La Stampa 19.10.06
Turco: sgravi fiscali alle famiglie con malati psichici
«Adesso solo i benestanti possono curarsi»
di Daniela Daniele
Legge Basaglia «Resta valida, il limite è la parziale applicazione Bisogna rimettere al centro la psichiatria di comunità»
Statistiche «L'organizzazione mondiale ha stimato che sono 10 milioni gli italiani con distrurbi più o meno gravi»
Criminalità «Non bisogna tornare ai manicomi. Ci vuole una costante vicinanza alle personein crisi per evitare che si commettano delitti»
Prevenzione «Avevamo dato vita ad alcuni progetti che coinvolgevano i giovani e le scuole il centrodestra nel 2001 li ha fermati»
Livia Turco corre in soccorso delle famiglie che hanno in casa un malato psichico. E che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono costretti a ricorrere al lettino dello «strizzacervelli» accollandosi spese che non tutti possono permettersi. «Sto studiando facilitazioni liscali o rimborsi», ha detto il ministro della Salute in un'intervista a «La Stampa».
Nelle parole del ministro della Salute Livia Turco una speranza per chi vive il malessere dell'anima e per le famiglie che hanno un malato psichico, non grave. «Sto studiando facilitazioni fiscali o rimborsi per chi affronta una psicoterapia». E spesso si tratta di un percorso lungo e costoso. Ma sul tappeto un altro argomento difficile: la legge Basaglia che il centrodestra vorrebbe modificare. Il ministro la difende e annuncia, per l'anno prossimo, la Conferenza nazionale sulla salute mentale.
I familiari dei malati si sentono soli di fronte a patologie che non sanno gestire. Storace voleva cambiare la 180. Ministro, metterà mano alla legge?
«La 180 è valida a tutt'oggi. I suoi principi, basati sull'assistenza nel territorio, alternativa al manicomio e, soprattutto, sul reinserimento dei malati nella vita sociale sono ancora innovativi. Proprio il 6 settembre scorso, il Parlamento europeo ha approvato il "libro verde" sulla salute mentale che ricalca linee e indirizzi della nostra legge di 28 anni fa! Il problema sta, semmai, nella sua parziale applicazione. E' vero, molte famiglie si sentono sole. Ma la via non è certo la scorciatoia dei manicomi. Bisogna ripartire dall'impegno e dagli investimenti che sono stati interrotti o sviati. Occorre rimettere al centro la psichiatria di comunità, e non limitare gli interventi agli aspetti medici e fannacologici. Lo dobbiamo fare: l'Oms riferisce che sono almeno 10 milioni gli italiani con disturbi mentali di varia gravità».
L'assistenza pubblica si occupa, spesso in modo carente, di malati gravi. Ma per tutta quella serie di lievi patologie che potrebbero essere risolte con una buona psicoterapia, il cittadino deve ricorrere ai privati. Perché?
«Sappiamo che il 60% delle persone che si rivolge ai servizi di salute mentale soffre di disturbi emotivi comuni o comunque non appartiene all'area della gravità. Si stima, poi, che almeno il 40% delle richieste di assistenza al medico di famiglia sia di natura psicologica. Il fatto che la psicoterapia sia difficilmente accessibile alle fasce meno abbienti è vero. La psicoterapia, come l'odontoiatria, ha assunto un connotato di classe. C'è chi si può permettere un bel sorriso e chi può andare dallo psicoterapeuta a parlare dei suoi problemi, affrontando un percorso lungo e costoso. E c'è chi non può permettersi né l'una né l'altra cura. Oltre ai servizi pubblici con terapia breve o di gruppo, stiamo studiando, compatibilmente con le risorse economiche disponibili, la possibilità di rimborsi parziall o di forme di facilitazioni fiscali per le spese che i cittadini sostengono in programmi di psicoterapia. Potrebbe essere un inizio. Vedremo».
Troppi fatti di sangue hanno per protagonista un malato di mente, spesso in cura da un centro di igiene mentale...
«Gli studi statistici dicono che l'incidenza difatti di sangue tra la popolazione sana è la stessa che si riscontra tra quella dei soggetti in cura per disturbi mentali. Non voglio con questo sottovalutare il problema. Per evitarlo nei limiti del possibile è necessario che i servizi mantengano quella continuità assistenziale prevista dall'ultimo progetto obiettivo per la salute mentale, risalente ormai a qualche anno fa. Che non è fatta solo di cure e farmaci nei momenti acuti della malattia ma, soprattutto, di costante e permanente vicinanza e sostegno alle persone malate. Si può e si deve fare. Senza tornare ai manicomi».
Si parla di prevenzione contro fumo, obesità, malattie cardiovascolari, tumori. Perché non si fa prevenzione della malattia psichica?
«Avevamo iniziato a farlo nel 2000, in occasione della prima e per ora ultima, Conferenza nazionale sulla salute mentale. Il progetto obiettivo prevedeva diverse azioni a partire dai giovani, con il coinvolgimento della scuola e delle famiglie. Qualcosa si è avviato, ma in questi cinque anni di centrodestra, a seguito della riduzione degli investimenti, i servizi hanno prioritariamente risposto ai bisogni assistenziali. La conclusione di questo cammino sarà la seconda Conferenza nazionale che si svolgerà nel 2007. In quella sede potremmo finalmente voltare pagina».
l’Unità 19.10.06
Ingrao, il limite della luna
di Gianni D’Elia
Volevo la luna (Einaudi), l’autobiografia di Pietro Ingrao: se ne è già parlato come di opera politica e letteraria di valore, evidenziando l’autocritica di Ingrao sui ritardi e gli errori del comunismo italiano: l’Ungheria del ‘56, la radiazione del manifesto nel ‘69, il mancato incontro con il movimento studentesco nel ‘68. Il discorso sugli errori internazionali e sullo stalinismo, tanto caro alla nostra borghesia intellettuale che governa i giornali, non coglie però l'occasione di discussione vera che questo romanzo biografico suscita, per un lettore di sinistra che si sia formato negli anni 70.
Ma non si tratta di ritardi di scrittura, né di «polpa» ideologica ormai vana, come ha osservato Fulvio Abbate su l’Unità (27/9); perché il libro di Ingrao non concede al «desueto» linguistico, ma se mai è radicato nella formazione degli Anni Trenta, nella prosa «vociana» d’arte, e scorre con ritmo invidiabile per ogni scrittore anche d’oggi; e non è neppure il senso dell’Ecclesiaste comunista, del nulla burocratico dell’attività partitica, della vacuità di tante questioni interne, che ora paiono a Abbate invecchiate e stanche, addirittura prive di senso.
No, è qualcosa di diverso: Ingrao ci racconta qualcosa di fondamentale, che è la formazione intellettuale della Resistenza italiana, il passaggio dal «fascismo di coltura» all’antifascismo, dalla poesia alla politica, come fu per Giaime Pintor, Fortini, Pasolini, e tanti altri; come la riserva naturale, d’arte e di lotta dell’Appennino, ecco la dorsale umanistica dell’Italia, la sua cultura politica: antifascismo, resistenza, letteratura, poesia ed arte, cinema. E lo fa come in un romanzo ottocentesco, mischiando luoghi, psicologia e avventura, raccontando il Novecento come secolo dell’azione imposta dai fatti: l’orrore del razzismo e della guerra, l’oppressione della libertà.
Così, la vocazione letteraria diviene vocazione politica, che accoglie quella rinuncia all’arte come una necessità, un dovere a cui richiamano i compagni di lotta: lascia gli studi di cinema, entra nella cospirazione antifascista, narrata come in un romanzo dei Dumas, tornando forse ai modelli dell’adolescenza. Basti leggere il capitolo «L’Osteria della Rivazza», dove pare un goffo Renzo Tramaglino che fugge da Milano verso Voghera, precipita nella neve, incontra il futuro in forma di un giovane amico, che sarà partigiano come lui, nella premonizione e nel fato della vita avventurosa, clandestina. In altri punti è il lirismo del paesaggio, del Tirreno laziale e campano, come in altri ancora il lirismo civile, amoroso, corporeo, sensitivo, di un Ortis che abbia trovato l’amore e sia invecchiato bene: Laura, la compagna e la moglie, è la protagonista principale della passione politica, che passa alle figlie, attraverso le quali Pietro scopre il nuovo sentire di un paio di generazioni. Alcune descrizioni della natura, del mare, delle nuvole, della terra e degli alberi, del colle nativo di Lenola e della punta di Gaeta, sono di una bellezza e di una luce poetica oggettive. Così, i libro si presenta anche come una recherche interiore del sentimento politico, come se Proust fosse arrivato fino alla seconda guerra mondiale, a sentire e capire ed esprimere un partigiano comunista italiano.
A raccontare come un ragazzo meridionale, figlio di borghesia agraria repubblicana e garibaldina, allevato e educato nel regime fascista, passando attraverso le comuni esperienze e la lenta nascita dell’impegno tra le maglie retoriche della pedagogia, possa ritrovare, nell’ambito di quella cultura scolastica, forme di dissenso, di eresia, di riflessione apertamente critica contro il regime, una volta chiusa la porta della classe. La partecipazione ai Littoriali della cultura, per cui sarà attaccato dai giornali di destra dopo il ‘45, è giustamente difesa da Ingrao come momento d’incontro con altri giovani, per parlare e cominciare a staccarsi dal regime, dall’interno, usando tutti gli spazi, fossero anche quelli delle gare poetiche e critiche, che Pietro vince facilmente. Quel qualcosa di fondamentale che Ingrao ci racconta, si ritrova in una frase di Roversi di tanti anni fa, quando raccontando del dialogo intercorso per anni con Fortini, disse che a suo modesto parere non si era ancora scavato in quegli influssi fascisti nella formazione degli antifascisti, con tutte le implicazioni di autoanalisi e di autocoscienza nazionale: «perché noi siamo stati allevati e educati dal fascismo, più che soltanto oppressi e conculcati».
L’amore di Dante e del Pascoli portano Pietro alla politica attiva, lo formano, gli danno quel senso di leopardiano eroismo e di amore dell’umiltà sociale che lo segnano; è una generazione intera, quella migliore intellettuale, a svelarsi nel suo racconto; si vede che questi padri sono arrivati alla politica dalla cultura, dalla poesia, dall’eredità umanistica appresa, anche dentro la retorica pacchiana del regime; e si vede il nostro contrario, dal ‘68 al ‘77: noi siamo arrivati alla cultura e alla poesia dalla politica, attivistica e ideologica, spesso priva di quei fondamenti umanistici, che hanno reso i nostri padri più forti, e noi più deboli, spingendo un paio di generazioni verso il disastro terroristico, consumato da un’avanguardia assurda, che uccise Moro.
E fa male il ricordo di chi non volle trattare per liberarlo. Resta da dire che questo male che fa la storia di Ingrao, chiudendosi con quel delitto fondativo dell'Italia di oggi, è acuito dal silenzio dello stesso Ingrao sulla strategia della tensione e sul «romanzo delle stragi», di cui avremmo voluto leggere almeno un capitolo; perché è indubbio che se la sconfitta comunista è il tema del secolo e del libro, a noi resta impressa anche la sconfitta democratica di una storia oscura, in cui fermenta quel vuoto di verità (e cioè quel pieno di menzogna, omertà, segreto di Stato, uomini della P2 ovunque), vuoto denunciato da Pasolini e mai più colmato, se la sua opera e il suo assassinio non vengono intesi neanche da questi bellissimi libri di memorie che Einaudi sta stampando (Rossanda, Ingrao) memoria di un’altra Italia, a cui però continua a mancare la verità intera degli ultimi trent’anni.
Perché quel disastro della sinistra è stato usato per produrre la continuità del fascismo rinato in altra forma, che ci sta davanti. Una propensione fascista continua a strisciare in questo paese, quanto più forte è l’inconsapevolezza del fascismo intimo che spinge metà degli italiani a riconoscersi in un nuovo capo televisivo, di una ignoranza abissale quanto la protervia e l’infarinatura insulsa di denari.
La luna mancata (di Ingrao e dei nostri compagni) significa oggi l’eclisse e il duro bilancio di una sopravvissuta sinistra italiana, in un’Italia in cui la formazione poetica di un individuo civile pare un’eresia e una bestemmia, di fronte al mito dello sviluppo e del calcolo, della quantità senza progresso culturale e spirituale, che accomuna destra e cattiva sinistra. Ingrao dimostra invece di essere stato e di essere un comunista, perché poeta. Poeta del mare utopico e della dorsale umanistica dell’Italia.
l’Unità 19.10.06
Bocca, Elogio dell’Antifascismo
La mia Italia la mia Resistenza
di Giorgio Bocca
Era antifascista anche Dante Livio Bianco. Eravamo in montagna da due mesi ma eravamo già duramente faziosi. Noi dei Damiani eravamo «quelli di Galimberti»; gli altri di San Matteo «quelli di Livio». Faziosi al punto che quando Livio venne a trovarci e Vinicio il cuoco fece degli gnocchi che rimbalzavano sul piatto, duri come pietre, ci divertivamo a vederlo trangugiare a fatica. Duccio era figlio di un ministro, Livio di un sarto emigrato a Nizza che aveva fatto un po’ di soldi, era tornato a Valdieri e aveva fatto studiare i figli, Dante Livio e Alberto. E Livio era andato a Torino ed era diventato un grande avvocato nello studio di Manlio Brosio.
Per me Livio era un caso indecifrabile: non era un politico, non aveva voglia di esserlo e scriverà al suo amico Giorgio Agosti: «Per me i venti mesi della guerra partigiana sono stati una lunga splendida vacanza, ma adesso voglio soltanto fare il mio mestiere, l’avvocato, che mi fa guadagnare bene. E tu sai che a me piace vivere bene». Tutto chiaro? Per niente, l’uomo cui bastava vivere bene era di un orgoglio intellettuale luciferino, lo si capiva dal suo bel volto magro, dai suoi occhi, a me ricordava il Bruto shakespeariano dall’ambizione più grande che l’amore per Cesare. Voleva vivere bene ma essere anche il primo, dovunque, nello studio di avvocato come nella guerra partigiana. Non voleva passare una vita a contendere i voti con l’altro avvocato di Cuneo, Galimberti, ma non sopportava di essere secondo dietro a lui. Sono strane gelosie feroci, le rivalità che trovano il loro campo preferito durante i periodi rivoluzionari come quello partigiano in cui pare che si stia ipotecando il futuro. Entrambi andavano in montagna alla maniera degli intellettuali antifascisti: la montagna come il sostituto della sfida civile, come luogo fuori dal fascismo, come mezzo per radunare i primi fedeli. Duccio era un entusiasta e anche un ottimista, Livio lucido e pessimista. Un giorno sul Monte Tamone, il più avanzato verso la pianura, mentre guardavo la lontana Cuneo, come leggendomi nel pensiero diceva: «Andrà già bene se non ci metteranno dentro». Eravamo in montagna da due mesi e la lotta per il primato fra i due era già cominciata e noi, «gli ometti», come Livio amava chiamarci non a caso, i partigiani semplici, quelli che non avevano parenti ministri e amici influenti, capivamo benissimo qual era la posta in gioco: il primato. Entrambi, ma Livio in particolare, non sopportavano che ci fosse nelle bande qualcuno che gli contendesse il primato. Sopportavano Detto perché era prezioso e umile, pronto a ceder loro il passo nella corsa finale.
Duccio era ambizioso ma non morso dall’invidia, sfogava le ambizioni nell’azione, nelle fatiche. E Livio più si sentiva sorpassare da quella vitalità, più si chiudeva nei silenzi e nel rancore, più coltivava i suoi rapporti con Giorgio Agosti e gli altri intellettuali torinesi della sua cerchia. Lo scontro finché entrambi erano in montagna viene coperto dalla durezza della guerra partigiana, perché loro come gli «ometti» devono pensare a tutto il resto, a salvare la pelle, a trasportare pesi, a camminare, a trovare armi, a scendere in pianura per i primi scontri con i «neri». E nel gennaio del 1944 il duello sembra risolto: Duccio ferito a una gamba scende in pianura, guarisce, va a Torino come comandante dei Gl piemontesi mentre Livio resta in montagna e mal sopporta la crescita di noi dei Damiani, uomini di Detto cioè di Galimberti, che diamo via a nuove brigate, ma separte da quelle di Livio. Agosti tiene informato Livio sulle mosse di Duccio «che è intelligente, attivo, ma così diverso da noi», e la fazione continua dentro la solidarietà partigiana: rapporti incomprensibili fuori dalla guerra, una partita politica e intellettuale che, senza violare i doveri della lotta comune, la percorre come un filo rosso che qua e là traspare, come un figlio illegittimo, come una passione celata ma non troppo che più si rende conto di essere spropositata e assurda, e più cresce. Giorgio scrive a Livio che Duccio lavora bene «ma è un po’ il monumento di se stesso, uno che corre per conto suo» e la rivalità cresce come la volta che Detto combina per Duccio l’incontro con i maquisard francesi a Barcellonette e Livio non ha pace finché non risponde con un incontro che avviene in Val Maira al Saretto.
Livio trasmetteva la propria faziosità ai comandanti delle sue bande, anche le vecchie amicizie non resistevano, come la mia con Nuto Revelli o con Fausto Dalmazzo: ci si guardava sempre con un’ombra di sospetto, di rivalità. E Livio cercava di mettere zizzania anche fra i fedeli di Detto, scriveva ad Agosti di me e di Aurelio Verra: «Sono capaci, bravi, coraggiosi, ma con tutti i difetti che li rendono odiosi ai dipendenti». E cosa mai ne sapesse lui, che si era spostato in Valle Stura, di noi che eravamo andati prima in Val Marra e poi in Valle Varaita? Poteva saperlo solo chi raccoglie le voci dell’invidia di chi cerca scorciatoie alle proprie personali ambizioni, nel nostro caso gli ufficiali di carriera monarchici che volevano arrivare alla fine in posti di comando. Mi accorgevo che Livio non ci amava, ma vivevo questa conflittualità come una gara sportiva, avrebbe vinto chi rischiava di più, chi lavorava di più...
l’Unità 19.10.06
IL CASO Un racconto-testimonianza sull’Italia e soprattutto sulla Resistenza come storia corale, mentre fa discutere il revisionismo a oltranza di Pansa
«Grandi bugie e grandi fortune nel Paese dell’eterno fascismo»
di Oreste Pivetta
GUERRA E LOTTA partigiana lungo le nostre vallate, prima per invadere la Francia e poi per liberarsi da nazisti e fascisti. Ecco il nuovo libro del giornalista e scrittore: ne anticipiamo alcune pagine, i ritratti di due protagonisti, Bianco e Galimberti
Giorgio Bocca liquida alla svelta «la grande bugia» di Pansa. Profittare di un’Italia fascista nell’intimo, fascista oltre gli sdoganamenti, oltre Fiuggi, nella volgarità dei suoi feticci, nella disonestà dei suoi costumi. Persino il pallone s’è corrotto. Capita che l’ultimo libro di Bocca, Le mie montagne. Gli anni della neve e del fuoco, compaia in libreria poco dopo quello di Giampaolo Pansa e che venga frainteso come una risposta al «rovescismo», fase suprema del revisionismo (secondo la definizione dello storico Angelo d’Orsi), dell’ex collega e giornalista, da anni impegnato a confutare i momenti centrali della nostra storia novecentesca, il nostro punto di svolta verso la libertà e la democrazia, travolgendo la memoria e le memorie di chi quei momenti ha vissuto. Magari combattendo, come Bocca, sulle montagne, della sua Cuneo, patendo la paura, la fame e il freddo, soffrendo la morte di tanti amici, accanto a piccoli grandi eroi di una vicenda umana prima che politica. Scrivendo poi, come Bocca, tanto a ricordo di quella guerra di liberazione, contro nemici che erano le armate tedesche occupanti e gli alleati fascisti, scrivendo anche pagine come queste, che sono tra le più belle, commosse, vere, autentica autobiografia collettiva sessant’anni dopo. Senza retorica, senz’astio, con pacatezza, anche quando si deve raccontare lo sciogliersi di quello stato e di quell’esercito, la tragedia che si presenta nelle forme del comico, quando ad esempio, all’inizio, si va a far la guerra alla Francia e ci si muove alla «conquista» delle montagne di confine: gli arruolati che non hanno niente da mangiare che rivendono i teli tenda per comprarsi il pane, il cannone gigante che sparando l’unico colpo della sua guerra si sfascia, i camion bottino della guerra ’15-’18 trasferiti per la parata alla presenza del principe del Piemonte, gli alpini scalatori sul Monte Bianco con la mitragliatrice Beretta in spalla e poche gallette nello zaino. Chissà chi avrà disegnato la strategia del ghiaccio e della neve. Ritratto italiano, la mediocre Italia fascista, che continua, oggi ancora, a distribuir veleni, l’Italia dei generali e dei gerarchi. L’altra Italia è soprattutto quella dei «vinti» di Nuto Revelli, i «montanari poveri» come Marella: «... Domani vengono a cercarci. Posso dirvi che cosa accadrà? Voi sparate e poi ve e andate, ma a noi ci bruciano la casa. Questo sbaglio lo faranno certamente, mi bruciano la casa, la legnaia e io sono per forza contro di loro». Contadini che vivono soffrendo la montagna e popolano questa storia, la storia di Bocca o di Dante Livio Bianco o di Duccio Galimberti, i giovani colti, che hanno studiato, che faticano a sentirsi meno cittadini, a vivere la povertà di una «classe» che non è la loro. Ma che è decisiva, nell’insegnare le ragioni di giustizia della ribellione e nel sostenerle. Una storia corale. «Come sarebbe stato possibile - spiega Bocca - senza di loro. Chi ci avrebbe dato da mangiare. Chi avrebbe curato i feriti. Ogni baita nascondeva un ferito. Come avremmo potuto vincere se fossimo stati degli isolati, come osa invece dire Pansa...». I cui contestatori a Reggio Emilia sono entrati in scena al grido «Viva Giorgio Bocca». Che adesso, col suo fare sbrigativo, vuole chiudere una questione che non ha mai considerato aperta. Un’operazione di marketing editoriale quella di Pansa, obiettivo tante copie in libreria. «Ci ha provato altre volte. Ha indovinato un libro. Segue sulla stessa strada, lui che non c’entra niente con l’antifascismo e con la Resistenza ha scoperto che l’Italia è fascista e ne approfitta». Con qualche appoggio: vedi il Corriere, Mieli, Galli Della Loggia, chi amministra le pagine della cultura. «Non mi sono piaciute neppure le espressioni del presidente della Repubblica. La libertà di opinione è un conto...».
Nelle Mie montagne non c’è solo la Resistenza. Le nostre montagne sono saccheggiate dalla speculazione o devastate dal caldo che cancella i ghiacciai. L’ultimo capitolo è il Po, dal Monviso, ed è l’attualità, la festa dei mondiali di calcio, ultima sorpresa, ultima metafora di un paese del malaffare. Che a sessant’anni dalla Liberazione viene da osservare con rassegnazione.
il manifesto 19.10.06
L'offensiva neonazista preoccupa i tedeschi
Ottomila delitti di matrice razzista in Germania registrati dal ministero dell'interno in appena pochi mesi. Ma la situazione sarebbe addirittura peggiore. E' l'altra faccia del successo elettorale dell'estrema destra in alcune regioni. La Grosse Koalition si divide. E Lafontaine della Linkspartei attacca: siamo ancora una democrazia?
di Matteo Alviti
Berlino. Tra gennaio e agosto di quest'anno, l'ufficio criminale federale tedesco ha registrato circa 8 mila delitti di matrice neonazista. Rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, quando furono segnalati 6605 atti criminali, c'è stato un incremento del 20%. Il dato non è inatteso: già il 2005 aveva evidenziato una crescita. Rispetto ai 5127 crimini del 2004, l'aumento per il 2006 sale dunque al 50%. E non è solo il numero dei delitti di estrema destra a crescere, ma anche l'aggressività e la violenza contro le persone. Nei primi otto mesi del 2006 la polizia ha segnalato 452 atti di violenza, 325 dei quali hanno portato al ferimento diretto di persone. L'anno prima c'erano stati 363 crimini con 302 feriti. Spostando l'attenzione sugli ultimi mesi la gravità della situazione è evidente: in agosto la polizia ha registrato 67 episodi di violenza, 27 in più del mese precedente. Durante i mondiali, tra giugno e luglio, sono stati commessi più di 1000 atti criminali.
Secondo il quotidiano Tageszeitung, i dati forniti dal ministero non rendono il quadro completo del fenomeno: capita non raramente che le forze dell'ordine comunichino con un certo ritardo gli atti delittuosi. La situazione sarebbe dunque ancora peggiore. Le cifre fornite dell'ufficio criminale federale sono parte della risposta del ministero degli interni a un'interrogazione del gruppo parlamentare della Linkspartei.
Proprio tra i politici della Linkspartei e della Spd si fa pressante la richiesta per la convocazione di un vertice straordinario sulla democrazia - sulla falsariga del vertice berlinese sull'integrazione dello scorso luglio - che veda confrontarsi partiti, comunità religiose, sindacati e associazioni culturali e sportive. «È necessario chiederci se siamo ancora una democrazia», ha detto Oskar Lafontaine. Per il capogruppo della Linkspartei al Bundestag «in parlamento si decide sempre contro la maggioranza della popolazione, che si tratti della pensione a 67 anni, dell'aumento dell'Iva o dell'invio di soldati in tutto il mondo».
Wolfgang Thierse, vicepresidente socialdemocratico del Bundestag, ha invitato la ministra per la famiglia von der Leyen a proseguire il sostegno dei programmi di educazione e sostegno alla vittime. La ministra cristianodemocratica vorrebbe scaricare tutto dalla prossima estate sulle casse dei comuni. Il problema è che ci sono «politici locali ciechi dall'occhio destro», ha dichiarato Thierse.
L'idea del vertice non piace invece alla Cdu, nel governo di grande coalizione con la Spd. Per il vicecapogruppo dell'Unione (Cdu, Csu) al Bundestag, Wolfgang Bosbach, sarebbe meglio intervenire con la punizione severa dei reati, una più forte politica educativa e aiuti per chi decide di uscire dai movimenti - capita non raramente che chi si allontana subisca minacce e violenze. Anche la presidentessa dei Verdi Claudia Roth chiede al governo progetti sociali invece di vertici. Peter Struck, capogruppo Spd, ha invece riproposto il bando per l'Npd e i partiti che si richiamano al neonazismo, già fallito nel 2003.
Secondo il presidente del sindacato di polizia, Konrad Freiberg, l'aumento dei delitti di estrema destra non è una sorpresa. «Certo che è compito della polizia combattere la criminalità di estrema destra - ha aggiunto - ma non possiamo colmare i vuoti lasciati dai taglia nelle politiche sociali a livello federale, regionale e comunale», che fanno largo alla cruda propaganda dei neonazisti. Freiberg è convinto che gli incontri di vertice servano poco a fermare la crescita dei partiti di destra.
I recenti dati elettorali lasciano intendere come le forze neonaziste abbiano un margine d'azione soprattutto a livello locale. Nelle elezioni regionali di metà settembre a Berlino e in Meclemburgo-Pomerania Anteriore la Npd aveva ottenuto una crescita significativa. In particolare in Meclemburgo il partito neonazista è passato dallo 0,7% al 7,3%, entrando con 6 deputati nell'assise regionale. Così ora sono quattro i parlamenti regionali dove siedono estremisti di destra.
La presidentessa del consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Charlotte Knobloch, ha rimproverato alla politica di «minimizzare» la gravità degli atti criminali. Solo la scorsa settimana in una scuola di Parey, in Sassonia-Anhalt, tre studenti tra i 15 e i 16 anni avevano obbligato un coetaneo ad andare in giro con appeso al collo un cartello con una scritta antisemita. Per la Knobloch i recenti atti di violenza sono così aggressivi da far tornare alla memoria gli anni '30. Sempre più casi, ha poi aggiunto, «dimostrano come l'antisemitismo e l'estremismo di destra siano saldamente ancorati a certi strati sociali», quelli poveri. Cinque giorni fa, in occasione dell'anniversario del processo di Norimberga, i neonazisti avevano manifestato sia nella città bavarese che ad Amburgo. Per la Knobloch un chiaro segno che il problema non riguarda solo l'est del paese. Contro le manifestazioni degli estremisti di destra sono scesi in piazza migliaia di antifascisti.
Liberazione 19.10.06
Angelo d’Orsi: «La storia vista dalle aule giudiziarie»
Intervista all’ideatore e direttore del festival di Saluzzo e Savigliano, dedicata quest’anno ai tanti processi che hanno attraversato i secoli, dall’Inquisizione a Norimberga
di Vittorio Bonanni
«Imputato alzatevi!». Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste parole, magari in televisione, nel corso della proiezione di un film imperniato su una qualche vicenda giudiziaria. Poche volte però abbiamo riflettuto sul fatto che quell’ordine è stato emesso in occasioni importanti, in processi che hanno scandito, nel bene e nel male, la storia dell’umanità. Si pensi, solo per fare due esempi, all’Inquisizione spagnola o al processo di Norimberga. Per queste ragioni il tema centrale della seconda edizione del FestivalStoria di Saluzzo e Savigliano, al via oggi fino a domenica, ha appunto il processo come argomento principe. Ne parliamo con Angelo d’Orsi, docente di Storia delle dottrine politiche all’università di Torino, ideatore e direttore della kermesse culturale piemontese. «Il processo è una forma che accompagna la storia - dice lo studioso - fin dall’origine della storia stessa. E questo perché ovunque ci sia un’aggregazione di esseri umani sorgono conflitti, sorgono contrasti, dissidi, e talora i conflitti sono addirittura quelli estremi, cioè le guerre. E i processi sono la forma estrema della via giudiziaria alla soluzione dei conflitti o al loro superamento. Tant’è che spesso le guerre stesse hanno generato successivamente dei processi.»
Insomma una costante della storia dell’uomo...
Sì, certamente. Aggiungo inoltre che sono stato sollecitato anche dalla presenza di tanti eventi processuali nella nostra contemporaneità che hanno suscitati polemiche e dibattiti. Dal processo Andreotti, per parlare di casa nostra, a quello a Milosevic o a Saddam Hussein. Tutti eventi che cito non a caso perché saranno affrontati nel corso di questa edizione del festival. Dunque ci sono sicuramente ragioni di lungo periodo e nello stesso tempo ragioni legate all’attualità. E infine credo che il tema si presti molto ad essere spettacolarizzato e quindi può piacere al pubblico. Anche se insisto a sottolineare il fatto che il FestivalStoria, a differenza di tante altre iniziative, è una manifestazione seria, fondata sull’assoluto rigore scientifico ma che cerca di esprimerlo in una forma gradevole e accattivante.
Molto spesso i processi sono ricordati come atti repressivi, prodotto di fondamentalismi religiosi o politici...
E di conseguenza lo strumento per esercitare atti di vera e propria persecuzione, a carattere razziale, religioso, politico, ideologico. Su questo non c’è nessun dubbio. E abbiamo tutta una serie di eventi che ci confermano quello che ho appena detto, e cioè che la storia è punteggiata dal sangue di vittime innocenti sacrificate in nome di fedi estreme, che possono essere anche fedi politiche naturalmente. E là dove la ragione è stata obnubilata dalla fede abbiamo avuto i risultati più gravi. La storia gronda il sangue dei condannati ingiustamente da processi inaccettabili non solo alla luce della nostra coscienza di moderni, ma anche di qualunque principio giuridico e morale dell’epoca stessa. Pensiamo appunto alle infinite vittime delle guerre di religione, che sono spesso passate attraverso passaggi processuali, in particolare appunto l’Inquisizione. Questo ha prodotto delle catastrofi nella storia dell’umanità. Un nome simbolo per tutte è Giordano Bruno, che è un martire della libertà di pensiero. E in fondo anche Galileo è egli stesso un campione e una vittima della libertà di pensiero. L’umiliazione a cui è sottoposto, con l’abiura a cui è costretto, è evidentemente più che una sconfitta della scienza e della libertà una sconfitta per chi gliela impone. E alla lunga le vittime di allora sono risultate i vincitori. Quel grande tribunale della storia ha fatto giustizia, sia pure ex post, delle ingiustizie che tanti hanno ricevuto in questi processi inammissibili.
E tuttavia in alcuni casi, penso a Norimberga, il processo è stato vissuto come una catarsi, un momento liberatorio e di giustizia per le vittime, in questo caso, del nazismo. Si può trarre una conclusione in questo senso?
Effettivamente i processi sono stati tutte queste cose insieme. Ci sono stati tanti processi che hanno voluto riparare a dei torti storici e, come dicevamo, processi che sono stati puramente persecutori, e che, in nome di asserite giustizie, hanno prodotto gravissime ingiustizie. La storia è costellata di queste forme giudiziarie: dalla caccia alle streghe a tutti i processi dell’Inquisizione fino a quelli staliniani e maccartisti ed anche alcuni dei processi recenti. Nella storia certamente possiamo trovare delle forme se vogliamo innovative però discutibili. Norimberga è per me un esempio molto emblematico perché da una parte, sul piano sostanziale, siamo tutti dalla parte dei giudici. Sul piano formale però io mi chiedo se Norimberga sia stata una cosa accettabile. Il problema di fondo è che diritto avevano i vincitori di ergersi a giudici dei vinti: lì è venuto meno un elemento fondamentale della forma processuale, vale a dire la terzietà, cioè il fatto che il giudice deve essere un terzo rispetto all’imputato e all’offeso. Quello che cerco di porre in questa edizione del festival, attraverso tutti quanti gli eventi che la costellano, è il problema della legittimità dei processi, vale a dire chi è legittimato a processare chi. E Norimberga effettivamente pone un problema serio: è vero che è una catarsi però diventa anche un precedente pericoloso che poi è stato usato non a caso in questi ultimi anni più volte.
Pensa al processo a Milosevic o a Saddam?
Sì. Sono molto perplesso e spesso francamente critico rispetto a quello che io definisco il panpenalismo internazionale odierno. Abbiamo assistito a delle nefandezze giuridiche, inaccettabili su qualunque piano. Il caso Milosevic è una di queste: Milosevic è stato venduto dal suo governo agli americani e ceduto al tribunale dell’Aja contro la volontà dello stesso presidente della repubblica e delle istituzioni giuridiche del suo paese. La cosa più grave, dimostrata da questo caso, è che in realtà gli americani riconoscono questi tribunali solo quando fa loro comodo. E tutti questi tribunali sono spesso manipolati, o comunque hanno una legittimità molto dubbia, perché non sono riconosciuti da tutti. E quindi con quale legittimità vanno a giudicare se non sono riconosciuti? Questo è effettivamente un problema di fondo.
Un nodo che riguarda il legame tra giustizia e legalità...
La giustizia non può essere perseguita a prezzo della legalità. Non può essere un’altra cosa rispetto alla legalità. Questo perché in tutta l’attività giudiziaria la forma è contenuto e non si può prescindere da questo punto. Anche il caso Eichmann pone inquietanti interrogativi. Che diritto ha uno Stato di andare in un altro Stato, rapire un cittadino che è in uno Stato sovrano e portarlo altrove per sottoporlo ad un giudizio dall’esito scontato? Anche su questo mi pare che la legittimità sia molto dubbia.
Nel festival ci sarà uno spazio dedicato a quel “processo alla Resistenza” che dagli anni ’80 sta tentando di screditare un atto fondativo della nostra democrazia. L’ultima tappa è il recente libro di Gianpaolo Pansa “La grande bugia”...
Il processo alla Resistenza, condotto fuori dalle aule giudiziarie, nasce con il craxismo e poi ha proseguito tranquillamente nell’era berlusconiana. Si tratta di un processo fatto sui giornali, fatto nelle aule parlamentari, è un processo in cui c’è un vero e proprio rovesciamento. Ma soprattutto c’è il tentativo di intorbidire le acque per rendere la storia un campo in cui tutto si può dire, tutte le opinioni hanno la stessa legittimità, la stessa dignità. E quindi facendo perdere valore alla storia come procedura atta a farci conoscere quello che è veramente accaduto. Questo è inaccettabile. E in particolare sulla Resistenza si sta verificando un vero e proprio stravolgimento dei fatti alla luce di una campagna di carattere politico e ideologico, che certamente non ha alcun fondamento sul piano storico.
Repubblica Firenze 19.10.06
LA SANITÀ
Elettroshock ma solo se il paziente è d’accordo
In Toscana viene praticato soltanto a Pisa da Cassano
di Michele Bocci
Sì all´elettroshock ma solo se preceduto da una lunga procedura per raggiungere il cosiddetto "consenso informato", cioè il parere positivo del paziente al trattamento. La Toscana è arrivata ad un punto fermo riguardo ad una delle terapie più discusse della storia della medicina, che da noi viene praticata solo a Pisa nella clinica psichiatrica universitaria diretta da Giovambattista Cassano, considerato tra i luminari italiani della psicoterapia. Nel suo reparto si fanno circa 100 elettroshock all´anno, 30 per pazienti toscani, 70 per persone che arrivano da altre regioni. La Tec, e cioè terapia elettroconvulsivante, viene considerata come ultima possibilità per curare pazienti con depressione grave, con episodi maniacali gravi, con catatonia. Viene fatta in anestesia e si utilizza quando le altre terapie non hanno avuto effetto, o hanno controindicazioni oppure la situazione clinica del paziente mette in pericolo la sua vita.
Sull´elettroshock da anni è in corso un dibattito in Toscana (e non solo). Molte le voci, anche in consiglio regionale, che si sono alzate per chiedere di abolirla definitivamente. La Regione, per la verità, nel 2002 aveva provato con una legge a porre dei limiti strettissimi a quella pratica, per altro già residuale. Si vietava ad esempio di utilizzarla nelle persone con più di 65 anni e nei bambini. Nel 2003 la Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittimi alcuni articoli di quella norma spiegando che il legislatore non può entrare nel merito delle pratiche mediche. L´unico articolo ammesso dalla Consulta è quello che prevede un lavoro di «monitoraggio, sorveglianza e valutazione» di questa pratica. Così in Regione si è deciso intanto di intervenire sul consenso informato. Non deve semplicemente consistere nella compilazione di un modulo, come avviene a volte negli ospedali, deve contemplare colloqui approfonditi, spiegazioni chiare al paziente fino a raggiungere la certezza che abbia compreso il suo diritto di accettare o rifiutare il trattamento. La Regione ha costituito un comitato per disegnare le regole. Al malato vanno spiegate le ragioni del trattamento, i benefici e i rischi prevedibili, le possibili alternative. Dovrà essergli chiarito il suo diritto a ritirare il consenso in ogni momento. «In considerazione della particolarità di questa terapia, e delle controversie ancora esistenti nella comunità scientifica – spiega l´assessore alla salute Enrico Rossi – abbiamo ritenuto di dedicare un´attenzione ancora maggiore alla procedura del consenso informato».
Repubblica Firenze 19.10.06
Firenze: Archivio di Stato
Mostra e convegno su un tema sorprendentemente ricco
Storie di donne e animali dal mito al lettino dell'analista
Anima e animale. Forse è già tutto scritto in questo apparentamento linguistico. Che ristretto al versante di genere femminile, si colora di idealizzazioni e demonizzazioni. Che sia madonna e dea, oppure strega, medusa, arpia e sfinge, l´ambivalenza tocca le raffigurazioni del femminile. Un universo che viene analizzato da una mostra e da un convegno che si aprono oggi all´Archivio di Stato di Firenze (viale Giovine Italia 6). La mostra raccoglie fino al 26 ottobre (aperta ore 16-18) i lavori di 12 artiste che in modi diversi rappresentano i filoni dei «Bestiari di genere» ripercorsi con ironia, leggerezza e trasgressione. Un gioco fantastico che vede ad esempio nei teatrini di Monica Sarsini il serpente diventare altalena su cui si dondola Eva, oppure Leda che strangola il cigno. Ma sarebbe un errore, come sottolinea Ernestina Pellegrini, del comitato scientifico che ha curato l´evento (organizzato dall´Archivio di Stato, Archivio per la memoria e la scrittura delle donne, Centro di filosofia e bioetica ambientale), farne una lettura a tesi, innocentista e ideologica: quello che preme sono i punti di vista, la rivisitazione di miti, temi, incroci e contaminazioni, in cui bene o male la donna è natura, istinto, il selvaggio lontano dal simbolico e dal logos.
E se le artiste - Leonor Fini, Silvia Amodio con ironiche foto-ritratto di animali, Ornella Baratti Bon, Anna Maria Bartolini, Giuly Corsini con le sue gallerie di un aristocratico zoo, Frances Lansing, Silvana Lombardi, Gabriella Maleti, Donatella Mei, Elena Salvini Pierallini, Flora Wiechmann Savioli e Giovanna Ugolini - testimoniano metamorfosi di materia e colore, tocca invece agli interventi del convegno di oggi (inizio ore 9.30) e domani affrontare le tante declinazioni della zoologia fantastica femminile, attraverso un percorso tra filosofia, letteratura, storia, antropologia e psicoanalisi. Percorsi culturali che toccano il principio femminile e il mondo animale, con l´antropologo Pietro Clemente, Maria Fancelli, M. Teresa Colonna, Stefano Lanuzza, Fabrizia Baldissera, che parlerà di "Donne e animali nell´India antica", Anna Scattigno di "Sante e animali", interventi di Francesca Serra («Pazze per le ali»), Anna Mannucci («La donna dei gatti») attraversando le opere di scrittrici come Angela Carter, Anna Maria Ortese, Jeanette Winterson, Yourcenar. Repertori simbolici e visioni sacre e profane de «la donna e la bestia» tra parodie, citazioni, letture teatrali e rappresentazioni in programma lunedì 23, 24, 25 e 26 ottobre. Info 055263201. (m.a.)