martedì 17 ottobre 2006

La Stampa Web 17.10.06
Il libro. Arriva in Italia la biografia del fondatore della psicoanalisi scritta dal medico che gli praticò l'iniezione fatale di morfina
Freud: dolce morte sul lettino
di Piero Bianucci


Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, morì alle 3 di notte del 23 settembre 1939 nella casa di Londra dove aveva trovato rifugio dal nazismo. Da sedici anni combatteva contro un cancro che gli aveva devastato la mascella, il palato, uno zigomo, l'intero lato destro del volto, l'esistenza. Ma a ucciderlo non fu il cancro. Furono due centigrammi di morfina iniettati dal suo medico curante Max Schur in osservanza di un antico patto tra i due. Una eutanasia. La decisione definitiva Freud l'aveva presa quando si era accorto che il cane a cui tanto era affezionato non entrava più nella sua stanza: lo teneva lontano il fetore dei tessuti in putrefazione. Era stato necessario stendere una zanzariera sul letto per impedire che le mosche si posassero sulla guancia divorata dal male. I terribili particolari di quelle ore estreme sono nell'ultima pagina della biografia di Freud lasciataci da Max Schur, in uscita da Bollati Boringhieri (Freud in vita e in morte. Biografia scritta dal suo medico, edizione italiana ridotta a cura di Armando Guglielmi, 472 pagine, 30 euro).
Un groviglio di reticenze
Nel 1923, quando la malattia si manifestò, Freud non aveva un medico di fiducia. Gli bastavano i consigli di colleghi amici, in particolare un cardiologo, Ludwig Braun, perché nel cuore pensava di avere il suo punto debole. Schur, viennese trentaduenne, buon internista, lo prese in cura nel 1928 grazie alla mediazione della principessa Marie Bonaparte, una sua ex paziente. Freud pose solo una condizione: che gli venisse sempre detta la verità. Troppo tardi. Ormai i guasti erano fatti. Scoperta la lesione cancerosa dovuta al fumo, per qualche mese Freud non disse niente a nessuno. Si fece poi vedere dal dermatologo Maxim Steiner, che riconobbe subito la gravità della lesione e consigliò l'intervento chirurgico ma non ebbe il coraggio - dovremmo dire l'etica professionale - di rivelare all'amico la verità: parlò di una leucoplachia, diagnosi tutto sommato non allarmante. E fu l'inizio di un groviglio di reticenze, uno psicodramma nel quale tutti sapevano e tutti fingevano di non sapere. Temevano, i colleghi, che reagisse alla notizia fatale con il suicidio. Freud fu operato dal chirurgo Markus Hajek, che conosceva solo superficialmente. Hajek eseguì un intervento maldestro e troppo cauto, che poco dopo ne comportò un altro molto più radicale, attuato da Hans Pichler. Non fu sufficiente. Da allora, di recidiva in recidiva, gli interventi furono più di trenta. Solo il 1934 passò senza ricorso al bisturi. Tagli sempre più demolitori e radioterapia non riuscirono a eliminare le cellule maligne. Finché venne una recidiva non operabile perché troppo vicina all'orbita oculare e la sentenza fu scritta. Schur era diventato un amico strettissimo di Freud, aveva seguito una analisi ed era entrato nella Società psicoanalitica di Vienna. Nel 1939 emigrerà negli Stati Uniti, dove contribuirà alla diffusione della scuola freudiana e fino alla morte, avvenuta 1969, lavorerà alla biografia del maestro con scrupolo maniacale, senza trascurare il minimo documento.
Una forma di masochismo
Com'è naturale, la malattia è il filo conduttore del libro di Schur, la malattia spiata da un punto di vista tristemente privilegiato e nei suoi riflessi sul pensiero freudiano. Messo di fronte al cancro, Freud sperimenta su di sé i meccanismi descritti dalla teoria psicoanalitica. Prima reagisce con una rimozione: cerca di non vedere la malattia, la nasconde a sé stesso e agli altri. Seguono il lutto e l'elaborazione del lutto, una forte reazione al male in cui si esprime la pulsione verso Eros, il piacere. Ma anche, specularmente, la pulsione di morte, una forma di masochismo. Freud era qualcosa di più di un fumatore accanito di sigari. Lui che da giovane aveva sperimentato per motivi di studio la cocaina, era, per usare le sue stesse parole, uno «schiavo della nicotina» e lo rimase fino alla morte. Difficile non vedervi un desiderio di autodistruzione.
Sofferenze laceranti
Nel pensiero di Freud la pulsione di morte appare con il saggio del 1920 Al di là del principio di piacere, ma è ancora una ipotesi. Due anni dopo in L’Io e l'Es diventa un polo dialettico della teoria delle pulsioni, con il ruolo di «mantenere quieto Eros, il seminatore di discordia». Della propria pulsione di morte dirà: «Si tratta di un processo naturale, quasi un cominciare a diventare inorganico. Credo che si chiami serenità della vecchiaia. Dipenderà senz'altro da una svolta decisiva nel rapporto delle due pulsioni che ho ipotizzato». Freud affronta stoicamente sofferenze laceranti. È la solitudine, non il dolore a piegarlo. L’isolamento di chi ormai fatica a parlare e a leggere, di chi si accorge di allontanare con il proprio fetore persino il cane, quel Lun che in un breve filmato del 1937 Sigmund accarezza teneramente. Aveva sempre amato i cani. Mitica è la cagnetta Jofi regalatagli da Marie Bonaparte: «Quando Jofi si alzava e sbadigliava - testimonia il figlio Martin - era segno che l'ora di analisi era conclusa. Non si faceva mai sorprendere in ritardo alla fine della seduta, benché mio padre sostenesse che era capace di un errore di forse un minuto, a spese del paziente».
«Lo dica ad Anna»
Che Freud abbia scelto e ottenuto l'eutanasia era noto. Già nel primo colloquio con Schur si era fatto promettere «un aiuto» quando non ce l'avesse più fatta. Da questo punto di vista il libro di Schur non porta novità: la richiesta di informare della decisione la figlia Anna è ricordata anche nella monumentale biografia di Ernest Jones. La dose di morfina è all'incirca la stessa. Cambia solo l’ora della fine: mezzanotte secondo Jones, tre ore dopo secondo Schur. Si precisano però i particolari del dialogo estremo: «"Caro Schur, lei si ricorda certo del nostro primo colloquio. Allora mi promise che non mi sarebbe venuto meno quando fosse stato il momento. Ormai è solo tormento e non ha più senso". Gli feci cenno che non avevo dimenticato la promessa. Egli mi guardò sollevato, mi trattenne la mano per un istante e disse: "La ringrazio"; poi, dopo un momento di esitazione aggiunse: "Lo dica ad Anna". Tutto questo fu detto senza traccia di commozione o di autocommiserazione e con piena coscienza della realtà. Come Freud aveva chiesto, informai Anna di quanto mi aveva detto. Allorché ricadde negli spasimi dell'agonia gli iniettai due centigrammi di morfina. Ne fu immediatamente sollevato e cadde in un sonno tranquillo. L'espressione di dolore e di sofferenza era scomparsa. Ripetei l'iniezione dopo circa 12 ore. Freud era chiaramente prossimo alla fine delle sue risorse: cadde in coma e non si svegliò più.» Aveva 83 anni. La salma fu cremata la mattina del 26 settembre al Golder’s Green. Nell'orazione funebre Jones disse: «Con la morte non ha perso nulla, quindi non possiamo proprio compiangerlo. Che sarà però di noi? Un mondo senza Freud!».

Max Schur (edizione italiana ridotta a cura di Armando Guglielmi), Freud in vita e in morte. Biografia scritta dal suo medico, Bollati Boringhieri, pagg. 472, 30 €

Il Velino 16.10.06
L'uomo in provetta e il miracolo della nascita secondo l'Arendt
di Giulio Meotti


(Velino) - Di Hannah Arendt si parla oggi o come dell'amante di Martin Heidegger o come una paladina dell'anticonsumismo militante e dell'umanitarismo liberal. L'ultimo libro di Paolo Flores d'Arcais, "Hannah Arendt" (Fazi), rientra in questa scia perbenista e che dà un'immagine edulcorata della studiosa ebrea d'adozione americana, autrice di alcuni classici del pensiero contemporaneo, a cominciare da "Le origini del totalitarismo". Nessuno in Europa ricorda che Hannah Arendt è la lettura preferita a Teheran nei sottoscala della scrittura proibita dal regime islamico, insieme a Václav Havel, Milan Kundera e Czeslaw Milosz. Così come nessuno rispolvera più la sua equiparazione fra nazismo e stalinismo, stessa macabra ideologia della morte, stesso accerchiamento dell'uomo da parte dell'uomo, stessa epifania del male nella storia. Tutti oggi la citano e dicono di rifarsi al suo insegnamento, ma pochi la rileggono veramente, anche perché il suo scrivere, così audace e profondo e ricco di riferimenti classici filosofici, non è sempre di immediata comprensione ed esula dal bignamino della cultura di sinistra. In particolare di Hannah Arendt è stata dimenticata "La vita della mente", l'ultima opera, interrotta dalla morte - in cui la Arendt si riallaccia agli studi giovanili su Sant'Agostino - e davvero la più significativa della pensatrice tedesca, centrata su una delle più suggestive dimensioni della sua fede "non religiosa", quella sull'evento del nascere, colto come "il miracolo che preserva il mondo".

L'uomo come nuovo radicale inizio non contemplabile da nessuna filosofia evoluzionistica dell'esistenza, perché "è proprio di ogni nuovo inizio di irrompere nel mondo come 'un'infinita improbabilità'; pure, questo infinitamente improbabile costituisce il tessuto di tutto quanto si chiama reale. In fondo, tutta la nostra esistenza si direbbe fondata su una catena di miracoli: prima la formazione della Terra e poi, su questa, la nascita della vita organica, e infine l'evolversi dell'uomo. Se consideriamo i processi che si svolgono nell'universo e nella natura (favoriti da probabilità schiaccianti dal punto di vista statistico) il formarsi della Terra, la vita organica e infine la nascita dell'uomo ci appariranno tutte come 'infinite improbabilità'; ossia, nel linguaggio quotidiano, 'miracoli'. Proprio a causa dell'elemento 'miracoloso', presente in ogni realtà, gli eventi quando si verificano ci sorprendono e ci scuotono. La stessa forza d'urto di un evento non potrà mai essere spiegata fino in fondo: in linea di principio, il 'fatto' supera ogni previsione". In pochi oggi valorizzano il profondo senso religioso della pensatrice tedesca, la sua attenzione alle culture religiose ebraico-cristiane, che addirittura l'aveva portata a scrivere, a proposito dei sanguinosi totalitarismi del novecento, "io sono del tutto sicura che questa catastrofe totalitaria non sarebbe accaduta se la gente avesse ancora creduto in Dio o comunque nell'inferno, cioè se ci fossero stati ancora dei valori fondamentali. Ma non c'erano".

Contro la definizione dell'uomo come essere-per-la morte del suo antico maestro e amante Heidegger, che in molti hanno visto come progenitore del nullismo politico e scientifico del Novecento, Hannah Arendt punta lo sguardo sul miracolo della nascita: "Gli uomini, anche se devono morire, non sono fatti per morire ma per incominciare. Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, 'naturale' rovina è in definitiva il fatto della natalità. È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la 'lieta novella': 'Un bambino è nato per noi'". Parole di una straordinaria bellezza e attualità, in tempi di estremo scientismo e meccanicismo biologico. Una riflessione, quella di Hannah Arendt, disseminata di pensieri di grande richiamo teologico e spirituale che costituiscono certamente la sua eredità più nobile e anche meno letta. "Dio ha creato l'uomo per introdurre nel mondo la facoltà del dare inizio: la libertà". E uno dei più sorprendenti: "L'ideologia è il sospetto gettato sulle apparenze, il rifiuto di rendere giustizia negli affari umani all'imprevedibilità e a quelle forme di spossessamento costituite dall'evento, dalla coincidenza, dall'incontro con qualcosa che era già là". La più radicale, anche perché affonda l'analisi alle origini stesse della cultura moderna, è l'immagine di come "la filosofia cartesiana è pervasa da due incubi che in un certo senso diventarono gli incubi della società moderna".

Presupposto per la grande lezione contenuta in "Vita Activa", e cioè che "molti sforzi scientifici sono stati diretti in tempi recenti a cercare di rendere 'artificiale' anche la vita, a recidere l'ultimo legame per cui l'uomo rientra ancora tra i figli della natura. E' lo stesso desiderio che si rivela nel tentativo di creare la vita in una provetta. Quest'uomo del futuro sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l'esistenza umana come gli è stata data, un dono gratuito... che desidera scambiare, se possibile, con qualcosa che lui stesso abbia fatto. Non c'è motivo di dubitare della nostra capacità di effettuare uno scambio del genere.. La questione consiste solo nel vedere se vogliamo servirci delle nostre nuove conoscenze scientifiche e tecniche in questa direzione, ed è una questione che non può essere decisa con i mezzi della scienza; è una questione politica di prim'ordine, e perciò non può essere lasciata alla decisione degli scienziati di professione e neppure a quella dei politici di professione". Infine: "Se la conoscenza (nel senso di know- how, competenza tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero, allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercé di ogni dispositivo tecnicamente possibile, per quanto micidiale". Parole figlie di un pensare alto e appassionato che non accetta il riduzionismo scientifico e culturale, sbarra la strada allo svilimento dell'uomo e del nascere a prodotto anonimo e apre alla filosofia scenari impensati e addirittura agostiniani.

Aprileonline.info
Sinistra Ds: la nostra ambizione
di Gianni Zagato*


E così non ci sarà un congresso, ce ne saranno due. Il Congresso, non ancora convocato - Fassino pensa all'autunno, Prodi vuole la primavera prossima - è però già cominciato. E subito raddoppia. Entro il 2007 il Congresso 1, per decidere quello che a Orvieto già si è deciso, cioè che i ds daranno vita a un nuovo soggetto politico in Italia. L'anno dopo, il più possibile a ridosso delle elezioni europee, cosicché indietro non si possa più tornare, il Congresso 2. Quello dello scioglimento tranquillo, quasi un trapasso naturale dei ds. Così da tempo evocato, atteso, preparato, temuto a tal punto da poter dire che, insomma, era ora. Come di un caro parente lontano, anziano e da lungo tempo malconcio, che abbia finalmente finito di soffrire. Amen.
Se ci saranno le condizioni, abbiamo detto più volte, parteciperemo al Congresso numero 1. Trasparenza del tesseramento, elezione a voto segreto come in tutto l'Occidente, pari opportunità di organizzazione e comunicazione, dato che di fronte ad ogni congresso non esistono maggioranze e minoranze precostituite. Lì nel congresso 1 - se ci saranno quelle condizioni - giocheremo la nostra carta, quella della sinistra italiana.

E' una carta che non entrerà nel mazzo di carte del Partito democratico, il cui fondamentale obiettivo, per poter essere quel partito contenitore che sempre più rischia di diventare, è quello di spostare sempre più al centro l'asse politico del centrosinistra italiano. E' una carta, dobbiamo dirlo, che non sta neppure in Rifondazione Comunista così com'è oggi, né dentro l'operazione della Sinistra Europea avviata quasi due anni fa.

Il nostro no deciso ad entrare come corrente della sinistra nel partito democratico, un partito ancora da fare ma già con un lungo elenco di correnti interne pronte a spartirsi le quote, non ha come esito speculare alcun trasloco ad altro partito. Coltiviamo un'ambizione più alta. La riunificazione della sinistra italiana è il nostro orizzonte. Essa non si risolve amalgamando le diverse e disperse famiglie così come oggi sono. La ricomposizione non è prima di tutto organizzativa. Se lo fosse, risulterebbe un'operazione simmetrica a quella in atto tra ds e margherita, cioè la costruzione di u n puro cartello elettorale. La riunificazione della sinistra o parte dal cambiamento prodotto dai processi di mondializzazione , dal fare i conti con la debolezza di questa politica di fronte all'incalzare di questi processi, oppure diventa annessione, immediato accasamento, somma di ceti politici. Non ci interessa.

Vogliamo lavorare per un'altra cosa. E intendiamo presentare già al Congresso ds, se ve ne saranno le condizioni, una diversa prospettiva politica rispetto al partito democratico, la prospettiva di una riunificazione della sinistra nel nostro Paese. Questa riunificazione può avvenire per noi lavorando con intelligenza e con i tempi giusti lungo due fondamentali direzioni, il legame con il movimento socialista - in Europa, nel mondo - e l'incontro con un pensiero critico della realtà di oggi, con l'insieme di quelle culture che sono cresciute anche fuori dal movimento socialista contemporaneo. Il Manifesto per la sinistra a cui stiamo lavorando è l'incontro, l'interazione di queste due polarità. Scorciatoie, facili accasamenti, piccole nicchie protettive le lasciamo ad altri. Sappiamo bene come la politica, ogni politica e dunque anche la nostra, si misura - non può non farlo - con la rappresentanza e le sue forme, come abbia le sue scadenze, anche elettorali. A questo c'è soluzione. Ma fuori da una grande e forte idea ispiratrice, resta la politica com'è adesso. Con i suoi tanti contenitori, vecchi e nuovi, anonimi come gusci vuoti lasciati sulla riva dal moto impetuoso delle onde.
*Coordinatore organizzativo Sinistra Ds


Repubblica 16.10.06
Stati Uniti, il "sorpasso" dei conviventi
Matrimoni in minoranza rispetto alle coppie di fatto: è la prima volta
di Sam Roberts


Il nuovo fenomeno ha ripercussioni importanti nel campo economico, del lavoro e perfino sugli affitti delle case
Le statistiche rivelano che ormai solo il 49,7% delle coppie americane è sposata: 5 anni fa la percentuale era del 52%
Le percentuali variano notevolmente a seconda degli stati e delle città. A Manhattan record negativo delle nozze
Secondo alcuni studi, la voglia di sposarsi rimane ma prima si vive insieme per periodi sempre più lunghi

Le coppie sposate, il cui numero continuava a calare da decenni rispetto al totale delle famiglie americane, sono finite in minoranza secondo un´analisi appena completata dal New York Times sulla base dell´ultimo censimento. L´American Community Survey, uno studio pubblicato quest´anno dall´Ufficio Statistiche, ha rilevato che solo il 49,7 per cento, pari a 55,2 milioni di famiglie tra le complessive 111,1 milioni del 2005, sono coppie sposate - con e senza figli - appena sotto la maggioranza e in calo considerevole rispetto al 52 per cento di cinque anni fa.
Queste cifre non significano ovviamente la fine del matrimonio, né vogliono necessariamente dire che si è arrivati a una svolta. Di fatto, anzi, il numero totale di coppie sposate è più alto che mai, e la maggior parte degli americani prima o poi si sposa. Ma è pur vero che il matrimonio va incontro a una concorrenza sempre più forte: un crescente numero di adulti tende infatti a trascorrere una maggiore parte della propria vita da single o in coppia ma senza sposarsi e le implicazioni socio-economiche ciò sono assai considerevoli. «Questo fenomeno comporta dei cambiamenti nel peso sociale del matrimonio sull´economia, la forza lavoro, la vendita e l´affitto di case, e anche in relazione al target al quale indirizzano la loro pubblicità i produttori» dice Stephanie Coontz, direttrice di educazione pubblica per la Commissione sulle Famiglie Contemporanee, un gruppo di ricerca no-profit. «E di sicuro costituisce una sfida per le nostre politiche del lavoro».
Complessivamente, una coppia su dieci non è sposata (e un nucleo familiare su venti è costituito da una persona che vive sola). Il numero delle coppie che convivono e non sono sposate sta crescendo: dal 2000 tra le coppie non sposate formate da individui di sesso diverso si è registrato un aumento del 14 per cento, tra quelle omosessuali maschili del 24 per cento e tra quelle omosessuali femminili del 12 per cento.
Emergono grandi differenze nella composizione dei nuclei familiari in base alla classificazione geografica. La percentuale di coppie sposate va da oltre il 69 per cento nella Utah county, in Utah, al 26 per cento di Manhattan, che ha fatto registrare la più bassa percentuale di coppie sposate di qualsiasi altro posto nel Paese. Ciò nondimeno dal 2000 Manhattan ha fatto registrare un aumento dell´1,2 per cento nel numero delle coppie sposate, in contrasto con il resto della città di New York e molti altri luoghi.
Per David Blankenhorn, presidente del gruppo di difesa del matrimonio dell´Institute for American Values, le coppie sposate sono diventate una minoranza soprattutto a causa del numero in forte aumento di nuclei familiari formati da persone che pensano di sposarsi o che sono già state sposate.
Steve Watters, direttore dei giovani adulti per Focus on the Family, un gruppo conservatore cristiano, ha detto che il trend riflette più il desiderio di procrastinare il matrimonio che non l´idea di rifiutarlo. «Questi dati indicano soltanto che sempre più persone sperimentano delle alternative prima di sposarsi» dice Watters.
Pamela J. Smock, ricercatrice nel Centro di Studi sulla Popolazione dell´Università del Michigan, afferma però che da una sua ricerca indipendente rispetto a quella dell´Ufficio Statistiche del paese, emerge che il desiderio di un forte vincolo familiare, e specialmente di contrarre matrimonio, è costante. «In una società segnata da alti livelli di divorzio, la coabitazione tra giovani adulti ci dice che lo fanno perché non sarebbe saggio sposarsi senza prima aver vissuto insieme per un certo periodo» dice Smock.
Con il moltiplicarsi di forme diverse di vita e di coabitazione, la percentuale di coppie sposate è in calo da decenni. Nel 1930 le coppie sposate costituivano l´84 per cento dei nuclei familiari. Nel 1990 tale percentuale era già scesa al 56 per cento circa. Le coppie sposate non sono la maggioranza tra i nuclei familiari formati da adulti di età inferiore ai 25 anni sin dagli anni Settanta, ma tra quelli di età compresa tra i 25 e i 34 anni la percentuale è scesa al di sotto del 50 per cento per la prima volta negli ultimi cinque anni. Tra gli americani di età compresa tra 35 e 64 anni, le coppie sposate sono ancora la maggioranza.
«Questo fenomeno è almeno in parte alimentato dalla presenza delle donne nel mondo del lavoro: oggi le donne non devono necessariamente sposarsi per essere tranquille dal punto di vista economico» dice Andrew A. Beveridge, demografo del Queens College della City University of New York, che ha analizzato i dati del censimento per conto del New York Times. «Un tempo per poter avere rapporti sessuali si era soliti sposarsi, mentre oggi una delle ragioni principali per sposarsi è avere figli. Ma avere figli non è più un´idea così allettante ed è un´esigenza in calo per molte persone per i costi che i figli comportano». Per William H. Frey, demografo della Brookings Institution, il trend è dovuto all´influenza dello stile di vita dei baby-boomer. «Chiaramente le generazioni successive hanno seguito le loro orme, con alti livelli di convivenza pre-matrimoniale e stili di vita più flessibili».
(Copyright New York Times-La Repubblica, traduzione di Anna Bissanti)


LIBRIOGGI 1.6.1978, pag 16
Risponde Massimo Fagioli


In una fase come questa, in cui il dibattito sulla psicanalisi in Italia va registrando una notevole vivacità e articolazione di posizioni, la novità e la radicalità della sua critica a Freud hanno suscitato particolare scalpore, non solo negli ambienti specialistici. Ci può indicare i punti essenziali di questa sua critica?

La critica a Freud che, più che critica è rifiuto radicale, è il risultato di una prassi e una ricerca ormai ventennale. L' impossibilità, ovvia, di una dimostrazione sistematica in questo breve spazio mi obbliga a dichiarazioni essenziali che però, allorchè si voglia verificare nei testi freudiani, sono dimostrabiissime.
Oltrechè dire che Freud non ha mai fatto un discorso sistematico sulla realtà psichica umana e che non ha nessun metodo di ricerca, avendo fatto sempre discorsi frammentari e quindi sempre errati su singoli e parziali argomenti di psicologia, si può affermare la abissale stupidità e ignoranza freudiana allorché si scopra (sembra paradossale!) che Freud non conosce i termini elementari della realtà psichica. Infatti: Freud non conosce la realtà (nè tampoco, ovviamente, le dinamiche) dell'istinto di morte-fantasia di sparizione-indifferenza, di rabbia-bramosia-introiezione, di odio-invidia-negazione, di desiderio-sviluppo, di recettività-creatività, di investimento sessuale-ricerca-conoscenza-cura. Conseguentemente non conosce il come si sviluppino in senso progressivo e regressivo tali dinamiche del rapporto interumano. Il freudismo non ha mai potuto fare un discorso organico e coerente sulla realtà psichica umana per una ragione che, una volta scoperta, è semplicissima: per Freud l'uomo è, per sua natura, narcisista, cioè senza rapporto, cioè non ha nessuna derivazione da una realtà materiale di rapporto, l'uomo nascerebbe creta come Adamo. Conseguenza ovvia: l'originalità del pensiero di Freud è l'originalità della Bibbia!!
La ragione di questa colossale montatura che sta nell’esaltazione di Freud, ancora in piena fioritura, per cui non ci si è accorti o non ci si vuole accorgere del suo totale fallimento e della sua stupidità?
Al di là di ragioni storiche, politiche, sociali, religiose, un motivo fondamentale è nella predominanza del pensiero negativo della società borghese, nel dominio della ragione astratta. Essa ragione astratta, ovvero il modo di essere neutrale nella ricerca scientifica, non permette nessuna scoperta sulla realtà psichica umana in quanto la ragione astratta poggia i suoi fondamenti ed è sostenuta proprio da quelle pulsioni di annullamento che si debbono scoprire, affrontare e risolvere prima di poter avere quelle possibilità di conoscenza che permettono di fare psicoanalisi. Non aver risolto le pulsioni di annullamento lascia nell'uomo una sostanziale indifferenza nei riguardi della realtà psichica degli altri uomini, ovvero una sostanziale stupidità e ignoranza.
Se si rileva il fatto elementare che Freud tenta una ricerca sulla aggressività umana soltanto dopo il 1920 (ci voleva la prima guerra mondiale, sic!) si può comprendere come le mie affermazioni iniziali sulla totale mancanza di metodo e di un minimo di coerenza siano assolutamente esatte.
Ho detto «tenta un discorso» perché, per l'ennesima volta, il fallimento ignominioso si rivela nella riduzione dell'enorme e fondamentale tema dell'istinto di morte ad una chiacchierata sull'anabolismo e catabolismo (cfr. Al di là del principio del piacere). Ennesimo fallimento: il primo fu ne L'interpretazione dei sogni: i sogni sono desideri (scusatemi, sembra la canzonetta di Cenerentola!); e la pulsione? Il secondo nei Tre saggi sulla teoria della sessualità: il bambino polimorfo perverso. Fallimento nel caso Schreber: la pulsione omosessuale. Non esiste una pulsione omosessuale; esistono pulsioni di annullamento e di invidia (cosiddette omosessuali) e pulsioni di investimento sessuale. Fallimento nell'uomo dei lupi: il desiderio cieco. Fallimento nella Introduzione al narcisismo, ne La negazione (cfr. Il NO e II SI di R. Spitz, Armando, Roma, 1975), ne Il problema economico del masochismo nel Disagio della civiltà, in Analisi terminabile e interminabile.
Forse le citazioni sono sufficienti! Comprendono tutto l'arco di tempo che va dal 1896 al 1937.
Mi sembra evidente come sia assurdo ritenere che si possa costruire un discorso psicoanalitico ignorando l'aggressività umana che, in termini analitici, non può essere neppure limitata alla considerazione del sadismo, della rabbia, della distruzione materiale di uomini e cose. Questa la grande scoperta di Freud dopo più di vent'anni di psicoanalisi, il sadismo! La scoperta di quanto gli uomini sanno da quando sono sulla faccia della terra!
L'aggressività umana, proprio perché umana e non animale, comprende due dimensioni più latenti, aldilà del sadismo, che sono appunto le pulsioni di annullamento e di negazione. La distruzione della mente umana fa capo, in primo luogo, a queste due pulsioni, e quindi un metodo analitico deve partire dalla scoperta e dall'analisi di esse in tutte le varie dinamiche con le quali si presentano nei rapporti interumani e nella cultura dominante. Freud? Non le ha non solo pensate ma neppure supposte o ipotizzate.

Lei ha accennato, contro Freud, alla necessità di pensare l'uomo in quanto inserito in una «realtà materiale di rapporto»: mi pare che in questo cenno si possa leggere un rimando implicito al materialismo storico, a Marx; ora, al di là del vecchio dibattito sui rapporti tra marxismo e psicanalisi, c'è un nesso, ed eventualmente quale, tra il suo discorso e Marx, in particolare il Marx teorico della reificazione dei rapporti sociali?

Di fronte allo svilupparsi di una possibilità di lavoro psicoanalitico reale, la ricerca di un nesso con quanto è accaduto in passato è di estremo interesse. Non ho dubbi sul fatto che tale ricerca vada puntualizzata sulla dialettica emersa sul finire della prima metà dell'800 tra Hegel-Feuerbach-Marx. La rivolta contro l'idealismo e la dialettica della negatività, intesa da Hegel come unica verità umana e storica, non fu rapportata, allora, alle dimensioni più profonde e inconscie dell'uomo nel suo rapporto con la realtà.
La proposizione per la quale non esiste la storia e la società ma esistono uomini che fanno la storia e la società obbliga alla conoscenza di questi uomini che fanno questa storia e costruiscono questa società. A sua volta la conoscenza di questi uomini concreti non può ignorare la realtà psichica di essi nè tampoco la realtà inconscia.
Sarebbe, appunto da pazzi, dire che conosciamo la realtà umana perché conosciamo il corpo umano e il suo funzionamento fisiologico o, ai limiti, perché abbiamo un certo qual orientamento sul pensiero cosciente.
La codificazione scientifica del pensiero negativo non può ignorare la scoperta della fantasia di sparizione come prima e fondamentale dimensione negativa di rapporto dell'uomo con la realtà. Il pensiero negativo, che è poi prassi negativa, trova la sua prima fonte nella creazione dell'astratto, del nulla, di Dio, da parte dell'uomo stesso; da parte di una pulsione umana che messa fuori dell'uomo è momento di immobilità e di paralisi nella storia umana, momento di coazione a ripetere. La stessa pulsione riportata dal cielo alla terra, dallo spirituale astratto alla materialità umana, riconquistata dall'uomo dalla alienazione cui è sempre andata incontro, fa il cambiamento, la trasformazione, il progresso, la stessa creatività umana. Riportata cioè dall'alienazione esterna, in cui fa di ciò che è ciò che non è (ovvero annulla)alla realtà materiale essa fa di ciò che non è ciò che è (ovvero crea).
Si sa che Marx non ha mai fatto studi sulla dimensione psichica umana, men che meno sull'inconscio, ma è interessante che le formulazioni coscienti di Marx e l'impostazione metodologica siano di tutta attinenza con il lavoro di psicoanalisi, contrariamente ai discorsi freudiani che non sono di nessuna attinenza con il lavoro psicoanalitico.
Un problema, nella storia del socialismo, è che delle tre note alienazioni: la religiosa, la sociopolitica, la economica (mi permetto un rapido e approssimativo nesso con le tre «streghe» che fanno la pazzia umana: annullamento, invidia e bramosia), la terza, pur fondamentale, ha lasciato in ombra le altre due e particolarmente la prima. La possibilità di una psicoanalisi reale si fonda invece sulla lotta contro tutte e tre e, come si usa dire, nello specifico, particolarmente sulla prima, nel senso che si tratta di scoprire la religiosità, il feticismo che è nei rapporti interumani quotidiani, nell'adorazione dei ruoli che gli uomini assumono annullando e negando la propria identità reale e concreta. Si tratta di scoprire che, nella norma, domina l'astratto, il modo di essere in rapporto per indifferenza e negazione e per controllo della mente.
Un altro nesso fondamentale con la metodologia marxiana sta nella proposizione della trasformazione (i filosofi hanno in vario modo interpretato il mondo, ora si tratta di trasformarlo, ecc.) totalmente assente in Freud. Metodologia che impone la prassi di confronto con la situazione attuale, l'altro, gli altri, la continua ricerca, scoperta, conoscenza e verbalizzazione di essa, il rifiuto che è negatività (annullamento e negazione aprioristica, astratta, totalitaria e totalizzante) ma prassi positiva di rifiutocambiamento concreto e specifico basata sulla conoscenzascienza del negativo-disumano.

Passando ora al piano della pratica analitica, quali implicazioni ha su questo terreno la sua teoria, e in particolare quali motivazioni e obiettivi stanno alla base del metodo della psicanalisi collettiva?

La psicoanalisi collettiva è psicoanalisi come cura specifica proprio perchè rifiuta, nelle sue basi teoriche e metodologiche il freudismo. Rifiuta che l'essere umano sia originariamente e fondamentalmente pazzo, rifiuta che l’inconscio perverso sia l’unica realtà dell’inconscio umano. Afferma, nel suo stesso essere fatto concreto, che l’inconscio perverso è determinato da rapporti interumani perversi e violenti e da società in cui la ragione astratta lascia all'uomo soltanto la furbizia e la masturbazione. Rifiuta che l'inconscio sia soltanto un mondo di micro e macromostri da controllare e possibilmente da annullare nel setting privato in cui la microistituzione delirante del ruolo dell'analista ha la funzione della divinità annullante. Afferma che allorché esista e venga proposta la scoperta dell'io originario interno e inconscio come disposizione naturale al rapporto (cfr. Marx: l'uomo è per sua natura essere sociale), allorché esista una conoscenza, un sapere concreto come dinamica di prassi di rapporto interumano, come risposta e non come concetto astratto, è possibile e reale una cura psichica di massa, che diventa lavoro collettivo di emancipazione dall'ignoranza, dalla confusione, dai rapporti privati parziali e sadomasochisti, liberazione dal dominio dei più astratti, dei più forti, dei più violenti.
Far emergere l'inconscio in una situazione collettiva di centinaia di persone avrebbe dovuto portare alla catastrofe, all'orgia, alla fine del mondo in una furia incontrollata di cannibalismo e di violenza: cosa che, a distanza di ormai tre anni, non risulta. E non risulta in quanto teoria e metodo scientifici reali, coerenti, radicali (cfr. Marx: una teoria perché si riporti alla massa deve essere radicale, e radicale vuol dire prendere le cose alla radice - cito a memoria quindi la dizione non è letterale) riportati alla massa trovano il loro rapporto (inconscio!) con quella dimensione di Io interno, non astratto, con l'Io che deriva dal rapporto materiale del feto con il liquido amniotico.
E' qui che le verbalizzazioni, le immagini, le pulsioni inconscie verificano continuamente la più grande e tragica panzana freudiana del narcisismo umano. Anche nella violenza maggiore dell'annullamento di alcuni può essere scoperta e interpretata la dimensione di rapporto per annullamento della realtà collettiva di lavoro comune, cioè il rapporto violento coma rapporto astratto, risultato di fare di ciò che è presente, reale, dinamico e vivo qualcosa che non è, non è reale, dinamico e vivo, ma irreale, fantastico, inesistente.
Questo rapporto concreto, materiale, senza ruoli e dimensioni istituzionali, presuppone una dimensione non pazza degli uomini, dimensione che sta appunto nella materialità del rapporto stesso (200 persone in una piccola stanza costituiscono la base per il cannibalismo secondo una psicologia sperimentale riferita però... ai sorci!) smentendo, nei fatti oltrechè nella teoria, l'ideologia freudiana secondo la quale l'essere umano può essere sociale soltanto nella repressione, nell'istituzione, nella religione, nel dominio dell'istinto di morte.

Repubblica 17.10.06
IERI A TORINO LA LECTIO MAGISTRALIS DI EUGENIO SCALFARI
"IO, NON CREDENTE GIOCO CON LA MORTE"
di Massimo Novelli


TORINO. È stata una lectio magistralis, sebbene la definizione lo «intimorisca un poco» per quanto si porta dietro di accademico, sulla fine e sul senso della vita, sulla vecchiaia e sulla memoria, sulla mente e sul corpo che la comanda, sul caos e sull´istinto. Soprattutto si è declinato come un lucido e civile invito, da «assoluto non credente» qual è, a giocare con la morte, a prendersela sulle spalle, per trasgredire la consapevolezza della nostra caducità lasciando «con le opere» una traccia di noi stessi a chi verrà dopo di noi, lasciandole più per gli altri che per noi. Perché non c´è altro senso, nella vita, che la vita medesima. Al di là non c´è nulla. Ci siamo noi, destinati ad andarcene. Ma quella che Eugenio Scalfari ha tenuto ieri sera a Torino, davanti alla platea gremita dell´Auditorium della Rai, ha avuto inoltre il significato di un completamento di dialogo con Norberto Bobbio, il filosofo della politica al quale è dedicato il ciclo di riflessioni, dieci anni dopo la pubblicazione dei saggi di De Senectute, inaugurato proprio dalla lezione del fondatore di Repubblica. Un dialogo interrotto dalla scomparsa di Bobbio.
Ed è con questo ricordo, quello malinconico eppure forte dell´ultimo colloquio avuto con lui, poco prima che il pensatore torinese morisse, che Scalfari ha voluto cominciare il suo discorso: «Non fu un incontro a scopo di intervista giornalistica, Bobbio non le amava. Fu una conversazione con un maestro, di cui avrei fatto tesoro». Si parlò in quell´occasione di diversi argomenti, non ultimi i ricorrenti travagli della politica italiana, ma principalmente si chiacchierò di vecchiaia, il tema su cui il filosofo indagava ormai da tempo con fedele assiduità e rigore. «Bobbio - ha proseguito Scalfari - metteva in rilievo le luci e le ombre della vecchiaia, diffidava di chi ne tesseva le lodi sperticate, non perché non ne vedesse i pregi ma in quanto ne coglieva anche le limitazioni fisiche e fisiologiche. Affidava alla memoria un strumento identitario del vecchio, così come nella ricerca del senso delle cose. Anch´io mi sono domandato più volte dove possa approdare la ricerca del senso e del non senso». Quelle domande antiche come l´uomo, scontate ma che si ripetono in ogni uomo, in ogni secolo, su chi siamo e dove andiamo.
Del resto, «la nostra specie è l´unica, almeno tra quelle conosciute, a porsi il problema del senso. Perché ce lo poniamo? É ovvio: perché siamo consapevoli della finitezza della nostra esistenza. Però è sapendo che siamo destinati a morire, che la nostra vita trae un senso: il suo senso». Ancora il ricordo di Bobbio, le sue parole sulla morte e sul fatto che occorre prendere confidenza con essa, perché oltre non c´è nulla, hanno guidato il ragionamento di Scalfari: dunque «riconosciuta la morte, il senso diventa ed è la vita stessa, condotta secondo le regole della nostra coscienza». Dal sapere che dobbiamo morire, dalla certezza che il senso è quella vita che si dissolverà, si genera allora la tensione alla sopravvivenza, alla morale, al concetto di colpa e di peccato, e quindi all´azione: «Per me il senso sta quando si agisce, è l´azione. Si agisce per realizzare un obiettivo. senza questo non rimane che il suicidio». Tuttavia il nostro non è un «agire unico», non ha un senso unico e unificato: «c´è sempre un senso singolo per ogni nostra azione; è un senso, è una vita, a segmenti».
Da «assoluto non credente» come si definisce, e nemmeno da laico in quanto la laicità può convivere comunque con una fede, Scalfari fonda le sue convinzioni sull´agire, che è poi trasgredire la consapevolezza della morte e superarla. «Montaigne - ha detto nel corso della serata introdotta da Andrea Bobbio, uno dei figli del filosofo, e condotta da Giulio Anselmi, direttore de La Stampa - sosteneva che la morte dobbiamo prenderla sulle spalle, averne confidenza, ragionarci sopra. Trattarla come un momento dopo il quale non ce ne sarà un altro. Dobbiamo giocarci con la morte, trasgredirla. E trasgressione vuole dire segnare la diversità della nostra vita, farla diventare degna di essere ricordata. Ciò comporta inevitabilmente diventare egoisti, ai danni degli altri. Però il nostro egoismo fa insorgere il concetto di colpa, il peccato, e allora anche il sentimento morale che, a quel punto, ci impone di attenuare la corsa alla sopravvivenza attraverso la trasgressione per occuparci pure del prossimo». Tra le specie viventi, d´altro canto, «siamo i soli a distinguere il bene dal male, e pertanto si pone il problema della colpa e del peccato». Una volta riconosciuto tutto questo, si può pensare di occuparci non solo di noi stessi ma pure degli altri esseri come noi, agendo per cercare di lasciare un segno del nostro passaggio con le opere. L´essere per la morte, perciò, può essere capovolto in un essere per la vita.

l'Unità 17.10.06
Budapest, la rivolta
dimenticata dal ’68
di Guido Crainz


ANNIVERSARI La memoria del tentativo di rivoluzione democratica del 1956 stroncata dall’Urss nel diario di György Dalos, scrittore magiaro che all’epoca aveva solo tredici anni. Perché l’Ungheria fu rimossa dalla «contestazione»?

Ritratto della città danubiana scossa dalla ribellione e messa a soqquadro dalla battaglia contro i carri armati

Una classe dirigente ottusa, travolta dall’indignazione popolare e dal senso della dignità ferita

La sinistra extraparlamentare tranne rare eccezioni brillò per il suo silenzio retrospettivo su quegli avvenimenti


Ungheria, 1956 è un grande, sofferto, affascinante racconto: racchiude ricerca, riflessione, memoria. Ci ripropone davvero, come Dalos suggerisce, le immagini in bianco e nero dell’Ungheria della sua infanzia «assieme ai volti che vi appartennero, alle case distrutte e al selciato divelto lungo le strade di Budapest». Con quelle immagini e con quelle emozioni Dalos dà corpo al grande tema che occupa la scena: il tumultuoso svolgersi di una rivoluzione. Una grande insurrezione di un piccolo popolo, che fa i conti con i detriti di un regime già fallito e tenta di sottrarsi al dominio imperiale di una superpotenza(...)
La memoria personale permea in modo suggestivo queste pagine, ma Dalos sa dare forza evocativa alle fonti e agli elementi più diversi: i verbali fitti di errori e lacune, redatti al Cremlino in quelle incerte giornate da stenodattilografe stremate, sembrano davvero «alludere a vaghi presentimenti, e quasi sfiorare i toni sospesi e drammatici di una ballata popolare». Ed è più rivelatore di un discorso il sudore che bagna la fronte di Imre Nagy la sera del 23 ottobre quando, recandosi in Parlamento, vede i tricolori ungheresi cui è stato tolto, con un gran taglio al centro, il simbolo con la falce e il martello. Quei tricolori mutilati e liberi indicano che è terminato il tempo delle mediazioni, si è aperta una partita senza ritorno.
Di quella partita il libro racconta con ritmo serrato le diverse fasi, prendendo avvio dal 1953 e seguendo poi gli incalzanti mesi del 1956 e l’affermarsi di rivendicazioni sin lì impensabili. Gli studenti, annota Dalos, «insieme a richieste realistiche insistevano nel loro slancio giovanile a pretendere l’impossibile». Ed elenca poi l’«impossibile», nell’Ungheria di allora: ritiro delle truppe sovietiche, in base alle clausole del trattato di pace, e rimozione della statua di Stalin; nuovo governo sotto la guida di Nagy ed elezione a scrutinio segreto di nuovi capi del partito, con l’allontanamento dei «funzionari criminali dell’era di Stalin-Rákosi»; elezioni a suffragio universale e a scrutinio segreto, con la partecipazione di tutti i partiti; libertà di opinione ed espressione.
Il cuore della narrazione è però costituito proprio dal «racconto» della rivoluzione, che segue una chiave esplicita. Il 23 ottobre, la giornata in cui la rivolta viene alla luce, tutto è – annota Dalos – tranne una «rivolta pilotata», ed è altrettanto priva di fondamento la spiegazione ufficiale data poi negli anni di Kádár, che estende quella cifra a tutta la rivoluzione ungherese. Quella rivoluzione resta tuttavia incomprensibile e opaca, continua Dalos, ove vi si veda – tutto all’opposto – solo una esplosione spontanea della rabbia popolare, senza por mente ai differenti progetti, organici o frammentari, che vengono a influire sul suo svolgersi e sulle sue dinamiche. Da un lato i progetti dall’«alto», le strategie dei diversi attori politici ungheresi (Nagy, Kádár, Gerò) e internazionali (a partire da Chruscëv). Dall’altro le idee presenti nei diversi gruppi di insorti, nei differenti protagonisti di quella «rivolta dei senza nome» di cui Dalos evoca i contorni con ritratti che lasciano il segno. Emergono i lineamenti di una città e di una moltitudine vera, con le sue culture e le sue tensioni, le sue radici e i suoi disadattamenti. Diverse dinamiche si intersecano e molteplici scenari si alternano rapidamente, interagendo in ore convulse. Con l’angoscia responsabile dello scrittore Tibor Déri di fronte al precipitare della situazione: «Quando sentii i primi spari mi salì il sangue alla testa: anche tu sei responsabile di questo! Hai parlato, istigato, come ti giustificherai di fronte ai morti?». Con il succedersi di repressioni sanguinose, di scontri provocati, di eccidi. Con il diffondersi della rivolta e con la resistenza armata al primo intervento sovietico. E con dinamiche talora incontrollabili, sino alla ferocia popolare che esplode davanti alla sede del partito di Budapest e altrove: come già nel massacro compiuto dalla polizia politica a Monsonmagyaróvár, osserva Dalos, emerge anche qui la terribile «insufficienza della ragione di fronte alla psicosi dello scontro fra masse e potere».(...)
Nel racconto di Dalos è strettissimo, come s’è detto, l’intrecciarsi e l’interagire delle dinamiche «dal basso» con le contraddittorie strategie dei diversi gruppi dirigenti e dei differenti esponenti (o detriti) del potere, a Budapest come a Mosca. Su quest’ultimo versante il quadro è inevitabilmente impietoso, con l’assommarsi di ipocrisie e cinismi, di opportunismi e disumanità. Fra le macerie del vecchio regime e l’emergere di nuovi scenari, la figura di Nagy acquista invece spessore proprio per le sue umanissime debolezze, le sue contraddizioni, le sue incertezze, nell’incalzare degli eventi: la sua scelta definitiva a favore della rivoluzione acquista valore maggiore, non minore, proprio perché prende corpo in modo non indolore, in presenza di acutissime tensioni. Prevale, alla fine, su abiti mentali radicati. Vi sono poi le pagine relative all’epilogo del dramma, il secondo intervento sovietico e le feroci repressioni che ne seguirono. Sono evocati anche gli ultimi momenti di simbolica protesta: il «coprifuoco» che la popolazione si autoimpone per un’ora, il 23 novembre, con le strade deserte e silenziose a un mese esatto dall’inizio della rivolta. E poi le centinaia di donne che attraversano la città per deporre fiori al monumento del milite ignoto il 4 dicembre, un mese dopo la seconda invasione sovietica.(...)
Altri frammenti del racconto di Dalos evocano non solo un passato tragico ma anche il prolungarsi di una oppressione priva di valori e ragioni, quasi grottesca nel suo atteggiarsi. Incapace di accogliere istanze anche minime di libertà. Si leggano le richieste avanzate nell’autunno del 1955 da 59 scrittori ungheresi, destinate a provocare una durissima risposta del regime: fra esse vi era il ritorno sulle scene di un grande testo della tradizione nazionale, La tragedia del l’uomo di Imre Madachs, vietato dalla censura perché ritenuto troppo pessimista, e del balletto Il mandarino meraviglioso di Béla Bartók, considerato decadente. Più di dodici anni dopo, nel febbraio del 1968, il primo coagularsi della protesta degli studenti polacchi sarà innescato dalla censura imposta a un classico teatrale del primo Ottocento, inserito nei programmi scolastici anche nel regime comunista e rappresentato più volte, Gli avi, di Adam Mickiewicz: in quella messa in scena del Teatro nazionale, e in quel clima, la protesta del dramma contro l’oppressione zarista veniva evidentemente ad avere un significato più ampio. Pericolosamente più ampio. Un anno dopo, nella Mosca del 1969, verranno vietate persino alcune rappresentazioni di Cechov perché «le regie forzano in senso pessimistico anche queste opere». Lo riferisce la relazione che introduce una riunione della Direzione del Pci, e Gian Carlo Pajetta commenta: «A me dispiace molto se la censura impedisce una certa regia di Cechov (…). Dico che di queste angosce ne abbiamo avute e ne avremo, ma noi oggi dobbiamo scriverlo questo?». All’ordine del giorno di quella riunione, nell’aprile del 1969, vi sono la situazione cecoslovacca e i rapporti con l’Urss, e sempre Pajetta si chiede: per la Cecoslovacchia «dovevamo fare di più? Penso di no. Noi non dobbiamo esercitare una funzione che, per eufemismo, chiamerei di disturbo (…)non possiamo continuamente richiamare il 21 agosto». E Luigi Longo, segretario del partito, nella riunione successiva: «Noi non possiamo tornare a ripetere cose dette, che abbiamo fatto bene a dire ma che oggi sarebbero anacronistiche». Non siamo più, appunto, al 21 agosto del 1968, quando il Pci espresse il suo «grave dissenso» per l’invasione della Cecoslovacchia marcando una cesura importante e positiva rispetto al 1956, rispetto al sostegno dato allora ai carri armati sovietici. All’indomani stesso di quel «grave dissenso» inizia però un sotterraneo arretramento che – pur fra distinguo e contraddizioni – porta in pochi mesi il Pci alla sostanziale accettazione della durissima «normalizzazione» voluta da Mosca.
È difficile oggi comprendere appieno le ragioni di quell’arretramento, così come ci appare del tutto incomprensibile la flebile sensibilità a questi temi dell’area culturale e politica emersa in quei mesi alla sinistra del Pci: la «generazione del Sessantotto», la generazione e il movimento di cui ho fatto intensamente parte. Quel giovane movimento intellettuale, che rivendicava a gran voce «l’impossibile», ebbe poco tempo e sguardi solo fuggevoli per altri giovani, per i quali l’«impossibile » era – come per gli studenti ungheresi del 1956 – libertà di parola e di stampa, di associazione e di voto. Ebbe una solidarietà superficiale e distratta per la Cecoslovacchia, vibrò di poche passioni per essa ed ebbe molte diffidenze per il suo «nuovo corso», pur condannando l’invasione sovietica (vi fu anche qualche piccola frangia che la approvò, come la approvarono Cuba e il Vietnam, presi in quegli anni a simbolo di un comunismo alternativo). Attenzione ancora minore fu dedicata agli studenti e ai professori polacchi espulsi, perseguitati e incarcerati a seguito di una campagna di regime dai forti accenti antisemiti, mentre degli altri fermenti dell’Est neppure si seppe, o si volle sapere. Eppure non mancò chi provò a dire con parole semplici a quella «nuova sinistra» dell’Occidente quanto fosse vecchia e ottusa. Lo disse Leo Huberman: «I cecoslovacchi volevano democratizzare il sistema (…). Il bilancio era a questo riguardo veramente terribile: spaventose violazioni delle libertà civili; arresti in massa; torture e confessioni truccate; privazione della libertà e della vita per un grandissimo numero di persone (…). Perché i cechi non avrebbero dovuto voler democratizzare il sistema? Essi volevano la libertà di parola e di stampa, cosa c’è di delittuoso in questo?». Non ebbe grande ascolto, Huberman. Ci volle il disperato suicidio di protesta del giovane Jan Palach, nella Praga del gennaio del 1969, per provocare qualche sussulto, qualche ripensamento, ma non si andò troppo in profondità. Pochissime le eccezioni: Praga è sola scrisse «il manifesto», e mai titolo fu più vero. Sola, come Budapest nel 1956. Difficile nasconderlo: quella cecità, quella insensibilità intellettuale e umana segnalano le crepe profondissime di una cultura che si voleva libertaria e innovativa ed era invece soffocata sul nascere da una arcaica ideologia. Certo, non è questo il tema di Ungheria, 1956, ma anche a questo il libro costringe a pensare. Ed è bene che ciò avvenga.