Repubblica 21.10.06
Mancino, vicepresidente del Csm: vanno potenziate le misure alternative
Napolitano: sanzioni penali da rivedere
ROMA - Trovare «soluzioni condivise» per rivedere le sanzioni penali e la loro gestione. Ripensare il sistema delle pene. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha invitato a «riflettere approfonditamente» sulla necessità di «instaurare un sistema che consenta di bilanciare il percorso di rieducazione e risocializzazione del condannato con la valorizzazione delle persone offese dal reato e, più in generale, della sicurezza». Dopo l´indulto, che in due mesi ha decongestionato le sovraffollate carceri italiane, il messaggio del Capo dello Stato, in occasione del convegno organizzato dal Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, ha aperto il dibattito sulla necessità di puntare sulle misure alternative al carcere.
Anche il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, si è detto d´accordo e ha elencato una serie di possibili modifiche al sistema delle pene. Una sostanziale novità - secondo Mancino - ci sarebbe se le misure alternative al carcere venissero applicate direttamente dal giudice di primo grado anziché dal magistrato di sorveglianza. E ancora: andrebbe favorito «l´uso di strumenti di giustizia riparativa»; estesa, oltre le attuali competenze, l´applicabilità delle pene introdotte nel 2000 dal decreto legislativo che ha istituito i giudici di pace penali; potenziata «la fase della messa alla prova nell´ambito dell´istituto della sospensione condizionale della pena»; attuata una «corretta politica carceraria» che passi anche «attraverso il corretto impiego di una categoria professionale di veri e propri mediatori culturali che si facciano carico di spiegare ai detenuti soprattutto extracomunitari i valori sociali e culturali della nostra civiltà».
Il vicepresidente del Csm ha concluso ribadendo alcuni «punti fermi»: «Gli istituti sanzionatori non vanno più studiati come un problema che riguarda un solo settore della magistratura, ma come un problema orizzontale e multidisciplinare». E la magistratura di sorveglianza dovrà essere considerata «come il primo ed importante motore per l´attuazione di ogni possibile riforma».
Il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi ha detto che «è giustissima l´indicazione di Mancino di dare alle misure non detentive altrettanta dignità rispetto a quelle detentive e di ipotizzare che le misure alternative al carcere possono essere disposte in sede di sentenza». Su questo terreno sta lavorando la Commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta da Giuliano Pisapia.
il manifesto 21.10.06
Marco e Bernardo, quelli che resistono
Piacenza contro Parma, il «free cinema inglese» contro la «nouvelle vague francese», un cinema «atrocemente autobiografico» e l'altro «teneramente in soggettiva». Alla Festa di Roma incontro con e tra Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci, i cugini, ovvero il giano bifronte, del cinema italiano perennemente giovane, ribelle e sperimentale
di Cristina Piccino
Roma. Nel maggio sessantotto li giravano Chris Marker, J.L. Godard, Alain Resnais, si chiamavano Cinétracts, «tratti» di cinema non firmati che nello spazio di pochi minuti distillano rivoluzione, e frammenti di utopia per il futuro. Un Cinétract è anche il lavoro di Jean Marie Straub e Danièle Huillet su Europa 51 di Rossellini, una specie di «seguito» del film al contemporaneo, molto applaudito alla festa di Roma, dove arriva con proiezione a sorpresa prima di Giardini in autunno forse su richiesta di Iosseliani come saluto affettuoso a compagni di rivoluzioni al cinema. Il Cinètract di Straub-Huillet è l'Europa globalizzata delle periferie ghetto in cui si vomitano gli indesiderati, quelli che puzzano (lo diceva Chirac degli immigrati algerini), condannati prima di cominciare. E mica è strano se appena arriva la polizia scappano, è meglio un salto su una centralina elettrica a costo di morirci come Bouna e Zeyd che bruciano vivi facendo esplodere le periferie parigine.
In realtà non è andata così, gli applausi cioè, qualche amico ci ha raccontato che la platea molto selezionata dell'Auditorium ha fischiato questo omaggio (a Huillet da poco scomparsa)dovuto. Ci viene in mente la storia ascoltando, nella stessa plaeta molto affollata, le parole di Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci, il giano bifronte della nouvelle vague italiana, specie quando Bertolucci confessa che la loro «distanza» è anche perché lui è cresciuto con la nouvelle vague francese, Bellocchio col free cinema inglese, cosa rara nella cinefilia del tempo. Straub-Huillet nel fuoricampo, cinema e vita dell'epoca in cui Pierre Clementi correva per le strade di Roma (Partner) e Bertolucci, come racconta, incontrava la prima volta Bellocchio a casa di Sandro Franchina (Morire gratis), insieme c'erano Gustavo Dahl e Paulo Cesar Saraceni, il cinema novo brasiliano, «sinistra festiva» che Veltroni, Bettini e gli altri dovrebbero guardare un po' di più.
Bellocchio e Bertolucci. Un evento averli insieme, e peccato che l'occasione sia un po' sprecata. Fa bene Bellocchio a un certo punto a dire: non mi aspettavo una cosa così seria. Cioè poco leggiadra, poco spiazzante. Ci è voluta la meraviglia oratoria di Bernardo Bertolucci, narratore che incanta, e la ruvidezza mirata con humor di Bellocchio per andare avanti con piacere d'ascolto. In quel primo incontro, siamo agli inizi degli anni 60, Bertolucci sta per cominciare La Commare secca. Nessuno ci crede, specie i brasiliani che infatti il giorno dopo eccoli a controllare il set. Poi c'è Prima della rivoluzione e, appena dopo i Pugni in tasca. «Li ho sentiti come pugni nello stomaco, ho pensato: chi l'avrebbe detto che da Piacenza potevano arrivare grandi registi». Già, c'è anche questo, Parma contro Piacenza. Ma per carità ci ride su Bertolucci niente campanilismi, è un gioco. Serissimo. Dice ancora: «I pugni in tasca e Prima della rivoluzione erano due film cugini, il mio teneramente autobiografico, quello di Marco atrocemente autobiografico. É stato per me uno di quei film che possono spingerti a scelte più violente».
Se Bertolucci è Pasolini, Moravia, l'intellettualità romana, Bellocchio cresce lontano da Roma, almeno intellettualmente. Il riferimento primo sono i Quaderni piacentini, il loro «moralismo»: «Il confronto tra il mio cinema e quello di Bernardo è stato ravvicinato fino a un certo punto, dal Conformista in poi abbiamo preso strade diverse». Bellocchio che studia al centro sperimentale ricorda l'incontro con Antonioni. Da studente gli chiede come girare un film, a chi rivolgersi. «Lei mi darebbe il suo numero di telefono?» osa il ragazzo Bellocchio. No secco di Antonioni. «Anni dopo questa cosa ha contibuito molto nel mio fare cinema. Allora tutto era più difficile, oggi la tecnologia permette di iniziare con meno fatica».
Affinità: la psicanalisi, per entrambi riferimento di vita e cinema. La serata si chiama «quelli che vanno, quelli che restano». Si potebbe dire resistono commenta Bertolucci. Come loro. Lo mostra Sorelle, il film che Bellocchio ha appena presentato. E Histoire d'eau, dieci minuti nel collettivo Ten minutes older di Bertolucci. «Ho sempre avuto la tentazione di essere qualcun altro, Godard, Renoir ... Bellocchio è stato sempre violentemente se stesso, ma la sua non è immobilità, è che ogni volta diventa se stesso» dice Bertolucci. «Ho cercato di essere personale, di tenere insieme 'vita e arte', la mia vita corrisponde a ciò che faccio» dice Bellocchio. «Perciò sono felice che un pubblico abbia visto Sorelle, è un film girato seguendo un desiderio. E è anche il suggello di dieci anni di lavoro». L'incontro finisce, prima qualcuno chiede a Bertolucci, le piace la festa del cinema? «All'inizio ero perplesso, ora vedo che sono riusciti a coinvolgere la città. Potete migliorarla».
il manifesto 21.10.06
«Sorelle», appunti familiari di immaginario
di C.Pi.
Sorelle Marco Bellocchio lo chiama un film «dilettantesco», nel senso che è stato fatto per diletto, non c'erano finanziamenti, tutti hanno lavorato gratuitamente, la leggerezza (democratica) del digitale ha garantito un gusto morbidamente scanzonato e assoluto piacere del cinema. Lo compongono la famiglia del regista, il figlio Piergiorgio, la figlia Elena (da bimba già straordinario talento d'attrice), le sorelle Maria Luisa e Letizia, Gianni Schicchi amico di famiglia da sempre. Gli attori come Donatella Finocchiaro, protagonista nel Regista di matrimoni, e i luoghi, Bobbio dove Bellocchio ha passato la sua infanzia, la casa familiare, che sono anche le stanze del suo cinema, I pugni in tasca intanto (ma in quella tavola apparecchiata per l'immutabile rito del pranzo non c'è pure uno scorcio di inquadratura dei pranzi nella casa del Regista di matrimoni?), apertamente dichiarati nello sfumare tra il viso offuscato di Piergiorgio Bellocchio e quello in rabbioso bianco e nero di Lou Castel. Poi «Fare cinema», la scuola che da dieci anni, sempre a Bobbio, Bellocchio dirige ogni estate. Venti studenti e professionisti che si incontrano, immaginano, scrivono, girano... Sorelle però non è un documentario, non si racconta la famiglia del regista o il lavoro di didattica, la realtà è punto di partenza obliquo in una tensione magnificamente sospesa di vissuto e film, un gioco di specchi dentro l'immaginario che commuove, diverte, volteggia leggero toccando nel profondo la sostanza stessa del fare cinema. Tre episodi, un quarto verrà aggiunto presto, che scaturiscono da uno stesso spunto narrativo: due fratelli, Sara aspirante attrice che nei primi due è assenza, voce lontana al telefono, Piergiorgio, ragazzo inquieto, e Elena, la figlia di Sara cresciuta dalle zie in quella piccola cittadina tra catechismo, preghiere al cimitero, riso in bianco, la tavola apparecchiata e sparecchiata quasi a scandire il passaggio del tempo. Gianni Schicchi che alle donne amministra il patrimonio e risolve i problemi della cappella al cimitero, le zie che conservano l'abito da sposa della madre sognando i matrimoni dei nipoti, e Sara che alla figlia dice ci si sposa quando non si è più innamorati mentre la bimba parla alla mamma, appena torna in campo, di cresima e catechismo.
Eccolo il cinema di Bellocchio nel farsi con consapevolezza e in un continuo desiderio di discussione. Sorelle è come un puzzle, un caledoscopio di frammenti lucidi le cui combinazioni si possono mutare a ogni sguardo. Il divertimento si dischiude nei dettagli (Piergiorgio, Elena, le zie, Gianni Schicchi il documento di finzione coi loro veri nomi, Sara l'attrice ne ha uno finto... ). Indizi sparsi tra le risonanze doppie, triple, molteplici come i volti di donne che si sovrappongono a quello di Donatella Finocchiaro, Paola Pitagora, Pamela Villoresi, la Nina del Gabbiano bellocchiano, e Cecov Piergiorgio lo legge dalla prima scena del film, che sono il femminile del suo cinema. Ma anche la noia, il sogno di fuga da quella provincia; sono destinato a tornare qui forse aprendo un hotel dice cinico Piergiorgio alla sorella scappata a Milano inseguendo pure lei fantasie di felicità e successo. Ritorni e partenze, la casa che resta lì, i due ragazzi che vanno e vengono, la bimba che corre stando ferma nello stesso luogo verso l'adolescenza. Il movimento del cinema, della poetica (politica) di un cineasta, restare se stessi col cambiamento necessario a esprimere urgenza, vitalità. Come accade a Marco Bellocchio, e questa scatola delle meraviglie che è Sorelle se ci porta con grazia raffinata dentro al suo cinema al tempo stesso libera qualcosa che è sempre diverso, che spiazza e sorprende a ogni fotogramma la rete dei rimandi. Aprendo diverse prospettive, orizzonti inediti, non si tratta di citazioni ma di vere e proprie folgorazioni dentro a una macchina complessa, in continua trasformazione.
É appunto la ricchezza del regista questa sua voglia di sperimentare condividendo insieme a altri - il film ci tiene a dire è stato realizzato davvero in modo collettivo, con la pratecipazione fondamentale di tutti - il suo cinema nell'attimo stesso del diventare narrazione, a messinscena, laddove realtà e finzione si ispirano reciprocamente. Lo sguardo che sentiamo osservare i due figli(zio e nipote) giocare, ridere assolutamente costruito, puro distillato di verità.
Repubblica 21.10.06
Serata memorabile con i due grandi registi che hanno presentato le loro opere e parlato del loro film
di Maria Pia Fusco
Bertolucci e Bellocchio allo specchio "Che bello parlare assieme di cinema"
In "Sorelle" una serie di percorsi della memoria
In "Histoire d´eaux" una vita intera di ricerca
ROMA - La Festa ha avuto la sua serata memorabile: Bellocchio e Bertolucci, gli autori del cinema più bello e importante di una generazione, per la prima volta davanti ad un pubblico entusiasta, estasiato solo all´idea di vederli insieme. A scaldare l´attesa dell´incontro ci sono due esempi del loro cinema. Per Bellocchio il film Sorelle, nel cast un´attrice, Donatella Finocchiaro, un amico di sempre, Gianni Schicchi Gabrieli e tanti Bellocchio: i figli Pier Giorgio ed Elena, le sorelle Letizia e Maria Luisa , che sembra una quieta signorina di una certa età, benestante di campagna, ma è una straordinaria attrice, ironica interprete di valori, vizi, moralismi e vezzi del vivere in provincia).
Ambientato a Bobbio e sul fiume Trebbia con la collaborazione degli studenti di "Fare Cinema", il corso che il regista tiene ogni estate, Sorelle raccoglie tre episodi girati in tempi diversi, dal ´99 al 2005, una serie di ritorni e di partenze, visite per affetto ma soprattutto per interesse al patrimonio delle zie, riunioni di famiglia, dialoghi densi di sottintesi, percorsi nella memoria. Il film, secondo Bellocchio «non è un documentario nostalgico su alcuni componenti della mia famiglia, ma un film di fantasia su chi va e chi resta. La casa è la stessa di "I pugni in tasca". Per comodità, era un set già pronto, visto che è un film improvvisato e precario». Ma "I pugni in tasca" è un riferimento, con fugaci immagini del film in bianco e nero che si intrecciano al presente, Lou Castel, Paola Pitagora, la madre cieca, e per gli spettatori lo stimolo è quello del confronto tra i rapporti famigliari di oggi con quelli di trent´anni fa.
Bertolucci presenta invece 12 magnifici minuti di Histoire d´eaux, una favola sul tempo, con un uomo il quale, nel tempo che impiega alla ricerca di acqua per un vecchio saggio, vive una vita intera, si sposa, diventa padre, invecchia. «Viene da Prima della rivoluzione, la raccontava Adriana Asti, a me l´aveva raccontata Elsa Morante che era appassionata di leggende indiane», dice Bertolucci che ha esaltato la favola rendendo protagonista un musulmano lavoratore clandestino, che trova facilmente amore e felicità con la proprietaria di un bar, spiritosamente interpretata da Valeria Bruni Tedeschi.
Dopo le proiezioni, esemplari della differenza («Sorelle mi ha commosso, rispecchia Marco, nei suoi film lui c´è sempre, ogni volta diventa se stesso, mentre io, ogni volta, penso di essere Godard o Renoir, anche se alla fine sono io», dice Bertolucci), Marco e Bernardo, come li chiama il conduttore Mario Sesti, si incontrano. Piacenza e Parma, la stessa cultura di provincia alle spalle, gli stessi anni di esordio, la memoria del primo incontro. «Nel ´62, a casa di Sandro Franchina, c´erano parecchi allievi del Centro Sperimentale, c´era anche Marco. Quando annunciai che il giorno dopo avrei cominciato a girare il mio primo film, "La comare secca", ci fu un´ondata di incredulità. Di Marco ricordo il silenzio», racconta Bertolucci, affabulatore grandioso, e Bellocchio replica con i suoi toni apparentemente reticenti ma è solo il rapporto con il pensiero. «Fino alla fine degli anni Sessanta ci sono stati incontri non diretti ma ravvicinati, nei Quaderni Piacentini influenzati da intellettuali milanesi c´era sempre un atteggiamento critico moralistico verso il cinema romano. A partire da "Il conformista" le strade si sono separate, ma abbiamo continuato a "guardarci", ci interessiamo l´uno dell´arte dell´altro».
Parlano di cinema e di incontri, di debolezze e di rapporti con la famiglia, accettano di confrontarsi sui rispettivi, distanti rapporti con la psicanalisi. Bellocchio riassume il legame con massimo Fagioli, Bertolucci vanta allegramente le sue ore sul lettino «che se fossero di volo sarai pilota di jet». C´è ancora tanta curiosità e tanta voglia di ascoltarli, ma l´incontro finisce. Peccato.
Il Messaggero 21.10.06
Bertolucci: lavoro e penso d’essere altro Bellocchio: e non chiamateci maestri
di Roberta Bottari
UNA sala da pranzo e un tavolo intorno al quale si mangia, si aspetta, si perde tempo, si gioca a carte e si parla indifferentemente dell’iscrizione alle scuole medie di Elena e dell’esaurimento posti della cappella di famiglia al cimitero («non c’entra più nessuno, ma abbiamo avuto un colpo di fortuna: si è liberata la cappella vicina, per estinzione»). Sorelle di Marco Bellocchio è un affresco sulla vita quotidiana di una famiglia (la sua), realizzato in un film sperimentale di 70 minuti, composto da tre episodi girati in tre anni diversi (1999, 2004, 2005), interpretato dagli studenti della scuola “Fare cinema” di Bobbio, Gianni Schicchi, Donatella Finocchiaro, Pier Giorgio Bellocchio e le sorelle del regista, Letizia e Maria Luisa. Una storia molto reale, alla quale Bernardo Bertolucci “risponde” con un film assolutamente opposto, Historie d'eaux , un corto onirico di tredici minuti. Ovvero la storia del giovane clandestino Narada, di un vecchio suonatore di flauto, di un albero mitologico e di Sabrina (ammesso che i personaggi siano mai veramente esistiti). Grande cinema l’altra sera alla Festa di Roma. E grande incontro alla sala Petrassi dell’Auditorium, perché i due registi hanno accettato di confrontarsi, non solo con i loro film, ma anche raccontandosi davanti al pubblico. Il tema del dibattito, coordinato da Mario Sesti, era ”Quelli che vanno e quelli che restano”, ispirato a due quadri di Boccioni del 1911.
Che si tratta di autori molto diversi è evidente. Loro stessi, peraltro, non lo negano: «A differenza di Marco, che anche dietro la macchina da presa resta violentemente se stesso, quando lavoro io penso sempre di essere qualcun altro. Che so, Godard, Renoir: non gioco mai in ribasso. E, quando eravamo giovani, io amavo la Nouvelle Vague francese, lui invece preferiva il Free cinema inglese, una differenza non da poco. Ma poi, quando vidi I pugni in tasca, mi arrivò un pugno nello stomaco: un capolavoro», ha affermato Bertolucci. Ma è stato Marco Bellocchio a chiudere l’incontro, fermando il pubblico, che li definiva “maestri”: «Per piacere, non chiamateci così e non chiedeteci ricette per diventare registi. La forza per stare dietro la macchina da presa va trovata in se stessi, altrimenti è inutile tentare il nostro mestiere: quando ero ragazzo, a me lo fece capire Antonioni».
Il Giornale 21.10.06
Bertolucci e Bellocchio, faccia a faccia con nostalgia
di Cinzia Romani
Parma contro Piacenza, il rigorismo etico dei Quaderni Piacentini contro il permissivismo sessuale de L'ultimo tango a Parigi, il mondo salvato dalle vecchie zie contro il pianeta multietnico, la psichiatria di rottura di Massimo Fagioli contro il classico Freud, insomma Marco Bellocchio versus Bernardo Bertolucci, due maestri del cinema italiano, ieri a confronto nel corso d'una memorabile serata all'Auditorium, calda di memorie e di pubblico.
Con il pretesto (un po' forzato, per la verità) di far commentare ai registi due quadri di Boccioni (Quelli che vanno e Quelli che restano, 1911), Mario Sesti ha cercato di pilotare il duetto artistico sul tema dell'andarsene lontano, a cercare ispirazione, contrapposto a quello del restare dove si è nati. Per fortuna Marco e Bernardo, vecchi ragazzi impenitenti, se ne sono fregati delle dande discorsive sul «movimento pendolare delle origini», andando a ruota libera tra ricordi e racconti emersi dalle loro cornucopie.
Anche perché entrambi presentavano un «corto» eloquente di suo. Bellocchio accompagnava il documentario Sorelle, saporito frutto della sua scuola di cinema («Fare cinema») che lui dirige da dieci anni, d'estate, in quel di Bobbio, «natio borgo selvaggio» in riva al Trebbia, dove l'autore de I pugni in tasca possiede una vecchia casa di famiglia. La stessa usata per I pugni in tasca (1965), col tavolo di noce, dove Bellocchio mangiava, da bambino, insieme alle sorelle Letizia e Maria Luisa, qui tenere figure familiari evocate con amore e con rabbia, mentre si occupano della nipotina Elena, che ha una madre assente perché attrice, a Milano. E quanto fuoco raffreddato in quei tuffi nel fiume, in certe sere estive dove Giorgio, fratello in conflitto con la sorella Sara, ripensa a sé bambino e le zie sono dolci spettri viventi, inquadrati nello stipite d'una porta, mentre la crostata aspetta in salotto, sull'alzata di porcellana. E si affacciano Lou Castel, Paola Pitagora, Maya Sansa, a citare qualcosa d'indefinibile, che pure esiste. «La famiglia non c'è più», esordisce Bellocchio, striminzito cappottino di fustagno marrone su pantaloni senza età, «Sorelle è stato improvvisato dal mio piccolo corso senza soldi: abbiamo lavorato con i figli, con le sorelle, perché cerco sempre di tirar fuori temi che mi urgono dentro. Né riesco a mettere da parte l'immagine femminile, anche in famiglia: sento la necessità artistica di far riapparire storie familiari, che han fatto parte del mio cinema».
Bertolucci, meno introverso del collega, ha simpaticamente scherzato sul campanilismo Parma-Piacenza affermando: «Trovo bellissimo il film di Marco e guardandolo pensavo alle differenze tra noi due. Ogni volta che ho fatto un film, ho desiderato d'essere qualcun altro, che so Godard o Renoir, non sogni umili, dunque. Bellocchio è sempre stato identico a se stesso, comunque». Zoppicante, per un infortunio alla gamba che lo rende più «maestro» dato il bastone cui si appoggia, Bertolucci portava all'Auditorium un episodio del film Ten minutes older (2002), intitolato Histoire d'eaux, con Valeria Bruni Tedeschi nel ruolo d'una ristoratrice, che sposa uno straniero clandestino, mandato a cercare un po' d'acqua da un vecchio suonatore di flauto. Solo che ci metterà un anno. «È un film sul tempo, la cui storia mi narrò Elsa Morante: le storie d'acqua sono un classico nei racconti indiani», spiega Bertolucci sottolineando come anche nel film del collega «il tempo passi sui volti delle sorelle».
Divertente, infine, il ricordo di Pasolini, incontrato da un Bertolucci quattordicenne: «Pier Paolo venne a cercare mio padre, a casa nostra. Vedendolo con quel viso duro e scuro, lo credetti un ladro e lo chiusi fuori dalla porta». Più tardi, PPP gli avrebbe dedicato una poesia: «Ciò che tu vuoi sapere/giovinetto/si perderà non chiesto/finirà non detto».
La Stampa Tuttolibri 21.10.06
I rossi «diversi» dai neri
di Angelo d'Orsi
EDITORIA, scuola, università, media ricordano i settant'anni dall'inizio della Guerra civile spagnola. Accanto alla Rivoluzione Bolscevica, alla nascita del fascismo, prima della Seconda Guerra mondiale, quello scontro intestino tra repubblicani e nazionalisti, è stato uno dei grandi, terribili eventi storici del XX secolo. Ma chiamarla «guerra civile» è riduttivo: si trattò di un confronto armato internazionale, con nazisti tedeschi e fascisti italiani a dar manforte agli insorti contro il legittimo Governo Repubblicano, guidati dal «generalissimo» Franco; inoltre, quella guerra fu la conseguenza di una rivoluzione, che rinviava a sempiterni valori, con le attese, paure, speranze che le rivoluzioni si portano dietro... Tra i tanti volumi usciti negli ultimi tempi, quello del francese Benassar insiste su questo tratto. Non fu soltanto la difesa della Repubblica, ma fu un tentato, in parte realizzato «assalto al cielo», che per qualche tempo diede l'illusione di un capovolgimento dell'assetto patriarcale, rozzamente capitalistico o grevemente feudale, della società spagnola, dominata da proprietari terrieri e clero reazionario. Fu l'utopia che giunse al potere, prima di esserne violentemente scacciata, con una repressione di inaudita violenza, che certo andava molto oltre i pure esecrabili eccessi compiuti da una parte almeno dei repubblicani (anarchici, comunisti, socialisti...), nel pieno dello scontro. Benassar ha pagine efficaci sull'utopia dei rivoluzionari spagnoli, e dei loro entusiasti supporter venuti da tutto il mondo: lo straordinario fenomeno delle Brigate Internazionali, nelle quali molti italiani si fecero onore, trovandosi a combattere contro altri italiani in camicia nera, per cui Carlo Rosselli, uno dei leaders di quel movimento, lanciò il grido di battaglia: «Oggi in Spagna, domani in Italia». Gli altri, i fascisti, che si arruolarono più per denaro che per affermare un qualche ideale, sono diventati ora, in un libro di facile scrittura, ma di discutibile impianto, I ragazzi del '36. L'onda lunga del revisionismo, insomma, che aveva sfiorato il saggio di Gabriele Ranzato (L'eclissi della democrazia, Bollati Boringhieri, 2004, da me recensito su ttL) è andata avanti, e del resto Ranzato stesso, in uno smilzo volume, sembra volerne trarre le conseguenze politiche, più che storiografiche. Confesso di non aver capito l'intento dell'autore: se si tratta di un pamphlet per sottolineare che la storia deve prendere il posto della memoria (ma trattandosi di due ambiti diversi, possono coesistere), siamo d'accordo; ciò su cui non concordo, è il significato «politico» dell'operazione. Siamo nell'ambito del tema che si riassume nella formula del «passato che non passa»: non mi convince il tono recriminatorio e prescrittivo di Ranzato, che sembra voler impartire una lezione un po' a tutti, protagonisti di ieri, spagnoli di oggi. Gli uni, i «neri» e i «rossi» del '36, in quanto sbagliarono politicamente; e gli altri, ossia gli spagnoli di oggi, in quanto incapaci di lasciarsi alle spalle quel passato. E perché mai dovrebbe essere archiviato e, settant'anni dopo, affidato soltanto alla Storia? Se è ancora sangue vivo, è sofferenza e rancore, solo la scomparsa dalla scena degli ultimi protagonisti e dei loro discendenti diretti, può forse riuscire nell'intento. La solita storia della memoria condivisa, su cui mi pare di non dover aggiungere nulla a quanto ha scritto Sergio Luzzatto nel suo La crisi dell'antifascismo (Einaudi). In ogni caso, se Ranzato me lo concede, preferisco in lui lo storico, al precettore dei popoli... Del resto Benassar, che condivide molti di tali punti di vista, spiega che mentre le guerre fra nazioni quando finiscono, finiscono, quelle civili non finiscono mai. La repressione accanita esercitata da Franco contro gli avversari sconfitti non ha l'eguale nella storia d'Europa, specie se si pensi che tale azione fatta di incarcerazioni, torture e esecuzioni capitali, proseguì per decenni. Benassar ricostruisce con sguardo partecipe, anche troppo giudicante, soprattutto la vicenda dell'esilio (in particolare in Francia) di decine di migliaia di questi vinti, con tutte le ulteriori tragedie che esso potè significare; ed è questo il merito fondamentale del suo lavoro. La storia di quell'utopia rivoluzionaria che giunge al potere, facendo cose buone e cose meno buone, e anche cose pessime, è più equanimamente ricostruita da uno studioso non professionista, in una rielaborazione di un suo lavoro di trent'anni fa: Antony Beevor - questo il suo nome - ci racconta, da narratore, però documentato, di quell'utopia che subì una pesante involuzione, con il prevalere dell'influenza dell'Urss di Stalin e dei suoi emissari. Come Benassar, Beevor vede i due campi comportarsi, alla lunga, come agenzie della menzogna e del terrore; in entrambi i campi, pronti a giustificare o glorificare, si fecero avanti gli intellettuali, di modesto o di nessun rilievo, i nazionalisti, di grande o grandissimo valore i repubblicani (a cominciare dal nome simbolo, Garcia Lorca, ucciso dai falangisti nel '37, quando in Italia moriva, vittima del regime Gramsci, e in Francia i cagoulards in combutta coi fascisti ammazzavano i Fratelli Rosselli). Ma fu davvero la stessa cosa, il terrore degli uni e quello degli altri? Diversamente da Ranzato, da Benassar e da Griner, Beevor, pure attentissimo alle equivalenze, risponde con chiarezza: mentre per i franchisti il terrore fu sistematico, programmato, durando decenni, anche dopo la loro vittoria, nelle zone «rosse», la politica di terrore «fu soprattutto un'improvvisa reazione, che si spense presto, alle paure represse, esasperata dal desiderio di vendetta del passato». Sono queste le domande che ci si deve porre, al di là della contabilità di morti, feriti, incarcerati, se non si vuole cadere in una forma di «pansismo», sia pure di tutt'altro livello. Occorre insomma chiederci, come aveva una volta ammonito Bobbio, per che cosa combattevano gli uni e gli altri. E anche se nella Spagna repubblicana, i comunisti staliniani, spesso più attenti a distruggere trozkisti e anarchici che a lottare contro i nazionalisti, miravano probabilmente a regimi non democratici, arrivando a esecuzioni sommarie, processi farsa, internamenti, che sarebbero continuati in Unione Sovietica, contro membri delle Brigate Internazionali, non v'è dubbio che la rivoluzione abortita aveva come fondamentale scopo l'abolizione di un ordine decrepito, ingiusto, vessatorio verso i ceti deboli. Quell'ordine era garantito dalla Chiesa cattolica, che non a caso fu la migliore alleata di Franco, più ancora della Germania nazista e dell'Italia fascista. Alla vittoria della Falange, gerarchie e clero spagnolo diedero un contributo non soltanto simbolico. Era la nuova reconquista, una «crociata» per la limpieza della sacra terra ispanica, che Franco, con la croce e con la spada, volle «ripulire» da comunisti, socialisti, democratici, massoni, ebrei... «Leviamo i nostri cuori a Dio», telegrafò Pio XII al caudillo giunto vittorioso a Madrid alla fine di marzo del '39: «Porgiamo sincere grazie a Vostra Eccellenza per la vittoria della Spagna cattolica». Galeazzo Ciano, sul suo diario, annotava: «È una formidabile vittoria per il fascismo, forse la più grande finora». Al fascismo italiano, quella vittoria era costata cara, in termini economici e di vite (il libro di Griner lo documenta chiaramente); ma sul piano internazionale fu un successo, che valse nondimeno a far aprire gli occhi al mondo sul pericolo nero. Ma, grazie al fatto di rimanere fuori dalla Guerra, malgrado le pressioni italo-germaniche, e poi con l'avvio della Guerra Fredda, Franco si salvò e con lui il suo regime, che durò un quarantennio, attuando una spietata politica di vendetta verso quella metà del Paese che, fedele alla legittima Repubblica, lo aveva osteggiato. E ciò nel silenzio dell'Europa, che con quel dittatore sanguinario convisse tranquillamente. Forse, come si chiedono sia Benassar sia Beevor, se avessero vinto i «rossi» - ma Stalin lo voleva? - la Spagna sarebbe stata una nuova Romania; non lo sappiamo. Sappiamo però che cosa è stata la Spagna nazionalcattolica dopo la Guerra civile. L'invito ad «accettarsi nelle loro differenze» tra vincitori e vinti, e soprattutto ormai i loro eredi, con tali premesse appare difficilmente accoglibile. Almeno per ora. Alla Storia il suo compito, e alla memoria, individuale e collettiva, il suo.
l’Unità 21.10.06
DIPLOMA «HONORIS CAUSA» IN REGIA PER INGRAO
SETTANTUNO ANNI DOPO L’ISCRIZIONE AL CENTRO
di g. ga.
Ieri il presidente Francesco Alberoni gli ha consegnato il titolo "honoris causa"
«Mi piacciono gli elogi più dei rimbrotti, anche perché i miei non erano proprio tempi di elogi». Pietro Ingrao ieri sera alla Festa di Roma ha tenuto a battesimo la proiezione della versione restaurata di Ossessione di Visconti. E da vecchio studente del Centro sperimentale di cinematografia ha ricevuto il diploma honoris causa in regia, a coronamento di una passione, quella, per il cinema alla quale è stato sottratto dalla guerra e, poi, dalla politica. La Sua iscrizione al Centro sperimentale, infatti, risale alla metà degli anni Trenta. «Ingrao si è iscritto nel 1935 al corso di regia - ha detto Francesco Alberoni, presidente del Centro sperimentale - ma non ha mai ricevuto il diploma, avevamo già pensato di riparare e la Festa di Roma ci è sembrata l'occasione più giusta». Negli anni Trenta, con Ingrao, c'era un gruppetto niente male di amici: Giuseppe De Santis, Gianni Puccini e Mario Alicata. In breve i quattro amici entrano nella cerchia di Visconti. E Pietro inizia anche a scrivere un soggetto per il grande regista che di lì a poco avrebbe segnato l'inizio del neorealismo proprio con Ossessione. A firmarne la sceneggiatura sono, però, Puccini e De Santis. Il giovane Ingrao è «alle armi» in quei tempi di resistenza. Però il cinema, in fondo, non lo abbandonerà mai. E ieri sera la sua partecipazione alla Festa è stata accompagnata da un grande calore e da una sua lunga introduzione al film. A cominciare dal perpetuo stupore per la settima arte, «l'unica» capace di poter raccontare il mondo in movimento.
Repubblica 21.10.06
A Ingrao il diploma del Centro Sperimentale "Amo molto il cinema, rivoluzione del secolo"
di Roberta Rombi
ROMA - «Sono abbastanza vanitoso, devo confessarlo e preferisco gli elogi ai rimbrotti. Ho percorso anni molto duri in cui c´era poco da ricevere lodi ma molto da combattere». Un commosso Pietro Ingrao ha esordito così ieri quando gli è stato consegnato il Diploma honoris causa in Regia da Alberoni, presidente del centro Sperimentale che così ha motivato il riconoscimento: «Il Centro Sperimentale ha un debito nei riguardi di Ingrao perché non gli ha mai consegnato il diploma. Era iscritto nel 1935 al corso di regia poi ha abbandonato il cinema ma ha continuato a scriverne e a guardare al cinema come espressione dei sogni e delle speranze della nostra società».
«Il cinema» ha spiegato Ingrao «è stato il grande evento del secolo scorso» e ha ricordato come per millenni la rappresentazione della realtà, attraverso pittura e scultura «fosse stata costretta da immagini e paesaggi statici. «Negli anni in cui sono vissuto è avvenuta una svolta» continua Ingrao «le immagini si sono messe in movimento. Nel cuore di questo terribile secolo è avvenuta una rivoluzione che ci ha costretto a guardare il mondo in modo diverso, nel modo di relazionarsi degli uomini e nel modo di raccontare i loro pensieri, le loro guerre».
«Ho molto amato il cinema con i miei amici Puccini, De Santis e Alicata» ha ricordato Ingrao. Gli amici sono entrati poi nella cerchia di Visconti e hanno collaborato con lui, tranne Ingrao in quegli anni partigiano, alla realizzazione di "Ossessione", proiettato ieri in versione restaurata. Ingrao ha parlato per un´ora ricordando la sua passione per il muto e la partecipazione al neorealismo. «L´ho fatta molto lunga» ha concluso «ma voi mi scuserete. Con i vecchi succede questo».
Corriere della Sera 21.10.06
Montezemolo:«Stop a sinistra massimalista»
Nuovo attacco alla manovra: «Ispirata a un logica vecchia, è senz'anima e classista». E alla Cdl: «Non serve la piazza»
Poi il monito: «Cambiare rotta, i riformatori battano il massimalismo»
ROMA - I riformisti battano un colpo. Il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, torna a criticare in profondità la manovra 2007, che in queste ore sta avanzando alla Camera. Per il leader degli industriali il difetto più grave della Finanziaria varata dal governo Prodi è che è priva di «spirito riformatore». Non solo. Manca di «visione» e di «anima» ed è «classista». Da qui il monito a «modificare la rotta perché il tempo stringe», condito da un appello alle forze riformatrici a farsi sentire, a incidere sulla riscrittura della legge di bilancio e a «battere i massimalisti» che risiedono nella maggioranza.
LA LETTERA - Nel messaggio al seminario Glocus 2006, pensatoio della Margherita, l'attacco è mirato. «Sono riemerse vecchie locuzioni classiste che dividono il Paese» scrive Montezemolo. Ma, avverte, «non è questo ciò di cui il Paese ha bisogno. Non sarà l'invidia che ci porterà nel futuro». Poi, intervenendo al Forum di Piccola Industria a Prato, rafforza il concetto: «Non possiamo più avere una coalizione come quella attuale con la sinistra conservatrice e massimalista». In Toscana fa un riferimento indiretto anche alla manifestazione della Cdl a Vicenza: «Per affrontare i problemi reali del Paese non abbiamo bisogno della piazza ma di proposte e decisioni». E mette all'indice i fischi all'inno di matrice leghista: «Ho saputo che a Vicenza hanno fischiato l'inno di Mameli. È una cosa vergognosa, una forma di populismo che non ci piace».
LA CRITICA - «Il Paese ha bisogno di forze riformatrici ed orientate al futuro, per battere un massimalismo che è ancora troppo diffuso: io resto convinto che queste forze ci siano - dice Montezemolo nella lettera al seminario- e che, se stimolate, risponderanno positivamente a chi avrà il coraggio di avviare un discorso nuovo». Criticando duramente gli atti del governo il leader degli industriali ricorda che «non abbiamo bisogno di uno Stato che ci indichi i settori in cui investire, abbiamo bisogno di imprese libere che cerchino da sole le loro strade e di cittadini e lavoratori preparati e pronti per il futuro».