l’Unità 18.10.06
Le Goff: attenti ai «parassiti della storia»
di Jacques Le Goff
Pubblichiamo l’intervento dello storico francese alla Festa della Storia che si tiene a Bologna fino al 22 ottobre.
LO STORICO francese chiama i colleghi a esercitarsi nella buona divulgazione per contrastare le fantasiose ricostruzioni degli scrittori da best seller
Come il mio maestro Fernand Braudel ritengo che la storia ci appartenga e che non conoscerla significhi ignorare parte di noi stessi. Oltre ai retaggi del passato greco romano, dentro di noi e intorno a noi vivono e agiscono quelli del medioevo in cui hanno inciso profondamente la diffusione del cristianesimo e dell’islam e le loro complesse articolazioni interne, la definizione e l’affermazione di stati nazionali, il faticoso emergere di nuove forme di produzione e di scambio, di relazione e di comunicazione.Del resto il Medioevo è durato ben più a lungo di quanto si dice nelle scuole, nelle università e nei libri, perché si è esteso dal tardo antico fino alla rivoluzione industriale per gli aspetti economici e fino alla rivoluzione francese per quelli politici e sociali.
Per l’Italia poi la conoscenza di quel periodo è oltremodo importante perché qui è stata raccolta, custodita e diffusa l’eredità dell’antichità, poi elaborata e consegnata al resto del mondo e ai secoli successivi. L’Italia nel Medioevo divenne il centro della nuova Europa e non solo per la presenza di Roma e del papa ma anche per il sorgere di nuove entità politico-territoriali ed economiche che per la persistenza del loro rilievo e per la loro potenza articolata, composita e fieramente avversa tra l’un l’altro resero tardivo e difficile il cammino verso l’unità nazionale. Pertanto gli italiani non si possono privare di una parte così rilevante della loro memoria, se non altro per riconquistare quel senso di fierezza nazionale e di orgoglio che tanto spesso mancano loro e per valutare meglio i tesori d’arte e di cultura che da quei tempi hanno ricevuto. Una conoscenza della storia che lasciasse da parte Cesare, Cicerone, Francesco, Dante, Giotto, per arrivare fino a Galileo, equivarrebbe a gettare gli italiani nell’ignoranza di chi siano e di cosa sia la loro vita.
Rimane il grande problema di come proporre e stimolare l’apprendimento della conoscenza storica e come competere con coloro che sulla storia speculano per trarne spunti con cui proporre un medioevo falso. Ma non basta lamentarsi di questi «parassiti della storia», che, sfruttando i misteri irrisolti e l’attrattiva che essi esercitano sul grande pubblico, propinano infondate visioni fantastiche, giocate sull’equivoco e sull’invenzione. Certo è sufficiente promuovere conferenze, pubblicare volumi, trasmettere programmi su presunti e reali misteri (Egizi, Templari, Graal,…) per riscuotere un successo pressoché certo, sottraendo così opportunità e voce alla divulgazione attendibile. Ma per questi aspetti il mondo accademico non è privo di responsabilità, del resto ben note e da ribadire, dato che è anche la sua ritrosia ad adeguare i metodi e gli strumenti di trasmissione delle acquisizioni della ricerca che lascia il campo libero ai citati surrogati fantastorici dotati almeno di un loro fascino. Quanti docenti, con un evidente fraintendimento del loro ruolo, considerano ancora la didattica e la divulgazione aspetti secondari e perfino compromettenti. Le opportunità di comunicazione e di trasmissione offerte dalla innovazione tecnologica non possono tradursi in effettiva crescita e diffusione di conoscenza, se la loro divulgazione non viene sottoposta al vaglio della più rigorosa correttezza metodologica e non si attiene alle reali acquisizioni della ricerca. L’attrattiva esercitata dalla pubblicistica letteraria e cinematografica di argomento storico induce numerosi autori ed editori a speculare sul fascino della storia e dei suoi enigmi e a produrre opere che propagano inesattezze, distorsioni e manipolazioni con tale efficacia e in ambiti così ampi da generare convinzioni e teorie errate ben più diffuse delle pubblicazioni e delle conoscenze basate sulle acquisizioni storiografiche. Cresce così il divario e l’incomunicabilità tra ambiti della ricerca e artefici della comunicazione al punto da rendere particolarmente meritorio e auspicabile il lavoro svolto da figure impegnate con correttezza ed efficacia nella divulgazione della storia, che come è noto sono divenuti ambiti particolarmente delicati e controversi dopo le recenti e innumerevoli distorsioni e strumentalizzazioni a fini commerciali.
il manifesto 18.10.06
natura umana
Tra biologia e cultura un incontro rimandato
Si chiude con questi interventi il dibattito centrato sulla necessità di superare la tradizionale scissione tra scienze della natura e scienze umane, di nuovo attuale nonostante risalga a Galileo e Machiavelli Ora che il tradizionale campo di indagine della filosofia, ossia la mente, le emozioni e la ragione, viene studiato dalle neuroscienze, torna a riproporsi la domanda sull'utilità di perimetrare i saperi
di Francesco Ferretti
Giugno e luglio 1959: la rivista «Encounter» pubblica in due puntate il resoconto della relazione - che ha per tema la scissione tra la cultura umanista e quella scientifica - tenuta qualche mese prima da Charles Snow all'Università di Cambridge. L'idea di Snow che il muro di incomunicabilità tra «scienziati» e «umanisti» rappresenti un pericolo gravissimo per la società occidentale apre in quegli anni un acceso dibattito. La situazione non è cambiata di molto: la disputa tra le due fazioni in campo continua ad alimentare la riflessione contemporanea sul tema della natura umana, tanto che ha avviato anche su queste pagine un dibattito, inaugurato da un articolo di Mario De Caro (4 ottobre) e proseguito con una risposta di Massimo De Carolis (8 ottobre).
Il dibattito è riferibile al contrasto tra due opposte tradizioni teoriche: quella, riconducibile a Galilei, i cui fautori sostengono che lo studio degli umani deve avvenire adottando le stesse metodologie che caratterizzano l'analisi di qualsiasi altra entità naturale; e quella, riferibile a Machiavelli, che sottolinea come il carattere storico-politico dell'animale umano abbia proprietà che le scienze della natura non sono in grado di indagare.
Il fatto che il dibattito attuale non si discosti molto da queste due posizioni mostra la difficoltà dar vita a un modello realmente unitario dell'essere umano. Per quale motivo? E, soprattutto, quali strategie alternative mettere in atto per affrontare il problema?
Un errore concettuale condiviso
Tanto per cominciare, entrambi i modelli teorici soffrono il tentativo di annullare una delle entità in gioco a favore dell'altra. Da questo punto di vista lo stesso errore concettuale è imputabile sia alla sociobiologia, che spiega le pratiche sociali riferendole alle esigenze di replicazione dei geni; sia, per motivi speculari, a chi tenta di dare conto della biologia degli umani cercando di piegarla alle leggi della storia e della cultura: come Clifford Geertz che in Interpretazione di culture (Il Mulino, 1998), sostiene che «il cervello umano è completamente dipendente dalle risorse culturali per il suo stesso funzionamento». Né la proposta di Machiavelli, né quella di Galileo, prese da sole, sono capaci di dar conto di una prospettiva realmente unitaria della natura umana. Ciò di cui si ha bisogno è un paradigma sintetico cui fare riferimento: cosa fare per dar corpo a questa esigenza?
Nella dichiarazione di intenti, la strada da percorrere appare scontata: una prospettiva unitaria deve dar conto del fatto che gli umani sono il prodotto congiunto della biologia e della storia culturale. Sembra una banalità, più che una semplice ipotesi di buon senso: chi potrebbe mai mettere in discussione un'affermazione di questo tipo? Dal punto di vista esplicativo tuttavia la situazione è molto più complicata di quanto la dichiarazione di intenti lasci presupporre. Non è affatto chiaro, in effetti, come «mettere in relazione» i due termini del problema: dare conto di come biologia e cultura possano davvero convergere nell'essere umano è una cosa assai difficile da giustificare.
Prendiamo il caso della naturalizzazione della credenza religiosa. In Breaking the Spell. Religion as a Natural Phenomenon (Viking, New York 2006), Daniel Dennett sostiene che i sistemi sociali i cui membri credono in uno o più agenti soprannaturali possono essere adeguatamente compresi in termini evolutivi. Un caso esemplare è quello degli sciamani: le pratiche curative cui essi sottopongono gli individui del gruppo sociale funzionano per l'effetto placebo determinato dal contesto religioso e questo rappresenta un vantaggio adattivo per i credenti. Che ricerche del genere possano essere importanti per chiarire alcuni aspetti delle credenze religiose non è controverso; ad essere in discussione - diceva De Caro nel suo articolo - è l'idea che un approccio di questo tipo possa «dare esaustivamente conto della fenomenologia religiosa o perlomeno dei suoi aspetti più rilevanti».
Utilizzando gli argomenti di Bernard Williams, egli afferma che non c'è ragione di credere che il mondo umano possa essere compreso soltanto con le modalità delle scienze naturali - ad esempio con lo strumentario della teoria dell'evoluzione. Per il semplice motivo che ciò che «una spiegazione in termini evolutivi può riuscire a fare è soltanto di dare conto della capacità peculiarmente umana di elaborare pratiche culturali: ma essa non può spiegare senso, contenuto e natura di tali pratiche».
De Caro è dunque disposto a riconoscere un nesso di dipendenza tra la biologia degli umani (il fatto che abbiano un cervello di un certo tipo, ad esempio) e una generica capacità di elaborazione delle credenze religiose; ciò che non è disposto a sostenere è che una capacità del genere possa avere ripercussioni sul piano del contenuto delle singole credenze religiose. Certo la biologia non può «esaurire» il contenuto delle pratiche religiose (se questo fosse il caso il Cristianesimo o il Buddismo dovrebbero trasmettersi per via genetica). E tuttavia una prospettiva che non riconosce un ruolo causale della costituzione biologica degli individui sul piano dei contenuti delle credenze è una prospettiva troppo debole per dar conto di una reale unificazione dell'essere umano. La critica al biodeterminismo è giusta, ma il prezzo da pagare non può essere l'idea che il contenuto delle credenze sia del tutto svincolato dalla biologia degli individui. Non si può realmente tematizzare una prospettiva unitaria dell'essere umano senza mettere in conto che le capacità generiche (le disposizioni che dipendono dal funzionamento di un sistema biocognitivo determinato) abbiano incidenza anche sul piano del contenuto degli stati mentali. Pur non determinando direttamente i contenuti delle credenze è legittimo sostenere che la biologia agisca da «vincolo» ai contenuti possibili.
Nella prospettiva «epidemiologica» proposta da Dan Sperber nel libro Il contagio delle Idee (Feltrinelli, 1999) studiare la natura della credenza religiosa (così come la natura di ogni altra credenza culturale) significa analizzare i processi che regolano la formazione e la trasmissione (il contagio) di tali credenze in una determinata comunità. Tutte le credenze nascono nella mente individuale di qualcuno: perché una volta trasmesse alcune (piuttosto che altre) «attecchiscono» nella testa di altri individui al punto da diventare patrimonio condiviso da trasmettere alle generazioni future? Perché alcune credenze sono più contagiose di altre?
Tra rappresentazioni e pratiche
Senza entrare nel merito delle risposte di Sperber a tali domande, il punto da sottolineare è che domande di questo tipo chiamano in causa il contenuto delle credenze - meglio: chiamano in causa la relazione tra il contenuto delle credenze e l'apparato percettivo, concettuale e inferenziale della cognizione umana. Se, almeno sul piano metodologico, una proposta del genere merita di essere presa in considerazione, allora non è possibile sostenere che lo studio della psicologia evoluzionista può dar conto soltanto delle capacità in astratto della mente umana ma non del significato degli specifici stati mentali che essa elabora e produce.
Più vicino a una prospettiva di reale unificazione dell'essere umano è Massimo De Carolis che, nella sua replica all'articolo di De Caro, si sofferma sui motivi alla base dell'opposizione tra filosofia scientifica e filosofia come disciplina storica. La sua idea è che in entrambi gli approcci prevalga un atteggiamento centrato sugli aspetti concettuali e simbolici propri alla natura umana. Tale atteggiamento è comune ad entrambe le fazioni in lotta: nella tradizione continentale l'ermeneutica rappresenta il caso esemplare di un modello di filosofia incentrato sul primato accordato ai modelli epistemici, ai simboli e alle ideologie, un modello «in cui le pratiche materiali svolgono un ruolo a dir poco ancillare».
Un discorso analogo vale a proposito del tentativo messo in atto dalle scienze cognitive. Riferendosi a Dan Sperber, De Carolis sostiene che il cardine della sua proposta è l'idea di una realtà «ridotta ad elementi simbolici: rappresentazioni, idee, credenze, quasi mai pratiche materiali di intervento sul mondo reale». Il vizio di fondo di un'impostazione di questo tipo è la prevalenza accordata agli aspetti simbolici a discapito degli aspetti performativi tipici delle pratiche di costruzione del mondo che caratterizzano gli esseri umani.
Da questo punto di vista, il modello di Dan Sperber si rivela essere «un'impostazione sorprendentemente antiquata, visto che da decenni la ricerca antropologica insiste sul valore performativo della prassi rituale, sulla sua capacità di costruire la realtà sociale, a prescindere da ciò in cui si crede o non si crede». Ma questo non è, a mio parere, un giudizio condivisibile, perché non credo sia possibile dare una spiegazione della prassi umana che possa davvero prescindere da ciò che gli umani credono o non credono. De Carolis ha ragione a sottolineare che lo studio della natura umana deve rivolgersi agli umani in carne e ossa, non a un qualche loro simulacro idealizzato. E ha ragione anche nel sostenere che le pratiche umane devono essere analizzate tenendo conto del carattere performativo che ne rappresenta un tratto peculiare. Quello che non convince di una simile concezione - che incorre in un errore speculare a quello del primato della ragione sull'agire effettivo - è l'idea che l'agire sul mondo possa essere guadagnato soltanto negando gli aspetti concettuali della natura umana: se le rappresentazioni senza le pratiche effettive sono vuote, le pratiche effettive senza le rappresentazioni sono cieche.
Verso una terza via
Il problema di una prospettiva sintetica dell'essere umano è capire come riuscire a tenere insieme i processi costruttivi con quelli simbolici. Da questo punto di vista le accuse mosse a Sperber mi sembrano ingenerose: se gli argomenti che De Carolis porta a favore della sua tesi valgono infatti per alcuni rappresentanti della scienza cognitiva (come Noam Chomsky, che considera la comunicazione in riferimento al parlante-ascoltatore idealizzato) gli stessi argomenti non possono valere per chi, come Sperber, è seriamente impegnato nel tentativo di mantenere insieme gli aspetti performativi e quelli rappresentazionali dell'agire umano. Al di là dei meriti specifici che si è disposti a riconoscere alla sua proposta, la «pragmatica cognitiva» cui Sperber fa riferimento incarna a pieno titolo il tentativo di una terza via alla trappola scissionista delle due culture. Una strada che mi sembra valga la pena percorrere se si ha a cuore il problema dell'unificazione della natura umana.
il manifesto 18.10.06
Quel che fa la differenza tra cervelli e persone
di Felice Cimatti
Torna ancora, nel dibattito che si domanda se la riflessione filosofica sia intrinsecamente storica o debba considerarsi una impresa contigua alle scienze naturali, il problema del compito della filosofia. Un meteorologo non si chiede quale sia il suo compito, come non se lo chiede il biochimico, e tanto meno lo psicologo sperimentale. Tutti hanno un oggetto di indagine. Il filosofo non sembra averne uno, o almeno, non sembra più averne uno. Soprattutto ora che il suo tradizionalmente fertile campo di indagine - la mente le emozioni e la ragione - viene studiato da scienze molto agguerrite, ossia le neuroscienze. Ora sappiamo - per riprendere l'esempio discusso su queste pagine da Mario De Caro che riferendosi all'ultimo libro di Daniel Dennett ha avviato a questa discussione (il 4 ottobre) - quali aree cerebrali si attivano quando preghiamo, e alcuni ipotizzano anche una spiegazione evolutiva dell'esperienza del sacro, la sua presunta funzione biologica. Quando arrivano le scienze, si sente ripetere sempre più spesso, la filosofia ceda il passo. E quel tempo pare finalmente arrivato. Il caso del sacro è complicato, però. Immaginiamo un esperimento come questo, di fatto già realizzato o realizzabile.
Una donna sta pregando, con il capo ripiegato sul petto e gli occhi chiusi, inginocchiata di fronte all'altare del Cristo. Un macchinario molto potente registra in diretta tutta la sua attività cerebrale; su uno schermo possiamo vedere come in un film quello che succede nel cervello della devota, fino al livello dei singoli neuroni. Dopo che ha smesso di pregare le mostriamo il film che registra la sua attività cerebrale durante la preghiera. Il valore di questa registrazione è indubbio, si tratterebbe di uno straordinario risultato scientifico, ora sapremmo un mucchio di cose sul cervello di una persona che prega. Ma lo scienziato sarebbe legittimato a dirle: «questa è la tua esperienza religiosa»? Naturalmente no, perché il valore umano di quell'esperienza - per chi l'ha provata - non sta in quelle immagini, ma nelle eventuali spiegazioni che la donna vorrà darci del suo pregare, oppure nelle sue azioni dopo avere pregato, o anche nel suo ostinato silenzio di fronte a domande così indiscrete. Ciò che è in questione, qui, non è la strana idea secondo cui nella vita degli esseri umani ci sarebbero esperienze ineffabili, di cui dovrebbe occuparsi la filosofia o la poesia. Qui il lavoro del filosofo ha a che fare con i modi in cui lo scienziato descrive il suo stesso esperimento; ha a che fare con i modi del tutto inconsapevoli in cui usiamo il linguaggio. Quando lo scienziato dice, riferendosi al cervello della donna in preghiera, «questa è l'esperienza religiosa», il filosofo dovrebbe ricordargli che c'è una bella differenza fra un cervello e una persona. E non si tratta di una differenza metafisica. Al contrario, è una differenza affatto terra terra. Il filosofo non devo certo dire allo scienziato cosa studiare e tanto meno come lo debba studiare. Però lo può aiutare a non fare confusione. Così l'eventuale funzione evolutiva della religione non mi dice nulla sul valore che per quella donna può avere il pregare (e viceversa). In questo senso non esiste un oggetto che sia specificamente de l filosofo, il quale soprattutto deve evitare il rischio di credersi uno scienziato. O meglio, un oggetto c'è, il campo del linguaggio. Il filosofo non ci dice come stanno le cose, ci ricorda, semmai, che le descriviamo in modo tale da tralasciare altre possibili descrizioni di quelle stesse cose. Detto altrimenti, il filosofo lotta contro le immagini totalitarie, che si pretendono universali e definitive, si occupa della libertà dei nostri pensieri quando si arenano nei soliti sterili luoghi comuni in cui naufragano anche le nostre azioni. Come scrive Wittgenstein, «da che cosa acquista importanza la nostra indagine, dal momento che sembra soltanto distruggere tutto ciò che è interessante, cioè grande e importante? (Sembra distruggere, per così dire, tutti gli edifici, lasciandosi dietro soltanto rottami e calcinacci.) Ma quelli che distruggiamo sono soltanto edifici di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano». È la libertà dei pensieri, allora, la preoccupazione del filosofo.
La Stampa 18.10.06
Bocca: l’unica discussione seria sarebbe chiedersi come mai questo Paese abbia un tale rigurgito di fascismo
«Ci vuole una legge come per gli armeni»
di Mario Baudino
Erano skinheads «di sinistra» o autorevoli storici antirevisonisti travestiti all’uopo, quelli che hanno contestato Giampaolo Pansa a Reggio Emilia al grido di «Viva Giorgio Bocca»? Erano skinheads di sinistra, pare di capire. Non c’è mistero italiano, almeno su questo punto. Ma anche lettori del grande giornalista-partigiano, che sta per pubblicare (uscirà a giorni per Feltrinelli), il nuovo libro dedicato alla Resistenza nel Cuneese, al vino, agli amici e al cibo, Le mie montagne. Gli anni della neve e del fuoco. O forse, come ci dice dalla sua casa di Milano, «qualcuno che conosceva qualcun altro che magari mi conosce». «Del resto - aggiunge Bocca - io ho scritto molti libri sulla guerra partigiana. In ogni caso non sono certo il tipo da far da bandiera». Si può facilmente immaginare una scrollata di spalle, magari uno sbuffo. Bocca non vuole entrare in polemica, soprattutto con Pansa che è diventato, negli anni, una specie di eterno antagoniosta sulla scena dei media.
«Non sono l’anti-Pansa, non mi interessa. Anzi, dirò di più: l’unica discussione seria sarebbe chiedersi come mai questo Paese abbia un tale rigurgito di filo-fascismo. Per il resto, non c’è niente da discutere. Non c’è stata una Vandea e non c’è stata nessuna Grande Bugia». Bocca è semmai vagamente inquieto per un’altra cosa: che il suo nuovo libro venga interpretato come una risposta all’avversario. «Invece io voglio solo raccontare la guerra partigiana, che è stata l’ultima guerra risorgimentale e appartiene a un periodo ormai finito. La Patria non interessa più a nessuno, basta porre attenzione ai politici che siedono in Parlamento». E’ anche amareggiato. Deluso. Arrabbiato, sembra. «Ma che razza di democrazia è questa, dove ci sono dei democratici che prendono le parti di Pansa?».
Non pensa che comunque abbia il diritto che i fatti da lui proposti, e le sue interpretazioni, vengano discusse con serenità? La risposta è in crescendo: «Sì, come quelli che negano l’Olocausto, o la strage degli armeni. Io sono d’accordo coi francesi, robe simili vanno proibite per legge. Chi contesta la Resistenza in Italia nelle sue linee generali è uno che nega la verità, la realtà. Nega l’unica guerra dove i combattenti erano dei volontari. Nega persino l’apporto della popolazione: ma come si fa. E anche il sangue dei vinti, se vogliamo essere precisi...». Non è stato sparso? «Va ridimensionato. Ci sono stati molti delitti, molte uccisioni per fini personali. I delinquenti sfruttavano la situazione per ammazzare e rapinare, ma una cosa erano i delinquenti, un’altra i partigiani. Vuole un esempio?» Pronti. «Nel mio nuovo libro racconto come scendemmo a Busca, un piccole centro vicino a Cuneo, per attaccare la compagnia anticarri della divisione Littorio. Bene, non appena si alzarono le fiamme nella loro caserma, vidi ombre che si aggiravano: era gente del posto che grazie alla confusione cercava di razziare qualcosa, di far bottino».
Che cos’altro racconta in Le mie montagne? «I personaggi, per esempio Duccio Galimberti, per chiedermi che tipo fosse. Non era facilmente comprensibile. O Livio Bianco e i langaroli e i montanari». Magari qualcuno lo tira anche giù dal piedestallo. Fa del revisionismo? «No, faccio cronaca. Ma che tiene conto della situazione». D’accordo. Però se le capitasse in casa uno di quegli skinheads di Reggio Emilia, di cui è diventato l’eroe, come reagirebbe? «Mi metto a ridere, cosa vuole che faccia. Non è che non sia abituato a situazioni un po’ così. Nel ‘68 all’Università di Bologna entrai in un’assemblea dove mi cantarono: “Lotta Continua non si tocca, ammazziamo Giorgio Bocca”».
Repubblica 18.10.06
SE DIALOGANO SCIENZA E FEDE
di JüRGEN HABERMAS
Vanno superate le contrapposizioni fra una ricerca che miete successi e la rinascita religiosa
La frattura laicismo/religione mette alla prova persino le democrazie di più antica data
Il riconoscimento reciproco porta i cittadini credenti e non credenti ad ascoltarsi gli uni con gli altri
Pubblichiamo parte dell'Introduzione di al suo saggio dal titolo "Tra scienza e fede", in uscita oggi da Laterza (pagg. 292, euro 18).
Due tendenze contrapposte caratterizzano lo spirito contemporaneo: la diffusione di rappresentazioni naturalistiche del mondo e il crescente influsso politico esercitato dalle ortodossie religiose.
Da una parte, si mettono con successo in evidenza i progressi della biogenetica, degli studi sul cervello e della robotica, ai quali si associano speranze per la terapia e l´eugenetica. Con questa serie di programmi, un´idea di sé scientificamente oggettivata delle persone è destinata a penetrare anche nei contesti quotidiani di comunicazione e di azione. La pratica acquisizione di una prospettiva di auto-oggettivazione, che riduce tutto il comprensibile e il vissuto a fenomeni osservabili, promuoverebbe altresì la disponibilità a una corrispondente auto-strumentalizzazione. Per la filosofia, a questa tendenza si collega la sfida di un naturalismo scientistico. Non si contesta che tutte le operazioni della mente umana siano totalmente dipendenti da substrati organici. La controversia verte piuttosto sul giusto modo di naturalizzare la mente. Una adeguata nozione naturalistica dell´evoluzione culturale deve infatti tener conto sia della costituzione intersoggettiva della mente, sia del carattere normativo delle sue operazioni guidate da regole.
Dall´altra parte, la tendenza alla diffusione di rappresentazioni naturalistiche del mondo si scontra con un´inattesa rivitalizzazione e con la politicizzazione su scala mondiale delle comunità e tradizioni religiose. Per la filosofia, la reviviscenza delle forze religiose, dalla quale soltanto l´Europa sembra esente, si collega alla sfida lanciata da una critica di fondo all´idea di sé della modernità post-metafisica e non-religiosa dell´Occidente. Non è in discussione il fatto che le possibilità di creazione politica esistono ormai soltanto entro l´universo senza più alternative delle infrastrutture tecnico-scientifiche ed economiche sorte nell´Occidente. Piuttosto, è controversa la giusta interpretazione delle conseguenze, in termini di laicizzazione, di una razionalizzazione culturale e sociale che gli assertori dell´ortodossia religiosa sempre più denunciano come la vera e propria devianza dell´Occidente nel quadro della storia mondiale.
Queste tendenze intellettuali contrapposte sono radicate in tradizioni contrastanti. Il crudo naturalismo si può intendere come conseguenza delle premesse scientistiche dell´Illuminismo, mentre la coscienza religiosa politicamente rinvigorita rompe con le premesse liberali degli illuministi. Però questi atteggiamenti mentali non solo si scontrano nelle controversie accademiche, ma si trasformano anche in forze politiche - sia nell´ambito della società civile della nazione-guida dell´Occidente, sia a livello internazionale, nell´incontro delle religioni mondiali con le culture che dominano il mondo.
Dal punto di vista di una teoria politica che si occupa dei fondamenti normativi e delle condizioni di funzionamento degli Stati di diritto democratici, questa contrapposizione tradisce anche una segreta complicità: le due tendenze opposte mettono a rischio, per così dire in collaborazione, la stabilità della comunità politica con la loro polarizzazione di visioni del mondo, quando dall´una parte e dall´altra manca la buona volontà di riflettere su di sé. Una cultura politica che - vuoi riguardo alle ricerche sugli embrioni umani, vuoi all´aborto e al trattamento dei malati in coma - si polarizza inconciliabilmente lungo la linea di frattura laicismo/religione mette alla prova il buonsenso dei cittadini perfino nella democrazia di più antica data. L´ethos civico liberale esige da ambe le parti l´accertamento riflessivo dei confini sia della fede, sia della scienza.
Come dimostra proprio l´esempio degli Stati Uniti, il moderno Stato costituzionale venne anche inventato per consentire un pacifico pluralismo religioso. Soltanto l´esercizio ideologicamente imparziale di un´autorità laica costituita in Stato di diritto può garantire la convivenza, nella tolleranza e a parità di diritti, di comunità religiose che permangono inconciliabili nella sostanza delle loro dottrine e visioni del mondo. La secolarizzazione dell´autorità statale e la libertà positiva e negativa dell´esercizio della religione sono due facce della stessa medaglia. Esse hanno protetto le comunità religiose non soltanto dalle conseguenze distruttive dei sanguinosi conflitti fra di loro, ma anche dallo spirito antireligioso di una società laicistica. È vero che lo Stato costituzionale può proteggere i suoi cittadini religiosi e non religiosi gli uni dagli altri soltanto quando questi non solo trovano un modus vivendi nella reciproca frequentazione, bensì vivono per convinzione in un ordinamento democratico. Lo Stato democratico si nutre di una solidarietà che non si può imporre con le leggi, fra cittadini che si considerano reciprocamente membri liberi ed eguali della loro comunità politica.
Nella sfera pubblica politica, questa solidarietà riscossa in moneta spicciola deve dar prova di sé anche e soprattutto al di là dei confini ideologici. Ad esempio, il riconoscimento reciproco significa che i cittadini credenti e non credenti sono disposti a prestarsi ascolto e a imparare gli uni dagli altri in pubblici dibattiti. Nella virtù politica della reciproca frequentazione civile si esprimono determinati atteggiamenti cognitivi. Questi non possono essere prescritti, ma soltanto appresi. Ma da ciò risulta una conseguenza che nel nostro contesto è di particolare interesse. Lo Stato liberale, in quanto esige dai suoi cittadini un comportamento collaborativo al di là dei confini ideologici, deve presupporre che gli atteggiamenti cognitivi a ciò indispensabili sia da parte laica, sia da parte religiosa, si siano già sviluppati come risultato di processi storici di apprendimento. Tali processi non sono semplici cambiamenti casuali di mentalità, che "avvengono" indipendentemente da idee razionalmente verificabili. Ma nemmeno si possono produrre e governare tramite gli strumenti del diritto e della politica. Lo Stato liberale dipende a lungo termine totalmente da mentalità che non è in grado di creare in base alle proprie risorse.
Ciò risulta ovvio se si pensa alla tolleranza che nello Stato liberale ci si aspetta dai cittadini credenti. Lo spirito fondamentalista è inconciliabile con la mentalità che un numero sufficiente di cittadini deve condividere se non si vuole che la comunità democratica abbia a disgregarsi. In una prospettiva storico-religiosa gli atteggiamenti cognitivi che i cittadini credenti debbono assumere nella civile frequentazione con cittadini di altre fedi e non credenti possono intendersi come risultato di un processo di apprendimento collettivo. Nell´Occidente segnato dal cristianesimo è evidente che la teologia ha assunto un ruolo di battistrada in questa autoriflessione ermeneutica delle dottrine tramandate. Se la rielaborazione dogmatica delle sfide cognitive poste dalla scienza moderna e dal pluralismo religioso, dal diritto costituzionale e dalla morale sociale laica, sia "riuscita" e se nel caso si possa mai parlare di "processi di apprendimento", si può naturalmente giudicare solo dal punto di vista interno di quelle tradizioni che in questo modo trovano un aggancio con le condizioni di vita moderne.
Insomma, la formazione dell´opinione e della volontà nella sfera pubblica democratica può funzionare soltanto se un numero sufficiente di cittadini soddisfa determinate attese circa la civiltà del loro comportamento anche al di là di profonde divergenze in materia di fede e di visione del mondo. Ma i cittadini credenti possono confrontarsi con questo compito solo a patto che soddisfino fattualmente i presupposti cognitivi a ciò indispensabili. Debbono aver imparato a porre le proprie convinzioni religiose in un rapporto riflessivamente comprensivo con la realtà del pluralismo di religioni e visioni del mondo, e debbono aver conciliato con la loro fede il privilegio conoscitivo delle scienze socialmente istituzionalizzate, come pure il primato dello Stato secolare e della morale sociale universalistica. Su ciò la filosofia, diversamente dalla teologia che è strettamente connessa con la fede delle comunità, non può esercitare alcun influsso. Per questo rispetto, la filosofia si limita al ruolo di un osservatore dall´esterno, cui non compete giudicare su ciò che nell´ambito di una dottrina religiosa possa valere come motivazione oppure vada respinto.