CONVERSAZIONE. PRESENTA A ROMA UN’OPERA IN CUI TORNA NELLA CASA DEI «PUGNI IN TASCA»
Bellocchio e le sue «Sorelle», più il “gemello diverso” Bertolucci
DI LUCA MASTRANTONIO
Vite parallele e divergenti quelle dei due registi, conterranei, quasi coetanei, ma con differenti poetiche. L’autore del «Regista di matrimoni» promuove la Festa della capitale, aspetta che arrivino i Pacs, è favorevole agli agli aiuti di stato, elogia la tv-denuncia, come le Iene
Due vite parallele e divergenti, con alcuni punti d'incontro. Così Marco Bellocchio, al telefono con il Riformista, qualche ora prima dell'attesissimo incontro previsto per ieri, all'Auditorium di Roma, nell'ambito degli eventi della Festa del cinema, definisce il suo rapporto con Bernardo Bertolucci. «Siamo quasi coetanei, veniamo dall'Emilia, lui ha esordito giovanissimo con la Comare secca, io ero al centro sperimentale, poi ho fatto I pugni in tasca, da allora abbiamo lavorato in parallelo e a distanza, a volte ravvicinata. Ma appartenevamo a due mondi differenti. Io di Piacenza lui di Parma. E mi ricordo sempre una battuta in Partner di Bertolucci: “Piacenza, l'Italia ne fa senza”. C'era, in realtà, una rivalità legata a dei mondi di appartenenza, Bertolucci era Roma, gli intellettuali come Moravia e Pasolini, la letteratura; io ero più Milano, Franco Fortini, i quaderni Piacentini. Poi, le nostre strade personali si sono allontanate definitivamente con il suo successo internazionale».
Ma delle biografie e geografie “culturali”, a divergere sono soprattutto gli sguardi, le visioni cinematografiche: «Lui condivideva estremamente le scelte di Godard, io non sono mai stato un grande fanatico». Ma non si perdono d'occhio. Nel 1969, assieme a Godard, Pasolini e lo stesso Bertolucci, Bellocchio fece parte, con Discutiamo, discutiamo..., del film collettivo Amore e rabbia: «Il mio episodio voleva essere brechtiano, didascalico, pedagogico. Godard invece mise a frutto l'esperienza del leaving theatre, con risultati molto più pregevoli dei miei». Infine, nel 2003, Bertolucci e Bellocchio si ritrovano a Venezia, uno con The dreamers, l'altro con Buongiorno, notte, ossia il '68 parigino e il '78 italiano. Bertolucci prese le parti di Bellocchio, clamoroso sconfitto alla corsa per il Leone d'oro: «Con un sguardo diverso raccontavamo due mondi diversi, due vicende diverse che, certo, sono contigue sul piano cronologico; il '68 è stata una breve primavera, vissuta felicemente tra spontaneismo e liberazioni di vario tipo, ma dopo, quasi subito, quando si è sentita la necessità di organizzarsi nella politica, nei partiti, la sua vitalità è andata perduta».
Bellocchio, alla Festa del cinema di Roma, presenta Sorelle, un'opera transgenerazionale, frutto del lavoro del laboratorio di cinema a Bobbio («Fare cinema», diretto da Bellocchio). Vi recitano i familiari di Bellocchio e Donatella Finocchiaro. Si torna nella casa dei Pugni in tasca, ma con spirito più sereno: «Ci sono tre generazioni, c'è mia figlia che ha dieci anni e mio figlio, che ne ha trenta e il personaggio della Finocchiaro che ne ha più di trenta. Quest'occasione è nata dalla necessità di girare un soggetto in questo corso di cinema e allora, volendoci divertire e approfondire alcuni aspetti psicologici, siamo tornati in alcuni luoghi della memoria, c'è la casa dei Pugni in tasca, anche se lo spirito è più sereno, mitigato. Non ci sono la rabbia e il furore di allora».
L'impressione dominante è che la famiglia sia cambiata, non è più quell'istituzione metafora del potere costituito, cellula di sopraffazione sociale. Sembrano esserci meno risentimenti, verso la famiglia, ma i sentimenti che la animano sembrano immutati. Forse, Bellocchio non si sbilancia, ma annota: «Ci sono dati estremamente interessanti sullo stile di vita familiare. Leggevo che negli Stati Uniti ci sono più coppie di fatto che matrimoni e quindi c'è un'istituzione che cambia o comunque perde terreno, certo si sta trasformando, l'idea di coppia. Speriamo che vengano presto fuori i benedetti Pacs. E comunque, il problema della famiglia rimane, al fondo: è sempre un discorso della ripetizione dei legami, anche la convivenza è ripetizione, legame, e sul piano dei sentimenti, della psicologica, vale per i conviventi quello che vale per i non sposati. Alla base delle differenze ci sono motivazioni economiche, ma anche la convivenza impone e obbliga a sopportare la ripetizione e la tenuta di un rapporto che se uno potesse, se fosse libero da necessità materiali, vivrebbe più liberamente. Insomma, permane il rischio della famiglia: quello di semi-libertà, di libertà condizionata dell'individuo. E vale sia per i matrimoni che per i Pacs».
Ma di film di denuncia non è più tempo, come l'altro ieri ha detto Giuseppe Tornatore, presentando la sua Sconosciuta. Anche Bellocchio, eterno ribelle, la vede così: «Ormai c'è un certo conformismo diffuso, soprattutto a livello intimo, dove deve avvenire la ribellione, per un artista. C'è una cultura dominate con cui io sono in disaccordo. Ma non ha più senso il cinema di denuncia politica come avveniva negli anni '70 e '80. Oggi questo compito spetta alla televisione, che ha i mezzi e la velocità necessari per denunciare quello che non va o che bisogna mostrare. Mi ha molto colpito il servizio delle Iene sui politici e le droga, il loro continuo sputtanamento della classe politica, la denuncia del fatto che in Parlamento c'è chi non sa dov'è il Darfour, chi sia Mandela. La tv ha una potenza che è irraggiungibile per il cinema, una immediatezza cui il cinema deve rispondere con la profondità e la ricerca di immagini nuove. Certo la televisione ha il problema che spesso è asservita al potere, ma il caso delle Iene, per paradosso, dimostra il contrario».
Tornando alla Festa di Roma, Bellocchio prova sensazioni positive, per la lontananza da qualsiasi «premiopoli» - che è l'oggetto della critica del suo recente Regista di matrimoni - e da una visione elitaria del cinema: «I premi alla festa di Roma sono tenuti in secondo piano, e questo è positivo. Ma succede in tanti festival, anche a Toronto. Non c'è la corsa al premio e questo fa molto bene ai film, perché i media non stressano l'ambiente e non riducono le proiezioni a una gara; per non parlare, poi, del ruolo delle giurie. La festa di Roma è anche molto popolare, c'è una città vera, gente che va al cinema, non è divisa dal mare, come accade a Venezia. Il pubblico di Roma è reale».
Sul versante degli aiuti di stato, Bellocchio, che chiarisce subito di averne usufruito, è convinto che il cinema vada sostenuto come le altre arti: «Ci sono progetti che senza gli aiuti di stato non potrebbero realizzarsi. Il cinema, come le altri arti, penso alla musica lirica o al teatro, vada aiutato». Sui recenti strali lanciati contro il centro-sinistra che «si comporta come la destra», Bellocchio precisa di essersi riferito ad alcune nomine a capo di istituzioni importanti, come Cinecittà Holding, Istituto Luce e al Centro sperimentale: «Sono state fatte scelte per soggetti che non hanno una specifica competenza in ambito cinematografico. Scelte che tradiscono una certa indifferenza verso il settore. Però questo mio giudizio è un giudizio con beneficio di inventario, nel senso che mi auguro che altre scelte vengano fatte con maggiore sensibilità. Ho incontrato il ministro Rutelli, che aveva letto le mie dichiarazioni, mi ha detto che ci dobbiamo incontrare, ma ancora non ci siamo visti».
l’Unità 20.10.06
Diario di famiglia firmato Bellocchio
di Alberto Crespi
FRATELLANZE Nella stessa sala si ritrovano vicino Bellocchio e Bertolucci. Le due B&B del cinema italiano, il primo con «Sorelle» l’altro con il corto «Histoire d’eaux»
Roma. B.B.: cosa ci ricorda questa sigla? Brigitte Bardot? Ma per cortesia, non siamo così provinciali! Se siete autentici cinefili, la sigla B.B. deve farvi immediatamente pensare a Bertolucci & Bellocchio, i due giovani «maledetti» che sconvolsero il cinema degli anni '60 con opere della forza di I pugni in tasca e Prima della rivoluzione. Partendo entrambi dalla Bassa emiliana, e raccontando storie intensamente autobiografiche (stile Nouvelle Vague, come no?), diventarono subito i nomi più internazionali di un cinema italiano che si divertiva, in quel decennio, a stupire il mondo.
Marco & Bernardo si erano incrociati già a Venezia nel 2003: il primo in competizione con Buongiorno notte, il secondo fuori concorso con The Dreamers. Ma l'evento di ieri sera, alla Festa, è stato un incontro al vertice del tutto inedito. Nella stessa sala dell'Auditorium, la Petrassi, B&B hanno presentato due lavori: Bellocchio l'inedito Sorelle, Bertolucci il corto Histoire d'eaux che è parte del progetto collettivo Ten Minutes Older già visto a Cannes. Ma l'emozione vera, al di là dei film, è stata vederli entrare insieme, con Bernardo (perseguitato dal mal di schiena) appoggiato al braccio di Marco, che nell'occasione sembrava, fra i due, l'arzillo fratellino minore. Ed è proprio di parentele che parla Sorelle, un lavoro che Bellocchio va realizzando da anni (dal 1999) nella natìa Bobbio, in provincia di Piacenza. È un work in progress, più che un film: una sorta di diario girato in video che, pur nella sua leggerezza, sembra voler diventare una sorta di summa del cinema di Bellocchio. Sappiamo bene quanto la famiglia – anche con i suoi oggetti, a cominciare dalla casa avita – sia centrale nella sua opera sin dai Pugni in tasca. Qui Bellocchio la racconta mescolando parenti veri (a cominciare dalle due ziette terribili viste anche nell'Ora di religione) e attori che recitano in ruoli di parenti, e inserendo qua e là (come il Bertolucci di The Dreamers, certo!) scene dai suoi film: ovviamente I pugni in tasca, ma anche una galleria di volti di donna dalla Balia, da Diavolo in corpo, dal Regista di matrimoni. Sorelle mette in scena tre generazioni e diventa una parabola su un tema molto forte: da una parte Bobbio (il nido, l’infanzia, le radici), dall’altra il mondo, dove alcuni personaggi vorrebbero fuggire, e dal quale altri sono terrorizzati. Il distacco dalla famiglia, insomma, che per Bellocchio è stato bruciante e doloroso, e sul quale ora sembra riflettere con serenità, da un’altezza poetica davvero incommensurabile. Sorelle conferma il periodo felice - artisticamente e, ci giureremmo umanamente - che questo regista sta vivendo. E conferma la sua capacità di fare un cinema personalissimo, dove tutti i personaggi sembrano suoi alter-ego: perché, come ha detto Bertolucci nel successivo incontro, «io nei miei film ho sempre sognato di essere qualcun altro, a volte Godard, a volte Renoir... sempre sogni molto umili, come vedete! Marco invece è sempre, violentemente se stesso. Mi ha quasi commosso, con questo film».
Concordiamo. Ieri sera, forse perché a questi B&B vogliamo un gran bene, eravamo commossi anche noi.
Liberazione 20.10.06
«L’occidente è preda di nuova ondata di illuminismo e laicismo». Cori di «Silvio, Silvio» e di «liberate l’Italia» ma c’è chi dice sia stata solo una claque organizzata. Smentito il conciliarismo di Tettamanzi
Ratzinger con Ruini e i Teocon
(fischi a Prodi applausi a Berlusconi)
di Fulvio Fania
Ruini gongola. I teocon pure. A Cesare quel che è di Cesare purché Cesare obbedisca a Dio. La religione è pubblica e fa politica.
Trenta cartelle, oltre un’ora di discorso al quarto convegno della chiesa italiana, tutto il pensiero di Ratzinger e consistenti inserti ruiniani. Il Papa benedice in particolare «la grande opportunità» di «coloro che non condividono la nostra fede» ma ugualmente «avvertono il rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà». Sono gli atei devoti, appunto, i quali, insieme ad un sorridente Berlusconi, al pomeriggio nello stadio Bentegodi, riescono a intascare anche una bordata di fischi di un settore della folla contro Prodi, venuto alla messa del papa come prescrive il protocollo. Gli interessi della fede forse si mescolano al portafoglio della finanziaria.
L’ultima parola di questo “congresso” cattolico spetterà a Ruini ma ormai è come se avesse già parlato. Come se il dibattito non fosse neppure cominciato, come se i gruppi di lavoro su affetti, fragilità, tradizione, cittadinanza, lavoro e festa avessero girato a vuoto, come se certi dissensi emersi sui temi sociali avessero dato solo fiato al vento. Benedetto XVI evoca le comunità cristiane delle origini, la testimonianza personale della propria fede e, nell’omelia, recupera perfino la «non violenza». Però il suo passaggio a Verona lascia ben altri segni.
Il cardinale Tettamanzi, nella sua relazione inaugurale, aveva provato a riaprire la finestra: forti richiami allo «stile» del Concilio; una ventata di ottimismo anziché vedere ovunque le catastrofi del relativismo; infine una stoccata contro chi si proclama cristiano senza esserlo. Giuliano Ferrara e soci si erano molto risentiti. Il patriarca di Venezia Angelo Scola, candidato alla successione Cei, aveva già preso le distanze dal collega di Milano in un’intervista al “Gazzettino”. Adesso i teocon possono rincuorarsi e “Libero” pubblicherà il testo integrale del Papa. Il Concilio, in quelle pagine, si riduce invece ad una citazione fugace. Se c’è una prospettiva che Ruini vede come fumo negli occhi è che la sua chiesa possa farsi prendere di nuovo da fremiti e divisioni post-conciliari.
A Verona è tornato il papa di Ratisbona. Gli islamici stavolta non c’entrano, meno che mai nel senso degli immigrati che non sono neppure menzionati. Ritorna invece la parte principale del discorso che Benedetto XVI svolse all’università bavarese. L’Occidente è preda di una «nuova ondata di illuminismo e laicismo», l’etica «è ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo». Tutto questo rappresenta un «taglio radicale» dal cristianesimo e «dalle tradizioni religiose e morali dell’umanità». L’Occidente ha «escluso Dio dalla vita pubblica» e per questo non riesce a dialogare con le altre culture segnate invece dalla religione. «Testimonianza» dell’esser cattolici, sottolinea tra gli applausi Benedetto XVI. Ma non è solo questione di testimonianza. Nessuna «energia» - avverte infatti il Papa - deve essere sprecata contro «l’insidia del secolarismo». Mettiamola allora in politica. «Il cristianesimo e la chiesa fin dall’inizio hanno avuto una valenza pubblica». E a chi spetta la politica? «Ai fedeli laici», risponde Ratzinger incontrando una sensibilità diffusa tra i delegati. Potrebbe essere una buona novella rispetto all’ingerenza delle gerarchie. Ma il vero dilemma è se i credenti laici possono mediare con le altre posizioni culturali oppure no: le direttive non lasciano però scampo. Scuola cattolica: ci sono ancora «antichi pregiudizi» che «generano ritardi dannosi». E’ Ruini puro. E soprattutto «bisogna fronteggiare il rischio» di un riconoscimento giuridico delle coppie senza matrimonio che «contribuirebbero a destabilizzare la famiglia»; vanno impedite inoltre le leggi che non tutelano la vita «dal concepimento alla fine naturale». Molte righe su questo argomento, solo una parolina di sfuggita su guerra e terrorismo. Ecco il conto che Ratzinger ha già presentato quando in serata si affaccia nello stadio dove accorrono oltre al presidente del senato Marini e ai ministri Bindi e Fioroni, il Cavaliere, Letta, Casini, Fini, Buttiglione, D’Onofrio.
Secondo il Papa (e Ruini) l’Italia può essere un’eccezione nel panorama della «secolarizzazione europea» che sta contagiando la stessa chiesa. Anzi può fare da luminoso battistrada. Le precise rivendicazioni politiche vengono esposte in nome di «principi antropologici» che sarebbero connaturati all’uomo. Chiesa e Stato sono separati, ma la società deve riconoscere verità fondanti e innate che la religione contiene. Lo stesso vale per la scienza che, secondo Ratzinger, «implica» un «disegno intelligente» nell’universo. Anche la battaglia contro l’evoluzionismo arruola volentieri i laici devoti “creazionisti”.
Per le strade di Verona non c’è grande folla, prevalgono gli spazi deserti transennati dalla sicurezza, pochissimi davanti al megaschermo di piazza Bra, allo stadio non superano i 35mila. Ratzinger non è Wojtyla.
il manifesto 20.10.06
Demonio d'un laicismo
di Filippo Gentiloni
Il papa a Verona ha tenuto un'altra solenne «lezione magistrale», sul tipo di quella, ormai famosa, tenuta in Baviera ma, questa volta, senza citazioni ambigue nei confronti dell'islam. Il pensiero di Ratzinger, comunque, si fa sempre più chiaro. E anche più duro.
Il punto di partenza è il giudizio sul mondo moderno e la sua cultura. Un giudizio decisamente negativo. Relativismo, utilitarismo, individualismo. Un vero disastro. La secolarizzazione con le sue conseguenze ha colpito un po' tutti, anche l'Italia, nonostante alcuni aspetti favorevoli che la chiesa italiana è riuscita , anche se a stento, a conservare.
Il disastro indica una motivazione chiara: la pretesa di fare a meno di dio, il laicismo.
Il papa non ha dubbi. La salvezza non può venire che dal cristianesimo cattolico (delle altre forme di religione non si parla neppure) la cui ragionevolezza si fonda sulla fede. Di questo rapporto stretto fra fede (cristiana) e ragione il papa sembra fare un'ancora di salvezza per il mondo. L'unica possibile. E l'unico a gestirla è proprio il Vaticano.
Una posizione di principio dalla quale il papa trae tutte le conseguenze logiche, a cominciare da quelle che riguardano l'educazione. Logiche e concrete, a partire dalla scuola cattolica (compresi i finanziamenti). Immediato il passo a tutti gli argomenti oggi in discussione: la vita dal concepimento alla morte, la famiglia, il matrimonio, e così via. Tutto si tiene, se è vero, come è vero, che fuori dalla fede cattolica non c'è salvezza e che solo la fede cattolica è fortemente e saldamente razionale. Perciò deve valere anche per chi non crede.
Alla chiesa - italiana, in questo caso - il compito di far trionfare questa impostazione. E' chiaro che la chiesa in quanto tale non fa politica, non è un partito. Il compito non è della chiesa in quanto tale ma dei cattolici in politica: a Verona i delegati applaudono. Non potranno né dovranno appoggiare leggi e posizioni che siano contrarie alla rigida impostazione cattolica della politica.
Un'impostazione che potrebbe apparire razionalista, anche perché il papa non teme di esaltare addirittura la matematica. Galileo padre della chiesa. Perciò il papa completa la sua lezione citando la recente enciclica sulla carità. L'amore deve completare il quadro che altrimenti rischierebbe il razionalismo. Verità, ragione e anche amore: un trinomio che dovrebbe portare la salvezza a un mondo altrimenti dannato e disperato.
Addio laicità, dunque. La grande avversaria, secondo il papa, sarebbe la grande sconfitta. Ma il cattolicesimo laico accetterà questa impostazione che dovrebbe abbracciare teologia, filosofia e scienze? Se ne può, per lo meno, dubitare. Anche in questi giorni di convegno a Verona si sono fatte sentire le molte espressioni di un cattolicesimo che non vuole rinunciare ai valori della laicità e del pluralismo.
Nonostante le lezioni dall'alto, il dibattito rimane aperto. Lo richiedono, d'altronde, le mille voci che anche all'interno del cattolicesimo all'ascolto di una lezione da una cattedra preferiscono il dialogo e i passi di un cammino.
il manifesto 20.10.06
Così Ratzinger dà la linea alla chiesa italiana
Dalla famiglia alla bioetica, dal «progetto culturale» fino alla questione di fondo della visione dell'uomo, da cui deriva tutto il resto. La «magna charta» di Benedetto XVI per il mondo cattolico. Con un occhio all'Italia e l'altro all'intero mondo occidentale
di Mimmo de Cillis
E' arrivato a dettare la linea. E lo ha fatto con chiarezza di idee, argomentazioni convincenti (almeno per il suo pubblico), lucidità e maestria. Papa Ratzinger sapeva che il suo discorso al convegno della chiesa italiana - comunità guida a livello planetario per cultura, teologia, incidenza nei gangli della Santa sede - sarebbe stato un altro dei passaggi storici del suo pontificato. E ha sfornato così una magna charta per l'identità e la missione della chiesa italiana per i prossimi anni. Toccando tutte le questioni cruciali per la presenza dei cattolici nella società italiana: dal piano strettamente spirituale a quello della testimonianza nella vita civile; dai temi della famiglia e della bioetica al «progetto culturale», fino alla questione di fondo, quella antropologica, la visione dell'uomo da cui deriva tutto il resto. E' un discorso eminentemente paradigmatico, che vale per l'Italia, ma vale certo per tutto l'Occidente e, mutatis mutandis, per le altre chiese del mondo. C'è il Ratzinger filosofo e il Ratzinger maestro, c'è il Ratzinger uomo di cultura e il Ratzinger apologetico, perfino con una certa vis polemica, nel discorso di venti pagine che per più di un'ora ha tenuto desta l'attenzione (e l'entusiasmo) dei delegati presenti a Verona.
Benedetto XVI ha iniziato definendo il convegno ecclesiale come «una nuova tappa del cammino di attuazione del Vaticano II», intrapreso dalla chiesa italiana in piena comunione con il papa. «Avete compiuto una scelta assai felice - ha detto - ponendo Gesù Cristo risorto al centro dell'attenzione del convegno». Dall'evento storico della risurrezione discende «il salto decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova», rispetto alla mentalità e alla cultura dominante.
Di qui Ratzinger fa partire una spietata analisi della situazione del contesto italiano: «L'Italia di oggi - afferma - si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso e al contempo favorevole per la testimonianza». Bisognoso, perché «partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente». Ecco nascere «una nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile», mentre «la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare». Così - ecco il peccato - «Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica». Secondo Ratzinger, «in stretto rapporto con tutto questo ha luogo una radicale riduzione dell'uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come ogni altro animale». Anche «l'etica viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell'utilitarismo, con l'esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso». E «questo tipo di cultura rappresenta un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo» ma anche «con le tradizioni religiose e morali dell'umanità: non è quindi in grado di instaurare un vero dialogo con le altre culture», dove è presente la dimensione religiosa.
In questo contesto culturalmente «ostile» la chiesa italiana è chiamata a dare il suo apporto «alla crescita morale culturale dell'Italia», per far sì che le «radici cristiane» della civiltà italiana non spariscano. Qui Ratzinger nota con compiacimento l'appoggio a queste argomentazioni fornito anche dai teo-con, ovvero «molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede».
Si passa poi al capitolo sull'antropologia, più denso a livello filosofico. Ricordando che «alla base dell'essere cristiano non c'è una decisione etica, ma l'incontro con la persona di Gesù Cristo», Benedetto XVI declina una visione della uomo e dell'universo: l'uomo, con la sua «ragione soggettiva», non può esimersi dal considerare la «ragione oggettiva» presente nella natura, e dunque dovrà necessariamente «aprirsi alle grandi questioni del vero e del bene» su cui, secondo il papa, tutti gli uomini dovrebbero perciò convenire, solo su basi dell'intelligenza, con i credenti in Dio. Ma la persona - afferma, «porta dentro di sé il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta». Perciò resta scossa di fronte ai grandi interrogativi esistenziali: al male, alla morte, alla sofferenza, al senso ultimo della vita. Per questo occorre essere «sempre pronti a dare risposta (apo-logia) a chiunque ci domandi ragione (logos) della nostra speranza».
E' altrettanto prezioso, poi, trasmettere «l'esperienza dell'amore» alle nuove generazioni e dunque valorizzare l'educazione cristiana, soprattutto le scuole cattoliche, bersaglio di «antichi pregiudizi». Gli stessi che allignano quando un certo laicismo critica l'intervento della Chiesa in politica: qui il papa ha chiarito che, data la necessaria «distinzione e l'autonomia reciproca tra lo stato e la chiesa», quest'ultima «non è e non intende essere un agente politico». «Il compito di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società - invece - appartiene ai fedeli laici, che operano come cittadini sotto propria responsabilità»: un discorso che stimola ancora di più i cattolici italiani a farsi sentire nella vita pubblica del paese.
Soprattutto per un motivo: «Fronteggiare il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicano fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano». Il riferimento esplicito è «alla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, e alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio, evitando di introdurre nell'ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla».
Ecco l'approdo, che, di fatto, teorizza con chiarezza la volontà e la legittimità di influenzare la legislazione statale, secondo idee e principi cristiani. Ecco le consegne di papa Ratzinger all'Italia. Il discorso è rivolto al bel paese, è vero, ma ha un senso e un valore universale: lo dice lo stesso pontefice definendolo «prezioso all'Italia, utile e stimolante anche per molte altre nazioni».
*Lettera22
il manifesto 20.10.06
Il discorso
Benedetto XVI in pillole
Questi alcuni dei passaggi del discorso del papa ieri alla assemblea della Chiesa italiana, nella fiera di Verona: no al riconoscimento di unioni diverse dal matrimonio; la responsabilità politica è dei laici; ci sono «antichi pregiudizi nei confronti della chiesa cattolica, che generano ritardi dannosi e ormai non più giustificabili nel riconoscerne la funzione e nel permetterne l'attività; c'è una ondata di illuminismo e laicismo che esclude Dio dalla cultura e dalla vita pubblica; «molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede», vedono il »rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civilta»; «impariamo a resistere a quella "secolarizzazione interna" che insidia la Chiesa del nostro tempo»; il convegno di Verona «è una nuova tappa nel cammino di attuazione del Vaticano II»; il compito è sempre »l'evangelizzazione, per tenere viva e salda la fede nel popolo italiano».
l’Unità 20.10.06
IL MESSAGGIO DEL PAPA. No ai Pacs. Ma la scuola confessionale è ancora «vittima di pregiudizi»
I valori cattolici contro laicismo e illuminismo
di r. m.
Un'ora e un quarto è durata la «lezione» di Papa Ratzinger a Verona. In venti cartelle ha indicato alla Chiesa Italiana la strada da percorrere. Al centro della sua riflessione, come a Ratisbona, il rapporto tra fede e ragione, la speranza cristiana con il suo messaggio d'amore e le grandi sfide della società contemporanea. Il suo discorso che è stato interrotto quarantadue volte dagli applausi dei delegati, è parso distante da quell'ottimismo «conciliare» presente nella prolusione del cardinale Dionigi Tettamanzi.
Anche Benedetto XVI parte dal Concilio Vaticano II e lancia il suo messaggio. Chiede alla Chiesa di testimoniare i suoi valori perché anche in Italia sarebbero a rischio «le radici cristiane». Tutta colpa di «una nuova ondata di illuminismo e di laicismo». «Una cultura - osserva - che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente». Per la quale sarebbe «razionalmente valido solo ciò che è sperimentale e calcolabile».
L'effetto? Quella esclusione di Dio dalla cultura e dalla vita pubblica che per il Papa finirebbe per ridurre la libertà dell'uomo. La stessa etica, «senza vincoli morali che abbiano un valore in sé stessi», si vedrebbe «ridotta entro i confini del relativismo e dell'utilitarismo».
Il Papa riconosce che in Italia si è reagito a tutto questo. Una Chiesa «popolare», radicata nella società, ha difeso l'ancoraggio delle radici cristiane della società italiana. E non è rimasta sola. Ha visto al suo fianco anche «molti e importanti uomini di cultura» non credenti - osserva il pontefice - che li ha indicati come interlocutori preziosi, invitando la Chiesa a non «trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell'Italia». Mette in guardia dall'«insidia del secolarismo» che rischia di corrodere anche dall'interno la Chiesa.
Da Verona il Papa offre una sua originale chiave di lettura del rapporto tra fede e ragione che suona come un ulteriore attacco alla teoria evoluzionistica. Parte dalla «corrispondenza» tra le strutture della matematica, che è creazione dell'intelligenza umana, e quelle reali dell'universo per concludere che vi dovrebbe esservi «un'unica intelligenza originaria, comune fonte dell'una e dell'altra».
Così - osserva - viene capovolta «la tendenza a dare il primato all'irrazionale, al caso e alla necessità». E' un passaggio importante del suo ragionamento. Perché è su queste basi che «diventerebbe possibile - assicura - allargare gli spazi della razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia».
E' così che la fede cristiana troverebbe piena cittadinanza nella cultura contemporanea. Uno sforzo di cui il «progetto culturale» della Chiesa italiana voluto dal cardinale Camillo Ruini, osserva, rappresenterebbe «un'intuizione felice e un contributo assai importante».
Da Benedetto XVI arrivano anche richieste «politiche», «ruiniane». Prende decisamente posizione a difesa della «scuola cattolica», vittima di «antichi pregiudizi che generano ritardi dannosi, ormai non più giustificabili, nel riconoscerne la funzione e nel permetterne in concreto l'attività».
Il Papa lo ribadisce: «la Chiesa non è e non intende essere un agente politico». L'agire in ambito politico «spetta ai fedeli laici», che operano come «cittadini sotto propria responsabilità», anche se «illuminati» dal magistero della Chiesa.
I terreni del loro impegno sono la giustizia, la difesa degli ultimi, ma anche quei «valori non negoziabili» che ieri ha voluto richiamare. Lo ha fatto mettendo sullo stesso piano «guerre, terrorismo, fame, sete e alcune terribili epidemie» con il rischio di «scelte politiche e legislative che contraddicano fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano».
Sono i consueti: tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio. Con un perentorio invito a non introdurre nell'ordinamento pubblico «altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla, oscurando il suo carattere peculiare e il suo insostituibile ruolo sociale». La Chiesa sbarra la strada ai Pacs.
il Riformista 20.10.06
VERONA. DURO RATZINGER AL CONVEGNO ECCLESIALE
«Cattolici d'Italia non vi fate travolgere dall'ondata degli illuministi senza dio»
DI RIO PALADORO
Verona. C'è tutto il pensiero “ruin-ratzingeriano” nel discorso pronunciato ieri dal pontefice al convegno ecclesiale di Verona. Con una sottolineatura in più. Una sorta di sconfessione delle istanze anti “teo con” pronunciate nella prolusione di lunedì dal cardinale Dionigi Tettamanzi: per il papa, infatti, tutto l'impegno profuso da coloro che lavorano contro il rischio che la società si stacchi «dalle radici cristiane delle nostra civiltà» - si tratta spesso di «uomini di cultura che non condividono o almeno non praticano la nostra fede», ha detto il papa - è benedetto, accettato, ben visto.
Il discorso di ieri è stato rivolto da Ratzinger direttamente alla Chiesa e al suo rapporto con lo Stato laico italiano, in scia a quanto già avevano affermato ai convegni precedenti Paolo VI nel 1976 e Wojtyla, soprattutto nel 1985, a Loreto: la Chiesa - lo disse Giovanni Paolo II a Loreto - deve recuperare rispetto alla nazione italiana «un ruolo-guida e un'efficacia trainante». Perché l'Italia sia letteralmente «trasformata» - la parola ricorre più volte nel testo ratzingeriano - dalla fede dei cattolici. Ma mentre a Loreto il richiamo alla trasformazione della società era innanzitutto riferito ad un episcopato incapace di riconoscere appieno la forza della testimonianza cristiana nella società che veniva dal nascere dei movimenti ecclesiali laicali, oggi, a Verona, il medesimo richiamo è rivolto a tutto il popolo cattolico che se non testimonia con forza ciò che vive, rischia inevitabilmente il fagocitamento da un mondo giudicato «laicista» e «senza Dio». Chi si aspettava una retromarcia rispetto alle tesi ruiniane dell'interventismo cattolico nella società, ha dovuto alzare bandiera bianca. Dopo i discorsi soft di Tettamanzi e le discussioni all'acqua di rose dei giorni precedenti, Verona ha subito ieri una botta impressionante provocata dallo squadernamento di una vera e propria “agenda Ratzinger”, un'agenda programmatica dettata direttamente ai laici cattolici, partendo dal convincimento che una società senza Dio altro non può provocare che «un'ondata inarrestabile di laicismo» e «illuminismo» che porta l'uomo a divenire «mero prodotto della natura», «non libero» e, dunque, addirittura «suscettibile d'essere trattato come ogni altro animale». Proprio così, «come ogni altro animale».
Al di là delle evidenti tesi ruiniane affiora, per la prima volta, dietro le parole di Ratzinger, l'influenza del cardinale Tarcisio Bertone - che ha contribuito alla stesura del testo -, un porporato da sempre impegnato a spiegare come il confronto e il dialogo Chiesa-Stato laico debba preventivamente partire dal tentativo di rispondere alle istanze che la società pone mettendo sul piatto della discussione preventivamente - e non a posteriori - quei principi non negoziabili a cui ogni società umana dovrebbe guardare. Ma dietro le parole del papa c'è anche molto il cardinale Carlo Caffarra (da ieri più che mai candidato numero uno alla successione, tra qualche mese, a Ruini) soprattutto nella metodologia espositiva del discorso veronese. Come è nello stile dell'arcivescovo di Bologna - non a caso figlio spirituale del combattivo cardinale Giacomo Biffi - la premessa da cui si parte è la necessità di uscire dalle insidie del secolarismo attraverso la testimonianza «senza ripiegamenti rinunciatari» di una «fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo», per poi arrivare, di conseguenza, ai temi concreti e soprattutto etico-morali.
Anche rispetto alla politica, le parole di Ratzinger lasciano pochi dubbi: «La Chiesa non è e non intende essere un agente politico». Quindi se ne sta in disparte? Niente affatto. Essa ha «un interesse profondo per il bene della comunità politica», interesse che viene manifestato attraverso «la sua dottrina sociale» e soprattutto attraverso il lavoro dei «fedeli laici che operano come cittadini sotto propria responsabilità» e che sono dunque chiamati, eccome, a dire la loro nell'agone politico. Non si tratta tanto della volontà di ricostituire un fronte politico stile Democrazia Cristiana - fronte più volte perseguito dalla leadership della Cei negli ultimi quindici anni - quanto della necessità che in ogni fronte politico vi siano cattolici devoti alle cause della Chiesa. Cause che, ieri, sono state recepite dai politici italiani devotamente presenti all'arena: Romano Prodi -fischiato da parte dell'arena alla fine della messa -, Silvio Berlusconi - applaudito a lungo - Franco Marini, Francesco Rutelli, Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Rocco Buttiglione, Rosy Bindi e altri.
Dal richiamo generale all'interventismo in politica, ecco quello particolare volto al riconoscimento della scuola cattolica nei confronti della quale sussistono «antichi pregiudizi che generano ritardi dannosi». Ecco la necessità della solidarietà - al di là delle simpatie partitiche - verso gli ultimi della terra. E ancora, ecco la richiesta di politiche in difesa della famiglia fondata sul matrimonio, con il conseguente no ai Pacs: occorre quindi guardarsi dal «rischio» dell'introduzione «nell'ordinamento pubblico» di «altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzare» la famiglia tradizionale. E, infine, ecco il no all'eutanasia e all'aborto, con la raccomandazione alla tutela «della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale».
il Riformista 20.10.06
VERONA. CHI STA CON LUI E CHI INVECE CON TETTAMANZI
Il laicato cattolico non rimpiangerà Ruini
DI ETTORE COLOMBO
I vescovi e la Chiesa, invece che fare politica, devono occuparsi di diffondere il Vangelo e ri-evangelizzare il loro popolo. Il quale deve sapere unire, alla fede, «l'intelligenza». I laici cattolici - di ogni schieramento - devono però far valere, difendendo o facendo vincere, i principi cristiani. «Con coraggio e responsabilità» dice, sommerso dagli applausi. Sulla vita come sulla famiglia, sull'etica come sulla bioetica. Persino, tanto per capirsi, sulle scuole cattoliche. Che vanno difese e rilanciate. Perché il principio «dell'educazione» è centrale, per un cattolico e perché «certe scelte, anche legislative, contraddicono valori e antropologici ed etici radicati nell'animo umano». È un Benedetto XVI ancora “ruiniano” ma, nello stesso tempo, già “post-ruiniano”, quello che emerge dal discorso tenuto ieri a Verona, in occasione del convegno ecclesiale della Cei.
Almeno così appare nelle analisi e nelle interpretazioni di influenti laici cattolici che ieri lo hanno seguito e ascoltato: allo stadio al mattino e nella messa del pomeriggio. Interpellati sul punto dal Riformista, valutano le parole del papa. Con la prudenza tipica di ogni buon cattolico ma anche con (malcelata) soddisfazione. A “destra” come a “a sinistra”, per capirci. «Da questo convegno ecclesiale esce una Chiesa più unita e più vitale di prima», canta vittoria il presidente dell'Mcl Carlo Costalli. Che sta per lanciare una nuova Fondazione para-politica strettamente collegata con le Fondazioni europee Schumann e Adenauer e vicina all'Udc. Costalli ha molto apprezzato «sia la relazione del rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi che quella del presidente della Fondazione Sud Savino Pezzotta». «Anche se - nota Costalli - nelle parole del papa c'era più traccia di Ornaghi, che di Pezzotta, specialmente in merito al tema cruciale, quello dell'educazione». Diversa, invece, la valutazione del presidente delle Acli Andrea Olivero, sideralmente lontano dai teo-con ferrarian-periani (che il papa ha difeso) quanto decisamente vicino ai teo-dem diellini Bobba e Binetti. Per Olivero, «Ratzinger non è né Tettamanzi (che i teo-con li ha attaccati e duramente, lunedì, ndr.), il quale ha tenuto una bellissima e ricca prolusione, né Ruini, che resta ancorato al suo sano pragmatismo. Il papa difende i valori cristiani ma non vuole, giustamente, che la Chiesa si trasformi in una “agenzia politica”, forse perché non vive con apprensione le vicende politiche italiane, come fanno anche alcuni vescovi e cardinali. La Chiesa italiana non è una corazzata ma una “barca fragile”, che trae la sua unica forza dalla fede», chiosa soddisfatto anche lui dalle parole del papa il giovane presidente delle Acli. L'unico punto su cui Olivero concorda con Costalli è quando dice che «il laicato cattolico sta bene ed è in salute. Magari parla in modo meno plateale di un tempo, ma è vivace, specialmente sui territori. E i movimenti ecclesiali sono uniti come non mai, in questa stagione, e lo testimoniano, come ha detto benissimo l'ex presidente di Azione cattolica Paola Bignardi con toni dimessi solo in apparenza».
Eh già, perché anche di questo sì è parlato, a Verona, molto di più - per capirsi - dei (tanti) applausi a Berlusconi e degli (altrettanto forti) fischi a Prodi, polemiche sulle quali i laici cattolici preferiscono sorvolare. Forse per il loro, noto, profondo senso di pietas. E cioè del (presunto?) «silenzio dei laici». Del resto, c'erano eccome, a Verona, i laici cattolici. Non tutti, certo. I «cattolici del dissenso», per dirne una, sono rimasti a casa, da quelli para-marxisti del movimento «Noi siamo Chiesa» fino ai cattolici democratici che si raccolgono intorno alla newsletter Adista passando per diverse comunità locali (l'Isolotto di Firenze in testa) totalmente in disaccordo con la gestione della Cei e con la «gelata» ruiniana da loro molto subita, negli ultimi, e lunghissimi, 25 anni.
«La Chiesa italiana ha finalmente accettato il bipolarismo e la sua logica, anche se persino in questi giorni veronesi qualche accento di rimpianto per l'epoca del partito unico dei cattolici si è sentito eccome», chiosa il delegato della diocesi di Terni Giorgio Armillei, ex Fuci e ora vicino all'Azione cattolica. Poi, però, mette le mani avanti: «Non vorrei che, alla burocrazia ecclesiale, che pure c'è, si affianchi ora una burocrazia laicale, che reclama solo spazi. Vorrei dei laici che sappiano ascoltare meglio e di più chi opera nelle burrasche del mondo e della storia». «Per certi versi, una parte del laicato cattolico è ancora fermo agli anni Settanta e le sue posizioni sanno tanto di deja vù», dice invece il costituzionalista Stefano Ceccanti, peraltro ex fucino “di sinistra” anche lui.
E questo vale per il rapporto tra laici e gerarchie, laici e popolo di Dio, ma per quanto riguarda il rapporto tra Chiesa e politica cosa si può dire? «Parafrasando un'antica battuta in voga ai tempi della Dc («Quando De Gasperi e Andreotti vanno in chiesa, De Gasperi parla con Dio, Andreotti parla col parroco», ndr.) si può dire che Ratzinger ha parlato alla coscienza dei cattolici mentre Ruini oggi parlerà anche e soprattutto alla politica italiana. E cercherà di continuare a dare consigli interessati, se non veri e propri ordini». Commenta così, con parole e toni visibilmente soddisfatti, un autorevole esponente del mondo cattolico che, ieri mattina, ha assistito al discorso del papa e che, oggi, ascolterà le conclusioni del convegno pastorale di Verona. Che saranno tenute, appunto, dal vicario di Roma e presidente (molto uscente) della Cei, il cardinal Ruini. Insomma, Benedetto XVI, si collocherebbe «a metà strada», pensano sia Ceccanti che Olivero, tra le posizioni dell'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi (che l'altro giorno ha detto parole nette, in particolare contro i «teo-con») e quelle di Ruini. La pensa all'opposto, anche in questo caso, Costalli, ruiniano doc: «Il papa è in perfetta linea con le scelte di Ruini. Che interviene su vita e famiglia, mica sul Tfr. Contro leggi impregnate di “relativismo” un vero cristiano non può che combattere, ha detto il papa. Più chiaro di così cosa doveva dire?». «Detto questo - chiosa - oggi il vero partito di Ruini sta dentro la Margherita. È quello di Bobba e Binetti».
Liberazione 20.10.06
Bisogna considerare la transizione al socialismo non una necessità ma una possibilità. Il concetto di destra e di sinistra è mutato nel corso del tempo, ma non il conflitto di classe
Per la Sinistra Europea
di Sandro Valentini
Un movimento rivoluzionario che vuole prospettare un’alternativa storica al capitalismo o esiste in una dimensione internazionale o semplicemente non esiste. O si è, nel nostro continente, in una dimensione europea o si è forza marginale, anche se internazionalista. Per questo il problema non è di ricostruire un Movimento Comunista Internazionale mettendo insieme ciò che non c’è. Il problema, per dirla con Gramsci, è quello della “rivoluzione in occidente”. C’è chi dice, per dare una sottolineatura maggiore al problema, “torniamo a Marx”. Ma anche questo semplice proposta non è di nessuna utilità perché nel frattempo abbiamo dal novecento imparato che le diverse tesi di Marx sul crollo del capitalismo si sono dimostrate inadeguate e perfino fuorvianti. E’ bene invece tenere conto della lezione della storia. In primo luogo considerando la transizione al socialismo non una necessità ma una possibilità; in secondo luogo riproponendo il nodo del superamento del capitalismo nei punti alti dello sviluppo capitalistico.
In questa ricerca non partiamo da zero. Lenin e Gramsci avevano intuito: per questo piegarono il bastone verso la soggettività comunista (rivoluzionaria), per fare uscire il marxismo dalle secche del determinismo della II Internazionale. Oggi bisogna fare la stessa operazione: torcere il bastone verso una nuova soggettività rivoluzionaria. In altre parole, portare le forze comuniste, i settori più avanzati della socialdemocrazia, l’insieme della sinistra di alternativa e le culture antagoniste dei movimenti dentro un progetto di costruzione di una sinistra capace di aprire una fase nuova, dopo quella ottocentesca delle prime lotte operaie e del movimento socialista e quella comunista del secolo scorso.
Che siano universali i principi di libertà contenuti nella rivoluzione francese nessuno può negarlo, anche se sono ancora largamente disattesi e sia superato il ruolo dei partiti giacobini; allo stesso modo il principio di uguaglianza sociale contenuto nella rivoluzione d’Ottobre è altrettanto universale ed è drammaticamente non attuato a prescindere dall’attualità dei partiti comunisti,
Non è vero che, dopo il terremoto dell’89, gli orizzonti possibili siano due: quello di una sinistra comunista che sceglie la via riformista o socialdemocratica e quello, al contrario, in cui si impegna per una riorganizzazione del movimento comunista.
Il crollo sovietico è stato una grande catastrofe per i comunisti, i quali per essere oggi “rivoluzionari” sono chiamati a svolgere, partendo dalle contraddizioni della società, un’azione politica che contenga l’idea della trasformazione. E la genialità del pensiero di Marx sta proprio nell’aver colto la fondamentale contraddizione della società: quella tra capitale e lavoro. Da questo conflitto di classe bisogna ripartire per esplorare nuovi orizzonti.
Nel pensiero moderno vi sono dunque “due anime” della libertà e della democrazia: la prima, la “libertà civile” la seconda, la “libertà sostanziale”, basata sull’uguaglianza sociale. Il concetto di destra e di sinistra è mutato nel corso del tempo, ma non il conflitto di classe, cioè il diritto di qualunque essere umano al riconoscimento sociale delle sue capacità, a iniziare dal diritto al lavoro garantito.
Anche a sinistra si è determinata una dialettica tra il binomio libertà e uguaglianza. Il “socialismo realizzato” è stato fallimentare sul versante della libertà, ma è anche vero che la socialdemocrazia, in quanto forza subalterna alla borghesia e al capitalismo, si è dimostrata altrettanto fallimentare sul versante dell’uguaglianza sociale.
Il contrasto le due diverse istanze di libertà resta ancora oggi di straordinaria modernità; anzi, rispetto alla tendenza del capitalismo di concentrare capitali in poche mani anche la “libertà civile” diventa, come ci ha insegnato il vecchio Engels, un terreno strategico da difendere. Infatti il moderno capitalismo mira, per riprodursi, a restringere o a negare gli spazi di democrazia, poiché solo così riesce a governare le proprie contraddizioni; allora diventa compito non rinunciabile della sinistra difendere le libertà (tutte) e i diritti democratici, come fecero i comunisti e i socialisti nella lotta contro il nazi-fascismo.
Abbiamo perciò imparato che anche le libertà individuali sono un momento importante della lotta per realizzare la democrazia socialista. Quello del “nesso imprescindibile tra democrazia e socialismo”, tra libertà e uguaglianza nell’ambito di una “via pacifica al socialismo”, sono state delle grandi intuizioni e innovazioni del gruppo dirigente del Pci, che incontrarono durissime resistenze nel partito, da destra e da sinistra, ma che lo mutarono profondamente, fino a trasformarlo, senza socialdemocratizzarlo, almeno fino agli anni ’70. Ora bisogna fare altrettanto, anzi farlo con maggiore impegno perché veniamo da una sconfitta di portata epocale.
Proprio in ragione di queste considerazioni la proposta di costituire la Sezione Italiana della Sinistra Europea vuole essere una risposta ai problemi che abbiamo ereditato dal novecento. Occorre coinvolgere nel progetto, senza faziosità e preclusioni, l’insieme delle forze della sinistra di classe, alternativa, anticapitalistica, comunista e delle diverse culture e movimenti antagonisti.
La proposta della confederazione favorisce innovazione, unità e partecipazione dal basso, e riduce il rischio che il processo di costruzione sia solo un’aggregazione di ceto politico. Per questa ragione la confederazione, in quanto aggregazione di soggetti, può diventare un polo politico ed elettorale in grado di essere alternativo e competitivo alla pari, nella lotta per l’egemonia, con il partito democratico.
La nascita di una nuova soggettività politica più ampia a sinistra darebbe inoltre molta più concretezza alla linea dell’alternativa.
E’del tutto evidente che il governo Prodi è un governo di alternanza, sia pur di rottura con quelle pratiche politiche e sociali neoliberiste delle destre. Ma la possibilità di qualificare a sinistra l’azione del governo diverrebbe il terreno strategico su cui avviare la costruzione dell’alternativa. Dunque, la scelta netta deve essere quella di una Sinistra Europea dalle caratteristiche di massa, capillarmente insediata nel “mondo dei lavori”e che persegua l’obiettivo di unificarlo; una nuova soggettività politica quindi fortemente rappresentativa del nuovo proletariato urbano, capace di intrecciare le lotte sociali con quelle sui diritti e di aprirsi alle esperienze delle culture antagoniste, ambientali e di genere, rilanciando, attraverso questa capacità di coniugare le battaglie sociali e di libertà, il conflitto di classe. Una sinistra che coniughi concretamente l’innovazione delle sue forme e il costante aggiornamento della sua analisi con la pratica dell’unità, che faccia della lotta contro la guerra una scelta permanente della sua azione politica.
Per questo credo che la situazione tedesca sia la più avanzata. Lì, per la prima volta, è maturata un’esperienza dalle dimensioni di massa, nella quale vi è una ricomposizione storica tra le due principali culture marxiste del novecento: quella socialdemocratica e quella comunista. Una formazione politica articolata e innovativa, ma dalle caratteristiche marxiste e di classe. Si tratta di capire se la costituenda Sezione Italiana vuole rassomigliare di più all’esperienza tedesca o, se invece, si farà impigliare nella rete del radicalismo, rappresentando così meramente l’antagonismo delle nuove culture critiche, come quella ambientale e di genere. Non è che l’insieme di queste culture del conflitto e di movimento non siano importanti e non debbano trovare il sufficiente spazio nella Sinistra Europea e intrecciarsi profondamente con le lotte per il lavoro; ma se la sinistra di alternativa vuole uscire sia in Italia che in Europa da una dimensione minoritaria o si attrezza a divenire una sinistra di classe, fortemente radicata nel “mondo dei lavori” o rischia di restare minoritaria: una avanguardia elitaria come lo fu la “nuova sinistra” negli anni ’70. Ben altre sono invece le nostre ambizioni.