A buon diritto
È la paura dello straniero, bellezza
Luigi Manconi e Andrea Boraschi
Capita anche questo. Che giovedì 19 ottobre si potevano leggere, sull'home page del sito del Corriere della Sera, i seguenti titoli di testa: «Perugina, picchiata e violentata: fermati due romeni»; e poi, con riferimento all'incidente nel metrò di Roma, «La storia dei due angeli romeni, fuggiti dopo aver aiutato». Capita, cioè, che quell'informazione sulla nazionalità, in riferimento ai protagonisti di due fatti di cronaca di segno così distante, finisca per acquisire un valore particolare, che molto suggerisce sulla «cornice di senso», attribuita dall'informazione giornalistica alla questione-immigrazione.
Così, innanzitutto, apprendiamo di una donna e della sua sciagurata storia di violenza e sopraffazione: «Prima un aperitivo e due chiacchiere davanti al bancone del bar, poi la proposta di seguirlo nel suo appartamento. Qui le minacce, le botte e la violenza sessuale, perpetrata per quasi tutta la notte, dall'uomo che l'aveva invitata e da un suo amico. È la sorte toccata ad una donna di 37 anni di Perugina, che ha riconosciuto come suoi aggressori due cittadini rumeni di 31 e 32 anni, clandestini, ora sottoposti a fermo di polizia giudiziaria con l'accusa di sequestro di persona, violenza sessuale e lesioni aggravate».
Punto e a capo e leggiamo dei soccorsi prestati, con tempestività e coraggio, nel caos dei minuti seguiti alla collisione dei treni, nel sottosuolo di Roma: «Chi erano e dove sono finiti i due stranieri che hanno aiutato i feriti, li hanno confortati ma anche curati, così come potevano, nei primissimi istanti della tragedia? Appena arrivati i soccorsi ufficiali e le forze dell'ordine sono infatti scomparsi, probabilmente fuggiti. Ora molti dei passeggeri cercano questi due uomini, romeni dicono, che si sono dati da fare. "Forse sono due clandestini ma la gente si è rivolta a noi per ringraziarli", dicono due tecnici che hanno lavorato per ripristinare la metropolitana. (…) Al momento dell'impatto dei due treni avvenuto i due romeni non hanno perso la calma e ovunque sentivano un grido o un lamento si precipitavano. Hanno aiutato molti a liberarsi dalle lamiere, alcuni passeggeri li hanno visti praticare massaggi cardiaci e respirazioni bocca a bocca. Hanno avuto parole di conforto per tutti, incuranti del fatto che la tragedia la stavano vivendo anche loro. Ma poi con l'arrivo dei soccorsi e delle forze dell'ordine, i due si sono dileguati, correndo per le scale mobili e senza lasciare nessuna traccia». Nel primo caso, come nel secondo, quel dato sulla nazionalità dei protagonisti dei fatti viene trattato con assoluto rilievo. Cosa vuole «spiegare»? Cosa intende suggerire? La notizia (il suo carattere di eccezionalità, per così dire) è nella violenza, in un caso, e nell'altruismo disinteressato, nell'altro? O ha qualcosa a che fare con la costruzione mediale di uno stereotipo fosco e nell'eccezione che lo promuove a regola? Uno stupro ha un valore diverso, se a commetterlo è un italiano o uno straniero, un uomo alto o tarchiato, biondo o moro, povero o ricco? Come pure: un atto di eroismo è ancor più eroico, e «più nobile», se proviene da chi in Italia non è nato e forse non potrebbe risiedervi, perchè - così dicono i mass media, la pubblica opinione e la legge - «clandestino»? Non ci nascondiamo dietro a un dito: sappiamo che una parte significativa della aggressioni alle donne, di cui si ha notizia, vede protagonisti immigrati irregolari (rumeni, in misura rilevante); come sappiamo che, per chi deve nascondersi alla giustizia perché sprovvisto di un permesso di soggiorno, rimanere sul luogo di un incidente come quello di Roma comporta un margine di rischio non trascurabile. Non ci nascondiamo, altresì, che il tono complessivo della comunicazione a mezzo stampa (e non solo) si risolve assai spesso in una narrazione cupa e morbosa, correlata all'allarme sociale e giocata sull'associazione tra immigrazione (per lo più irregolare) e devianza. E non dimentichiamo che esiste una realtà consistente, frammentata e tutt'altro che univoca, nei suoi caratteri qualificanti, che si chiama «giornalismo locale»; e che racconta, sovente, di un'Italia in miniatura non così diversa, nel suo senso comune, da quella che finisce sulle prima pagine dei quotidiani nazionali. Un' Italia fatta di senegalesi sorpresi con dvd contraffatti, ladri di polli ucraini arrestati dai carabinieri, gente che scopre un immigrato in sella alla bici rubata tre giorni prima alla madre (non sono titoli di fantasia). È la sedimentazione, costante e inesorabile, di un paradigma cognitivo che associa la condizione di straniero - fisiologicamente, verrebbe da dire - a quella di pericolo sociale. Eppure, i dati parlano chiaro: la maggior parte (oltre il 90%) degli stupri e delle violenze sessuali avviene in famiglia e tra le mura domestiche, a opera di genitori o parenti. Lo sappiamo: mentre giovani maghrebini o slavi assaltano donne italiane, un numero ben maggiore di uomini italiani assalta donne italiane (o maghrebine o slave). Lo sappiamo, ma saperlo non risolve assolutamente niente. Non aiuta a difendere le donne e non contribuisce nemmeno a ridurre la xenofobia (che, alla lettera, significa «paura dello straniero») nei confronti della popolazione immigrata. È come se la violenza di un italiano contro un'italiana facesse parte di un paesaggio conosciuto, ancorché pericoloso e, appunto, «familiare»; per contro, è come se lo stupro a opera di uno straniero evocasse paure ancestrali, risuonasse nell'inconscio collettivo come l'eco di una maledizione antica, di una calamità fatale. E «straniero» e «barbaro». A quel male (a questa costruzione di un «altro da sé»), il giornalismo nostrano oppone, quando può, una cronaca «più edificante» e risarcitoria: e ci tiene a informare che gli angeli del metrò di Roma sono stranieri (e magari non innocui filippini, magari romeni...); che la badante 27 enne che quest'estate morì nel mare dell'Argentario per salvare la bambina che accudiva da due anni, era honduregna e senza permesso di soggiorno. Chi è mai, allora, questa gente approdata in Italia da luoghi vicini e talvolta remoti, sovente così violenta ed efferata, talvolta capace di tanta gentilissima e sublime umanità? La domanda esige un'opera, tutt'altro che banale, di comprensione e «riconoscimento». Solo se quest'opera verrà realizzata, gli stupratori rimarranno sullo sfondo, confusi e ridimensionati - e arrestati e condannati - tra tanti altri stranieri, che non stuprano e non delinquono: e che sono così simili a noi, gente comune tra gente comune, con molti difetti e qualche virtù. Gente che non fa notizia, che non finisce sui giornali.
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it
l’Unità 22.10.06
«La scienza farà precipitare l’uomo come Icaro»
Papa Ratzinger attacca: «Attenti alla ricerca fine a se stessa, l’uomo non può farsi prendere dal gusto della scoperta»
di Roberto Monteforte
«SENZA VERITÀ non c’è vera libertà». Parte da questa considerazione, dalla verità «cristana» da affermare nella società contemporanea, Papa Benedetto XVI per lanciare un duro monito agli uomini di scienza. Attenti alla ricerca fine a se stessa, al gusto della
ricerca: si rischia di fare la fine di Icaro, «con conseguenze disastrose per la propria ed altrui esistenza». Così parla ad un Occidente che vede in crisi, che ha perso la sua identità.
L’occasione è la visita alla sua università, la Pontificia università Lateranense per l’apertura dell’anno accademico. Ad accoglierlo c’è il «Gran cancelliere», cardinale Camillo Ruini e il rettore, mons. Rino Fisichella.
Il luogo accademico lo ispira. Così il Papa torna a porre un tema caro al «teologo» e al «professor» Ratzinger: quello della «crisi di cultura e di identità» nella società contemporanea. Effetto - sottolinea - della perdita di rapporto con la «tradizione». Ma il suo non è un discorso astratto, generico. Parla a docenti, ricercatori, studenti. Vuole essere chiaro. «Il contesto contemporaneo - spiega - sembra dare il primato a un’intelligenza artificiale che diventa sempre più succube della tecnica sperimentale e dimentica in questo modo che ogni scienza deve pur sempre salvaguardare l’uomo e promuovere la sua tensione verso il bene autentico». Per Ratzinger «soppravalutare il “fare” oscurando l’”essere”, non aiuta a ricomporre quello che definisce «l’equilibrio fondamentale di cui ognuno ha bisogno». Quindi porre e porsi limiti nell’interesse della persona e della collettività. L'uomo moderno - insiste - non deve «lasciarsi prendere dal gusto della scoperta» scientifica senza «salvaguardare i criteri che vengono da una visione più profonda». Ricorre ad una figura mitologica «attualissima», al dramma di Icaro che - racconta - «preso dal gusto del volo verso la libertà assoluta e incurante dei richiami avvicinandosi al sole cade rovinosamente al suolo dimenticando le che ali con cui si era alzato verso il cielo erano di cera». Questo sarebbe il rischio per la scienza nella società contemporanea. È facile pensare alle frontiere della Bioetica, alle ricerche sulla manipolazione genetica e agli altri ambiti della scienza considerati a rischio. L’insidia per il Papa è quel relativismo culturale cui - lo ha ribadito ieri - contrapporre la «verità cristiana». E non come atto meramente speculativo, ristretto a «una piccola cerchia di pensatori», ma per promuovere la conoscenza e «dare profonda identità alla vita personale». Un percorso essenziale per evitare che la vita sia ridotta «ad un ventaglio di ipotesi», senza certezze. Spetta ai docenti universitari - ha rammentato Ratzinger - il compito non solo «di indagare la verità», ma anche «di promuoverne la conoscenza in ogni sfaccettatura e difenderla da interpretazioni distorte o riduttive».
Per un credente cercare la verità significa cercare Dio, «che non è una parola vuota»: indicata come la vera libertà. E per chi non crede? Benedetto XVI ritorna a quel «veluti si Deus daretur» (vivere come se Dio ci fosse). La sua sfida alla cultura laica, che è poi l’invito a vivere rispettando comunque un codice etico.
Un discorso in sintonia perfetta con il cardinale Ruini che ringrazia il Papa per la sua battaglia culturale affinché «siano superate le diverse forme di relativismo e agnosticismo che limitano e contraddicono la forza dell’intelligenza». Ma soprattutto con il rettore dell’Ateneo pontificio, mons. Rino Fisichella, alfiere della crociata contro il relativismo. Ricorda come nell’ultima visita all’ateneo l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede avesse come interlocutore Marcello Pera, già presidente del Senato, il campione degli «atei devoti», sponda convinta del «Ratzinger-pensiero». (...)
Il 20 novembre si terrà una visita importante: il Papa riceverà in udienza il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che proprio ieri ha difeso la laicità dello Stato.
l’Unità 22.10.06
«La verità della Chiesa è già data, inutile cercarla...»
Il sarcasmo e la delusione degli scienziati: «Nostro compito è trovare strade nuove»
di Manuela Modica
VOLARE «Che la scienza debba occuparsi dell’uomo è condivisibile, se però l’obiettivo è quello di raggiungere la verità suggerita dal Papa allora non ci siamo», ha commentato così Carlo Bernardini, fisico, direttore della rivista Il Sapere, il discorso tenuto ieri mattina alla Pontificia Università Lateranense da Papa Benedetto XVI. Discorso che non poteva non suscitare reazioni nel mondo scientifico, al quale era anche indirizzato, con il riferimento alle sventure di Icaro. «La maggior parte degli uomini di scienza vive nel dubbio e non parla mai di verità - ha continuato Bernardini - così la Scienza dovrebbe essere finalizzata a una ricerca di tipo religioso. L’Università e l’attività di ricerca che svolge deve avere un obiettivo altruista e la chiesa dovrebbe insistere su questo, ma partendo dalle condizioni reali in cui si trova l’umanità, non riferendosi come al solito a una ricerca della verità, che poi dovrebbe essere Dio». Più sarcastico Edoardo Boncinelli, capo del Laboratorio di Biologia Molecolare dello Sviluppo presso il Dipartimento di Ricerca Biologica e Tecnologica dell'Istituto Scientifico San Raffaele che in riferimento al discorso di Ratzinger ragiona: «Non si può dire niente contro l’esortazione a cercare la verità, ma naturalmente se la verità è già data è inutile cercarla. Se la dobbiamo cercare non possiamo anticipare quale verità sarà. La distinzione tra conoscere e fare poi - ha zoommato Boncinelli - non mi sentirei di sottoscriverla, perchè il fare ci ha permesso di conoscere. Basta pensare alle strumentazioni, microscopio o telescopio che ci hanno permesso di conoscere il mondo grande e piccolo».
Ben piu’ conciliante invece il Professor Ignazio Marino, chirurgo specializzato in trapianti d’organo, nel 1992 fu il primo a trapiantare un fegato di babbuino nel corpo di un uomo, esperimento che all’epoca fu “benedetto” da Giovanni Paolo II, oggi Senatore e Consulente scelto dal Ministro della Sanità per la Consulta Tecnica Permanente del Centro Nazionale per i Trapianti. Marino non riscontra nelle parole del Papa una «limitazione. Il papa come leader religioso ha tutta la libertà di poter esprimere il pensiero che ritiene più adeguato. La scienza deve comunque investigare liberamente. Ovviamente deve esistere un codice di comportamento etico, e una cosa è il codice a cui si ispira una religione, ben altra è quello a cui si deve ispirare la maggioranza dei cittadini di quel Paese. Lo scienziato ha il compito individuare strade nuove - ha aggiunto Marino - poi è il Paese che deciderà se e come investire risorse in quella linea di ricerca. Questo non è certo compito di nessun leader religioso, che pero’ deve poter esprimere la propria opinione».
Corriere della Sera 22.10.06
Giulio Giorello:
«Ma quel volo è un gesto di coraggio e libertà»
MILANO — «L'immagine di Icaro evocata da Ratzinger va benissimo. Ma a quel mito io preferisco il profeta Muhammad, quando dice: se vuoi il sapere, viaggia più lontano che puoi, fino in Cina...». Giulio Giorello, docente di Filosofia della scienza e «laicista», rovescia così la citazione del Papa.
Ma il riferimento a Icaro non le dispiace.
«Tutt'altro. Purché si legga nella maniera spregiudicata di Giordano Bruno: che in un momento capitale della modernità, e sul finire del '500, quando nasceva la scienza moderna e lo Stato lottava contro le fazioni che volevano imporre il "Vangelo armato", riprende l'immagine di Icaro come simbolo del coraggio di chi rischia nella ricerca e non ha paura di cadere».
Benedetto XVI mette al centro la verità...
«Ma Bruno ci dice proprio che la morte in nome della verità, quella scientifica in particolare, è meglio di una vita grigia da sottomesso. Dietro l'elogio di Icaro che non teme di morire c'è la tensione per la libertà di ricerca, il gusto di mettere in dubbio i dogmi, che sono le radici e l'identità del migliore Occidente. La cultura moderna sta anche nella capacità di rovesciare la favola».
E le tradizioni di cui parla il Pontefice?
«L'università non deve essere, piuttosto, un centro di innovazione? Non tocca agli atenei ammaestrare sul senso della vita. Anzi, penso che più la scienza progredisce, più saremo capaci di cercare Dio a modo nostro. In lotta interna, come diceva Lutero».
Repubblica 22.10.06
La chiesa che piace agli atei devoti
di Eugenio Scalfari
Il tema odierno delle mie riflessioni sarà il raduno cattolico di Verona e i discorsi del Papa pronunciati l´altro ieri in quel raduno e ieri – con analoghi argomenti – all´Università Lateranense. Si tratta infatti di questioni di capitale importanza culturale e politica che riguardano cattolici e non cattolici, credenti e non credenti.
Ma non posso, in rimessa, trascurare alcuni recenti aspetti dell´attualità politica italiana che riguardano la tenuta del governo e della sua maggioranza, il rapporto del presidente del Consiglio con la stampa, il giudizio di due agenzie di "rating" sulla Finanziaria e la risposta dei mercati. L´opinione pubblica segue con preoccupata partecipazione queste vicende e noi con essa, sicché dobbiamo occuparcene sia pure con la necessaria brevità.
L´opposizione – in particolare il partito di Forza Italia – sta tentando di dare una spallata al governo cavalcando il malumore con cui è stata accolta la Finanziaria e alcuni evidenti errori di comunicazione che sono stati compiuti. Pensare che il governo imploda a causa di quegli errori significa tuttavia confondere l´apparenza con la sostanza. L´apparenza conta, ma la sostanza prevale, perciò il governo non imploderà.
La Finanziaria aveva tre obiettivi: rientrare nei parametri del patto di stabilità europea, perequare le divergenze più stridenti tra le fasce sociali più deboli e quelle benestanti, incentivare lo sviluppo e la competitività. Questi obiettivi sono nettamente presenti nella manovra da 35 miliardi pur nelle ristrettezze finanziarie che il governo ha ereditato dal suo predecessore. Il punto negativo riguarda il contenimento strutturale della spesa e la prevalenza del ricorso alle entrate fiscali e contributive, postergando ai prossimi mesi le riforme.
È tuttavia falso sostenere che la dinamica della spesa sia rimasta invariata: è rallentata quella regionale, è stato stipulato un patto di stabilità efficace con gli enti locali, è stata significativamente ridotta la dinamica della spesa nella pubblica amministrazione.
Il ricorso alla leva fiscale era d´altra parte imposto dalle circostanze: la Commissione europea darà il suo definitivo giudizio sullo stato della nostra economia subito dopo l´approvazione della Finanziaria.
Pensare che a quella data le auspicate riforme avrebbero provveduto alla provvista delle risorse necessarie era un´illusione. Certo, la maggioranza ha marciato in ordine sparso e questo non ha giovato (non giova) né alla sostanza né all´apparenza.
Segnalare queste circostanze per ciò che hanno di positivo e di negativo è compito precipuo della stampa la quale, a nostro avviso, ha adempiuto ai suoi doveri di informazione e di analisi. Con le differenze di tono e di accento che rendono diverse le varie testate giornalistiche.
Per quanto direttamente ci riguarda, noi siamo da sempre un giornale di ispirazione democratica di sinistra, favorevole alle riforme, all´innovazione, alla solidarietà sociale, all´eguaglianza dei punti di partenza. Vediamo e giudichiamo i fatti da questo nostro punto di osservazione. La nostra ispirazione di sinistra non ci ha mai fatto velo agli errori che la sinistra politica può commettere così come, in ambiti diversi ma analoghi, la nostra appartenenza ideale alla cultura politica occidentale non ci ha mai fatto velo agli errori commessi dagli Usa e la nostra adesione alla sicurezza dello Stato di Israele non ci ha mai impedito di criticarne la cattiva politica nella regione mediorientale.
Quanto al brutto voto di due agenzie di "rating" esso suona un campanello d´allarme, in parte dichiaratamente determinato dai lasciti fallimentari del precedente governo. I mercati comunque non hanno seguito quel voto, le ripercussioni sugli oneri del nostro debito pubblico non ci sono state. Ci sarebbero sicuramente – e sarebbe drammatico se questa eventualità dovesse verificarsi – se il profilo della Finanziaria venisse stravolto nel passaggio parlamentare e se, nei mesi seguenti, il programma di riforme non fosse rispettato nei termini indicati nel luglio scorso dal Documento di programmazione economica.
Fine della (doverosa) premessa.
* * *
L´assise cattolica di Verona e i discorsi del Papa e di alcuni cardinali, in particolare Tettamanzi in apertura e Ruini in chiusura.Gran parte dei commenti hanno messo in grande risalto il diverso atteggiamento di Tettamanzi da un lato e del Papa e Ruini dall´altro, nel giudizio sugli «atei devoti». Un ossimoro che ha fatto fortuna in Italia più che altrove, visto che noi siamo maestri nel campo degli ossimori, cioè nelle contraddizioni lessicali ridotte a significati convergenti e addirittura univoci. Dall´ossimoro all´univoco. Benedetto XVI ha detto che è importante accogliere quegli uomini di cultura che accettano di comportarsi secondo i dettami del Vangelo anche se non credono nel Dio cristiano. Parrebbe che Tettamanzi abbia detto il contrario. Ma a me non sembra, leggendo i testi.
L´arcivescovo di Milano ha detto un´altra cosa, molto diversa. Ha detto di preferire i cristiani silenti ai cristiani che si proclamano tali ma non si comportano cristianamente. Gli atei devoti non si proclamano affatto cristiani. Si proclamano invece laici non credenti, ma sostengono le ragioni "politiche" ed anche i messaggi evangelici della Chiesa per volgerli ad obiettivi politici che sono loro propri. Quando quei messaggi collimano.
Non le accettano quando i cattolici si dichiarano contro la guerra americana. Non le accettano sull´immigrazione. Non accettano le critiche al capitalismo. Li fanno invece propri quando si parla di educazione cattolica, scuole cattoliche da finanziare, discriminazione nei confronti delle coppie di fatto, ostacoli alla fecondazione artificiale, revisione della legge sull´aborto. Dove si vede che gli atei devoti non sono i cristiani deboli ai quali si indirizzava Tettamanzi, ma conservatori forti che tra i messaggi della Chiesa scelgono quelli che meglio convengano alla politica conservatrice e possano rappresentare altrettanti cunei per disgregare la malcerta coalizione di centrosinistra.
Ed ecco la ragione per cui una parte rilevante dei giornali di ispirazione centrista valorizza la "buona accoglienza" di Ratzinger-Ruini al contributo degli atei devoti, così come valorizza Montezemolo, Draghi, Monti, quando criticano il governo e ne tacciono o sorvolano quando (di rado) lo lodano.
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Dunque il centro della questione non è la differenza con Tettamanzi. Mi permetto di autocitare il mio commento all´indomani della lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona: il centro della questione sta nel rapporto, che data dagli albori della patristica e si sistematizza nella scolastica di Tommaso, tra fede e ragione nel quadro di un´architettura che il Papa ha delineato ancora una volta a Verona e all´Università lateranense e che vede la teologia come massimo architrave della filosofia, della scienza e della libertà. La teologia è un sostantivo che non ha bisogno di attributi, gli altri sostantivi di questa architettura si qualificano invece con gli attributi. La ragione dev´essere ragionevole, la filosofia deve cercare la verità buona, la scienza deve spiegare l´universo nel quadro di quel disegno intelligente che promana dalla sapienza e dall´amore del Creatore. Quanto alla libertà, è stata concessa all´uomo affinché i figli di Adamo "liberamente" scelgano di realizzare il disegno di Dio.Questo è il nocciolo del problema. Ma qui, inevitabilmente, la visione della Chiesa si scontra con quella laica la quale non riconosce attributi alla ragione né alla scienza né alla libertà. Non accetta – la visione laica – uno statuto ancillare alla filosofia, alla ricerca scientifica, alla libertà.
La visione laica ha grande rispetto per le persone di fede; ne ha molto meno per la fede ipocrita, proclamata ma tradita nella vita pratica; ma postula l´autonomia e riconosce i limiti della ragione. Una ragione autonoma e non ancillare non si pone il problema di puntellare una fede ma proclama anzi la propria incompetenza in materia.
La ragione non insegue un senso ultimo né una verità ultima e assoluta. Il suo senso è la vita, la nostra vita. Molti dei valori cristiani ed evangelici coincidono con la morale laica: il rispetto della vita, l´amore del prossimo, la difesa dei deboli dalle prevaricazioni dei prepotenti, l´anelito verso la pace e la fratellanza, la libertà dell´individuo che non nuoccia alla libertà altrui.
La visione laica ammira l´insegnamento di Gesù di Nazareth come ammira quello socratico e quello del Budda.
Perciò ben venga l´attivismo cristiano incoraggiato da Benedetto XVI purché non interferisca con la politica la filosofia la scienza e la libertà senza aggettivi.
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Concluderò con un problema lessicale che è sostanza è non apparenza. La parola «laico» ha un campo semantico molto vasto. Distingue anzitutto i non chierici dai chierici. Quando il Papa e i vescovi si rivolgono al laicato cattolico stanno parlando alla loro Chiesa, formata soprattutto da laici. I delegati diocesani di Verona erano appunto cattolici non-chierici, non presbiteri. Osservo dall´esterno che i cattolici laici hanno ancora scarso peso all´interno della Chiesa, infinitamente minore dei cattolici laici nella Chiesa delle origini. Ma questi sono fatti loro e non miei.Ci sono poi i laici cattolici. Volete un esempio alto di laici cattolici? Carlo Azeglio Ciampi. Luigi Einaudi. Ma ci metterei anche Pietro Scoppola e un´infinità di altri, tra i quali a giusto titolo anche Romano Prodi.
Infine i laici senza aggettivi, che seguono ragione e libertà, fratellanza e giustizia, senza l´appiglio della fede.
In questa sommaria classificazione c´è anche posto per gli atei devoti. Ci sono stati molti Papi in questa categoria. Il più significativo folcloristicamente parlando fu il Borgia, ma prima e dopo di lui ce ne furono una quantità. Direi che la storia del papato è una galassia di Papi atei ai quali il disegno intelligente dette il compito di tener ferma l´»auctoritas» della gerarchia e trasmetterla ai pochi Vicari che hanno dedicato la vita a diffondere il Vangelo. (...)
Repubblica 22.10.06
Il ministero degli Interni chiede forniture agli armatori europei. L’anno scorso era stato smantellato l’ultimo penitenziario galleggiante
Gran Bretagna, tornano le navi prigione
di Enrico Franceschini
Carceri sovraffollate, ma le organizzazioni umanitarie protestano: "Disumano"
La popolazione carceraria è in costante aumento e la capacità delle celle è al limite
Falliti gli esperimenti di detenzione alternativa come il braccialetto elettronico
LONDRA - Che cosa fanno ottocento detenuti su una nave? La risposta esatta è: una prigione galleggiante, e non si tratta di una barzelletta. La Gran Bretagna, non sapendo più dove mettere la sua crescente popolazione carceraria, ha avuto l´idea di creare una serie di navi-prigione, da ormeggiare qui e là lungo le coste del paese, presumibilmente non troppo vicino a ridenti stazioni balneari. A tal scopo, il ministero degli Interni ha messo un annuncio sul Giornale Ufficiale dell´Unione Europea, per vedere se qualche armatore del continente ha un po´ di bastimenti usati da rivendere a Londra. Non necessariamente navi da crociera, ma comunque con cuccette in abbondanza, in grado di ospitare, o meglio, rinchiudere, fra i duecento e gli ottocento «passeggeri» per nave.
L´iniziativa ha subito destato perplessità e qualche polemica da parte delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani: secondo cui un bastimento carico di detenuti non è il sistema migliore per riabilitarli e avviarli verso un onesto lavoro. «La decisione definitiva non è stata ancora presa», replica un portavoce di John Reid, ministro degli Interni britannico, «ma stiamo studiando il modo in cui assicurare un numero sufficiente di posti in prigione per tutti i detenuti. Pur considerando altre opzioni, quella di caricarli su navi è una possibilità». Una cosa è certa: le carceri del Regno Unito scoppiano. Il crimine, specie quello più efferato, sarà anche diminuito negli anni al potere del Labour di Tony Blair, ma la popolazione carceraria è aumentata; e siccome le prigioni sono sempre quelle, non ci sono abbastanza celle per tutti. Secondo le ultime statistiche, infatti, nelle prigioni nazionali ci sono al momento 79.711 persone, 65 di meno del record di tutti i tempi, registrato un paio di settimane fa. Questo significa che rimane posto per altri 240 detenuti in tutto. E un po´ di posti si sono liberati soltanto perché, per far fronte all´emergenza, alcuni commissariati di polizia hanno accettato di tenere permanentemente nelle loro celle - in teoria delle piccole prigioni «di passaggio» - svariate centinaia di detenuti.
Per questo il ministro Reid pensa alle prigioni galleggianti.
L´idea, in realtà, non è nuova: una nave-prigione, la Hmp Weare, è già stata operativa, dal 1997 al 2005, tenendo a bordo 400 detenuti a «basso rischio», cioè considerati di scarsa pericolosità sociale. Ma l´anno scorso la nave, troppo vecchia, è stata smantellata senza che un´altra la sostituisse. Fra le possibilità considerate dal governo britannico, ci sono una più rapida deportazione degli stranieri condannati a una sentenza carceraria nel Regno Unito e le cosiddette «prigioni aperte», senza mura, sorveglianti, controlli. Anche quest´ultimo progetto, tuttavia, ha ricevuto pesanti critiche, quando si è scoperto che mille detenuti, la cui condanna era stata trasformata in arresti domiciliari e che per questo dovevano indossare un «braccialetto elettronico» in grado di segnalare 24 ore su 24 dove si trovano, hanno compiuto lo stesso reati, talvolta gravissimi, incluso l´omicidio, mentre in teoria erano appunto in casa con il bracciale ai piedi.
Il veterano dei magistrati britannici, Lord Philips, è contrario alle prigioni «aperte» così come all´uso di stazioni di polizia quali prigioni a tempo pieno. La Howard League for Penal Reform, un´associazione per i diritti dei carcerati, si oppone alle prigioni galleggianti, chiedendo piuttosto la costruzione di nuove prigioni per far fronte alla crescita della popolazione carceraria: «Rinchiudere centinaia di persone su una nave», afferma un comunicato, «non sarebbe umano». Perfino chi fa le vacanze su certe super-affollate crociere, ne sa qualcosa.
Repubblica 22.10.06
"Indulto, i cittadini non hanno apprezzato"
Autocritica di Fassino. Montezemolo: legge bipartisan per liberare mascalzoni
di Alberto Custodero
ROMA - L´indulto - ha detto Fassino - «non è stato apprezzato dai cittadini». E - gli ha fatto eco Luca di Montezemolo - è stato «l´unico accordo fra maggioranza e opposizione, per mettere fuori dalla galera dei mascalzoni». Il provvedimento che ha consentito la liberazione di 24 mila detenuti, approvato dai due terzi del Parlamento e di cui beneficeranno tutti quelli che hanno commesso reati (ma non sono stati ancora indagati) prima del 2 maggio è tornato a fare discutere con l´autocritica del segretario dei Ds e il j´accuse alla "politica" del presidente di Confindustria. Il leader della Quercia, nell´aprire i lavori della direzione del partito, ha ammesso che i cittadini «non hanno apprezzato quel provvedimento apparso come espressione di un vecchio modo di governare». «L´indulto, infatti - ha argomentato Fassino - è stato percepito come un provvedimento di sola emergenza, rischioso per la sicurezza dei cittadini e incapace di rimuovere le cause della stessa emergenza carceraria».
Sull´argomento è intervenuto da Prato, dove s´è svolto il forum della Piccola Industria, Luca Cordero di Montezemolo, che ha sparato a zero sulla politica («prima industria del Paese»), accusandola di «non decidere» e di essere «scollegata dal mondo produttivo».
«Una volta - ha detto Montezemolo - i politici si davano un traguardo, dalla lotta all´inflazione all´ingresso in Europa». «Ma oggi - ha aggiunto - la politica non fa. Non incide. Non promuove progetti di miglioramento del Paese. Ha dei costi elevatissimi». «L´unico accordo fra maggioranza e opposizione - è stato il suo affondo - ha portato fuori dal carcere dei mascalzoni. È un elemento, questo, che ci deve far riflettere di fronte a un Paese che ha enormi difficoltà a fare riforme strutturali di cui avremmo assolutamente bisogno». Non sono mancate le reazioni politiche. Da Washington, dove si trova in visita ufficiale, Mastella ha polemizzato con il segretario diessino. «Con la strategia del coccodrillo - ha commentato - non si fa lunga strada. Non mi piacciono quelli che piangono dopo. Non mi pare che ci sia una situazione di guerriglia urbana determinata da chi è uscito dal carcere. Dare questa versione dell´indulto come causa dell´insicurezza che c´è nelle nostre città è una spiegazione non corretta, improvvida, non corrispondente ai dati di fatto». L´Italia dei Valori, invece, ha cantato vittoria. «Le dichiarazioni di Fassino - ha chiosato Massimo Donadi, dell´Idv - costituiscono per noi un riconoscimento a posteriori di quanto giusta fosse la battaglia che ci ha visti impegnati, per altro isolati nel centrosinistra, a contrastare l´approvazione di questa legge».
Repubblica 22.10.06
Ungheria '56
Il soldato. Solo i tank ci rubarono la vittoria
di Giampaolo Visetti
Sono pochi i protagonisti e i testimoni ancora in vita dei "fatti d´Ungheria"
La successiva invasione sovietica. Abbiamo rintracciato e intervistato due di loro: un capo militare e un adolescente mandato allo sbaraglio
A 95 anni il colonnello Bela Kiraly, comandante della Guardia nazionale, resta un eroe tragico
BUDAPEST. «È un errore storico affermare che in Ungheria, mezzo secolo fa, la prima rivoluzione contro l´impero sovietico fu sconfitta. La verità è che a Budapest la rivoluzione, tra il 23 e il 30 ottobre, ottenne la vittoria. I rivoluzionari, fra il 31 ottobre e il 4 novembre, persero invece la guerra contro l´Urss. È tempo di aggiornare i termini. Gli insorti ungheresi, abbandonati dalla comunità internazionale, furono schiacciati da sedici divisioni e duemila carri armati dell´Armata Rossa. Solo nel 1944, con lo sbarco in Normandia, si era mosso un esercito simile. Nel 1956 l´Ungheria perse la sua guerra d´indipendenza: ma per il bolscevismo fu l´inizio della fine».
Il colonnello Bela Kiraly è un tragico eroe soldato. È nato la notte in cui affondò il Titanic. Ha diretto l´accademia militare nazionale. I comunisti lo hanno condannato a morte due volte. Durante l´insurrezione di Budapest, fuggito da un ospedale, ha fondato e comandato la Guardia nazionale del primo ministro Imre Nagy. Per due settimane ha difeso la capitale dall´esercito sovietico. Fuggito in Austria, riparato in America, ha potuto rimettere piede in patria solo trentatrè anni dopo. «Sono tornato nel 1989», ricorda, «per il funerale di Nagy, a trentuno anni dalla sua fucilazione. Solo quel giorno, da vecchio, ho visto il Paese che sognavo da ragazzo». Bela Kiraly oggi ha 95 anni. Conserva il fisico possente degli ufficiali austroungarici e non nasconde la simpatia per la famiglia Savoia.
La sua casa spartana, in un giardino di meli alla periferia di Buda, è una sorta di archivio della storia ungherese. Per tornare con la memoria agli ideologizzati "fatti d´Ungheria", pretende di vedere il fondo di due birre da un litro. «Il fatto è», sorride, «che quella rivolta è diventata il simbolo politico di un´epoca, la culla della Guerra Fredda. Fino ad oggi è stata analizzata da angolature di partito. I fatti, intendo le azioni concrete di chi in quei giorni ha combattuto sui due fronti, si sono persi di vista».
Mentre parla disegna nell´aria, con la mani grandi come pale, il profilo di un fungo atomico. Vuole dire che dopo la "vittoriosa rivoluzione nazionale", la guerra contro Mosca fu perduta per la "sindrome di Hiroshima". «Il primo novembre», racconta, «una giornalista americana mi disse: "Generale, mi dia la richiesta di un intervento armato dell´Occidente e io lo pubblicherò sulla prima pagina del New York Times". Le dissi che era una prerogativa del primo ministro, di Imre Nagy, che se fosse scoppiata una guerra atomica i primi a bruciare saremmo stati noi. Mi rispose che non era tempo di fare filosofia. Il giorno dopo l´appello uscì in un trafiletto della terza pagina. Nel gennaio del 1957, ad Harvard, i professori americani mi confermarono che la Casa Bianca era stata fermata dall´incubo nucleare».
Da vecchio ufficiale, la sua visione della rivolta resta fedele a considerazioni di forza. Ricorda che nel corso dei drammatici colloqui con Nagy, di cui era il consigliere militare, i «fattori decisivi» del Novecento furono valutati con attenzione. La Prima guerra mondiale, pensava il leader che sfidò il Cremlino, era stata risolta dalle armi chimiche. La Seconda, dal terrore atomico. Nel 1956 Nagy sapeva che l´Urss conservava un vantaggio bellico sostanziale sugli Usa, in fatto di armi convenzionali. In ventiquattr´ore l´Armata Rossa avrebbe potuto entrare a Parigi. «Per questo», rivela oggi Kiraly, «Nagy infine si convinse che, per salvare l´Ungheria, l´Occidente sarebbe stato costretto a riutilizzare la bomba atomica. La sua attesa, interpretata come confusa ed ingenua indecisione, fu in realtà innescata dalla scelta di salvare il mondo dalla catastrofe».
È chiaro che Kiraly, autore di un ricchissimo volume «sulla rivoluzione ungherese e sulla guerra contro l´Urss», ha letto quasi tutto ciò che si è scritto sul 1956. Socchiudendo gli occhi, quasi a valutare in anticipo l´effetto di inedite rivelazioni, si ostina però a ritornare tra le strade sconvolte di Budapest con l´incosciente idealismo degli studenti insorti. Come se ciò che avvenne prima e dopo, o in quei giorni lontano dal Danubio, fosse in realtà ininfluente, buono in fondo per fumosi dibattiti politici, o diplomatici. «C´era solo un insopprimibile odio verso l´Unione Sovietica», ricorda. «Dal 1948 montava la voglia di democrazia, di elezioni libere e di indipendenza. Nagy, come il polacco Gomulka, pensava di poter riformare il bolscevismo. Ma il 24 ottobre fu il sangue dei ragazzi uccisi nell´assalto alla televisione, a scatenare la folla. La rivoluzione montò di ora in ora, in modo sconnesso e inconsapevole. Nessuno aveva un piano, fino al giorno prima nessuno ci aveva pensato. È accaduto per la rabbia folle dei giovani, i soli a rischiare la vita per cambiare. Nagy, inizialmente, è stato trascinato in battaglia per scongiurare una guerra civile».
Anche lo scoppio della guerra, ossia l´intervento armato sovietico, secondo Kiraly non fu dettato da meditate considerazioni strategiche. A Mosca la leadership di Nikita Krusciov, tre anni dopo la morte di Stalin e pochi mesi dopo lo storico XX Congresso del Pcus, era debole. Sedata l´insurrezione polacca, il Cremlino era deciso a «cuocere lentamente» Nagy. «Un insuccesso a Budapest», racconta Kiraly, «avrebbe sancito la fine di Krusciov. Il generale Malashenko, comandante delle truppe che invasero l´Ungheria, nel 2002 mi ha confidato che ancora una volta la molla scattò casualmente. Il 25 ottobre, il giorno più sanguinoso, con la strage davanti al Parlamento, i servizi segreti russi videro i loro soldati che fraternizzavano con gli insorti. L´indomani giunsero a Mosca le immagini dei funzionari comunisti impiccati per i piedi e presi a calci in piazza. Krusciov ebbe paura e convocò Malashenko in segreto. Gli chiese se il virus della libertà e della violenza poteva contagiare la Russia. Temeva una congiura di palazzo da parte di Molotov e Kaganovic. Così gli ordinò di "creare le condizioni per decisioni personali". Krusciov non pensava ad un effetto-domino negli Stati satellite dell´Est: era preoccupato di non fare la fine di Trotzkij».
In Occidente se ne sa tuttora pochissimo. Fino al crollo del comunismo, parlarne era proibito anche in Urss. Ma la verità è che Krusciov decise infine di invadere l´Ungheria per salvarsi. E che per farlo decise di sacrificare quello che sarebbe diventato il terzultimo leader sovietico: Yurij Andropov, allora capo del Kgb in Ungheria. «Tra l´1 e il 3 novembre», spiega Kiraly, «il Cremlino costrinse Andropov a visitare più volte Nagy. Era chiaro che prendeva tempo, per consentire ai carri armati di accerchiare la capitale. La missione ufficiale di Andropov, per contro di Krusciov, era rassicurare Nagy sul fatto che l´Urss era il suo miglior alleato e che Mosca si preparava a reagire solo davanti ad altre provocazioni. Ciò che Andropov non sapeva, e che mi è stato confidato recentemente da un ex ufficiale del Kgb, è che il Cremlino sperava che la provocazione fosse proprio l´arresto di Andropov, o meglio il suo omicidio da parte degli insorti». Il piano, per la mite prudenza di Nagy, fallì. A complicare le cose, il primo novembre, giunse anche la proclamazione di neutralità dell´Ungheria. «Dissi a Nagy», ricorda il generale, «che se fossimo rimasti nel Patto di Varsavia, un attacco da parte della potenza-guida dell´alleanza sarebbe stato considerato dall´Occidente una lite in famiglia. Solo la nostra neutralità avrebbe conferito all´invasione sovietica il profilo dell´aggressione. Purtroppo all´alba del 4 novembre arrivò la famosa dichiarazione di Nagy alla radio».
Quella trasmissione rimane un mistero. L´ultimo assalto russo era già partito. Il premier ungherese, prossimo ad essere sostituito dal traditore Kadar, disse: «Le divisioni sovietiche attaccano la capitale con l´obbiettivo di destituire il governo democratico. Ma il governo è al suo posto e il nostro esercito combatte». Si nasconde in queste storiche parole la ragione per cui la resistenza ungherese fu meno determinata che in ottobre. «Nagy mi aveva avvisato che stava trattando con Krusciov un secondo armistizio. L´ordine era quello di evitare nuovi bagni di sangue. Accettò l´asilo politico nell´ambasciata jugoslava nella convinzione di andare ad una mediazione più forte, dall´interno di uno Stato emancipato del blocco socialista. Noi attendevamo invano un ordine d´attacco, ormai inutile. Nagy comprese tardi di essere caduto nella trappola di Tito».
Bela Kiraly, come soldato, ha molti rimpianti. L´appoggio americano nei primi giorni della rivoluzione, un intervento meno ipocrita dell´Europa e delle Nazioni Unite, avrebbero costretto Mosca alla trattativa. Ai rimpianti del militare non corrispondono però le recriminazioni del dissidente: «Ho passato una vita da perseguitato», aggiunge al momento del congedo, «o in fuga. Però, per due settimane, ho lottato per i miei ideali di libertà. Oggi sappiamo che senza Budapest non ci sarebbero state Praga, Danzica e Berlino. Il 4 novembre 1956 Mosca capì che il bolscevismo era finito. Che il comunismo, senza la paura, avrebbe avuto un´agonia breve. Significa che quel giorno avevo vinto io. Ed Imre Nagy: nessuno ricorda che, condannato a morte, rifiutò la grazia di Kadar. In Ungheria era già stato scatenato il terrore. Rifiutò per condividere il destino del popolo. E per dirci che la nuova battaglia sarebbe stata contro la paura».
Repubblica 22.10.06
Lo studente. Noi, ragazzi di Budapest '56
di Paolo Rumiz
Jozsef Barna, all'epoca diciassettenne, voleva combattere: "Mio padre mi diede una sberla e mi disse: non servono altri morti, vai a servire la patria in ospedale". Così fece la rivoluzione in corsia, dove "era peggio che in strada: una bolgia di mutilati, urla, puzza di disinfettante"
La voglia di rivolta, il lavoro con i feriti, poi la fuga rocambolesca verso Vienna e la libertà
VIENNA. «All´ospedale c´era un ragazzo che suonava l´armonica. Una bomba gli aveva amputato le gambe e un braccio, ma lui suonava lo stesso nel suo lettino, con la mano rimasta. Fuori sparavano, e lui teneva su il morale. Budapest ‘56 era questo: coraggio e disperazione. Avevo 17 anni, mi ero offerto come barelliere, ma in corsia era peggio che per strada contro i panzer. Lì finiva l´eroismo e cominciava il dolore. Entravi in una bolgia di mutilati, urla, puzza di disinfettante, vomito e sangue. Era l´inferno, il luogo dove la rivoluzione presentava il conto».
Jozsef Barna, classe 1939, specialista in tecnologia bio-alimentare, è in Austria dal gennaio ´57, profugo della libertà. Se non fosse scappato, il Grande Freddo gli avrebbe rubato la gioventù. Appartiene alla fantastica generazione del ‘56, gente pronta a tutto, che ha mostrato al mondo i piedi d´argilla del regime. Senza uomini come lui forse il comunismo sarebbe durato più a lungo. Oggi i ragazzi del ‘56 hanno gli stessi occhi affamati di vita di allora: come quelli del ‘44 a Varsavia, indomiti e soli contro Hitler e Stalin. Ti raccontano un film in bianco e nero, con la colonna sonora consumata dai fruscii. Ma quel vecchio film ha solo cinquant´anni.
Come è cominciata, signor Barna? Sorride: «È cominciata con Cicikov». Cioè? «Cicikov era il nomignolo dei russi, come dire Fritz per i tedeschi. A scuola ci sfinivano col fatto che i russi erano i primi in tutto, fisica, matematica, geografia, e così, quando un giorno il professore ci chiese chi aveva scoperto la legge di gravità, noi si disse Cicikov, tutti insieme, a voce alta. Si era rotta una diga. Il professore fu arrestato, ma la doppia "ci" cominciò a circolare. "Ci ci ci" nei tram, nei corridoi, nelle strade. "Ci ci ci", era il passaparola, il tam-tam. La gente non aveva più paura, "ci ci ci", sembrava che il regime potesse crollare a risate. Il 23 ottobre la rivoluzione arrivò così».
«La polizia sparò, vidi i morti per strada, negli androni, nei portoni. La gente si radunava, il generale Maleter aveva schierato l´esercito con noi. Capii che era un momento storico. Potevamo uscire dall´incubo, dalle delazioni, dagli spioni, dai processi sommari. Corsi a casa, gridai: "Papà, il tempo è venuto, devo combattere anch´io!". Sapevo esattamente cosa fare, a scuola avevamo avuto tutti un´educazione paramilitare. Lui mi guardò e mi diede una sberla, l´unica della sua vita. Era un uomo distrutto, gli avevano tolto il lavoro, l´assistenza medica, tutto. Viveva solo grazie a mia madre, medico radioterapista. Ma disse: "Non servono altri morti, vai a servire la patria in ospedale"».
Non sapeva, il papà, che in corsia sarebbe stato ancora peggio. Jozsef obbedisce. Lo prendono in chirurgia d´urgenza ad asciugare sangue, chiudere ferite, lavare i morti, stivarli in cantina. «Se qualcuno era senza speranza mi dicevano: "Stagli vicino finché muore". Mi ricordo, uno s´era addormentato sulla canna del fucile e un colpo gli aveva trapassato il cranio. Vidi cose che credevo impossibili, vivevo in un lazzaretto del Settecento al tempo della peste. Mio fratello Peter era con me, ma crollò dopo un giorno solo. In astanteria arrivava di tutto, rivoltosi, civili, soldati russi, e i medici non facevano differenze, dicevano che lì dentro tutti erano uguali».
«Studenti della facoltà di medicina di Vienna vennero per darci una mano, portarono medicine, perché ormai operavamo senza anestetico, amputavamo ubriacando i pazienti con alcol e zucchero. Vivevamo quel grandioso momento senza poter combattere, degli eventi ci arrivava un´eco lontana dai racconti spezzati dei feriti, brandelli di radiogiornale, tuoni di cannonate verso il Danubio. Seguimmo così la rivolta d´Ungheria, al chiuso, e fu tremendo. I roghi, le esecuzioni, le statue abbattute, gli assalti con le molotov, l´onda di speranza, l´illusione della vittoria, il tradimento di Kadar».
Il 3 novembre arriva la notizia della vittoria, improvvisamente smettono di affluire feriti, ma in ospedale nessuno fa festa, c´è solo una montagna di insonnia da smaltire. Qualche vecchio avverte: "Attenti, non è finita". E difatti la festa dura un giorno solo, la città si riempie di panzer, la speranza muore. I medici che hanno trattato tutti allo stesso modo, russi e ungheresi, comunisti e anticomunisti, sono arrestati. «I funzionari di partito non volevano essere eguali agli altri. Volevano trattamenti privilegiati, e denunciarono i dottori. Così i russi li portarono via. Un´infermiera mi urlò: "Vai via, o porteranno via anche te". Ma io rimasi».
«Continuai a lavorare in ospedale fino a Natale, ma nulla aveva più senso. Solo allora papà mi disse: "Adesso puoi andare". Mi accordai con due ragazzi e una ragazza, lei aveva appena 14 anni. L´Austria era dietro l´angolo. Prendemmo il treno per una località vicina, Erdliget, per non insospettire la polizia, ma andammo oltre. La stazione di Celdomolk era piena di soldati, più andavi verso Ovest e più ce n´erano. Ogni sospetto veniva controllato, ma noi recitavamo da attori consumati, portavamo le sporte dei contadini sul treno, e i contadini stavano al gioco, ridevano con noi come vecchi amici. La polizia non si insospettì».
Le colline verso Koezseg, il villaggio di Olmod, neve bagnata, ghiaccio. Oltre c´è Klostermarienberg. I russi hanno i cani, ma i cani non fiutano nulla, il vento soffia dall´Austria. «Puntammo su un ruscello incassato, stando bassi potevamo passare. Calcolammo il tempo del passaggio delle pattuglie, c´era una finestra di due minuti dove infilarsi. Vivevamo in un film, non c´era quasi paura. Corri Barna, mi dissi quando venne il momento, corri più che puoi. Rivedo tutto: il ghiaccio che si rompe, ci fa sprofondare, il cartello "Achtung, a 500 metri confine di Stato, traversare solo con documenti", e noi che urliamo siiii, i documenti li abbiamooo, e via come lepri, ormai non ci fermava nessuno, è incredibile quanta energia può esserci in un uomo in fuga».
Barna si accende una sigaretta, apre un pacchetto, mostra un paio di scarpe nere col salvapunte in ferro. «Ecco, ero con queste, da allora le lucido ogni Natale. Mi hanno dato la libertà. Conservo tutto, anche il biglietto del treno, eccolo qua, ha il timbro con la data». Il film continua. «Sotto la neve c´erano fili di ferro, messi di traverso per farci cadere, inciampai, caddi a pancia in giù, col naso su una grossa ghianda. Mi venne quasi da ridere, la misi in tasca, sentivo che sarebbe stata il mio portafortuna. Eccola qui», dice mostrandola, «da allora non l´ho lasciata mai. Che vuoi, amico, la vita è un teatro. C´è l´entrata in scena e c´è l´uscita di scena. C´è chi è buon attore e chi no. E a volte il destino è questione di minuti».
La corsa continua fino a un bosco, i quattro sentono colpi d´accetta di un taglialegna, vedono un omone alto, gli chiedono dove comincia l´Austria. Lui risponde in ungherese, i ragazzi si sentono perduti, e invece no, sono salvi, lui sa la lingua perché il Burgenland è stato Ungheria fino a quarant´anni prima, ai tempi di Cecco Beppe. «I contadini ci aiutarono, ci diedero da mangiare, ci misero a dormire nei fienili. Sbucavano fuggiaschi dappertutto. In due mesi se n´erano andati in duecentomila, era una classe dirigente che spariva dal Paese».
«Quelli che rimasero non ebbero gioventù. Li rividi, alcuni di loro, anni dopo. Erano diventati un nuovo tipo umano: grigio, spaventato, obbediente, acritico, eterodiretto, incapace di azione autonoma, insuperabile solo nel mascherare le emozioni e nel parlare in modo obliquo. Oggi molti di essi brontolano che si stava meglio prima… Tanti ungheresi lo fanno, da bravi mitteleuropei. Sa, in tutti noi c´è un po´ di Kafka, siamo specialisti nel guardare con speranza al… passato».
«Ci iscrivemmo al liceo, imparammo il tedesco, le nostre classi fecero fortuna, alcuni rimasero in Austria, altri andarono in Australia, Canada, Belgio. Uno fece in tempo a entrare nell´armata americana e morire in Vietnam. Mi sposai con Getraude, un´austriaca di Vienna, e solo attraverso di lei potei tenere i contatti con i miei; lei aveva passaporto occidentale, poteva passare. Io no, ero rimasto sulla lista nera».
«Quando finalmente tornai, nel ‘67, avevo più paura che nel ‘57. Ero cittadino austriaco, ma la polizia segreta aveva la memoria lunga, poteva farmi sparire come niente. Aveva fatto sparire migliaia di ungheresi… So di una donna che scappò in Australia con una delle bandiere della rivolta e la lista, importantissima, dei combattenti in piazza Korvin, la più tremenda. Ebbene, la seguirono fino agli antipodi, le misero dietro spie. Persino l´uomo che la sposò e le diede dei figli si rivelò una spia… Fu mostruoso… La perseguitarono fino agli anni Ottanta, le spararono, rimase invalida, ma non svelò nulla. Aspettò la fine del regime, poi donò tutto al Museo della rivoluzione. Difficile capire cosa fu davvero il comunismo, se non ci sei stato dentro».
Liberazione 21.10.06
Arturo Salerni (Prc): «Basta con il linciaggio mediatico. Ora è possibile realizzare una vera riforma»
Indulto, Napolitano plaude al provvedimento: «Ma ora occorre rivedere le sanzioni penali»
di Castalda Musacchio
«Certo, bisognerebbe puntualizzare altro. Ad ogni reato che viene commesso ormai si tira fuori l’indulto». Arturo Salerni, responsabile carceri di Rifondazione, non manca di sottolinearlo. Effettivamente, sembra ormai assistere e a spron battuto a una vera campagna informativa antiindulto, nella quale le destre sguazzano. Senza nulla togliere ai reati compiuti, alla gravità degli stessi, quando questi accadono, un certo tipo di informazione sull’indulto assume toni alquanto sconcertanti. Si prenda l’esempio del “Corriere” ma anche di “Repubblica”. “On line”, sulla prima, compare la notizia «“Violenza sessuale, l’uomo uscito per l’indulto”». «Non è un caso - sottolinea ancora Salerni - se si pone l’accento su questo tema. E’ probabile che insieme alla finanziaria sarà quello più battuto nei prossimi mesi per evidenziare i dilemmi dell’Unione». Certo, la notizia resta. Risale a una quindicina di giorni fa, resa nota solo ieri. Lei, una studentessa americana di 20 anni, aveva conosciuto quest’uomo alla fermata di un autobus. La ragazza aveva accettato un passaggio in auto, ma l’uomo invece di accompagnarla a destinazione l’aveva portata in una zona isolata vicino Trigoria. E qui, minacciandola con il taglierino, l’aveva violentata. La ragazza, se pure stordita, è riuscita a memorizzare il tipo di auto e alcuni particolari della targa. Successivamente, è riuscita a raggiungere a piedi l’abitazione più vicina dove aveva potuto telefonare alla polizia. Soccorsa, è stata accompanata all’ospedale dove le hanno riscontrato alcune lesioni. L’uomo sarebbe stato individuato solo grazie alle tracce lasciate dal telefono cellulare rapinato alla ragazza statunitense. Gli inquirenti riferiscono che era conosciuto nell’ambiente della tifoseria romanista con il soprannome di «Mazinga». Sarebbe lui la persona che anni fa aggredì l’ex calciatore della Roma Zebina. Era uscito dal carcere lo scorso primo agosto. Aveva beneficiato - sottolineano le agenzie - del provvedimento d’indulto.
Ma è solo una delle tante che si continuano a leggere e quasi quotidianamente. E’ ancora il caso di un ragazzo rumeno, poco più che ventenne, arrestato ieri a Ferrara, per tentato furto aggravato. Anche lui - sottolineano le agenzie - aveva beneficiato dell’indulto.
«Troppo facile aprire la polemica politica su casi del genere», commenta Salerni. «Sguazzare in mezzo a una notizia così. Ma parlare di indulto significa altro». Significa per esempio - nota - ricordare i dati del ministero della Giustizia che evidenziano come per esempio i reingressi nelle carceri sono molto bassi (intorno al 5-6%). Un provvedimento necessario per un sistema detentivo fermo in una situazione di totale illegalità. «La situazione che si è venuta a creare ora, dopo il provvedimento sull’indulto, consente di effettuare un nuovo ragionamento sul sistema penale. Questo sì necessario». Alla sua fa da eco la presa di posizione di Manconi. «Grazie all’indulto - non ha mancato di sottolinearlo, il sottosegretario alla Giustizia, a margine del convegno “Difendere Abele per recuperare Caino” - si sono create le condizioni migliori, sia materiali che relazionali, per rivedere il sistema delle sanzioni penali, così come auspicato dal capo dello Stato e dal vicepresidente del Csm». Proprio ieri lo stesso Napolitano è intervenuto con un messaggio per ribadire, in occasione del convegno, la necessità «di trovare “soluzioni condivise” per rivedere le sanzioni penali e la loro gestione». L’invito è a «riflettere approfonditamente» sulla necessità di «instaurare un sistema che consenta di bilanciare il percorso di rieducazione e risocializzazione del condannato con la valorizzazione delle persone offese dal reato e, più in generale, della sicurezza».
“Quella” riforma del sistema penale così attesa è in sostanza possibile grazie all’indulto. Permette - commenta ancora Salerni - di focalizzare l’attenzione proprio sugli eventi più gravi che meritano effettiva tutela. Se aumenta il numero dei reati in modo ipertrofico - ragiona il responsabile carceri del Prc - è chiaro che anche il sistema “repressivo” non può funzionare. Proprio perché in un certo senso non riesce a tener dietro ai tanti reati considerati gravi. In definitiva un sistema di questo tipo non permette appunto di concentrarsi su quei reati gravi che meritano effettiva attenzione. «E’ inutile» continua. «Ormai è chiaro ed evidente anche ai più tenaci sostenitori di riforme repressive che l’aumento delle pene non ha effetto disincentivante». E Manconi ancora annota: «Rivedere le sanzioni penali e consentire al giudice di merito (e non più al magistrato di sorveglianza) l’applicazione di misure alternative al carcere è giustissimo». L’auspicio - conclude - è che il lavoro della commissione Pisapia sulla riforma del codice penale giunga a queste conclusioni.
c. musacchio@liberazione. it
Il Sole 24Ore Domenica 22.10.06
Libri proibiti. Indice di pericolosità
Quattro secoli di testi e autori censurati dalla Chiesa: nella lista nera finirono Flaubert e Hugo, Kant e Croce, ma non Darwin. E qualcuno sfruttò la condanna a scopi promozionali
di Hubert Wolf
«La mia Storia della città di Roma nel Medioevo è stata inclusa nell’Indice dei libri proibiti» Così annotò sul suo diario il 1° marzo del 1874 il noto storico Ferdinand Gregorovius che aveva trascorso diversi anni nella città sul Tevere. Il fatto era divenuto pubblico tramite un bando, uno di quei manifesti di grande formato con cui La Congregazione dell’Indice soleva annunciare i propri divieti di libri. Venivano affissi ai portali delle principali chiese romane - San Pietro, San Giovanni in Laterano o Santa Maria Maggiore e, fino all'occupazione di Roma da parte delle truppe italiane nel 1870 anche in Campo de' Fiori, e venivano spediti, in formato ridotto, a sedi ecclesiastiche di tutto il mondo. Il decreto portava la data del 5 febbraio; con quella di Gregorovius vennero condannare altre cinque opere. A ogni modo, non sembra che l'anatema della censura romana abbia colpito più di tanto lo storico prussiano. Evidentemente, egli ci aspettava da tempo di essere messo all'Indice. sin da quando a Roma era circolata la voce che i gesuiti avevano denunciata la sua opera alla Congregazione. Gregorovius andò pieno di grandi aspettative in piazza San Pietro, «dove vidi il decreto affisso alla colonna di marmo del primo ingresso. Improvvisamente il venerabile Duomo entrò direttamente in rapporto con me. Prima di allora non avevo mai passeggiato in uno stato d'animo tanto euforico [...] La mia opera è compiuta si sta diffondendo nel mondo adesso il Papa le fa pubblicità» Non tutti gli autori potevano reagire a una messa all'lndice con la stessa serenità dello storico protestante. Certo, ciò che è vietato suscita sempre interesse, e la proibizione di un libro da parte di Roma poteva in effetti diventare anche una sorta di campagna promozionale Però, gli autori cattolici che venivano inclusi nell'Index librorum prohibitorum non erano più riconosciuti come ortodossi. Per chi veniva messo all'Indice essendo professore di teologia, ciò significava non di rado la fine della carriere accademica. Chi leggeva un libro incluso nella «lista nera» rischiava la scomunica e perciò metteva in pericolo la salvezza eterna della propria anima Chi stampava, vendeva o comprava un libro del genere, anche senza gettarvi nemmeno uno sguardo, veniva colpito dalla medesima sanzione. Non è un caso che l'Indice fosse ritenuto il «cimitero della vita spirituale cattolica» e il «Golgota del genio» Secondo un'obiezione molto diffusa. i fedeli cattolici venivano considerati dal Papa e dalle sue autorità come dei fanciulli immaturi che non soltanto non potevano decidere da soli quale lettura fosse buona per loro e quale cattiva, ma non erano ritenuti nemmeno in grado di farlo. Il supremo pastore non i riconosceva al suo gregge la facoltà di decidere in questo ambito (...)
Ciò dipende, non da ultimo, dal fatto che gli archivi della Congregazione dell'Indice e dell'lnquisizione romana non sono stati accessibili per secoli. Il noto e famigerato Secretum Sanctii Officii, il segreto dell'Inquisizione, non ha perso la sua efficacia neppure dopo la fine di questa istituzione, nel 1966. Se non si dispone di fonti non si può scrivere una storia; bisogna piuttosto inventare delle storie e ci si deve affidare, allora, a speculazioni e a costruzioni avventurose. Di conseguenza, il quadro è dominato da romanzoni storici e inaffidabili costruzioni pseudostoriche. Quando gli storici si sono rivolti seriamente ai temi «Indice» e «Inquisizione» per lo più hanno potuto scrivere soltanto storie di vittime, visto che la sfera dei fatti rimaneva nascosta dietro le spesse mura del Vaticano.
Alla fine, per costoro si trattava solamente delle persone coinvolte, degli autori messi all'Indice, dei loro editori e dei librai. Si apprendeva qualcosa soltanto del dato di fatto costituito da un divieto, in primo luogo tramite i manifesti che riportavano la sentenza di condanna, poi con l'inserimento (avvenuto per lo più anni dopo) di tale risoluzione nell'Indice dei libri proibiti vero e proprio. Sono rimasti in gran parte oscuri, invece, i retroscena di un simile procedimento di censura e lo svolgimento processuale, gli accusatori e i delatori, così come i loro intenti, le discussioni interne tra i consultori e i cardinali, le motivazioni effettive delle sentenze, e il ruolo del Papa. Inoltre, dal momento che a Roma veniva data pubblicazione soltanto dei divieti di libri effettivamente decretati, e non invece dell'assoluzione di opere denunciate alla curia e indagate, ma infine giudicate non pericolose o eretiche, era difficile che qualcosa di questi processi emergesse pubblicamente. Non pochi autori ebbero un procedimento pendente a Roma senza averne mai saputo nulla. Altri ancora non furono mai realmente denunciati a Roma, ma non di rado i loro avversari poterono ricavare dei vantaggi politici già dalla semplice voce di una denuncia all'Inquisizione. Soltanto l'apertura, nella primavera del 1998, degli archivi dell'Inquisizione romana e della Congregazione dell'Indice - che oggi sono custoditi dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e non sono stati ceduti all'Archivio Segreto Vaticano - ha aperto alla ricerca storica delle possibilità completamente nuove. Ora per la prima volta è possibile studiare i processi di censura sulla base dei veri atti processuali e, soprattutto, è possibile scoprirne i retroscena e i mandanti. Complessivamente, molte migliaia di autori con le loro opere finirono nell'Indice. Si spazia da Honoré de Balzac, George Sand, Alexandre Dumas, Gustave Flaubert, Victor Hugo e Heinrich Heine, passando per Ugo Grozio, Giovanni Scoto Eriugena, Giordano Bruno, René Descartes, Auguste Comte, Immanuel Kant, Blaise Pascal e Federico il Grande, fino a John Stuart Mill, JeanJacques Rousseau, Voltaire, Montesquieu, Thomas Hobbes, Mosé Maimonide, Simone de Beauvoir e JeanPaul Sartre. Non manca l'Enciclopedia di Diderot, né il grande dizionario di Pierre Larousse, per non parlare naturalmente di Martin Lutero, Ulrich Zwingli, Giovanni Calvino, o del Book of Common Prayer. Al contrario, si cerca invano Charles Darwin, ma in compenso sono inclusi nell'Indice numerosi darwinisti cattolici, come per esempio John Zahm, con la sua opera Evoluzione e dogma. D'altra parte, molti scritti furono denunciati a Roma e indagati, ma non vietati. (...) Le assoluzioni, infatti, non venivano rese pubbliche a Roma. E per le discussioni interne era prescritto il più rigoroso segreto.
Il Sole 24Ore Domenica 22.10.06
Banditi o «espurgati» nel nome di Dio
di Michela Catto
Attraverso l'indice dei libri proibiti, istituito da Paolo IV nel 1559 e soppresso nel 1966, la Chiesa cattolica ha influenzato la diffusione della cultura e la circolazione delle idee. Scrittori come Boccaccio, Machiavelli, Gide o Sartre, o ancora Voltaire, Croce, Leopardi o Mazzini hanno in comune l'essere stati censurati e proibiti. Nelle maglie della censura fini ogni tipo di letteratura, perfino le versioni in lingua volgare della Bibbia.
Gli studi in materia hanno ricevuto nuovo impulso dall'apertura dell'Archivio della Congregazione della dottrina per la fede, che raccoglie i documenti completi della Congregazione dell'indice dei libri proibiti, e che ha permesso agli storici di consultare le discussioni dei censori intorno ai libri, di valutarne gli appunti e le osservazioni. Non che prima del 1998 non fossero possibili studi sui meccanismi della censura e sugli effetti nella società, come dimostra la recente raccolta di saggi di Ugo Rozzo, uno dei più grandi studiosi dell'Indice. Nel suo La letteratura italiana negli "Indici" del Cinquecento (Udine, Forum), Rozzo appunta la propria attenzione sui testi ritenuti licenziosi e sul meccanismo dell'espurgazione, cioè la cancellazione delle parti del testo ritenute contrarie alla morale e alla dottrina, un meccanismo di pulizia ideologica che condizionò la tradizione filologica di molti testi letterari. Alle origini dell'Indice, e ai meccanismi della censura prima della nascita della Congregazione è dedicato Nascita dell'indice. La censura ecclesiastica dal Rinascimento alla Controriforma (Morcelliana) di Vittorio Frajese. Sempre sul Cinquecento va segnalato l'importante studio di Gigliola Fragnito (Proibito capire. La chiesa e il volgare nella prima età moderna, il Mulino) in cui si ripercorrono i meccanismi di censura alla base della letteratura religiosa attraverso la proibizione dell'uso della lingua volgare; scelta che sul lungo periodo influenzò la coscienza degli italiani e il loro approccio alla fede.
Della condanna dell'opera giobertiana si occupano Luciano Malusa e Mauro Letterio (Cristianesimo e modernità nel pensiero di Vincenzo Gioberti. Il "Gesuita moderno" al vaglio delle Congregazioni romane (1848-1852). Da documenti inediti, Franco Angeli) in un saggio che fa coincidere la proibizione del Gesuita moderno con la fine dell'ideale politico neoguelfo e con l'inizio di una profonda diffidenza da parte della Chiesa verso le trasformazioni del mondo moderno.
Agli anni del fascismo è dedicato lo studio di Guido Verucci, Idealisti all'Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant'Uffizio (Laterza) in cui si affronta, accanto alla condanna dell'opera omnia di Giovanni Gentile e Benedetto Croce, la ricostruzione del grande dibattito intorno ai manuali, di filosofia, pedagogia e storia per le scuole secondarie e il fallito tentativo di una cattolicizzazione dell'insegnamento scolastico.
Il Sole 24Ore Domenica 22.10.06
Budapest cinquant’anni dopo
L’Ungheria nera di Togliatti
Nel novembre 1949 il «Migliore» partecipa a una riunione del Cominform sui monti magiari. E nel suo discorso giustifica l’eliminazione di esponenti politici e religiosi da parte del regime
di Federigo Argentieri
Il 23 ottobre 1956 iniziano gli scontri a Budapest. I soldati forniscono le armi agli operai. Sándor Kopácsi, capo della polizia a Budapest, fu sorpreso dalla rivoluzione. Qualche anno dopo Kopácsi raccontò i fatti in un libro, uscito in Italia nel 1980: In nome della classe operaia, ora riproposto con il titolo Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello (e/o, pagg. 422, €16,00). Andras Nagy, in Il caso Bang-Jensen (Baldini Castoldi Datai, pagg. 430,49 18,00), fa conoscere il ruolo che il diplomatico danese ebbe nell'ambito della commissione Onu sui massacri in Ungheria. L'analisi storica della rivoluzione è affrontata da Victor Sebestyen in Budapest 1956. La prima rivolta contro l'impero sovietico (Rizzoli, pagg. 366, € 22,00); un'antologia di documenti storici sui fatti ungheresi in: Budapest 1956 (Itaca, pagg. 168, €10,00). Nel brillante saggio di Federigo Argentieri, Ungheria 1956. La rivoluzione calunniata (Marsilio, pagg. 192, € 10,00) alcuni capitoli sono dedicati alle reazioni di politici e intellettuali italiani. Appena edito da Donzelli è il saggio di György Dabs, Ungheria 1956 (pagg. 226,€ 24,50).
Dal 16 al 19novembre 1949, nella località di Gallya Tetö, sui monti Matra ungheresi, si svolse la terza conferenza del Cominform, ossia dell'Ufficio informazioni tra i partiti comunisti, creato poco più di due anni prima da Stalin soprattutto allo scopo di accelerare l'imposizione di dittature di tipo sovietico in Europa centroorientale. A essa parteciparono, tra gli altri, personaggi come Suslov e Ponomariov per il Pcus, Duclos e Fajon per il Pcf, Togliatti e D'Onofrio per il Pci. Il cosiddetto Partito dei lavoratori ungheresi, nella sua veste di padrone di casa, era presente con tutti i massimi dirigenti: il segretario generale Mátyás Rákosi, il ministro dell'Economia Ernö Gerö, il ministro della Cultura József Révai, e il giovane ministro dell'Interno János Kádár, appena trentasettenne. I verbali di quella riunione, come anche delle due precedenti, furono pubblicati nel 1994 per i tipi degli Annali Feltrinelli, sia nell'originale russo che in traduzione inglese, con il titolo The Cominform Minutes of the Three Conferences 1947/1948/1 949, a cura di G. Procacci e altri studiosi italiani e russi. Alle pagine 782-802 del volume si trova il testo del discorso pronunciato (in russo) da Togliatti a Gallya Tetö, di cui pubblichiamo qui a fianco la prima sintesi in italiano. Le affermazioni fatte in quella sede dal segretario del Pci non hanno bisogno di molti commenti, ma debbono essere calate nel contesto dell'epoca.
La terza riunione del Cominform si svolse un mese prima del 70° compleanno di Stalin, che sarebbe stato celebrato a Mosca in modo trionfale, con manifestazioni del cosiddetto «culto della personalità» tali da lasciare trasecolati. Nessuno poteva minimamente immaginare che la statua del tiranno alta sette metri e posta su una tribuna di quindici eretta a Budapest nei mesi successivi, sarebbe stata abbattuta e fatta a pezzi meno di sette anni dopo. In quell'autunno del 1949, il movimento comunista internazionale celebrava il trionfo di Mao Zedong in Cina, ma doveva fare i conti anche con i primi smacchi: in particolare il fallimento del blocco di Berlino ovest, sconfitto dal formidabile ponte aereo allestito dagli Alleati, e l'elezione della Jugoslavia dissidente al Consiglio di sicurezza dell'Onu, con il voto decisivo dei medesimi. La scomunica emessa nel giugno 1948 contro Tito aveva innescato una lugubre sequela di processi-farsa in tutti i Paesi confinanti con la Jugoslavia: dirigenti comunisti più o meno noti, solitamente selezionati con cura dai consiglieri sovietici delle varianti locali del Kgb, venivano arrestati e torturati finché non confessavano di essere degli "agenti" di Tito, cosa che dovevano ripetere nell'aula del processo prima di salire sul patibolo.
Nel maggio del '49 era toccato a Koci Xoxe, un comunista albanese che effettivamente aveva qualche contatto con la Jugoslavia: il fatto che l'accusa non fosse del tutto inventata non toglie naturalmente nulla alla mostruosità del processo, che spianò la strada alla dittatura quasi quarantennale di Enver Hoxha. Ai primi di luglio, il prestigioso dirigente bulgaro Georgi Dimitrov, già capo dell'Internazionale comunista, moriva improvvisamente a Mosca: nessuno ha mai confutato l'asserzione dello iugoslavo Gilas, secondo cui Dimitrov fu eliminato perché ostile al processo contro il suo collega Traicio Kostov, che si andava preparando e che si svolse a dicembre. Kostov avrebbe per così dire rovinato la festa, perché finì per dichiarare la propria innocenza e denunciare i suoi giudici, cosa che non servì a salvargli la vita ma che fece fallire l'obiettivo politico del processo. In Ungheria, invece, la vittima prescelta, László Rajk, si comportò in modo impeccabile: "confessò" tutto, anche di essere stato al soldo dell'ammiraglio reazionario Horthy fin dagli anni dell'Università. Fra coloro che lo interrogarono in modo implacabile c'era anche il suo ex amico Jànos Kádár, che lo aveva sostituito al ministero dell'Interno: Rákosi era riuscito nel suo obiettivo di mettere i due "comunisti nazionali" uno contro l'altro, e si era anche premurato di registrare l'interrogatorio per tenere Kádár in pugno. Come disse Miklós Vàsárhelyi, Rajk fu la vittima assoluta, completamente innocente delle accuse rivoltegli e completamente disponibile a dichiarare il contrario: fu impiccato il 15 ottobre, assieme a diversi "complici".
La riunione del Cominform e il discorso di Togliatti, però, non celebravano soltanto questi lugubri eventi, ma anche il "successo" ottenuto sia nell'eliminazione dei socialdemocratici ostili al comunismo, sia in quella del "clericalismo", ossia del primate d'Ungheria cardinal Mindszenty e di vari altri prelati, sacerdoti e semplici fedeli, cosa che aveva causato la scomunica di Pio XII nei confronti del comunismo: in altre parole, celebravano tutte le tappe dell'instaurazione di tremende dittature in mezza Europa. La domanda da porsi non è se il vero Togliatti fosse quello di Gallya Tetö o quello che da Montecitorio discettava civettuolo con Gorresio, dato che dopotutto anche Stalin era affettuoso con la figlia Svetlana. La domanda non è neanche perché Togliatti percepì il 20° congresso del Pcus e la denuncia di Stalin come un attacco politico rivolto anche a lui e reagì di conseguenza, contribuendo a manipolare la realtà della rivoluzione ungherese e presentandola come un putsch fascista: fu semplicemente coerente con sé stesso. La domanda non è, infine, perché questo discorso non è stato finora mai messo a disposizione del pubblico italiano: i post comunisti ne sono imbarazzati, gli anticomunisti non amano studiare seriamente il comunismo.
La domanda da porsi è: fino a quando la galassia post e neo comunista eviterà di fare i conti fino in fondo con questa eredità, magari cercando goffamente di mettere in piedi un Pantheon in cui trovino posto Togliatti e Nagy, i veri socialdemocratici e i loro carnefici, eccetera? L'esempio dato da Nap olitano con Nenni sarà seguito?
Il Sole 24Ore Domenica 22.10.06
«Compagni, restate fedeli alla Russia»
di Palmiro Togliatti
Compagni, l'internazionalismo proletario insegna ai lavoratori e ai popoli che nella lotta perla democrazia, l'indipendenza nazionale e la pace essi devono seguire il grande esempio dell'Unione Sovietica, i cui popoli, guidati dall'eroico partito dei bolscevichi, da Lenin e da Stalin, hanno edificato una nuova società, hanno sconfitto l'imperialismo, hanno trasformato il proprio Paese in una grande potenza socialista, che mostra a tutti i popoli lagiusta strada verso la democrazia, il socialismo e la pace.
Al contrario, il cosmopolitismo e l'"europeismo" dei socialdemocratici sono un'arma di propaganda dell'imperialismo con l'obiettivo di disorientare i popoli, dividerli e trasformarli in suoi schiavi. Parlando di "unificazione" dell'Europa, gli agenti dell'imperialismo americano mirano in realtà a far fallire la collaborazione tra i popoli europei, erigere tra loro una barriera per isolare l'Unione Sovietica e le democrazie popolari.
[...1 Collaborando con i servizi segreti dei Paesi imperialisti nel tentativo di indebolire il fronte dei Paesi socialisti, essi hanno accolto a braccia aperte la cricca di spie e provocatori di Tito.
[...] Il fatto che nelle democrazie popolari la socialdemocrazia di destra abbia cessato di esistere deve essere valutato come una grande vittoria della causa dell'unità. I provocatori di una nuova guerra hanno subito una poderosa sconfitta; i partiti della classe operaia sono diventati l'elemento fondamentale del potere popolare, la base indistruttibile dell'unione degli operai e dei contadini, la forza guida nell'edificazione di una società socialista.
[...] Nelle democrazie popolari, dove i partiti comunisti sono al potere, non esiste conflitto per motivi religiosi: la libertà di religione e di culto in questi Paesi è garantita a tutti i cittadini
[...] Gli imperialisti americani e la borghesia reazionaria di tutti i Paesi si serve in modo sfrontato della banda di spie di Tito per sabotare la lotta per l'unità della classe operaia, per introdurre la divisione e la provocazione tra le fila dell'avanguardia comunista. Gli esiti del processo contro Rajk hanno un'importanza fondamentale per tutti i partiti comunisti e operai. Essi ci hanno dimostrato quanto sia indispensabile rendere sempre più alta la vigilanza rivoluzionaria, combattere e sradicare senza pietà qualunque incertezza nella lotta contro i nemici. In questo modo sarà preservata e rafforzata la purezza della nostra dottrina marxistaleninista, la devozione dei comunisti alla causa dell'unità, la loro fedeltà al Paese del socialismo l'Unione Sovietica al suo partito e al grande Stalin, la guida degli operai e di tutti i lavoratori nella lotta per la democrazia, il socialismo e la pace.
(Traduzione dall'originale russo a cura di Federigo Argentieri)
Il Sole 24Ore Domenica 22.10.06
I rapporti del leader con Mosca
Mentiva per salvarsi la vita
di Piero Melograni
Nel 1956 Togliatti, si schierò con l'Urss contro gli ungheresi pronunciando frasi deprecabili. Ritengo che le pronunciasse in malafede grazie alla doppiezza di cui era diventato maestro. Se il segretario del Pci disapprovava i sovietici, non poteva dirlo. Se lo avesse detto i servizi sovietici lo avrebbero potuto uccidere, così come nel 1973, a Sofia, attenteranno alla vita di Enrico Berlinguer il quale contro i loro ordini voleva un «compromesso storico» con la Dc. In ogni caso, qualunque fosse stato nel '56 il destino di Togliatti, l'Urss poteva far leva sul mito dell'Armata rossa e sui suoi mezzi economici per costituire un nuovo partito cambiando il leader. Infatti il mito comunista era nato in Italia nel 1942-43 grazie all'Armata rossa vittoriosa a Stalingrado e molti comunisti italiani desideravano che i cosacchi abbeverassero i loro cavalli in piazza San Pietro, secondo una profezia attribuita a Nostradamus.
Togliatti invece non amava i sovietici perché aveva vissuto tra loro conoscendone i crimini. Il capo bolscevico a lui più vicino era stato Nikolày Bukhàrin, che gli aveva suggerito di assumere in clandestinità lo pseudonimo di Ercole Ercoli, proprio perché era mingherlino. Fino al 1944 gli italiani conoscevano il nome Ercoli, mentre il cognome Togliatti diceva loro poco o nulla. Bukhàrin era stato ucciso nel 1938, durante il Terrore sovietico e Togliatti ne aveva sofferto. Giorgio Bocca, nella biografia di Togliatti, riferisce ciò che Nilde Jotti gli rivelò, ovvero che nel febbraio 1951 Togliatti si ribellò a Stalin, allorché questo gli propose di trasferirsi a Praga per dirigere il Cominform. Obbedendo a Stalin la direzione del Pci tolse a Togliatti la segreteria del partito, tanto che Pietro Secchia e Arturo Colombi, si recarono a Mosca per comunicarglielo e Togliatti li accolse furente: «Dovete dirmi subito, uno per uno, chi ha votato contro di me». Risposta: «Non devi prenderla così, devi capire l'obbedienza». E Togliatti: «Ma quale obbedienza e obbedienza! Siete dei figli di puttana, volete farmi fuori, credete che non lo abbia capito? Ma ficcatevelo bene in testa, io torno in Italia». Dopo gli anni del Terrore sovietico, Togliatti aveva ritrovato la libertà in Italia, costruendosi una vita migliore. Aveva lasciato l'anziana moglie Rita Montagnano innamorandosi come un ragazzo della giovane e bella deputata emiliana Nilde Jotti. E all'inizio visse con lei di nascosto dal partito. Lottando e forse ricattando, Togliatti convinse Stalin a farlo tornare in Italia con la lotti.
Nel raccontare a Bocca il viaggio di ritorno, la lotti non nascose i sentimenti di paura e di angoscia da loro provati. Lei e Togliatti furono rinchiusi per due giorni in una villa di Praga, del tutto isolati e sotto sorveglianza. Credo che quando ottennero di andarsene e in treno attraversarono la cortina di ferro verso l'Italia piansero di gioia. Tornavano alla libertà. Una libertà vigilata, tuttavia, sia perché l'Urss poteva punire ogni sgarro di Togliatti anche in territorio italiano, sia perché la coppia, sposatasi cinque mesi dopo quel terribile viaggio in Russia, era fortemente criticata da un Pci assai moralista. Nel 1948 il partito aveva obbligato la lotti ad abortire, come Daniela Pasti rivelò nel '79.
Nel 1964 Renato Mieli pubblicò un libro intitolato Togliatti 1937 Come scomparvero i dirigenti comunisti europei, nel quale si legge che Togliatti, nel '37, partecipò all'annientamento fisico dei dirigenti comunisti polacchi. Alle Botteghe Oscure, dopo l'uscita del libro, Davide Lajolo, incontrò in ascensore Togliatti. Dato che lì non c'erano microfoni ne approfittò per chiedergli: «Ma è vero ciò che racconta Mieli?». «È vero» rispose il capo. «E che cosa avrebbe fatto Gramsci al tuo posto?». Togliatti replicò: «Sarebbe morto».
Il capo, dunque, aveva scelto di non morire per salvare se stesso e il suo partito, che infatti riesce ancora a sopravvivere e a governarci, sia pure sotto altro nome. Nel '56, Togliatti intuì subito che, in base all'accordo sulle sfere di influenza, l'Occidente non avrebbe aiutato gli ungheresi e la loro insurrezione sarebbe fallita. Non gli sembrava utile correre rischi a causa loro.