicidio altrettanto “assurdo”, ebbe la fortuna d’incontrare, nell’ospedale psichiatrico giudiziario in cui era rinchiuso, una situazione di ascolto psicoterapeutico. Avvicinandosi ormai un’uscita di cui aveva paura, segnalò, sul giornale dei pazienti, che «il rosso, per lui era un semaforo dove lui si fermava a riflettere sulle cose, il colore che l’aveva bloccato una sera per fortuna, altrimenti a quell’ora non sarebbe stato lì a guardare dentro di sé». Efficacemente segnalando ai suoi terapeuti la necessità di avere altro tempo in ospedale prima di potersi permettere di uscire in un momento in cui, per la prima volta, la sua memoria gli dava dolorosamente accesso ai fatti e ai fantasmi di cui non aveva più parlato con nessuno né non con sé stesso.
Tornando alla sua domanda, quello che posso dirle alla fine è semplicemente questo. Che l’essere umano conosce assai poco di sé e di quello che la sua mente gli nasconde. Che nulla vi è di veramente casuale nella nostra vita psichica, tuttavia, e che anche i più assurdi dei nostri gesti meritano d’essere guardati con attenzione, pazienza e rispetto. Chiunque li abbia commessi.