lunedì 23 ottobre 2006

LaStampaweb 23.10.06
POLITICA. LA MOGLIE DEL LEADER DI RIFONDAZIONE ICONA DELLA POLITICA POSTMODERNA CON L’APPEAL MEDIATICO DI VITTORIA LEONE E LA POPOLARITÀ GENUINA DI FRANCA CIAMPI
Lella Bertinotti, la first lady rossa
Cuoca e babysitter ma anche «consigliera del presidente»
di Francesca Paci


ROMA. Immaginate le elezioni politiche del 1994, il debutto di Fausto segretario di Rifondazione Comunista, l’emozione. Sapete come ha seguito i risultati lei? Stirando camicie nel tinello dell’appartamento di Vigna Stelluti, a Roma, mentre io e un’altra amica commentavamo i dati della tv sul divano divorandoci le unghie». Bisogna vincere la resistenza a sbottonarsi degli intimissimi come Elisabetta Mondello per capire davvero chi è Gabriella Bertinotti, la nuova first lady della Camera, a suo agio nei ricevimenti di Stato e in un mercato di periferia dove «sa scovare tra i cenci la maglietta da abbinare a una giacca griffata», icona della politica postmoderna con l’appeal mediatico di Vittoria Leone e la popolarità genuina di Franca Ciampi.

Elisabetta Mondello, docente universitaria, l’ha conosciuta vent’anni fa a casa di Nanny Loy: «E’ una delle donne più pratiche che conosca, cucina in modo divino, ossobuco, frittata, pasta e fagioli», niente nouvelle cuisine. Gabriella Faglio Bertinotti, nata a Varallo Pombia in provincia di Novara nel 1947, segretaria d’azienda e poi impiegata comunale fino al ‘97, pensionata con 860 euro al mese, un figlio, Duccio, e tre nipotini a cui fa da baby sitter il lunedì, fulva di capelli e di fede politica, piace anche ai «nemici di classe» perché nonostante tailleur e messa in piega impeccabile è la vicina di casa che tutti sognano. La vedi dentro il piccolo schermo ma spesso ne sta fuori, ai fornelli con l’occhio al tiggì. Perfino il diminutivo, Lella, che pare le abbia dato Fausto per aggirare la per lui impronunciabile erre francese, nasce vezzo del nord e, in romanesco, diventa il topos popolare della sora Lella.

A Varallo Pombia, 4643 abitanti, nebbia lacustre e tradizione di risotti, ne hanno fatto una leggenda. Il geometra Cesare Belossi la ricorda adolescente «a fare i tuffi sul Ticino quando l’acqua si poteva bere». Giancarlo Leonardi, classe 1940, pasticciere e assessore, si fregia d'aver visto nascere un amore che dura da 44 anni: «Gabriella è nata qui, come i genitori di Fausto. Passava con la madre davanti al bar Rori all’uscita dalla messa. Con Fausto eravamo amici, stavamo lì a discutere di politica. Poi da via dei Martiri sbucava questa sedicenne bella, mora, alta, e lui si distraeva». Un colpo di fulmine, culminato nelle nozze celebrate nel 1965 in chiesa, «per far contenta la mamma di lui», che Leonardi ama ricordare alla coppia: «Se capitano da queste parti vengono sempre a comprare i biscotti "natsciot", la mia specialità. Li vedo entrare in negozio e mi sembra ieri, quando Lina, la madre di Gabriella, una signora semplice che aveva un banco d'abbigliamento con il marito, chiedeva a noi ragazzi "ma il Fausto come l’è?". Era uno studioso serio, un intellettuale spiantato, magari poco appetibile per una suocera, ma ne ha fatta di strada. E lei sempre accanto, sempre uguale». «Ha la testa dura, una donna curiosa ma a cui è impossibile far cambiare idea», ammettono gli amici.

Persone ne frequenta tante, da Sandra Verusio che la considera «anima non irrilevante d’una serata mondana» a Valeria Marini, seppur incontrata quattro o cinque volte. Ma la cerchia vera di Lella Bertinotti, gli habitué ammessi al salotto zeppo di libri, quadri di scuola romana, un cavallo a dondolo e tante foto di viaggio, è assai ristretta. L’avvocato Mario D’Urso, la senatrice Rina Gagliardi che ne ammira «la capacità di organizzare il lavoro, la versatilità, una donna solare seppure con i suoi umori», Andreina Albano, Citto Maselli, la Mondello. Pochi. Quelli che possono raccontare di quando «andavamo in vacanza a Santo Domingo, 20 ore di volo, classe turistica. Sull’aereo Alitalia le hostess riconoscono mister Rifondazione e comincia una storia infinita per offrire la business a lui e Lella. Niente da fare, sono rimasti con noi nei posti scomodi che avevamo acquistato». Facile immaginare che a tenere il punto sia stata lei. «E’ l’uomo della famiglia», concorda chi la conosce, «segue i conti, l’Ici, le bollette, Fausto la consulta di continuo, anche sulle questioni politiche».

Guai a definirla la moglie del presidente della Camera: casomai è Fausto a essere suo marito. I commercianti di via Alessandria, a Roma, dove Fausto e Lella vivono dal ‘99, dividendosi oggi con l’appartamento al secondo piano di Montecitorio, l’adorano, «’na signora vera, saluta sempre per prima». In zona abitano altri politici, Walter Veltroni, Gianfranco e Daniela Fini, Alessandra Mussolini, ma per quanto il quartiere sia di destra la sora Lella è la sora Lella. Una impossibile da non vedere, «vestita sgargiante, rosso, giallo, un tocco di dorato», che fa colazione al bar Amadio bevendo caffè nero e scherzando sulla rinuncia al cornetto «per amor della linea», si ferma in edicola a comprare «Ville e casali» e racconta al giornalaio del «casolare» da 140 metri quadrati comprato a Massa Martana, in Umbria, sosta in erboristeria e discute con Mauro il macellaio della carne migliore per l’arrosto. Silvia, titolare del negozio di elettrodomestici, gonfia il petto fiera: «Non dico che siamo amiche ma viene spesso, anche adesso con la scorta. Le ho venduto il ferro da stiro, il frullatore, il Bimbi. E’ una brava cuoca ma con il Bimbi risparmia tempo».

Sono lontani i ritmi rilassati di Vigna Stelluti, Roma nord, una piazza che ti accoglie con le scritte «Neri a morire» e «Intifada fino alla vittoria» firmate entrambe con la svastica. I Bertinotti ci hanno abitato dall’85 al 1998. Rifondazione muoveva i primi passi e la coppia si vedeva in giro spesso. Ora che il quartiere è la trincea nemica del «governo rosso», loro restano «un mito». C’è il patron della gastronomia Ricci, l’alimentari più caro della Capitale, che rimpiange «la cliente buongustaia»; la parrucchiera Letizia complice delle acconciature cotonate Anni 80; ma soprattutto Massimo, portiere del condominio e compagno di giochi di Duccio. Se nomini Lella te lo fai amico: «Siamo pappa e ciccia, ci telefoniamo una volta alla settimana. Prima che avessi la macchina mi prestava la sua Cinquecento grigia, ha cresciuto i miei figli. Facevamo certe cene su da lei, clamorose».

Lella è così, alto e basso, glamour e pop, i vernissage alla prestigiosa galleria di foto Luxardo e le terme a Bagni di Reggio, «Lettera a una professoressa» di don Milani come libro di formazione e sul comodino «La ragazza del secolo scorso» della Rossanda, una che si entusiasma per una commedia di Pieraccioni come all’ultimo film di Manuel de Olivera. Difetti? E’ lei stessa, spiritosa, ad elencare i peggiori: «Sono aggressiva, specie con Fausto, e permalosa. Fammi uno sgarbo e me la lego al dito». Dev’essere per questo che quando ha deciso di sottrarsi alla stampa dopo «la sovraesposizione estiva» gli amici si son cuciti la bocca.

l'Unità Dossier 23.10.06
1968 rivoluzione e restaurazione
La storia di un grande appuntamento mancato
di Bruno Gravanuolo


Il 23 ottobre di cinquant’anni fa gli studenti convocarono una manifestazione popolare nelle strade della capitale ungherese

Con la repressione a colpi di arma da fuoco e l’arrivo dei cingolati sovietici i moti di protesta si trasformarono in vera e propria rivolta

Anno bifronte quel 1956. Mirabile e orribile e anche per questo «indimenticabile», come ebbe a definirlo Pietro Ingrao rubando l’aggettivo a un vecchio film sovietico. Da un lato infatti il mondo parve schiudersi, oltre le gabbie sancite dagli accordi di Yalta nel maggio di undici anni prima tra Roosevelt, Churchill e Stalin . Dall’altro però quelle gabbie si richiusero nel volgere dell’anno, benché lo spazio geopolitico fosse divenuto più mosso, specie dopo lo scacco anglo-francese su Suez, per la comparsa di nuovi protagonisti, a cominciare dai «non allineati» e dai popoli ex coloniali. E a suggello di tutto, la tragedia ungherese. Che pure s’era annunciata come possibile «primavera», quando la mediazione dell’eroico Imre Nagy tra socialismo e libertà nazionale sembrava ancora poter arginare la violenza dell’operazione «Onda», già sferrata il 23 ottobre 1956 dall’Urss, incline a ripristinare l’ordine «di campo» a Budapest, ma indecisa a chiudere i giochi (e divisa al suo interno).
Ecco, questo inserto che esce nel giorno dei primi scontri a Budapest e del primo intervento sovietico, documenta innanzitutto il carattere «globale» dell’anno, che racchiude, conclude e anticipa. Racchiude il ciclo di eventi aperto dal XX Congresso e dai moti di Poznan in Polonia, preceduto dalla morte di Stalin e da un primo scongelamento delle relazioni est/ovest.
Austria neutrale, Germania nella Nato, Conferenza di Bandung dei «non allineati», scioglimento del Cominform, incontro Tito-Kruscev. Tutte cose mobili, che parevano non escludere un rapporto più articolato tra i blocchi. E però anno che si conclude in sé, come scrive Bruno Bongiovanni. Infatti, con il fallimento dell’operazione «Tre Moschettieri» - antecedente immediato della seconda invasione in Ungheria - Inghilterra e Francia (uniti a Israele nell’attacco all’Egitto) vengono sostituite come potenze tutelari in Medioriente dagli Usa. Che divengono «deuteragonisti» egemoni a tutto campo del blocco sovietico, rilegittimato e rafforzato dopo Suez. E lo divengono anche a nome dell’Europa, «derubricata» ad area regionale. Infine, anno anticipatore. Delle crisi successive del duopolio Usa-Urss, dentro cui emergeranno il ruolo di Cina, Europa, India, mondo arabo, con l’irruzione di quella globalizzazione che finirà col travolgere il campo imperniato sull’Urss. Perciò dunque, «Rivoluzione e Restaurazione» nel 1956. A indicare un sussulto globale che si risolve in stabilizzazione e in riconoscimento reciproco: tra antagonisti dall’egemonia insidiata e problematica. Che soltanto un rinnovato patto planetario di coesistenza poteva «garantire», in un mondo ex coloniale «a soggetti plurimi», dove la contesa su risorse, tecnologie e mercati, diveniva ormai asfissiante e simultanea.
E qui torna l’amara pagina del «lodo Ungheria» e del prezzo che la nazione magiara dovè pagare a quel riassetto complessivo. Difatti dopo l’operazione «Onda» - decisa a Mosca quando gli insorti ungheresi stanchi di un socialismo coloniale abbattono il monumento a Stalin - scatta l’operazione «Turbine». Decretata quando già a Budapest c’è un nuovo legittimo governo pluralista di coalizione, capeggiato dal comunista «bukhariniano» Imre Nagy. È il 1 novembre, ma l’attacco risolutivo scatta il 4 e si protrae per due settimane, fino a rivoluzione democratica domata. A lavoro fatto, sulla Pravda verrà pubblicata la dichiarazione del neoletto presidente Eisenhower, che si contenta di generiche assicurazioni sul ritiro delle truppe sovietiche. A riprova provata che l’Occidente non intese scaldarsi più di tanto, dentro la rinnovata spartizione. Frattanto in Italia, nel Pci, c’è battaglia. Con coraggio Giuseppe Di Vittorio con la Cgil condanna quel socialismo totalitario e i suoi metodi cingolati, ma né lui né Giolitti, né i famosi 101 intellettuali fanno breccia (su l’Unità la loro petizione non verrà pubblicata). Finisce con Togliatti che scrive al Politburò sovietico, drammatizzando la situazione e suggerendo l’intervento. Fino al suo brindisi all’invasione e al cinico invito dell’anno successivo a non giustiziare Nagy, se non a elezioni politiche avvenute in Italia. È il punto più basso e regressivo del togliattismo, che pure con l’VIII congresso rilancia le vie nazionali e il ruolo del Pci in Italia, e che nel 1964 accuserà nel Memoriale l’Urss di non essere uscita dall’ impalcatura staliniana. Poteva andare diversamente nel Pci, magari con un cauto dissenso? Doveva. Ve ne erano i presupposti, anche culturali, in quel partito prestigioso. Sicché, invece di un altro passo sulla via di un socialismo diverso vinse il «legame di ferro» e con esso la crisi col Psi. Fu un grande appuntamento fallito, che spiega tanti ritardi successivi (almeno sino agli onori resi da Fassino a Nagy nel 1988). Uno in primo luogo, e che ancora paghiamo in Italia: la mancanza di una vera forza socialista di governo, europea. Salda in sé e non più «figlia di un dio minore».

Budapest, perché quella tragedia
di Federigo Argentieri

È stato ribadito nei giorni scorsi a Budapest, nel corso delle numerose riflessioni che stanno accompagnando questo anniversario, che il motivo principale per cui esplose la rivoluzione ungherese del 1956 fu che ogni settore della popolazione, ogni classe sociale senza eccezioni erano stati feriti, umiliati e oppressi dal regime stalinista di Rákosi e della sua banda.
Non ci si è riferiti tanto alle classi nobiliari spodestate - annientate per sempre in quanto ceto, spesso anche in quanto esseri umani - quanto alla piccola e media borghesia, agli intellettuali, agli studenti, ma soprattutto agli operai e contadini, che avrebbero dovuto essere al comando della società nuova e invece stavano assai peggio che nei paesi capitalistici. Ad imitazione pedissequa del modello sovietico, le classi medie furono dapprima blandite e incoraggiate a partecipare alla costruzione della democrazia popolare, poi improvvisamente tacciate di «horthysmo», mortificate nella loro competenza e professionalità, colpite da repressioni tanto micidiali quanto assurde i cui effetti sull’apparato produttivo si fanno ancora sentire.
Gli intellettuali, lusingati dalla prospettiva di essere i bardi della nuova era, dopo aver cantato in gran numero le lodi di Stalin scoprirono all’improvviso di essere stati i servi sciocchi di una tirannia spietata, i complici privilegiati di una situazione tragicomica. Gli studenti, educati in modo martellante alla lotta rivoluzionaria per la libertà dei migliori patrioti ungheresi del passato, non tardarono a individuare quale fosse la nuova tirannia da abbattere. I contadini, allettati e illusi nel 1945 dalla realizzazione del loro sogno secolare tramite la distribuzione della terra, si ritrovarono poco dopo alle prese con un nuovo padrone, lo stato, assai più schiavista e inefficiente di quelli vecchi, al punto che verso il 1951-52 le campagne ungheresi si trovavano al collasso.
Infine gli operai subivano da un lato la propaganda stentorea che li dichiarava a capo del nuovo sistema, mentre dall’altro subivano una quotidianità insopportabile fatta di turni pesanti, salari bassi, capi brutali e incompetenti, prelievi forzati «per la pace», «sabati rossi» e nulla da comprare nei negozi con i pochi soldi rimasti.
A coronamento di tutto ciò, la presenza sovietica era deliberatamente utilizzata da Rákosi per umiliare il sentimento nazionale. In una situazione del genere, mancava solo la scintilla che facesse esplodere il paese come una polveriera, a maggior ragione in quanto i burocrati di partito vivevano nel lusso. La polizia politica, divenuta ÁVH ma da tutti chiamata col suo primo nome ÁVO, si rese responsabile di crimini che poco o nulla avevano da invidiare a quelli dei suoi predecessori, i filo-nazisti delle croci frecciate, al punto da ereditarne non solo la sede (che oggi ospita un museo un po’ surreale, la «Casa del terrore»), ma anche parecchia manovalanza. Per comprendere gli sviluppi successivi, è opportuno precisare che non tutto veniva fatto per ordine di Stalin o degli occupanti sovietici, ma che molte delle sofferenze inflitte al popolo ungherese provenivano dallo zelo servile di Rákosi e compagni, letteralmente ossessionati dal desiderio di compiacere il dittatore moscovita.
Anche le repressioni contro i personaggi pubblici avevano causato ferite enormi, impossibili da cicatrizzare.

Perché Nenni ebbe ragione in pieno
di Giuseppe Tamburrano

Sulla tragedia ungherese del 1956, il Presidente Giorgio Napolitano ha espresso il «pieno e doloroso riconoscimento della validità dei giudizi e delle scelte di Pietro Nenni e di gran parte del Psi in quel cruciale momento». Affermazione importantissima che fa giustizia di tanti giudizi settari sui socialisti. Ma quell’affermazione non ha solo un valore storico. La grande risonanza che essa ha avuto indica che vi è qualcosa di più.
Nel libro della Fondazione Nenni su «l’indimenticabile 1956», nel quale è pubblicato integrale il testo del Presidente, appare anche un contributo di Occhetto di grande onestà intellettuale. Ne anticipo alcune righe. Scrive: Nel tumulto delle emozioni e dei giudizi in quei giorni di fine ottobre 1956 «incominciammo a prendere sul serio Nenni, quel Nenni che rispetto ai mostri sacri come Gramsci e Togliatti ci era sempre sembrato solo un vecchio socialista umanitario. Per la prima volta.... molti di noi.... incominciammo a sentire tutto il fascino di un pensiero libertario». L’accortezza, la sapienza, la furbizia di Togliatti furono salutari per il Pci ma «nello stesso tempo fecero perdere alla sinistra una grande occasione storica per la sua unificazione che non poteva avvenire che sulle posizioni di autonomia da Mosca sostenute, in quel momento da Pietro Nenni».
Che cosa vogliono dire Napolitano e Occhetto? Che la sinistra poteva restare unita, seppure in forme nuove, più sciolte rispetto al vecchio patto di unità d’azione, solo sulle posizioni di Nenni.
Si è affermato che il Partito comunista non poteva rompere il «legame di ferro» con Mosca. La questione non è così semplice. Il Pci non rimase unito come un monolite nella condanna dei moti ungheresi: controrivoluzionari, reazionari, fascisti. Vi fu un grande sommovimento emotivo, culturale e politico. Tanti prestigiosi intellettuali si schierarono dalla parte degli insorti (Giolitti, il Manifesto dei 101). La Cgil e il suo amatissimo capo Di Vittorio non condannarono la rivolta magiara. E d’altra parte Togliatti non usò le tanto conclamate doti diplomatiche di mediazione.
Al contrario, non solo condannò i moti, ma intervenne presso il Cremlino perché li reprimesse con la forza.
Non era possibile una posizione meno rigida in un partito che Togliatti aveva educato alla «via nazionale»? La base era tutta con Mosca? Ma la Cgil, con una base più larga del Pci, non aveva assunto una posizione critica? Non dico che il Pci potesse condannare l’Urss negli stessi termini di Nenni, ma poteva prendere le distanze con un giudizio simile a quello di Di Vittorio. In ogni caso furono le posizioni del Pci che provocarono la rottura dei rapporti tra i due partiti: la storia della sinistra e del paese poteva essere diversa.
Come si mosse Nenni, quali furono i suoi disegni? Il rapporto Kruscev sui crimini di Stalin provocò la prima seria lesione nell’edificio dell’unità col Pci e l’avvio del processo di unificazione tra socialisti e socialdemocratici con l’incontro tra Nenni e Saragat a Pralognan alla fine di agosto del 1956.
Ma Nenni non intendeva operare una completa rottura col Pci. Come scrisse all’ideologo sovietico Suslov dopo il XX congresso del Pcus, l’intesa tra socialisti e comunisti avrebbe assunto forme nuove, più elastiche, ma non sarebbe morta. Saragat denunciò l’«ambiguità» del Psi e pose una pietra tombale sull’unificazione.
Dal carteggio tra Nenni e Togliatti che pubblicheremo nel ricordato libro sul 1956, risulta che il tono è amichevole, aperto, anche dopo il primo intervento in Ungheria dei carri armati russi il 24 ottobre.
Il secondo intervento russo, il 4 novembre, provocò invece la rottura tra i due partiti, ma Nenni continuò a coltivare la speranza nell’evoluzione autonomistica del Pci. Nenni fu accusato di aver usato il rapporto Kruscev e l’invasione sovietica dell’Ungheria per rompere col Pci e accordarsi con Saragat. I fatti appena ricordati smentiscono questa versione.
Al congresso di Venezia del febbraio 1957 la linea autonomistica di Nenni trionfò politicamente, ma la sinistra filocomunista riuscì ad ottenere la maggioranza nelle elezioni del Comitato centrale (molti furono i dubbi sulla regolarità del voto). Rieletto segretario, Nenni andò per la sua strada incurante delle opposizioni interne. Alle elezioni del 1958 il Psi ottenne un bel successo con il 14,2% e l’aumento di quasi due punti percentuali rispetto alle elezioni del 1953. Al congresso di Napoli del gennaio 1959 la corrente autonomista prevalse nettamente sulla sinistra e Nenni ribadì la politica dell’alternativa democratica.
E qui è necessario un chiarimento. Non è esatto - come ho detto - che Nenni abbia rotto col Pci per unirsi a Saragat, al contrario fornì argomenti, cioè pretesti a Saragat per interrompere il processo di unificazione; e non è vero nemmeno che avesse in mente l’alleanza con la Dc (accusa ripetuta da Ingrao nel suo libro di memorie): tra il 1956 e il 1962 corrono ben sei anni. Il suo fine invece era l’alternativa alla Dc, «battere la Dc», come è detto testualmente nei suoi Quaderni. Egli perseguiva la prospettiva di un governo «appoggiato e non condizionato dai comunisti» (10 aprile 1959). Le elezioni del 1958 avevano dato alle forze laiche (Psi, Psdi, Pri e altre forze minori) circa il 20% dei voti; al Pci il 22,7: vi erano le basi per lavorare per l’alternativa. Ma il Pci doveva 1) allentare i suoi legami con l’Urss e fare propri i valori della democrazia; 2) aiutare Nenni nei modi possibili in base alla regola: marciare divisi per colpire uniti; 3) fermare l’opera di disgregazione e di sabotaggio che svolgeva nel Psi la corrente filocomunista.
Il Pci non fece nulla di tutto ciò, anzi avversò in tutti i modi la politica di Nenni. Il quale, combattuto aspramente all’interno dalla sinistra, non fu aiutato da nessuno all’esterno: socialdemocratici, sindacati, giornali, imprenditori. Fu lasciato solo. I presupposti per una politica di alternativa non maturarono. Nenni non si isola, ma intesse un rapporto con la sinistra democristiana per offrire una sponda alla sua battaglia interna a favore di una svolta verso il partito socialista: la cosiddetta «apertura a sinistra». L’alternativa resta la prospettiva di lungo periodo: che aveva bisogno di tempo. Ma mancò anche il tempo.
La Dc all’inizio del 1960 non è in grado di formare governi di centro. Ricorre a un monocolore diretto dal democristiano Tambroni che è appoggiato dalla destra: i voti degli ex fascisti del Msi diventano determinanti. È passato alla storia come il governo della provocazione. Ci furono grandi manifestazioni antifasciste, la polizia sparò ad altezza d’uomo: dieci cittadini rimasero sul selciato. Nenni offrì la disponibilità e i voti del Psi per liquidare quel governo che metteva in serio pericolo la democrazia. Nasce il governo Fanfani delle «convergenze parallele». Inizia così il cammino verso il centro-sinistra. Ma questa è un’altra storia.

IPOTESI Le chances di una posizione diversa sui «fatti ungheresi» e la nuova realtà dei «non allineati»
Ma il Pci poteva fare una scelta «titoista» in quel frangente?
di Marco Galeazzi

La possibilità non era del tutto esclusa e però alla fine lo stesso Tito svolse un ruolo negativo

Il 1956 è stato sinora interpretato in chiave eurocentrica, cogliendone alcuni aspetti rilevanti ma perdendo di vista la dimensione mondiale di quell’anno «terribile». Nuovi soggetti entravano in scena, con la conferenza di Bandung del 1955 e con l’incontro di Brioni tra Tito, Nasser e Nehru dell’estate successiva, che sancirono la nascita del movimento dei paesi non allineati. Il mondo diveniva ormai interdipendente, non più rigidamente bipolare. Mentre i rapporti tra Europa e Stati Uniti si inasprivano, il tramonto del colonialismo, segnato dall’azione franco-inglese su Suez, determinava un intreccio tra Est e Ovest e tra Nord e Sud che scompaginava le relazioni internazionali.
Nel ’56 il movimento comunista si andava sfaldando, tra ossimori e posizioni antitetiche che evidenziavano la fine dello stato guida. Togliatti e Tito furono i leader comunisti europei più originali nella loro capacità di cogliere le trasformazioni epocali della metà del XX secolo. «Ci troviamo di fronte non a potenze o a blocchi di potenze nel senso tradizionale della parola, ma a qualche cosa di più e a qualche cosa di meglio. Ci troviamo di fronte a civiltà nuove, le quali avanzano, si affermano, si fanno strada nel mondo: il mondo indiano, il mondo asiatico meridionale, il mondo arabo» dichiarava Togliatti alla Camera il 13 giugno 1956.
L’incontro tra i due statisti, nel maggio, aveva mostrato una singolare affinità di vedute. Da un lato, essi intuivano che il mondo stava cambiando: Tito guardava alla possibilità di intessere una rete di relazioni tra i paesi emergenti, liberatisi dalla dominazione coloniale; Togliatti si rivolgeva soprattutto al movimento operaio dei paesi capitalistici e - senza porre in discussione il legame con l’Urss - avviava una riflessione sulla possibilità di una transizione al socialismo nell’occidente avanzato.
Non meno significativo era il fatto che entrambi giudicassero il «culto della personalità» inadeguato a spiegare la crisi profonda del sistema sovietico. La «degenerazione» del modello investiva l’intera età dello stalinismo, come avrebbe ribadito Togliatti nella direzione Pci del 18 luglio, replicando alle critiche mossegli da Kruscev. Ma se l’orizzonte planetario e policentrico accomunava i due dirigenti comunisti, restavano insuperate le divergenze sul ruolo dell’Urss e sull’esigenza di unità del movimento, ritenuti irrinunciabili da Togliatti, laddove gli jugoslavi respingevano la concezione del «campo», cui sostituivano quella del «mondo» socialista.
È legittimo, in tale contesto, porsi una domanda di fondo: se cioè Togliatti e Tito avrebbero potuto indicare una linea alternativa alle scelte che furono compiute nelle convulse giornate dell’autunno di quell’anno. Togliatti sostenne con fermezza nella direzione del partito e nella lettera del 30 ottobre, la decisione dell’Urss di invadere l’Ungheria: una scelta che segnava un grave arretramento rispetto alle posizioni dei mesi precedenti e che avrebbe avuto effetti dirompenti per il Pci e per l’intera sinistra. Togliatti avrebbe bevuto «un bicchiere di vino in più» alla notizia del secondo intervento sovietico del 4 novembre. Il suo accenno al «movimento popolare» e al «sentimento nazionale» ungherese, se determinò un aspro scontro tra Pci e Pcf nel corso dei colloqui bilaterali di Parigi del 17 novembre, non implicava affatto una presa di distanza dalla politica estera sovietica.
Non meno contraddittoria appare la condotta di Tito. Non è del tutto condivisibile l’opinione di Cossutta per il quale «Tito si guardò bene dal condannare l’invasione ungherese» (l’Unità 20/9, intervista a B. Gravagnuolo). Come emerge dal carteggio tra Pcus e Lcj (novembre 1956-febbraio 1957), pur concordando con i sovietici sulla natura «controrivoluzionaria» dell’insurrezione di Budapest e ritenendo l’intervento dell’Armata Rossa «il male minore», il leader jugoslavo formulò la proposta di includere nel governo Kádár i «comunisti degni di stima» presenti nel governo Nagy e insistette sulla possibilità di tenere in vita, e non sciogliere, i consigli degli operai e dei contadini nati in Ungheria. Il futuro del socialismo era legato - a giudizio di Tito - più che a una pressione esterna, a un rinnovamento che partisse dall’interno della società ungherese. «La divergenza tra di noi - scriveva nella lettera del 1 febbraio 1957 - sta nella valutazione dei metodi e delle forme, nella questione di creare le condizioni per un accelerato e meno dolente (sic) sviluppo, senza imporre né le forme sovietiche, né quelle jugoslave e neanche altre forme di socialismo. Lasciamo che queste forme crescano sul terreno dell’Ungheria».
La Jugoslavia si trovava in una situazione difficilissima, densa di rischi per il suo stesso avvenire. Nel carteggio con il Pcus Tito non rinunciò a sottolineare l’esigenza di autonomia e indipendenza dei partiti e dei paesi comunisti, attraverso rapporti bilaterali e non sotto la vigile guida dell’Urss. Da parte sovietica, all’opposto, si puntava a incrinare le relazioni della Jugoslavia con la Cina e ad aprire un cuneo nei rapporti tra Tito e Nasser. Le chiavi della pace e della guerra, nell’ottica del Cremlino, dovevano restare nelle mani delle superpotenze, laddove l’iniziativa degli stati «minori» era vista come una violazione di un bipolarismo stabile pur nella sua conflittualità. La contesa si estendeva dalla sfera ideologica al terreno dei rapporti internazionali, con l’implicità volontà dell’Urss di indebolire l’autonomia dei non allineati. A tale orientamento Tito si oppose con fermezza, come testimonia il riferimento a una lettera inviatagli da Nehru nella quale affiorava «una certa preoccupazione e malcontento per quello che oggi succede in Ungheria. Le deportazioni della gente in Ungheria lo hanno amareggiato, e in special modo quella di Nadj (sic) e del suo gruppo. In questa lettera Nehru ha pregato di fare appello su di voi - aggiunge rivolto ai sovietici - affinché le deportazioni vengano sospese». Del resto, sebbene la condotta di Belgrado sul destino di Nagy (prelevato dai sovietici con un inganno all’uscita dell’ambasciata jugoslava a Budapest) risultasse ambigua, lo stesso capo jugoslavo invitò i sovietici a tener conto del «desiderio di Nadj (sic) in quale dei paesi socialisti desiderava andare e non, contro la sua volontà, trasportare lui e il suo gruppo in Romania». Ma, pur in presenza di un acuto contrasto tra Belgrado e Mosca, Tito non giunse a trarre le conclusioni che avrebbero forse potuto salvare l’ipotesi di una originale transizione al socialismo. Prevaleva l’esigenza di un rapporto paritario tra lo stato sovietico e quello jugoslavo, senza che ne discendesse un’effettiva critica alla repressione sovietica né al giudizio liquidatorio della rivoluzione democratica ungherese.
Da parte sua, Togliatti restò coerente con la cultura cominternista fondata sul legame con l’Urss, ancor più necessario di fronte al riaffiorare della logica della guerra fredda.
Nel gennaio ’57 Nagy aveva scritto dalla Romania una lettera piena di dignità, pubblicata recentemente sul Corriere della Sera (e «mai recapitata», come precisa Federigo Argentieri), nella quale sollecitava Togliatti (e Gomulka) a favorire la costituzione di una commissione internazionale che ristabilisse la verità sulle vicende ungheresi dell’autunno precedente. Il segretario del Pci non volle dissociarsi dalla condanna di Imre Nagy nel ’58: un atteggiamento cinico che, se non fa di Togliatti il «pubblico ministero» del processo al leader ungherese, nondimeno conferma il suo acritico allineamento alle posizioni dell’Unione Sovietica.
Si allontanava drammaticamente la speranza di una riflessione sullo stalinismo e sulla crisi strutturale del sistema sovietico e, con essa, la possibilità di realizzare una sintesi di democrazia e socialismo, abbozzata ma non sviluppata da Togliatti (ancor più che da Tito) alla metà del 1956.
Al principio degli anni sessanta i due leader ricominciarono a tessere le fila di un discorso comune, allargato alle novità delle relazioni internazionali e di un mondo interdipendente. Nell’elaborazione teorica del 1962-64 e nella sofferta presa d’atto, da parte del segretario del Pci, della fine di un’epoca che aveva coinciso con il suo itinerario politico e intellettuale, erano contenute in nuce le premesse di un nuovo internazionalismo.
È tuttavia indubbio che la prospettiva di un comunismo democratico, affidata ai suoi eredi, sarebbe stata più fertile se nel ’56, tra il XX Congresso e l’ottobre ungherese, non si fosse perduta un’irripetibile opportunità politica e strategica. Divenuta assai più difficile da realizzare dieci anni dopo, in uno scenario del tutto mutato, che avrebbe messo in luce la distanza tra la cultura comunista, da un lato, e, dall’altro, l’utopia antiautoritaria degli studenti della società opulenta e le aspirazioni di libertà, indipendenza, giustizia sociale dei popoli lontani dall’Europa.

Corriere della Sera 23.10.06
SINISTRA & STORIA Il carteggio inedito tra Nenni e Togliatti nelle ore decisive dell'invasione sovietica
Budapest 1956, le lettere della rottura
Quel che restava dell'unità fra Psi e Pci fu schiacciato dai carri armati
di Dario Fertilio


D a un lato Pietro Nenni, dall'altro Palmiro Togliatti: e in mezzo, pesante come un macigno, la rivolta d'Ungheria, di cui oggi ricorre il cinquantesimo anniversario. Nel carteggio inedito fra i due capi della sinistra italiana rivivono i giorni fatidici dell'indimenticabile anno 1956, infiammato prima dal rapporto Kruscev sui crimini di Stalin e poi dalla rivoluzione popolare e antisovietica di Budapest. Ma quelle lettere mostrano anche l'irreparabile guastarsi dei rapporti fra i due partiti, Psi e Pci, e il tramonto di un'utopia — l'unità a sinistra — destinato a cambiare la politica italiana.
Il carteggio fa parte di un volume curato dalla Fondazione Nenni, presieduta da Giuseppe Tamburrano, che sarà pubblicato ai primi di novembre dall'editore Lacaita di Manduria (Taranto) con il titolo
La sinistra e quell'indimenticabile 1956,
con saggi di esponenti socialisti e comunisti d'allora. Lettere sempre cortesi e formalmente ineccepibili: eppure non è difficile leggere tra quelle righe gli indizi di uno scontro durissimo, in cui Togliatti è all'offensiva contro la «socialdemocratizzazione» del partito di Nenni, mentre sull'altro fronte si cerca di mediare e stemperare. Ancora il 23 ottobre, mentre scoppia la rivolta d'Ungheria, Nenni parla di «azione unitaria delle masse», considerandola un «dato acquisito». Solo all'ultimo prende atto della rottura irreparabile. Eppure l'anno orribile della sinistra comincia in modo incoraggiante: il patto di unità d'azione fra Psi e Pci, rinnovato nel '46, regge ancora. Le difficoltà cominciano con il rapporto segreto di Kruscev che denuncia i crimini di Stalin: è un terremoto. Togliatti denuncia l'esistenza di difetti «nel» sistema socialista, non «del» sistema, e si dichiara ottimista sulla possibilità di «riassorbirli»: una posizione difficile da accettare per Nenni e gli autonomisti del Psi. Tanto più che il 25 agosto del '56, con l'incontro di Pralognan, in Savoia, fra Nenni e Saragat, si comincia a parlare di riunificazione socialista, un'ipotesi che mette in discussione il rapporto fra Psi e Pci. Crescono diffidenze e distinguo, tanto che i socialisti, pur senza ripudiare il legame con i comunisti, propongono di sostituire il patto di unità d'azione con un meno impegnativo «patto di consultazione», varato all'inizio di ottobre.
Nel carteggio inedito fra Nenni e Togliatti i toni risultano sempre meno concilianti. Il primo scrive, il 12 ottobre: «Credo che ci sia stata da parte nostra precipitazione nel pubblicare l'accordo, al che concorse il fatto di averne parlato ai giornalisti, e che ci sia stato, da parte mia, in rapporto al momento e in rapporto all'atto in sé, una sottovalutazione delle conseguenze». Parole gravi che esprimono anche l'insofferenza dei riformisti nei confronti delle notizie in arrivo dai Paesi del socialismo reale. Se ne risente Togliatti, in una lettera del 17 ottobre, quando difende il patto di consultazione e la dichiarazione comune dei due partiti sull'argomento: «Non sono d'accordo nel ritenere che sia stata inopportuna. Si poteva non dire nulla, cioè andare avanti giocando sopra un equivoco». E subito dopo passa alle accuse non troppe larvate: «Coloro però che la dicono inopportuna, cedono alla pressione dei nemici dell'unità, pressione che si è esercitata, come sempre si esercita, in forma massiccia, e questa volta anche più del solito». La bestia nera di Togliatti sono i socialdemocratici (indicati con la sbrigativa sigla minuscola «s.d.»), cui i socialisti si stanno pericolosamente avvicinando, e arriva a pronunciare un giudizio pesante: «Apertamente emerge che il vostro partito non difende più le posizioni sue». Per lui Saragat e i suoi sono il nemico «maccartista», che mira a dividere la sinistra: il Psi appare ormai «a rimorchio dei socialdemocratici». La data di questa lettera togliattiana è il 17 ottobre: cinque giorni più tardi gli studenti ungheresi chiederanno il ritorno di Nagy, libertà di stampa e di elezioni, sfidando il regime comunista. Le lettere fra i due leader ora cambiano tono, in sintonia con le notizie che provengono da Budapest. Nenni il 23 ottobre, giorno in cui esplode la rivolta, fa presente a Togliatti che è la storia a fornire «buone carte alla socialdemocrazia europea e italiana». Per la prima volta cita «la violenza della pressione operaia e popolare che investe alcuni partiti comunisti e ne smaschera gli errori e purtroppo anche i delitti». Sei giorni più tardi, il 29, gli arriva l'ultima, lapidaria risposta di Togliatti: nel Psi «si sta percorrendo molto rapidamente la distanza che passa tra il dissenso e l'ostilità». In un estremo tentativo di conciliazione, l'indomani, Nenni gli replica: «Proprio perché il nostro dissenso è molto grave, guai se intervengono tra di noi motivi subalterni di frizione e, come dici tu, di ostilità».
È l'ultimo atto. Solo cinque giorni più tardi i carri armati sovietici invadono l'Ungheria e sparano sugli insorti. I soldati con la stella rossa seppelliscono, oltre alla libertà ungherese, anche l'unità della sinistra italiana. La conclusione del carteggio fra Nenni e Togliatti avvia un conto alla rovescia: pochi anni più tardi nascerà il centrosinistra.