Agi 14.10.06
PRC: COMUNISTA? MA IN SINISTRA EUROPEA GIÀ NON C'È...
Chiamarsi comunista "dal punto di vista del partito, francamente non è la cosa più rilevante...".
Fausto Bertinotti nei giorni scorsi a Budapest, per condannare uno dei capitoli piu' bui del comunismo realizzato nei paesi dell'Est, ha detto di essere comunista per "tigna" e ha spostato l'asse di riferimento culturale del comunismo dal "tempo brevissimo del '900" al "piu' lungo corso della storia: dalla rivolta di Spartaco, ai Ciompi alle comunita' dei gesuiti in America latina...". Un confronto, quello sul nome e sul simbolo, che da tempo attraversa Rifondazione comunista ed e' segnato proprio dalle 'svolte' volute dall'ex segretario, fino al via libera che il Comitato politico nazionale (Cpn) del partito, oggi guidato da Franco Giordano, si appresta a dare alla costruzione della Sezione italiana della Sinistra europea (Se).
Il primo appuntamento sara' il congresso fondativo della prossima primavera, dove Rifondazione si ritrovera' ("alla pari") assieme alle altre forze politiche e di movimento che hanno aderito al progetto, a partire da Uniti a sinistra, il gruppo che fa capo agli ex diessini Pietro Folena e Antonello Falomi. Obiettivo finale per il 2008, annuncia dalla tribuna dell'hotel Jolly (anche questa una prima assoluta per una riunione del 'parlamentino' di Rifondazione) il coordinatore della segreteria, Walter De Cesaris, un soggetto politico nuovo, dove "ogni testa contera' un voto".
"Sono le leggi della politica a dire - osserva Salvatore Cannavo', capofila della minoranza trotzkista, Sinistra critica - che il partito nuovo sostituisce quello vecchio... e, d'altronde, in Sinistra europea il nome comunista gia' non c'e' piu'". Per quanto ci riguarda, dice ancora Cannavo', che si colloca in una posizione potenzialmente scissionista ("Il nostro rapporto con Se e' come quello di Mussi con il Pd"), "la questione non e' tanto quella del nome, ma della collocazione politica e culturale: Se nasce al governo e non all'opposizione e sceglie un orizzonte socialdemocratico distante da quello anticapitalista e di classe. Noi non vogliamo morire socialdemocratici".
Opposta la valutazione di Franco Giordano, che da un lato conferma la permanenza e l'autonomia del Prc anche dentro Se e dall'altro insiste sulla necessita' di "accelerare il processo di innovazione politica e culturale. Lo abbiamo fatto ponendo il tema della nonviolenza, della necessita' di fuoruscita da uno schema di occupazione del potere e di sostituzione pura e semplice al ceto politico dominante e ora provando a mettere in discussione la definizione di un nuovo rapporto nella cultura marxiana del binomio liberta'-uguaglianza, rispetto a quello consegnatoci dal '900". (AGI) -
La Stampa Tuttolibri 14.10.06
IL MARCO POLO DEGLI ARABI
Dal Mediterraneo a Indiae Cina i viaggi di Ibn Battuta
Cercare le sue tracce nell’India di oggi
di Alessandro Monti
IL viaggiatore intraprendente può riferirsi a I viaggi di Ibn Battuta, in contrappunto al prezioso volume The Hall of a Thousand Columns di Mackintosh-Smith (John Murray General Publishing Division, London, 2005), come a una guida di percorsi indiani fuori dalla vie battute e consuete. Per cominciare, tuffiamoci in quanto rimane della Delhi musulmana del quattordicesimo secolo, anteriore quindi alla ben nota città dei Mogul. Seguendo le istruzioni di Ibn Battuta dobbiamo individuare Siri, la parte di città edificata dal sultano Muhammad Shah. Restringendo ancora la zona, bisogna raggiungere il quartiere di Begumpur, o più correttamente Jana-Panah, trovare la bellissima moschea omonima, al cui nord si trova quanto resta del palazzo di Muhammad, con la sala delle mille colonne, così descritta da Battuta, «Questa terza porta si apre sulla colossale, gigantesca sala ove si tengono le pubbliche udienze del sultano, detta Hazar Ustun, cioè
in persiano "mille colonne", per via delle colonne in legno dipinto sotto cui siede la gente». Allora il luogo rifulgeva di oro e di gemme, l'aria era addolcita dall'acqua di rose spruzzata, oggi delle colonne lignee rimangono solo gli zoccoli, meno di mille comunque, e la gente usa il luogo per defecare. Del palazzo rimane una torre ottagonale, arenaria rossa e marmo bianco, la Vijay Mandal, o Dimora della Vittoria. Ma chi era Muhammad Shah? Battuta lo descrive come «un uomo che più di chiunque altro si compiace a elogiare doni e a spargere sangue: alla sua porta ci sono sempre un povero in procinto di arricchirsi e un uomo vivo che verrà messo a morte». L'ascesa al trono del sultano seguì la prassi consueta di un uccisione parentale, in questo caso lo zio, anche se l'uccisione del padre e le atrocità assortite, come impagliare il corpo di un ribelle ed esporlo in giro per il regno, travalicavano il tasso di crudeltà considerato allora accettabile. È ancora possibile oggi identificare, tra quanto resta del palazzo, la Porta dell'Elefante Assassino, Khuni Hathi Gate, al cui esterno sedevano i boia e dove i ribelli venivano straziati da elefanti con lame fissate alle zanne (la porta è in prossimità del Vijaay Mandal). A Delhi è possibile rintracciare due altre testimonianze di costruzioni risalenti ai tempi di Battuta: se le mura e le sue ventotto porte sono pressoché scomparse, rimangono ancora i due bacini allora fuori Delhi. Del primo, situato oggi nell'area di Mehrauli, si conserva la struttura a gradini, e nel centro del bacino una costruzione a cupola con un colonnato, mentre si sono persi i padiglioni adiacenti con i campi di cetrioli, meloni e canne da zucchero. L'altro bacino, considerato "privato", era circondato da 40 tempietti e dal quartiere dei musicanti, da moschee e da un mercato definito da Battuta «tra i più grandi al mondo». Oggi il bacino è asciutto, ma da lì si gode una magnifica vista, che dalla vegetazione boscosa che lo circonda si estende sugli edifici di una Delhi musulmana fuori dal tempo. A corte Battuta ebbe l'incarico di sovrintendere al mausoleo funebre di Qutbal-Din, un predecessore del sultano e come lui notorio per crudeltà, anche se salì al trono quando aveva 17 anni e morì a 21. Benché il mausoleo avesse una cupola di cento cubiti oggi non ne rimane traccia. Stanco della vita di corte Battuta vuole ritirarsi dal mondo e dedicarsi all'ascesi sotto la guida di un uomo santo, Al-Ghari, che viveva in una grande grotta sotterranea alle porte di Delhi, dove «scavò una grande caverna e vi ricavò una serie di stanze e magazzini, un forno e un bagno», arricchitosi con le coltivazioni e l'allevamento del bestiame. Il posto dovrebbe essere situato sulle rive del fiume Yamuna, e forse corrisponde alla tomba di Dada Pir, con sei gradini che conducono alla dimora originale del santo. Il posto è localizzato nei pressi della tomba di Humayun e oltre un tempio sikh, il guru Gurdwara Damdana Sahib e l'ospizio del nobile Nizama al-Din, in un groviglio di alberi. Infine Ibn Battuta lascia Delhi, in missione diplomatica per la Cina, probabilmente nell'agosto 1341. Giunto ad Aligarh, Kuwil ai suoi tempi, situata a 75 miglia a sud-est di Delhi, è attaccato con il seguito da induisti ribelli. Battuta è preso prigioniero e rimangono uccisi circa ottanta dei suoi compagni, tra cui l'eunuco Kafur, ossia Canfora, un alto dignitario. Se si esce da Aligarh e si prende la Great Trunk Road si arriva per successive biforcazioni secondarie nella regione Doab, tra due fiumi, attorno al fiume Kali Nadi. Oltre il villaggio di Paharipuri, vi è un luogo santo dedicato a un Ali Shahid, fuori vi sono quattro tombe, quelle di Malik Kafur e di tre altri compagni di Battuta caduti nello scontro. Per concludere, Battuta riesce a scappare e dopo molte peripezie, tra cui una notte passata in una giara per il grano, raggiunge la salvezza. Nei villaggi della zona sono ancora in uso giare di grandi dimensioni, kothia, con una porta e una larga base, coperta di paglia tritata. Un'ultima osservazione, la traduzione parla, a proposito della geografia dei luoghi, di un "alto monte". Il termine, che traduce jabal, dovrebbe riferirsi in realtà a insignificanti gobbe del terreno, che tuttavia spiccano in un panorama di estrema piattezza come quello del Doab.
FIGLIO DI UNA FAMIGLIA DI GIURISTI MAROCCHINI, PARTÌ VERSO L’EGITTO E ARRIVÒ ALLE MALDIVE
di Elena Loewenthal
L’IMMAGINE è nitida a dispetto del tempo trascorso, della distanza geografica, di un universo linguistico per noi irraggiungibile. Non è propriamente un'immagine, piuttosto una sequenza che in un trittico tutto racchiude. Dapprima ecco un ragazzo che sale a cavallo e si dirige verso Oriente. Siamo a Tangeri, città sulla costa mediterranea del Marocco, il 14 giugno del 1325. Poi c'è un uomo, attempato ma non ancora vecchio, che narra i propri viaggi. Un altro, assai più giovane, annota puntuale il racconto non senza ogni tanto metterci timidamente del suo: una nota, una precisazione, il rimedio ad una svista. L'immagine si è spostata a Fes, città marocchina da sempre rinomata per la concia delle pelli, che rende l'aria densa di odori e colori. E' passato molto tempo: siamo infatti nell'inverno del 1356. Nell'ideale simmetria di queste due scene, al centro sta un'immagine quasi futurista, un vortice di mogli e bagagli: «Quando il visir seppe che, pagati i miei debiti, ero in procinto di partire, si pentì di quel che aveva detto e temporeggiò nel darmi il permesso di mettermi in viaggio. Io giurai solennemente che dovevo andarmene a tutti i costi, quindi portai i miei bagagli in una moschea sulla costa e ripudiai una delle mie mogli - un'altra era incinta e fissai un termine di nove mesi oltre i quali, se non fossi tornato, era libera di fare quello che voleva, mentre portai con me la moglie che era stata sposata con il sultano Shihab al-Din, perché volevo restituirla a suo padre che viveva nell'isola di Muluk, e la mia prima moglie, la cui figlia era sorella della sultana». Il protagonista di queste situazioni è naturalmente lo stesso, colto in momenti diversi di una vita tutta compresa in un viaggio. Si tratta di Ibn Battuta, le cui peripezie, grazie alla certosina, competente cura e traduzione dall'arabo di Claudia Tresso (la quale ha dedicato al viaggiatore un tempo d'impegno non troppo distante da quello che lui trascorse in giro per il mondo a divertirsi) sono ora a disposizione del lettore italiano in un volume dei Millenni Einaudi con le splendide illustrazioni del compianto Aldo Mondino (I viaggi, pp. 885, e85). Il Marco Polo della civiltà araba - anche se a ben guardare le differenze fra i due sono molte - nasce in una illustre famiglia di giuristi marocchini d'ascendenza berbera. A ventun'anni, spinto da chissà quale impulso, parte da solo verso Oriente: siamo nel giugno del 1325. Dieci mesi dopo troviamo Ibn Battuta nell'Egitto dei mamelucchi. Sono forse i fasti del Cairo a convincerlo di essere predestinato a un'avventura senza meta, che lo porterà lontano: «L'andirivieni dei suoi abitanti la rende simile al mare che ondeggia; benché vasta e capiente, (la città) pare impossibile che li contenga tutti». Il giovane Ibn Battuta volta dunque le spalle a casa e prosegue verso Palestina e Siria. A Damasco si aggrega a una carovana di pellegrini diretti alla Mecca, dove arriva nel novembre del 1326. La venerabile città dell'islam non lo lascia certo senza fiato né parole, anzi: «È posta in una valle deserta, ma la santa prece di Abramo si è volta in suo favore: vi s'importa ogni cosa e per lei si raccolgono frutti d'ogni specie - io stesso vi ho gustato uva, fichi, pesche e datteri che non hanno pari al mondo... senza contare i meloni, ineguagliabili per profumo e dolcezza. La carne è bella grassa e mangiarla è una delizia...». Dopo qualche escursione in Persia e Iraq, il nostro torna alla Mecca e vi rimane tre anni, immerso nello studio. Lungo i quasi trent'anni in giro per il mondo sarà infatti suo costume alternare periodi in cui assapora la vita terrena ad altri di eremitaggio. Lasciata la Mecca eccolo giù per il Mar Rosso, su entrambe le sponde, e poi di nuovo verso Nord: Egitto, Siria, Anatolia. Qui s'imbatte nel sufismo dei dervisci danzanti e, imbarcato su una nave di cristiani, attraversa il Mar Nero, passa in Crimea e si addentra nella steppa. Esplora il Caucaso ma poco dopo lo ritroviamo a Costantinopoli. Dove incontra la civiltà bizantina, visita con un certo timore il palazzo: ha paura di non comportarsi come l'etichetta a lui estranea richiede. Per fortuna, però, che uno degli uomini della scorta lo prende per la veste. E' un ebreo, che lo rassicura «in arabo»: «”Non temere: fanno sempre così con gli stranieri! Io sono l'interprete e vengo dalla Siria”. Allora gli chiesi come dovevo salutare: “Dì: al-salam alaykum”». Passando per l'Asia Centrale, Ibn Battuta arriva in India: siamo al 1333. E' tempo davvero di prendere respiro, e per sette anni il nostro viaggiatore resta al servizio del sultanato di Delhi. Non che qui non abbia più nulla da raccontare, anzi. Donne, aneddoti, lotte più o meno intestine: una vita tutt'altro che banale. Ibn Battuta non manca mai di esercitare la propria curiosità, uno spirito critico denso di intelligenza e una levità tutta particolare. Da ogni frase che, tanti anni dopo di allora, detterà al suo giovane copista, emerge una profonda passione e un rispetto inderogabile per la vita. «Nonostante quanto abbiamo detto circa l'umiltà, il senso di giustizia, la compassione verso i poveri e la straordinaria generosità del sultano, egli era decisamente incline a versare il sangue», commenta per introdurre la terrificante scena di un uomo tagliato in tre pezzi.
Lasciata finalmente l'India, Ibn Battuta raggiunge la Cina e, travolto da varie disavventure, approda in quel paradiso allora davvero incontaminato che sono le Maldive. Qui sarà qadì per un anno e mezzo. Merito, certamente, anche delle donne del posto, che «non si coprono la testa: nemmeno la sovrana. Si pettinano raccogliendo i capelli tutti insieme da una parte e la maggior parte indossa solo un drappo che copre dall'ombelico ai piedi, lasciando nudo tutto il resto del corpo - e se ne vanno in giro così, al mercato e altrove!». In effetti ne sposerà più d'una. In seguito visita Sri Lanka e India Meridionale e nel 1345 comincia la via verso un rapido ritorno, che già nel 1349 lo riporta a Fes. Se non fosse che, prima di fermarsi davvero, l'ormai maturo viaggiatore si toglie ancora il gusto di vedere la Spagna, il Sahara e un bel pezzo del Nord Africa che gli mancava. Il mondo di Ibn Battuta è, prima ancora che sconosciuto, divertente. E' un mondo umano, per niente astratto, quasi senza storia perché il viaggiatore è attento al presente, sempre interessato dalla gente: patito di cibo e natura, più che di monumenti. Di aneddoti spiritosi, più che di esempi edificanti. Egli è fiducioso, ma non credulone, come quando riserva una larvata ironia al luogo mitico dove le donne tornano vergini ogni mattina dopo l'amore. Guarda a ciò che non conosce senza pregiudizi, è sempre disposto a imparare qualcosa di nuovo, ma non strabilia. Indenne dal puro incanto, non annoia mai il suo lettore. Lo spazio dei suoi viaggi è la umma, il territorio dell'espansione islamica. Eppure egli cerca sempre le differenze, mai la monotonia: nelle donne così come nel paesaggio, nei cerimoniali così come nei cibi esotici che assaggia e ogni tanto gli causano atroci mal di pancia. E così, a dispetto dei secoli trascorsi, leggendo ci si sente affascinati come il giovane Ibn Juzzay quando, nel lontano 1353, trascorse il rigido inverno del Marocco centrale a capo chino con la penna in mano, scrivendo e scrivendo mentre Ibn Battuta dettava le sue incredibili, verissime avventure.
Il Sole 24 Ore 15.10.06
Ritmi nel tempo
Duelli a colpi di jazz
di Gian Mario Matetto
Di Enrico Pieranunzi, uno dei maestri mondialmente più noti del nostro jazz, potremmo legittimamente pensare, dopo trent'anni (oggi ne ha cinquantasette), di conoscere ormai tutto. Eppure ancora ci sorprende, ogni volta, la sua capacità di mutare esperienze, compagnie, maniere, organici, perfino attività (come scrittore ha dedicato un ottimo libro all'amato capostipite stilistico Bill Evans). Naturalmente, a guardare in così variegata carriera, verrebbe fatto di azzardare che il suo terreno prediletto sia il canonico piano trio: tanti quelli che ha capeggiato, con partner italiani, europei, americani. Proprio due colossi statunitensi completano la triade più illustre: il contrabbassista Marc Johnson e il batterista Paul Motian. Da poco la Egea ha recuperato Untold story, che nel 1993 fu il primo disco (edito da una defunta etichetta francese) di un connubio che da subito poneva in evidenza le tre individualità e il loro "architettonico" insieme.
Ma l'odierno felice momento dell'infaticabile pianista romano non si ferma certo a uno storico capolavoro da onorare: un'attuale variante di quel trio con un altro statunitense, Joey Baron, al posto di Motian viene dalla Cam jazz con l'eccellente Ballads, registrato nel 2004.
Molto successo (anche per il seguito che in cento concerti sta continuando ad avere) ha poi il rinnovato incontro di Pieranunzi con la sensibile cantante Ada Montellanico, fissato dalla Egea nel disco Danza di una ninfa. E un omaggio alla memoria di Luigi Tenco, dai due già rievocato tempo fa; ora con eleganza e personalità tornano a interpretarne l'umore, anche in testi poetici inediti, trovati nei cassetti segreti dell'indimenticabile cantautore e da loro stessi musicati.
Ma c'è di più. Una combinazione in cui Pieranunzi ha toccato assai alte vette artistiche è il duo. Si pensi a quel sopraffino Duologue del 2004 con Jim Hall, l'indiscusso "poeta della chitarra jazz" (lo ha pubblicato la Cam jazz). Ora sotto il titolo Live conversations la giovane e coraggiosa etichetta Abeat ci offre un inedito e non preparato duo pianistico, ovvero Pieranunzi "con" e "contro" un altro italiano di fama internazionale, Dado Moroni. In quel match (registrato in un festival a Gallarate, un anno fa) scoccò una rara scintilla: bene intendendosi, in un'antifonale controbattersi di "domande e risposte", ognuno dei pianisti ha gettato nella fornace del jazz una quantità sorprendente di idee, trovate, citazioni. Tante e così vive che non uno ma cento dischi se ne sarebbero potuti fare.
Liberazione 15.10.06
La sinistra europea, molteplice e unitaria
Il cpn che si concluderà oggi dà il via al percorso che porterà alla nascita del nuovo soggetto dell’alternativa. «Quella di cui si discute non è la nostra finanziaria, va migliorata ma introduce un cambio di rotta significativo»
di Stefano Bocconetti
Molteplice ma unitario. Per capire e per chi ha un po’ di dimestichezza col linguaggio sindacale: confederale. Insomma, un “patto fra differenti”. Stamane il comitato politico nazionale (quello che i media chiamano per rapidità il parlamentino) di Rifondazione metterà il timbro dell’ufficialità alla partenza della Sinistra europea. Al nuovo soggetto politico della sinistra d’alternativa. Lo farà con un voto e a quel punto il percorso comincerà: via alla fase costituente, a primavera un primo appuntamento nazionale. Da cui partirà un’ulteriore fase per insediare il “nuovo soggetto” politico in tutta Italia.
Si comincia, insomma, ora è ufficiale. E di questo processo Rifondazione sarà il motore. Che tipo di motore? Ecco, allora, la discussione al Cpn iniziata ieri. Avviata appunto dal tentativo di definizione del nuovo soggetto politico tratteggiato da Walter De Cesaris. E’ stato lui, insomma, a parlare di soggetto confederale. Di un “patto” fra diversi - siano associazioni nazionali, siano l’articolatissima rete di gruppi e movimenti locali - che avranno “pari dignità” di Rifondazione in questo progetto.
Ma a De Cesaris premeva soprattutto spiegare che è arrivato il momento di definire «in positivo» il nuovo soggetto. Fino ad ora lo si è fatto solo col procedimento inverso. In negativo: non sarà la somma di personale politico, di ceto politico, eccetera, eccetera. Invece? Sarà una forza - l’unica a ben vedere - che nasce con una chiara impronta europea. E non sarà un vezzo, come suggerirà anche Graziella Mascia: perché tutti i problemi che la sinistra italiana si trova di fronte (dalla lotta alla precarietà, alla battaglia per preservare i beni comuni) rimanda ad una dimensione sovranazionale. Ad una dimensione europea. O si vince lì o non si vince. Ancora: sarà un originale progetto politico che nasce “dentro” i movimenti, sarà un soggetto che nasce per cambiare la politica. Il modo di fare politica.
E se è così, la querelle sul fatto che la Sinistra europea nasca come risposta “radicale” alla prospettiva moderata del partito democratico, finisce prima ancora di nascere. I due progetti insomma non sono in relazione, quella della Sinistra europea nasce tanto tempo fa (anzi c’è anche qualcuno, come Salvatore Cannavò, della Sinistra critica, una delle minoranze di Rifondazione, secondo il quale ci si arriva ormai troppo tardi, dopo che si è persa la chance offerta dai movimenti di inizio decennio), i due progetti non sono in concorrenza. Certo, il sottosegretario Alfonso Gianni non la pensa esattamente così (dirà che comunque «non è un caso che le due strategie arrivano a concretizzarsi contemporaneamente») ma tutti sono d’accordo che la Sinistra europea e il partito democratico si muovono in completa autonomia. Il che non vuol dire che non ci sia una sfida aperta. Insomma ora sono a confronto due ipotesi antitetiche: una, quella riformista, che accetta il quadro dato, che accetta le compatibilità imposte dal liberismo. Magari per temperarlo. L’altra che si pone come obbiettivo una vera alternativa, che prospetta una possibilità di superare i limiti imposti dal capitalismo. Una che nasce legandosi indissolubilmente all’idea di governo, l’altra prefigura una diversa società.
Sintetizzati così sembrano due percorsi facili. Ma non è così. Tanto più nel caso del partito democratico. E’ cronaca di questi giorni il dissenso totale verso la prospettiva del raggruppamento con Rutelli manifestato da settori importanti della sinistra e della stessa maggioranza diesse. Al punto che Fabio Mussi giorni fa ha spiegato che lui nel piddì non entrerà mai e ha rivelato interesse e curiosità verso la nascita della Sinistra europea. Su questo, ovviamente, sono fioccate le domande dei giornalisti che assistevano ai lavori dell’assemblea. Domande a cui, nell’intervallo dei lavori del Cpn, ha risposto il segretario Giordano (che ieri non è intervenuto ma che concluderà stamane). Lo ha fatto per ribadire che il progetto della Sinistra europea è completamente «autonomo» e avviato da tempo, ma anche per spiegare che da parte di Rifondazione c’è «rispetto e attenzione» per la discussione nei diesse. Attenzione ma nessun «incentivo a dinamiche scissioniste». Ma cosa accade davvero fra le forze riformiste? Giordano vede il fronteggiarsi di due culture: una liberal-socialista, che sembra prevalere. L’altra che definisce «socialdemocratica all’antica», keneysiana. «Tutte e due però subalterne, incapaci di disegnare una vera alternativa al liberismo».
No, la strada per costruire la Sinistra europea sarà allora un’altra. «Una strada in controtendenza rispetto alle vocazioni plebiscitarie che si affermano nella sinistra moderata, attenta alla società», dirà Ramon Mantovani, una sinistra che sappia superare anche i limiti dell’agire politico di questi anni, quella sorta di «universalismo astratto», come l’ha definito sempre Graziella Mascia.
Una prospettiva sulla quale non tutti si sono detti d’accordo. Di Salvatore Cannavò s’è detto (l’esponente di Sinistra critica dal palco ha respinto, quasi scandendo le parole, le voci che vogliono tentazioni scissionistiche della sua area ma la sua opposizione resta netta: «Se la nuova formazione sceglie un orizzonte socialdemocratico dico che non voglio morire socialdemocratico», spiegherà alle agenzie). Critici anche gli esponenti de l’Ernesto, la più consistente delle minoranze. Che comunque, così pare di capire, al suo interno esprime posizione più variegate. Fra chi, come Fosco Giannini, che sempre alle agenzie denuncia la deriva «a-comunista» della nuova formazione che si vuole costruire, ad Alberto Burgio che - anche lui all’Agenzia Italia - dice che occorre «dare vita ad una azione unitaria a sinistra, con tutte quelle forze che si schierarono sul referendum per l'abolizione dell'articolo 18».
Non tutti sono d’accordo ma la stragrande maggioranza degli interventi sì. Così come sono d’accordo che in questo processo resterà Rifondazione. Il partito della Rifondazione comunista. «Da innovare profondamente», dirà ancora Giordano in quel breve breafing coi giornalisti, ma resterà. Resterà come partito, autonomo, coi suoi simboli, con la sua cultura. Anche qui, nel dibattito sono arrivati pochi distinguo. Alfonso Gianni ha spiegato che secondo lui «la rifondazione comunista - con la r minuscola - si attua dentro la sinistra europea». Frase che qualcuno ha interpretato come l’invito a superare l’attuale forma partito, spiegazione che il sottosegretario non ha negato. Ipotesi che, come detto, non ha trovato molti consensi. Milziade Caprili, vice presidente del Senato, ha detto addirittura che questa prospettiva «sarebbe un suicidio». Certo si parla di un partito che vuole comunque innovare la sua cultura. Vuole continuare ad riflettere sul suo agire politico (e lo farà nella conferenza di organizzazione, anche questa in programma all’inizio della primavera). E deve innovare sempre di più. A cominciare dagli strumenti decisionali, che guardano ancora al secolo scorso, come dirà Elettra Deiana e in qualche modo anche Nicola Fratoianni.
Ecco, nel «parlamentino» di Rifondazione si discute così. E si discute così nel vivo di uno scontro durissimo, quello sulla finanziaria. Maurizio Zipponi, nella sua comunicazione sul tema, ha ricordato che «questa non è la finanziaria del Prc», che certo non ci piace in tutte le sue parti - a cominciare dalle sue dimensioni visto che Rifondazione avrebbe preferito «spalmare» il rientro nel famoso 3,1 per cento in più anni - ma è un documento che comincia ad affermare una prima, timida, inversione di rotta. Soprattutto nella parte dove si ridisegnano le aliquote fiscali. Cominciando a redistribuire reddito verso i ceti più bassi. «E meglio di noi, i padroni sanno benissimo che quel che conta è la direzione di marcia. - dirà ancora l’ex dirigente della Fiom - E infatti Montezemolo s’è schierato all’opposizione di questa finanziaria». Una tesi che non convince affatto, però, Giorgio Cremaschi. Lui parla apertamente di finanziaria socialiberista, al massimo «onestamente democristiana». Con pesanti attacchi allo Stato sociale, di cui forse troppo poco s’è parlato. Perché Cremaschi spiega che è sbagliato dire che «la finanziaria non mette mano alle pensioni. Non lo fa dal lato dei soldi che arrivano ai pensionati, rimandando comunque ad una trattativa col sindacato da iniziare a gennaio. Ma già ora, lo fa aumentando le quote di versamenti a carico del lavoro». Finanziaria da contrastare, allora. «Ma come si fa, se non la si descrive per quel che è?». Anche altri, esprimono tanti dubbi. Fino all’amministratore di un grande Comune della Toscana che, conti alla mano, spiega come quella di Padoa Schioppa per gli enti locali sia peggiorativa rispetto a quelle di Tremonti. E tutti, tutti gli interventi, diranno che comunque è da migliorare. In molte sue parti. Con la battaglia parlamentare ma soprattutto facendo leva sui movimenti. A cominciare dalla manifestazione dei precari del 4 novembre. Oggi, riprende il dibattito e poi le conclusioni di Giordano.
l’Unità 15.10.06
«Comunista», l’ultimo tabù di Rifondazione
Il superamento dell’aggettivazione divide. Giordano sul Pd: «Non sollecitiamo scissioni...»
di Wanda Marra
IL CAMMINO della sinistra europea è «autonomo» rispetto a quello del partito democratico. Ed è proprio quest’ultimo a creare qualche «elemento di instabili-
tà» nell’Unione. Franco Giordano, mentre ieri e oggi è in corso il Comitato politico nazionale del suo partito, ci tiene a mettere i puntini sulle i, proprio quando Rifondazione è alla finestra per sapere quali saranno le mosse della sinistra Ds. Per la quale se sembra esclusa un’eventuale entrata in Rc, appare invece molto plausibile un’adesione a Se. Come, è tutto da vedere. Intanto, Giordano mette le mani avanti di fronte a qualsiasi incitamento da parte di Rifondazione ad un’eventuale scissione dei Ds: «Da parte nostra non arriva nessuna sollecitazione scissionista». Ma contemporaneamente non nega «l'osservazione attenta» a ciò che accade dentro la Quercia. La porta della Sinistra Europea rimane aperta, dunque, ma se Giordano sottolinea come ci sia «profondo rispetto» per il progetto politico messo in campo dai Ds-Dl, dall'altro lato «bacchetta» la discussione intorno al Partito Democratico che, secondo il suo ragionamento, «crea qualche elemento di instabilità per la coalizione». Per la Se il primo appuntamento sarà il congresso fondativo della prossima primavera, dove Rifondazione si ritroverà («alla pari») assieme alle altre forze politiche e di movimento che hanno aderito al progetto, a partire da Uniti a sinistra, il gruppo che fa capo agli ex diessini Folena e Falomi. E sempre ieri c’è stata un’assemblea dell’associazione RossoVerde, convocata per discutere dell'adesione alla fase costituente della Sinistra europea (presenti tra gli altri, Piero Di Siena, Maura Cossutta e Tiziano Rinaldini). Obiettivo finale di Rifondazione per il 2008, come annuncia il coordinatore della segreteria, Walter De Cesaris, un soggetto politico nuovo, dove «ogni testa conterà un voto». Ma nel partito c’è più di un mugugno. «In Sinistra europea il nome comunista già non c'è più», dice Salvatore Cannavò, leader della minoranza Sinistra Critica. Che avverte: «Il nostro rapporto con Se è come quello di Mussi con il Pd». Dibattito invece nell’Ernesto, la minoranza guidata da Grassi più cospicua di Rc: un’ala, capeggiata da Fosco Giannini, vorrebbe un’opposizione più dura alla deriva «a-comunista» del Prc, e una con lo stesso Grassi, ritiene sbagliata la strada di Se, ma intende mantenere il confronto nel partito, «per riportarlo in carreggiata». Le preoccupazioni della minoranza ricevono fiato anche dalle parole di Bertinotti da Budapest, che aveva detto a proposito di Rc: chiamarsi comunista «dal punto di vista del partito, francamente non è la cosa più rilevante...». I malumori però sono anche all’interno della maggioranza. Dove Alfonso Gianni, sottosegretario allo Sviluppo economico e già stretto collaboratore di Bertinotti, accelera e parla di «superamento» di Rifondazione nel quadro di Se: «Dobbiamo attuare la rifondazione comunista, con la 'r' minuscola all'interno del nuovo soggetto». Posizione che al momento appare isolata. Per tutti, gli risponde il vicepresidente del Senato, Caprili: «Qualsiasi ipotesi di scioglimento di Rifondazione sarebbe un autogol». Altro punto all’ordine del giorno del Cpn, la Finanziaria. E se Giordano prende atto dei segnali positivi («Non è la nostra manovra, ma eviteremo qualsiasi peggioramento», le minoranze ci tengono a sottolineare che la manovra così com’è proprio non può essere digerita. Ma il monito più duro è quello di Cremaschi, leader della sinistra della Cgil: Rifondazione si impegni a cambiare questa Finanziaria «di impianto social-liberista o al massimo un’onesta Finanziaria democristiana», rifiuti eventuali future intese sulle pensioni o su patti per la produttività, altrimenti Prc e anche Se «cadranno nella peggiore contraddizione per una forza di sinistra: quella tra il cielo della filosofia e la miseria della politica».
Il Sole 24 Ore 15.10.06
Scambi di ruoli. Ed Hermann curò il suo analista
Hesse e il dottor Lang: dalle lettere tra i due si scopre che il medico era più depresso del paziente. E innamorato della donna che il Nobel sposò
di Alessandro Melazzini
Nel 1916 Hermann Hesse è a pezzi. Al dolore famigliare per la morte del padre, la malattia di un figlio e il tracollo psicologico della moglie si aggiungono le pubbliche calunnie. Dallo scoppio del primo conflitto mondiale Hesse vive in Svizzera, pubblicando articoli pacifisti. I suoi scritti inneggianti alla comprensione tra i popoli gli attirano le aspre critiche degli ambienti nazionalisti tedeschi. Depressioni e pensieri suicidi sono all'ordine del giorno. Ma se il fratello Johannes nel ‘35 compirà veramente l'irreparabile gesto, l'idea della morte volontaria rimane per Hermann solo e sempre un «confortante pensiero». A salvarlo dai cupi propositi è il suo psicanalista Josef Lang, con cui lo scrittore intrattiene un ampio carteggio, ora pubblicato dalla Suhrkamp di Francoforte (Die dunkle und wilde Seite der Seele, II lato oscuro e selvaggio dell'anima. Carteggio 1916-1944, pagg. 444, €24,80).
Uno dei primi consigli terapeutici del medico è quello di darsi alla pittura. Dopo «lunghe resistenze» il paziente si lascia convincere. Negli anni acquisterà sempre più confidenza con il pennello, dipingendo molte e piacevoli vedute paesaggistiche. Ma il nuovo hobby di Hesse si ripercuote direttamente anche nella sua opera letteraria: E infatti proprio dipingendo che il protagonista del Demian (1919) riesce a manifestare le immagini del subconscio.
Il romanzo è talmente permeato di simbologia psicanalitica da attirarsi l'incondizionata lode di Carl Gustav Jung, il quale confessa all'autore di considerare quello scritto come «un faro durante una notte di tempesta».
Nel novembre del '17 ii futuro premio Nobel racconta al dottor Lang di aver sognato se stesso ragazzo, intento a strimpellare il violino di fronte ai compagni del collegio. Ma nessuno dei due pare accorgersi che la scena è tratta dal romanzo Sotto la Ruota (1906), frutto dell'elaborazione letteraria di una negativa esperienza scolastica. Parimenti il sogno di un ballo in maschera, una «festa di artisti, tutti in costume, in parte grottesca e in parte molto bella» anticipa la fantasmagorica danza mascherata a cui dieci anni più tardi parteciperà Il Lupo della Steppa (1927).
Nel corso degli anni il rapporto professionale diviene amicizia e sempre più spesso il dottor Lang si confida con il proprio paziente. La verità è che egli è depresso quanto Hesse. Anzi di più, visto che i suoi tentativi di scrittura artistica non incontrano il pieno favore dell'amico-paziente. «Non abbandoni la cosa così presto! Non già ora! Per me è stato lo stesso con la pittura» lo rincuora allora bonariamente Hermann Hesse. Lang rasserenato ringrazia, confessando di considerare il suo ex-paziente come «il buon padre, che mi conduce all'arte». E tuttavia s'incupisce sempre più, meditando addirittura pensieri gnostici sul mondo quale «prodotto di un dio maligno». Problemi famigliari e insoddisfazioni professionali, uniti alla crescente confidenza con lo scrittore, lo spingono a dar libero sfogo alle proprie frustrazioni. «Ciò che non mi piace delle sue lettere è l'atteggiamento pessimista verso la vita» arriva a rimproverarlo Hesse, per poi esortarlo a smettere una buona volta di pensare «che tutto il mondo l'abbia piantato in asso». Ormai è il dottor Lang a cercare conforto nel suo paziente di un tempo, raccontandogli financo i propri imbarazzanti sogni. Una notte immagina il proprio corpo «gonfiato talmente da occupare tutta la stanza», un'altra si sogna addirittura lo stesso Hermann Hesse. Forse è anche conoscendo meglio il proprio dottore che la fiducia di Hesse verso la psicanalisi va scemando: «Come sostituto della vita vera utilizzo due begli anestetici: il lavoro artistico e il vino». In verità non disdegna neppure l'oppio e le donne. E allora Lang lo imita concedendosi qualche flirt. Nel '20 prende una breve cotta per la cantante Ruth Wenger. Qualche anno dopo sarà invece lo stesso Hermann Hesse a mettere gli occhi sulla donna, arrivando a sposarla in seconde nozze nel 1924. Ii dottore non se la prende e, augurando alla coppia ogni bene, assicura all'amico che, secondo i suoi calcoli astrologici, il matrimonio nasce sotto una buona stella. Tre anni dopo gli sposi avranno già divorziato.
Con le mogli del suo amico-paziente il povero Lang non sembra proprio avere fortuna. Nell'agosto del '39 confessa all'amico di essersi scoperto anch'egli «antisemita» per via di una brutta esperienza con degli avvocati ebrei. A stretto giro di posta arriva il cicchetto di Hermann: «Penso tu non abbia alcuna idea di cosa significhi quella parola». Lang si è scordato che la (terza) moglie di Hesse «è ebrea, e la tua dichiarazione di antisemitismo l'ha spaventata e addolorata profondamente». Nonostante il passo falso l'amicizia tra i due prosegue negli anni, fino a quando nel '44 l'aggravarsi delle condizioni mentali costringe il medico al ricovero. Josef Bernhard Lang muore nel '45 come paziente nella stessa clinica in cui prima aveva operato come dottore. E una tragica conferma della tagliente battuta di Kraus sulla psicanalisi, da lui perfidamente definita come quella «malattia di cui essa stessa ritiene essere la cura».
Corriere della Sera 15.10.06
Memorie di una libertina. A settant’anni
di Stefano Bucci
Niente sesso, siamo inglesi era il titolo di una bella commedia, firmata da Anthony Marriott e Alistair Foot, tutta giocata sulle (più o meno presunte) paranoie del popolo anglosassone in materia di piaceri della carne (in Italia Garinei e Giovannini ne avevano fatto una bella versione musical con Johnny Dorelli). Seguendo un'ipotetica legge del contrappasso Lussuria, il romanzoscandalo di Joào Ubaldo Ribeiro che il Cavallo di Ferro manda ora in libreria, potrebbe al contrario intitolarsi Tanto sesso, siamo brasiliani. Ovvero come dimostrare che «sotto l'Equatore il peccato non esiste».
Quarto volume di una collana dedicata ai sette peccati capitali edita da Objectiva, Lussuria (uscito nel 1999) racconta in prima persona «le incredibili esperienze sessuali di una donna di sessantotto anni, nata a Bahia e residente nella Rio de Janeiro dei nostri giorni, una donna che non si è mai tirata indietro davanti ai piaceri e alle infinite possibilità che il sesso può offrire». Il successo è stato immediato: il romanzo è rimasto per trentasei settimane consecutive in testa alle classifiche, è stato tradotto in sedici Paesi, diventando un bestseller in Spagna, Stati Uniti, Germania. Ma è in Portogallo che ha suscitato le reazioni più violente, bruciando in pochi giorni le quindicimila copie della prima edizione e finendo per essere proibito nei supermercati a causa dei suoi contenuti pornografici. In Francia, invece, proprio sull'onda del successo di Lussuria, Libération ha deciso (nel 2000) di inserire Ribeiro nel ristretto numero degli scrittori «a cui chiedere un parere sul terzo millennio».
Joào Ubaldo Ribeiro non è però un autore qualsiasi. Appartiene all'Accademia Brasileira de Letras (la più prestigiosa istituzione culturale del Paese) con Zelia Gattai, Paulo Coelho e con il chirurgo plastico Ivo Pitanguy. Bahiano dell'isola di Itaparica, Ribeiro (classe 1941) è autore (tra l'altro) di quel Sergente Getulio (in Italia l'ha pubblicato Einaudi) che Jorge Amado aveva definito «uno dei romanzi decisivi della produzione contemporanea». Narratore, giornalista, saggista, Ribeiro è dunque un intoccabile della letteratura (gli accademici sono soltanto quaranta e lui siede sullo scranno numero 40) che riesce a coniugare, grazie al suo sense of humour, «la preoccupazione sociale del primo Jorge Amado con l'invenzione linguistica di un Guimaràes Rosa». Un intoccabile da sempre politicamente schierato: che ha abbandonato il suo Paese alla vigilia del colpo di Stato del 1964 proprio per colpa delle sue idee troppo di sinistra.
Sarà stato, allora, per una qualche forma di pudore che il grande scrittore impegnato ha deciso di narrare tutte quelle acrobazie erotiche (ce ne sono davvero di tutti i tipi, anche quelle più impensabili) come un manoscritto misterioso firmato CIb e da lui ricevuto «mentre i giornali brasiliani annunciano che ho appena iniziato a scrivere questo libro»? Trovando così il modo, magari, di togliersi persino qualche sassolino dalla scarpa, nascondendolo dietro le opinioni di questa mantide del sesso e mitigandolo con l'ironia che pervade felicemente ogni pagina e che alleggerisce tutte quelle pagine di sesso spinto che rischierebbero altrimenti di diventare davvero noiose oltreché prive di qualsiasi possibile fascinazione erotica.
Lussuria (sottotitolo La casa dei budda beati in onore di una statua «comprata da un ambulante di Bangkok» e destinata a propiziare la buona riuscita dell'amplesso) non è certo un libro consigliabile ai sessuofobi più prude, un libro che lo stesso autore definisce «una deposizione socio-storico-letterario-pomo». Scrive CIb-Ribeiro: «Il titolo che volevo mettere era in realtà Memorie di una libertina ma non l'ho messo perché è troppo di buon gusto per questo popolo che non ha mai letto Choderlos de Laclos. Oggi non si può essere veramente raffinati, bisogna essere pseudoraffinati e un titolo come la Casa dei budda beati soddisfa, è più tranquillo, garantisce contro le irritazioni generate dall'asineria e dall'ignoranza».
Nel libro ce n'è davvero per tutti. A cominciare dalle donne a cui è comunque dedicato, eccezion fatta per le femministe. Il motivo? «Quelle americane cretine che volevano cambiare history con herstory, come se lo his dell'inizio fosse un pronome possessivo di genere maschile, dimostrano che l'imbecillità umana non ha limiti». Sulla religione cattolica (ma anche l'ebraica non se la passa bene) scrive invece: «Il magistero della Chiesa mi irrita. Non voglio nessun prete dalla voce da tenorino raffreddato che mi insegni incoerenze, sottostimando la mia intelligenza e ripetendo scemenze inventate». E ancora: «Esiste un sadico più grande di Dio?»
«Ogni riferimento è perfettamente pertinente» dice oltretutto Ribeiro ad un certo punto, sempre per bocca di questa donna che è stata un tempo bellissima.Dunque, anche quelli sui tedeschi («nazisti per nascita che muoiono sempre proclamandosi antinazisti»; sui francesi («Lacan, Godard, Robbe-Grillet? Tutte puttanate e noia, chi le apprezza è soltanto perché si sente stupido»); sui comunisti («pessimi a letto, ho trovato in loro la maggiore incidenza di mosceria mortificante che abbia mai visto»). Non si salvano neanche Platone («un figlio di puttana responsabile del fascismo tecnocratico della repubblica») e neppure Freud («ha lasciato un'eredità disorientata di chiacchieroni nebulosi e nervosi, che frequentano sette oscure, che dedicano le vita alla infelicità verbosa e che non hanno mai generato niente di utile, a parte due film di Woody Allen»).
Tra i pochi «promossi» troviamo Dante e Shakespeare (vera grande passione di Ribeiro). E il Nobel Isaac Baschevis Singer ma non tanto per motivi letterari, quanto scientifici: «è stato l'unico capace di far riferimento al peccato di Onan in modo corretto».
il manifesto 15.10.06
Scoperte. Materia e antimateria, una reazione chimica
di Luca Tancredi Barone
La materia non è più quella di una volta. Sull'ultimo numero della rivista Physical Review Letters un gruppo di ricercatori provenienti da Italia, Brasile, Regno Unito e Giappone ha appena pubblicato una ricerca che indica un modo per far reagire chimicamente la materia e il suo alter ego, l'antimateria. Mentre tutto ciò che conosciamo, dal nostro corpo al sole e alle galassie più remote, è costituito da quella che chiamiamo «materia», nei primi istanti dell'universo dopo il Big Bang si deve essere formata - dicono i fisici - altrettanta antimateria, costituita da particelle identiche per massa a quelle che noi conosciamo (protoni ed elettroni), ma con carica opposta (quindi positiva per l'elettrone, chiamato positrone, e negativa per il protone, chiamato anti-protone). Il problema è che quando materia e antimateria si incontrano, in condizioni normali si annichilano: così, ad esempio, un elettrone e un positrone scompaiono producendo una enorme quantità di energia (fenomeno spiegato dalla famosa equazione di Einstein E=mc2). Di conseguenza la domanda che continua a far passare notti insonni agli astrofisici è: se nell'universo si è formata tanta antimateria quanta materia, perché ora vediamo solo materia e questa non si è tutta annichilata in un lampo? La risposta è che probabilmente si formò un piccolo eccesso di materia che poi ha prevalso successivamente. Ma perché?
I ricercatori della collaborazione Athena che hanno reso pubblici i loro risultati nei giorni scorsi aggiungono un tassello a questa complessa storia: si sono accorti di riuscire a formare per via «chimica», e non attraverso collisioni, un oggetto formato da un protone e un antiprotone, chiamato protonio. Un oggetto del tutto simile a una molecola della sostanza più comune dell'universo, l'idrogeno, ma che anziché essere costituito da due comuni protoni, è formato da un protone e un antiprotone.
Nel 2002 Athena aveva riscosso grande successo scientifico perché i fisici erano riusciti, facendo collidere fasci di particelle ad altissime energie, a produrre nell'acceleratore del Cern di Ginevra migliaia di atomi di anti-idrogeno (costituiti da un anti-elettrone e da un anti-protone). Ma stavolta, continuando a studiare quegli stessi dati, i ricercatori si sono accorti di poter fare un passo in più. «La novità del nostro esperimento - spiega Evandro Lodi Rizzini, dell'Istituto nazionale di fisica nucleare di Brescia, e fra gli autori dell'articolo - consiste nel fatto che quella che porta al protonio è una reazione chimica, e non nucleare. Cioè le particelle sono quasi ferme e non devono collidere ad altissime energie».
Dopo che un positrone reagisce con uno degli elettroni delle molecole di idrogeno, annichilandosi, viene formata una molecola caricata positivamente. A loro volta, queste molecole di idrogeno positive tendono ad attrarre un anti-protone, caricato negativamente: ed è così che si forma il protonio. «In passato per ottenere il protonio - spiega ancora Lodi Rizzini - si utilizzava un processo noto come 'collisione sostitutiva', e cioè un antiprotone sparato ad alta energia scacciava via uno dei due elettroni della molecola di idrogeno. Quello che è interessante, e che ci porterà a comprendere meglio alcuni parametri fisici essenziali per la cosiddetta elettrodinamica quantistica, è che stavolta lo abbiamo ottenuto semplicemente grazie ad attrazione elettromagnetica: una molecola di idrogeno caricato positivamente ha attratto un antiprotone negativo, e ha formato così il protonio».
Curiosamente, i ricercatori si sono accorti di questo fenomeno per caso: l'idrogeno molecolare caricato positivamente era solo un prodotto indesiderato dell'esperimento che nel 2002 li aveva portati a formare molecole di anti-idrogeno. E si era formato quando una parte degli antielettroni necessari per l'altra reazione si era «mangiato», annichilandosi, uno dei due elettroni dell'idrogeno molecolare. Solo successivamente queste molecole di idrogeno positive hanno reagito con gli antiprotoni, formando il protonio di cui i fisici di Athena parlano con tanto orgoglio.
l’Unità 15.10.06
«Ecco la terza etica né religiosa, né atea»
di Cristiana Pulcinelli
IL DALAI LAMA ha ricevuto ieri a Roma la laurea honoris causa in biologia. «Abbiamo bisogno di una morale laica costruita sul buon senso e sui dati scientifici. Che rispetti tutte le religioni e anche coloro che non credono»
«Non aspettatevi troppo da me: non tutti i problemi del mondo possono essere risolti grazie alla tradizione tibetana. Noi sentiamo la responsabilità sulle nostre spalle, ma se voi, ragazzi italiani, avete dei problemi dovete risolverli da soli. Cercando le risposte nelle vostre tradizioni». La saggezza di Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, è grande. Con poche parole, ha sistemato anche il giovane studente alla ricerca di una spiritualità d’importazione.
L’occasione per l’incontro con un pubblico italiano estasiato, quasi tifoso, è stato il conferimento da parte dell’università Roma Tre di una laurea honoris causa al capo religioso del buddismo tibetano. Non che per lui si tratti di una novità: il Dalai Lama ne ha già raccolte 40, assieme a 6 cattedre universitarie onorarie. Tuttavia, sembra sia la prima volta che il riconoscimento gli viene dato in una disciplina scientifica: la biologia. «All’origine del conferimento della Laurea in biologia - ha detto il rettore Guido Fagiani - c’è l’interesse che lei ha dimostrato per la scienza e le sue applicazioni e, in particolare, il riconoscimento per l’impegno nel contribuire a tenere vivo il dialogo tra scienza e spiritualità, tra scienza e religione». In effetti, in un momento in cui questo dialogo nei paesi occidentali è reso sempre più difficile, il tentativo del Dalai Lama è degno di interesse.
Sembra che Tenzin Gyatso abbia detto un giorno che se non fosse diventato monaco buddista avrebbe voluto fare l’ingegnere. Ma il fatto che si sia occupato di temi scientifici non ha a che fare solo con i suoi interessi personali. Lo ha spiegato lui stesso durante la sua lezione magistrale: «Fin da quando nasciamo, grazie a fattori biologici, noi sviluppiamo il senso di attaccamento alla madre. E per tutta la vita abbiamo bisogno di emozioni che ci avvicinino, ci uniscano. Per una farfalla le cose non stanno così: la farfalla appena nata deve occuparsi di se stessa, invece tra gli esseri umani la sopravvivenza dipende completamente dalla cura di altri. E tutto questo è regolato da fattori biologici. Studiando la biologia, quindi possiamo comprendere le qualità dell’essere umano, come la compassione». E la compassione è un concetto fondamentale per la filosofia buddista. L’incontro tra la sua religione e la scienza quindi gli sembrò quasi cosa obbligata.
Oltre venti anni fa, il Dalai Lama conobbe il neurobiologo Francisco Varela. Da quell’incontro, come ha ricordato Pier Luigi Luisi che ha letto la motivazione della laurea, nacque l’idea di un istituto in cui i cultori della moderna scienza occidentale e i cultori della tradizione buddista potessero dialogare per cercare risposte a una questione difficile ma cara a tutti: come funziona la mente umana? Il Mind and Life Institute vide la luce nel 1987 a Dharamsala, la città dell’India dove il Dalai Lama, in esilio, risiede dal 1960. «Negli ultimi vent’anni - ha detto Tensin Gyatso - questo gruppo di persone, tra cui ci sono scienziati e buddisti, ha lavorato per due scopi: il primo è espandere la conoscenza umana. Uno scopo puramente accademico. Il secondo è trovare soluzioni ai problemi che nascono dalle emozioni. Questo obiettivo nasce da una semplice constatazione: nonostante lo sviluppo della scienza e della tecnologia, la società umana incontra moltissimi problemi. Se ci basiamo solo sui farmaci o sulle risorse economiche per risolverli, non ci riusciremo mai perché sono i fatti mentali che creano determinate emozioni. Quindi dobbiamo conoscere meglio le nostre emozioni, ovvero la nostra mente. La tradizione indiana e quella buddista si occupano di coscienza da 2000 anni, quindi potrebbero essere utili per questo scopo. Tuttavia, se la tradizione è solo citazione del passato non basta. Dobbiamo indagare e sperimentare con modalità scientifica». E ancora, dal suo ultimo libro dal significativo titolo L’universo in un singolo atomo: «Il buddismo deve accettare i fatti - sia quelli trovati dalla scienza che quelli trovati dalla introspezione contemplativa. Se, nello studiare qualcosa, troviamo che c’è ragione o prova di esso, dobbiamo accettarne la validità, anche se è in contraddizione con le spiegazioni letterali delle scritture che sono state nostre per secoli…». La religione orientale e la scienza galileiana, sulla cui base poggia la cultura occidentale, possono andare d’accordo. O, almeno, possono dialogare nel rispetto delle loro differenze.
Gli scienziati occidentali hanno risposto positivamente alla proposta di confronto del Dalai Lama. Il XIII convegno del Mind and Life che si è svolto a Washington nel settembre del 2005 dal titolo «Studiando la mente» è stato sponsorizzato dal prestigioso MIT (Massachussets Institute of Techology) e vi hanno partecipato personalità importanti del mondo scientifico come Wolf Singer, direttore del Max Planck Institut. Inoltre, nel novembre dello scorso anno Sua Santità (anche il Dalai Lama lo è) è stato invitato a tenere il discorso di apertura al Congresso internazionale di Neurobiologia. Mentre alcuni neurobiologi hanno cominciato ad esplorare nuovi campi d’indagine: ad esempio nel 2004 è stato pubblicato sull’importante rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Science un articolo su cosa succede ai neuroni quando una persona si dedica alla meditazione.
Nonostante tutto, c’è però qualcosa nell’Occidente che al monaco tibetano proprio non piace. «I vostri sistemi d’istruzione si concentrano troppo sul cervello e trascurano l’aspetto etico. Vorrei quindi lanciare un appello: pensate di più al modo in cui coltivare il cuore e l’affetto. Una mente calma è essenziale per indagare la realtà: vede più chiaramente. Il cuore compassionevole e le capacità mentali sono entrambi elementi importanti per una vita felice». Ma chi crede che quando si parla di «compassione» e «tolleranza» si stia parlando di concetti religiosi, si sbaglia: «Che abbiate fede o meno, non importa perché siete sempre esseri umani. Ci sono molti atei che hanno un cuore d’oro. Abbiamo quindi bisogno di un’etica laica costruita sulla base del buon senso e dei dati scientifici concreti. Una terza etica, né religiosa, né materialista. Un’etica che rispetti tutte le religioni e anche coloro che non credono. E che ci faccia trattare tutti come fratelli».
Liberazione 27.7.06
Il “vendettismo” che acceca la politica
di Piero Sansonetti
Sull’indulto - che forse sarà votato oggi dalla Camera dei deputati - si è scatenata una bagarre che non fa onore al mondo politico italiano. Partiti, pezzi di partiti, singoli leader hanno cercato la ribalta, in questi giorni, sicuri di poter raccogliere consensi larghi opponendosi alla clemenza, con argomenti semplici e forcaioli. So che moltissimi, anche tra i nostri lettori, diranno: ma quello non è forcaiolismo, è solo “rigore” e spirito di giustizia. Può darsi che sia spirito di giustizia, ma talvolta questo spirito scivola nel forcaiolismo. Il forcaiolismo non è una pratica fetida di piccole minoranze facinorose: è il cedimento a sentimenti, generalmente maggioritari, che individuano nella punizione, nella pena esemplare, nella “vendetta” sul reo - o sul presunto reo - l’essenziale del vivere civile. In tutto ciò non c’è niente di antidemocratico, visto che il più delle volte è un atteggiamento che riscuote i consensi della maggioranza, e la regola della democrazia sta nel comando della maggioranza: c’è però una rinuncia ai grandi principi di tolleranza e di umanità che sono i principi più alti affermati - in questi due millenni - prima dal cristianesimo e da altre religioni, poi dall’illuminismo e da gran parte della filosofia moderna.
Speriamo che nonostante una campagna molto robusta messa in piedi da forze di estrema destra ma anche da settori consistenti della sinistra, con sfumature diverse - dall’Unità, al Pdci, a “zone” minoritarie dei ds, ai famosi girotondi - l’indulto alla fine sia approvato e permetta la scarcerazione di circa 12.000 persone, tra le quali - dicono le statistiche - 11.935 esponenti della piccola mala e 65 colletti bianchi (cioè persone ricche, dei ceti alti). Ci sono buone possibilità che ciò avvenga, anche se i rischi di un intoppo all’ultimo minuto sono altissimi. Se l’indulto passerà è perché si è raggiunto un accordo tra le sinistre (con qualche eccezione) e Forza Italia. Questa era la condizione sine qua non, visto che una legge sciagurata, approvata ai tempi di tangentopoli (su spinta, scusate se insistiamo: forcaiola) ha reso necessaria - per le leggi di clemenza - una maggioranza dei due terzi.
Quali sono gli argomenti portati dai nemici dell’indulto, guidati da Di Pietro? (non prendiamo in esame le motivazioni, più scontate, della destra)
Primo argomento: non si fanno inciuci, cioè non si approvano leggi col voto di Forza Italia. E’ impossibile fare un indulto senza Forza Italia? Si rinuncia all’indulto. Secondo argomento: possiamo anche accettare un indulto, purché non premi i corrotti. Poi ci sono altre argomentazioni minori, ma quelle fondamentali sono queste due (e sono espresse anche in molte lettere a Liberazione, alcune delle quali pubblichiamo in penultima pagina).
Il primo argomento si basa sull’idea che bisogna distinguere tra principi e politica. Cioè che non si possa fare politica sacrificando i principi al compromesso. Giustissimo: però bsognerebbe porsi questa domanda: qual è il principio? Si può rispondere che il principio è la tolleranza, la clemenza, il diritto delle donne e degli uomini a vivere in condizioni umane (e non in otto in una cella per quattro). E che questo principio si difende anche a costo di perdere consensi politici (voti). Oppure si può rispondere che quello non è un principio, ma solo un effetto politico di un pregiudizio, e che il vero principio al quale mantenersi fedeli è la proibizione di fare accordi con Forza Italia. E’ evidente che la prima interpretazione è quella giusta - anche se politicamente “onerosa” - ma dieci anni di maggioritarismo e “politicismo”, basato solo sul “potere” e sulla purezza del potere da conquistare, hanno portato al grande equivoco. Il principio è diventato l’odio per il nemico, la propria identità da difendere: non più una idea di vita, di convivenza, di relazioni umane.
Il secondo argomento è quello “girotondino” classico, di chi dice: perdonate tutti ma i corrotti mai. E perché non deve essere perdonato un corrotto? Risposta: perché è un delinquente. Già, ma l’indulto secondo voi è per i delinquenti o per le suore di clausura? Che senso ha dire: indulto si, ma solo per la gente per bene? Non c’è nessuna logica.
La verità, naturalmente, è più complessa. L’dea girotondina è molto semplice: “indulto si, ma non per i miei nemici. I miei nemici sono Previti e i 65 colletti bianchi? Escludiamoli. Con quale argomentazione? Li odio. Non si può escluderli senza sacrificare altre 12.000 persone? Non è affar mio”.
E qui il cerchio si chiude e girotondismo e forcaiolismo della destra finiscono per coincidere.
Il punto, forse, è proprio questo. Al di là di ogni forzatura polemica. C’è un pezzo enorme di Italia, largamente rappresentata nel mondo politico, che considera la vendetta la chiave di volta della storia. Ignora la giustizia e il perdono, non sa vivere - no sa lottare, non sa far politica, non sa trovare la proprio identità, non sa costruire una cultura - senza un nemico da sconfiggere e punire. Il “vendettismo” è un male profondo, che corrode la nostra società, anche la sinistra.