LaStampaweb 25.10.06
Crainz, storico ed ex di Lotta Continua: sulla Cecoslovacchia noi figli insensibili come i padri del Pci nel '56
«Noi del ‘68, miopi come Togliatti»
di Jacopo Iacoboni
I figli spesso fanno gli stessi errori dei padri, con l’aggravante che presumono di criticarli, e si considerano quasi sempre migliori. «Successe anche a noi, la generazione di Lotta Continua», dice Guido Crainz, oggi affermato storico e autore di libri importanti sulla storia oscura d’Italia (su tutti Il Paese mancato), da ragazzo membro del direttivo di Lc. «Anche noi fummo ciechi dinanzi alla repressione sovietica che colpiva i nostri coetanei», lamenta autocritico Crainz, i figli insensibili di fronte all’invasione di Praga proprio come i padri lo erano stati dinanzi alla repressione in Ungheria.
«Quel giovane movimento intellettuale, che rivendicava a gran voce “l’impossibile”, ebbe poco tempo e sguardi solo fuggevoli per altri giovani, per i quali l’“impossibile” era – come per gli studenti ungheresi del 1956 – libertà di parola e di stampa, di associazione e di voto. Ebbe una solidarietà superficiale e distratta per la Cecoslovacchia, vibrò di poche passioni per essa ed ebbe molte diffidenze per il suo “nuovo corso”, pur condannando l’invasione sovietica». Il j’accuse di Crainz arriva inaspettato nella prefazione di un libro di Gyorgy Dalos, Ungheria, 1956, appena uscito da Donzelli. E ha una forza dirompente, perché a prima vista parrebbe ardito rivolgere (anche senza nominarli) ai Sofri, Viale, De Luca, Boato, Rostagno - quelli che di lì a un anno fonderanno il più famoso gruppo extraparlamentare della storia italiana - la stessa accusa che si indirizza solitamente a uomini come Palmiro Togliatti, Pietro Ingrao, Luigi Longo, o al vecchio Pajetta che ancora nell’88, trentadue anni dopo l’Ungheria, rimproverò Piero Fassino di aver detto parole «troppo chiare» su quel crimine.
Crainz la prende alla lontana: «Per più versi fare i conti con il 1956 sembra diventare simbolo di un continuo fare i conti con il proprio passato e con il proprio futuro. Costringe a interrogarsi su se stessi». Un interrogarsi tanto più pressante per chi sente di appartenere a quella famiglia che ancora, all’alba del 2006, può definirsi “di sinistra”. «Forse non vale solo per chi ha vissuto direttamente l’ottobre ungherese», osserva lo storico-ex militante. Questo interrogarsi «riguarda anche chi, lontano da quelle speranze e da quei drammi, preferì acquietare la propria coscienza con giudizi deformanti e infondati, o con smemoratezze e rimozioni».
E voilà, la Rimozione. Finora era un luogo comune letterario usato a larghe mani nel vasto filone dell’autocritica di scuola Pci: da Ingrao, che scrive di Budapest come il suo grande errore, l’Errore, al presidente Giorgio Napolitano, che pure nell’86 fu il primo comunista a pronunciare una radicale autocritica pubblica. Ora vien fuori che ci sarebbe stata anche una rimozione operata dal Movimento. I figli uguali ai padri.
Certo Crainz ricorda come il Pci, che pure nel ‘68 espresse il suo «grave dissenso» per l’invasione della Cecoslovacchia marcando una cesura rispetto al ‘56, subito dopo arretrò, accettando la normalizzazione voluta da Mosca. Ma fu «molto più grave» l’arretramento dei futuri ragazzi di Lc e Potere operaio: «È difficile oggi comprendere appieno le ragioni di quell’arretramento, così come ci appare del tutto incomprensibile la flebile sensibilità a questi temi dell’area culturale e politica emersa in quei mesi alla sinistra del Pci: la “generazione del Sessantotto”, la generazione e il movimento di cui ho fatto intensamente parte». Poi sì, eccezioni ci furono. Leo Huberman denunciò la sordità della “nuova sinistra”, inascoltato, dice Crainz. Il manifesto (illuminato titolo di Rossana Rossanda) scrisse Praga è sola, come lo era stata Budapest. Ma molti se ne fregarono. «Vi fu anche qualche piccola frangia che approvò la repressione, come la approvarono Cuba e il Vietnam, presi in quegli anni a simbolo di un comunismo alternativo». Converrebbe, forse, riparlarne. «Quella cecità, quella insensibilità intellettuale e umana segnalano le crepe profondissime di una cultura che si voleva libertaria e innovativa ed era invece soffocata sul nascere da una arcaica ideologia», quasi una coazione a ripetere freudiana, nella storia della sinistra italiana.
Tempo Medico n. 814 7 ottobre 2006
Ipocondriaci a prova di rassicurazione
I pazienti con sintomi inspiegabili al vaglio in uno studio tedesco
di Simonetta Pagliani
I sintomi inspiegabili sono manifestazioni fisiche prodotte dalla mente a dispetto della ragione e alla ragione resistono, blindati nella loro pretesa di organicità.
Le parole di rassicurazione del curante sulla natura non patologica delle sue sofferenze, anche quando conseguono a referti negativi di molteplici indagini diagnostiche, non convincono il paziente; anzi, non sono affatto da lui recepite in tal senso, ma vengono fraintese ed equivocate, in quella che è stata chiamata "amplificazione somatosensoriale".
Se non si fidavano delle loro esperienze personali, i medici possono ora contare su una prova documentale di questa propensione ipocondriaca, sotto forma di una ricerca firmata da Winfried Rief, psicologo dell'Università di Marburg, Germania, apparso su PLoS Medicine.
I pazienti che iniziano da giovani adulti ad accusare indistinti dolori o fastidi in sedi sempre diverse e, in caso di remissione, sempre rimpiazzati da altri, sono una minoranza importante nell'economia del lavoro ambulatoriale di un medico di famiglia e una potenziale fonte di spreco di risorse nella rincorsa di una diagnosi sfuggente o inesistente. Secondo alcuni studi, il 30 per cento di tutti i sintomi presentati al medico non troverà mai una spiegazione organica, dando luogo alla loro classificazione come "psicosomatici"; nella decima revisione dell'International Classification of Diseases, uno dei requisiti di tale denominazione è proprio la mancanza d'effetto della rassicurazione medica.
Il metodo della ricerca è stato questo: a tre gruppi di soggetti, con sintomi non spiegati, con depressione maggiore e apparentemente sani, sono state fatte sentire registrazioni di una voce che proponeva spiegazioni per manifestazioni patologiche (dolori addominali), per eventi sociali (mancato invito a un barbecue) o per accadimenti di significato neutro (guasti alla macchina). Le registrazioni contenevano 10 tipi di messaggi, variabili dall'assoluta affermazione di un giudizio a una certa ambiguità della spiegazione. A parità di capacità di comprensione, di memoria e di livello d'ansia, rispetto sia al gruppo dei sani sia persino al gruppo dei depressi, quello dei somatizzatori ricordava con maggior frequenza solo le spiegazioni che attribuivano cause mediche al sintomo proposto, persino quando il messaggio le negava definitivamente, mentre recepivano correttamente le diverse spiegazioni in campo sociale o neutro.
A conclusione dello studio, gli autori raccomandano ai medici di tenere a mente questo bias nei loro tentativi di rassicurare pazienti somatizzanti, invitandoli a riepilogare con le loro parole quanto credono di aver capito.
L'argomento dei sintomi inspiegabili è una spina nel fianco del medico di famiglia e ciò rende ragione del successo che ha avuto, durante il recente congresso europeo di WONCA a Firenze, il workshop che se ne è occupato.
Nel suo ambito c'è stato anche chi, come Daniel Lucassen di Nimega, ha, in realtà, proposto di ribaltare il paradigma che vuole il paziente smanioso di una diagnosi organica e il medico alla ricerca della spiegazione psichica. Pur riconoscendo che esiste una coorte di persone che coltiva i propri disturbi medicalizzandoli e fornendo loro il supporto di letture specialistiche su internet o sulla stampa di settore, dopo le quali pretendono sempre più approfonditi interventi medici, Lucassen ha sposato il risultato di alcuni studi secondo i quali sono i medici a offrire più spiegazioni somatiche di quante i pazienti ne chiedano e ha aperto la caccia alle motivazioni di tale comportamento.
Se, a volte, esiste davvero una sorta di rifiuto del curante di addentrarsi nei meandri delle cause mentali per mancanza di tempo oppure di competenza, altre volte il medico prevede, sulla base di una conoscenza diuturna, che giocare la partita sul versante psichico ed emotivo porterà alla negazione da parte del paziente e che solo il viatico di una diagnosi di patologia consentirà l'uso di una medicina con ruolo di placebo, richiudendo così il circolo soma-psiche.
Fonte: Plos Medicine 2006; 3:1266
Crainz, storico ed ex di Lotta Continua: sulla Cecoslovacchia noi figli insensibili come i padri del Pci nel '56
«Noi del ‘68, miopi come Togliatti»
di Jacopo Iacoboni
I figli spesso fanno gli stessi errori dei padri, con l’aggravante che presumono di criticarli, e si considerano quasi sempre migliori. «Successe anche a noi, la generazione di Lotta Continua», dice Guido Crainz, oggi affermato storico e autore di libri importanti sulla storia oscura d’Italia (su tutti Il Paese mancato), da ragazzo membro del direttivo di Lc. «Anche noi fummo ciechi dinanzi alla repressione sovietica che colpiva i nostri coetanei», lamenta autocritico Crainz, i figli insensibili di fronte all’invasione di Praga proprio come i padri lo erano stati dinanzi alla repressione in Ungheria.
«Quel giovane movimento intellettuale, che rivendicava a gran voce “l’impossibile”, ebbe poco tempo e sguardi solo fuggevoli per altri giovani, per i quali l’“impossibile” era – come per gli studenti ungheresi del 1956 – libertà di parola e di stampa, di associazione e di voto. Ebbe una solidarietà superficiale e distratta per la Cecoslovacchia, vibrò di poche passioni per essa ed ebbe molte diffidenze per il suo “nuovo corso”, pur condannando l’invasione sovietica». Il j’accuse di Crainz arriva inaspettato nella prefazione di un libro di Gyorgy Dalos, Ungheria, 1956, appena uscito da Donzelli. E ha una forza dirompente, perché a prima vista parrebbe ardito rivolgere (anche senza nominarli) ai Sofri, Viale, De Luca, Boato, Rostagno - quelli che di lì a un anno fonderanno il più famoso gruppo extraparlamentare della storia italiana - la stessa accusa che si indirizza solitamente a uomini come Palmiro Togliatti, Pietro Ingrao, Luigi Longo, o al vecchio Pajetta che ancora nell’88, trentadue anni dopo l’Ungheria, rimproverò Piero Fassino di aver detto parole «troppo chiare» su quel crimine.
Crainz la prende alla lontana: «Per più versi fare i conti con il 1956 sembra diventare simbolo di un continuo fare i conti con il proprio passato e con il proprio futuro. Costringe a interrogarsi su se stessi». Un interrogarsi tanto più pressante per chi sente di appartenere a quella famiglia che ancora, all’alba del 2006, può definirsi “di sinistra”. «Forse non vale solo per chi ha vissuto direttamente l’ottobre ungherese», osserva lo storico-ex militante. Questo interrogarsi «riguarda anche chi, lontano da quelle speranze e da quei drammi, preferì acquietare la propria coscienza con giudizi deformanti e infondati, o con smemoratezze e rimozioni».
E voilà, la Rimozione. Finora era un luogo comune letterario usato a larghe mani nel vasto filone dell’autocritica di scuola Pci: da Ingrao, che scrive di Budapest come il suo grande errore, l’Errore, al presidente Giorgio Napolitano, che pure nell’86 fu il primo comunista a pronunciare una radicale autocritica pubblica. Ora vien fuori che ci sarebbe stata anche una rimozione operata dal Movimento. I figli uguali ai padri.
Certo Crainz ricorda come il Pci, che pure nel ‘68 espresse il suo «grave dissenso» per l’invasione della Cecoslovacchia marcando una cesura rispetto al ‘56, subito dopo arretrò, accettando la normalizzazione voluta da Mosca. Ma fu «molto più grave» l’arretramento dei futuri ragazzi di Lc e Potere operaio: «È difficile oggi comprendere appieno le ragioni di quell’arretramento, così come ci appare del tutto incomprensibile la flebile sensibilità a questi temi dell’area culturale e politica emersa in quei mesi alla sinistra del Pci: la “generazione del Sessantotto”, la generazione e il movimento di cui ho fatto intensamente parte». Poi sì, eccezioni ci furono. Leo Huberman denunciò la sordità della “nuova sinistra”, inascoltato, dice Crainz. Il manifesto (illuminato titolo di Rossana Rossanda) scrisse Praga è sola, come lo era stata Budapest. Ma molti se ne fregarono. «Vi fu anche qualche piccola frangia che approvò la repressione, come la approvarono Cuba e il Vietnam, presi in quegli anni a simbolo di un comunismo alternativo». Converrebbe, forse, riparlarne. «Quella cecità, quella insensibilità intellettuale e umana segnalano le crepe profondissime di una cultura che si voleva libertaria e innovativa ed era invece soffocata sul nascere da una arcaica ideologia», quasi una coazione a ripetere freudiana, nella storia della sinistra italiana.
Tempo Medico n. 814 7 ottobre 2006
Ipocondriaci a prova di rassicurazione
I pazienti con sintomi inspiegabili al vaglio in uno studio tedesco
di Simonetta Pagliani
I sintomi inspiegabili sono manifestazioni fisiche prodotte dalla mente a dispetto della ragione e alla ragione resistono, blindati nella loro pretesa di organicità.
Le parole di rassicurazione del curante sulla natura non patologica delle sue sofferenze, anche quando conseguono a referti negativi di molteplici indagini diagnostiche, non convincono il paziente; anzi, non sono affatto da lui recepite in tal senso, ma vengono fraintese ed equivocate, in quella che è stata chiamata "amplificazione somatosensoriale".
Se non si fidavano delle loro esperienze personali, i medici possono ora contare su una prova documentale di questa propensione ipocondriaca, sotto forma di una ricerca firmata da Winfried Rief, psicologo dell'Università di Marburg, Germania, apparso su PLoS Medicine.
I pazienti che iniziano da giovani adulti ad accusare indistinti dolori o fastidi in sedi sempre diverse e, in caso di remissione, sempre rimpiazzati da altri, sono una minoranza importante nell'economia del lavoro ambulatoriale di un medico di famiglia e una potenziale fonte di spreco di risorse nella rincorsa di una diagnosi sfuggente o inesistente. Secondo alcuni studi, il 30 per cento di tutti i sintomi presentati al medico non troverà mai una spiegazione organica, dando luogo alla loro classificazione come "psicosomatici"; nella decima revisione dell'International Classification of Diseases, uno dei requisiti di tale denominazione è proprio la mancanza d'effetto della rassicurazione medica.
Il metodo della ricerca è stato questo: a tre gruppi di soggetti, con sintomi non spiegati, con depressione maggiore e apparentemente sani, sono state fatte sentire registrazioni di una voce che proponeva spiegazioni per manifestazioni patologiche (dolori addominali), per eventi sociali (mancato invito a un barbecue) o per accadimenti di significato neutro (guasti alla macchina). Le registrazioni contenevano 10 tipi di messaggi, variabili dall'assoluta affermazione di un giudizio a una certa ambiguità della spiegazione. A parità di capacità di comprensione, di memoria e di livello d'ansia, rispetto sia al gruppo dei sani sia persino al gruppo dei depressi, quello dei somatizzatori ricordava con maggior frequenza solo le spiegazioni che attribuivano cause mediche al sintomo proposto, persino quando il messaggio le negava definitivamente, mentre recepivano correttamente le diverse spiegazioni in campo sociale o neutro.
A conclusione dello studio, gli autori raccomandano ai medici di tenere a mente questo bias nei loro tentativi di rassicurare pazienti somatizzanti, invitandoli a riepilogare con le loro parole quanto credono di aver capito.
L'argomento dei sintomi inspiegabili è una spina nel fianco del medico di famiglia e ciò rende ragione del successo che ha avuto, durante il recente congresso europeo di WONCA a Firenze, il workshop che se ne è occupato.
Nel suo ambito c'è stato anche chi, come Daniel Lucassen di Nimega, ha, in realtà, proposto di ribaltare il paradigma che vuole il paziente smanioso di una diagnosi organica e il medico alla ricerca della spiegazione psichica. Pur riconoscendo che esiste una coorte di persone che coltiva i propri disturbi medicalizzandoli e fornendo loro il supporto di letture specialistiche su internet o sulla stampa di settore, dopo le quali pretendono sempre più approfonditi interventi medici, Lucassen ha sposato il risultato di alcuni studi secondo i quali sono i medici a offrire più spiegazioni somatiche di quante i pazienti ne chiedano e ha aperto la caccia alle motivazioni di tale comportamento.
Se, a volte, esiste davvero una sorta di rifiuto del curante di addentrarsi nei meandri delle cause mentali per mancanza di tempo oppure di competenza, altre volte il medico prevede, sulla base di una conoscenza diuturna, che giocare la partita sul versante psichico ed emotivo porterà alla negazione da parte del paziente e che solo il viatico di una diagnosi di patologia consentirà l'uso di una medicina con ruolo di placebo, richiudendo così il circolo soma-psiche.
Fonte: Plos Medicine 2006; 3:1266
Il Riformista 24.10.06
Cari laici, ecco perché possiamo dirci non cristiani
di Alberto Abruzzese
Uno strano neo-ecumenismo uno spirito ecclesiale alla rovescia sembra conciliare l'evangelismo amencano di Bush e quello cattolico del vigente Papa. E' in atto non una apertura tra chiese di diverso credo, ma una ricomposizione del mondo cristiano a fronte di altre religioni che cristiane non sono. Le conseguenze di questa decisione - letteralmente taglio, spaccatura - sono varie, possono andare dalla rivendicazione della propria identità rispetto alle migrazioni di altre dentro casa propria, ma anche spingersi ad assumere un nuovo slancio evangelizzatore in casa d'altri. Di fronte alla sempre più difficile convivenza tra diversi contenuti di fede, molti commentatori, anche laici, stanno invece condividendo l'idea secondo la quale chi è nato in nazioni in cui la storia ha sedimentato un sentire cristiano non può dirsi non cristiano.
Noi sosteniamo al contrario che il campo su cui si confrontano queste nuove tendenze dello spirito occidentale presuppone innanzitutto la dichiarazione opposta: dirsi innanzi tutto non cristiani. Infatti, nel ritenere presunta professione di cristianità l'educazione ricevuta e la memoria vissuta in un determinato contesto, protestante o cattolico o evangelico che sia, si rinuncia alla natura stessa del dirsi appartenente a una religione piuttosto che a un'altra. Si rinuncia alla libertà di scegliere la religione per cui ci si sente votati. E' un dio ben misero quello che conta su fedeli che si dichiarino tali per eredità ricevuta o per convenzione e dunque per qualcosa di non dipendente da una libera scelta,da un desiderio di appartenenza (appartenenza ben diversa da quella geopolitica o persino familiare a cui ci e dato nascere).
E' difficile condividere la voce di quei laici che si sono sollevati in difesa della divisione tra gli orizzonti della cristianità e quelli che della cristianità non hanno avuto la storia e la cultura e i luoghi. Questi laici certamente non sanno il principio che è alla base di ogni professione di fede: quello della conversione. E per essere convertiti nel proprio credo bisogna prima essere liberi di accettare il vincolo di una religione piuttosto che un'altra. Se proprio bisogna rivendicare tratti di civiltà occidentale da opporre al resto del mondo umano, allora è proprio la concezione di un catechismo che nei recinti del cristianesimo si preoccupa di allevare il giovane attraverso una serie di riti di iniziazione (di cui il battesimo è soltanto il gesto inaugurale): riti che verrebbero svuotati di ogni significato se non fossero appunto lo strumento per un graduale passaggio da un essere umano non credente a un essere umano credente nel dio da cui si è sentito chiamare o che cerca di raggiungere.
Noi dunque ci diciamo non cristiani perchè pretendiamo di essere nella facoltà di scegliere un dio qualsiasi o di non sceglierlo affatto. Un essere umano non nasce ateo ma essere umano, che può diventare religioso. Così anche il contrario: può restare o tornare ad essere soltanto un essere umano che si intrattiene civilmente con le religioni degli altri. E se ci si deve difendere da esseri umani incivili non lo si fa da cristiani ma soltanto da civili.
Corriere della Sera on line 23.10.06
L'avanzata dei nuovi atei Tre scienziati di Oxford portano avanti il pensiero del New Atheism, contro l'oscurantismo delle religioni in materia scientifica
di Alessandra Carboni
REGNO UNITO «Dal momento che accettiamo il principio per cui la fede religiosa deve essere rispettata per il semplice fatto che si tratta di fede è difficile negare rispetto anche alla fede di Osama e dei kamikaze». Questo è ciò che afferma Richard Dawkins biologo, evoluzionista e divulgatore scientifico britannico nel suo ultimo libro, intitolato The God Delusion. Si capisce subito che, come molti altri uomini di scienza, Dawkins ha un approccio del tutto particolare all'argomento religioso. E come lui anche Sam Harris e Daniel Dennett, noti «scienziati della mente» di Oxford, appartengono a quello che può essere definito il movimento dei nuovi atei, ovvero la corrente di pensiero di chi condanna non solo la fede in un Dio, ma anche la tolleranza nei confronti di chi ha un credo religioso.
NESSUNA NEUTRALITA' - Dalla capitale della ragione, Oxford, i tre scienziati lanciano la sfida al mondo: «è tempo di prendere posizione ed esorcizzare finalmente questa calamità debilitante che è la fede». Secondo loro, infatti, Dio è solo una menzogna creata dall'uomo per controllare le menti degli individui, e la scienza sarebbe in grado di provarlo: «la scienza, in definitiva, gioca con le probabilità, e la probabilità che dio esista - spiega Dawkins - se non nulla, è infinitesimale». Quella dell'ateismo non è certo una corrente di pensiero recente, ha camminato fianco a fianco con lo sviluppo della società e con il diffondersi delle religioni. Ma i tre cervelloni sono andati oltre la semplice negazione dell'esistenza di una divinità, negando di fatto il diritto di chiunque a una presa di posizione neutrale. Nel mirino dei nuovi atei non ci sono in realtà i fedeli, quanto piuttosto i non praticanti, tutti coloro che non credono ma non si pongono criticamente nei confronti di chi crede: potenziali proseliti del Nuovo Ateismo.
IL CASO USA - E secondo Dawkins, la massa di potenziali nuovi atei sarebbe davvero imponente: «negli Stati Uniti ci sono almeno 30 milioni di persone non religiose: più del totale di ebrei nel mondo. Gli atei sono più numerosi di quel che si pensa. Molte persone intelligenti sono atee. Ma i conti non tornano, perché nessun membro del Congresso americano ammette di esserlo. Quindi le cose sono due: o si tratta di persone stupide o di bugiardi». E il fatto che negli Usa l'ateismo è praticamente un tabù sarebbe di per sé una buona ragione per mentire. Secondo Sam Harris, inoltre, finché l'uomo non rinuncerà alla fede sarà impossibile impedire che le violenze religiose portino alla distruzione della nostra civiltà. Il percorso mentale necessario per staccarsi dalla fede e giungere a quella che Harris definisce la religione della ragione è lo stesso che ha portato alla fine dello schiavismo. Ciò che nell'800 era considerato moralmente accettabile (uccidere, rapire intere famiglie, ridurle in schiavitù, costringerle a lavorare e vendere i loro bambini) oggi è visto con disgusto e disapprovazione. Così, liberandoci oggi dalla schiavitù della fede, «la ragione riuscirà a soggiogare la superstizione, l'intelligenza avrà la meglio sulle illusioni e saremo in grado tenere a bada la demoniaca tentazione della fede». E la religione diventerebbe così un semplice ricordo della nostra natura primitiva.
Corriere della Sera on line del 24.10.06
RSF: Italia 40esima per la libertà di stampa
Corea del Nord, Turkmenistan ed Eritrea sono i peggiori. Alcuni Paesi del Nord Europa (Finlandia e Norvegia), insieme a Svizzera, Olanda, Irlanda e Islanda sono in prima posizione. È la classifica stilata dall'associazione Reporters sans frontières nel quinto rapporto sulla libertà di stampa nel mondo, dove l'Italia si piazza 40ª, salendo di due posizioni rispetto al 2005. Manca nelle posizioni di vertice la Danimarca, a causa della pubblicazione delle famose vignette su Maometto. «Sfortunatamente non cambia niente tra i peggiori predatori delle libertà nel mondo», commenta l'organizzazione per la difesa della stampa e dei giornalisti, riferendosi agli ultimi tre, stabili rispetto al 2005.
STATI UNITI - Cambiano invece le cose, ma in peggio, in alcuni paesi come Giappone, Stati Uniti e Francia che continuano a «precipitare» nella lista che comprende 168 Paesi. In un anno gli Usa passano dal 44° al 53° posto. Nel 2002 occupavano addirittura il 17°. Una situazione «preoccupante» secondo Reporters sans frontières. «L'atmosfera tra la stampa e l'amministrazione di Bush si è nettamente deteriorata - scrive l'associazione -, dopo che quest'ultima, facendo appello alla sicurezza nazionale, sospetta tutti i giornalisti che mettono in discussione la sua guerra contro il terrorismo».
VIGNETTE SU MAOMETTO - Drammatica discesa del Giappone, che perde quattordici posizioni piazzandosi 51° in classifica. Anche la Francia perde punti: 5 in un anno e 25 in cinque anni, posizionandosi nel 2006 al 35° posto. La causa, secondo Rsf, è la «moltiplicazione delle persecuzioni nei media e del numero di giornalisti indagati». La Danimarca, 19ª, perde invece il primo posto della classifica rispetto allo scorso anno dopo la vicenda della caricature di Maometto scoppiata, insieme a un mare di polemiche e minacce, nell'autunno 2005. In questo Paese «per la prima volta, alcuni giornalisti sono stati messi sotto protezione della polizia perché minacciati per il loro lavoro» denuncia l'associazione. Il primato quindi se lo dividono Finlandia, Irlanda, Islanda e Paesi Bassi dove «non è stato registrato alcun caso di censura né di minaccia o intimidazione» ai danni dei giornalisti.
MIGLIORA L'ITALIA - La situazione italiana «migliora leggermente» dopo il periodo Berlusconi. Il Belpaese si piazza al 40° posto, seguito dalla Spagna, che resta stabile. Ma la vera notizia è che l'Italia è superata in classifica da alcuni Paesi del sud del mondo. Una «buona notizia» per Rsf: «Anche se molto poveri, questi paesi si mostrano particolarmente rispettosi della libertà di espressione». Un particolare elogio va alla Bolivia (16ª), al Benin (23°), all'isola di Mauritius (32ª), al Ghana (34°). Anche la Bosnia-Erzegovina (19ª) continua a salire comportandosi meglio di altri paesi dell'Unione Europea, come Grecia (32ª) e Germania (23ª).
GUERRA NEMICO NUMERO UNO - A «sotterrare la libertà di espressione» resta prima di tutto la guerra. Iran, Siria, Sri Lanka, Nepal, Arabia Saudita si confermano tra gli ultimi della classifica. Vi si aggiunge quest'anno il Libano che in cinque anni è sceso dal 56° al 107° posto. La situazione non cambia per Etiopia (160ª) e Cuba (165ª). Al contrario, il cambio di regime si è mostrato salutare per il Togo (da 95° a 66°), Haiti (da 125° a 87°) e per la Mauritania (da 138ª a 77ª).
Notizie radicali 351 25.10.06
Infanzia violata: Emma Bonino presenta con Dolcenera e Stella Pende il libro shock di Somaly Mam "Il silenzio dell'innocenza"
Roma. Somaly Mam è una straordinaria donna cambogiana che da vent'anni lotta nel suo paese e a rischio della vita, contro lo sfruttamento sessuale di donne e bambine. Un fenomeno di cui non si hanno stime precise, ma che riguarda diverse migliaia di ragazzine, vendute per pochi soldi dalla propria famiglia all'età di cinque o sei anni e costrette a prostituirsi. Il libro, "Il silenzio dell'innocenza", già pubblicato in Francia e Spagna, è un'autobiografia in cui l'autrice racconta la sua storia di "sopravvissuta" a questa tortura e il suo impegno quotidiano attraverso AFESIP, l'associazione che è riuscita a mettere in piedi nove anni fa. Emma Bonino, Ministro per il Commercio Internazionale e le Politiche Europee, con Stella Pende, Daniela Rosati ed altri personaggi del mondo della cultura, della moda e dello spettacolo, saranno al fianco di Somaly Mam e della sua battaglia, e presenteranno il suo libro mercoledì 25 ottobre alle ore 18.00, al teatro Flaiano. Dolcenera canterà, accompagnandosi al pianoforte, la sua canzone dedicata ai bambini cambogiani: "L'Amore (il mostro)".
l'Unità 25.10.06
Ingrao, applausi e stoccate
L’ex leader del Pci: «Provo collera per i silenzi istituzionali
sugli attacchi alla Resistenza e sulla tragedia delle guerre». D’Alema a Ingrao: graziema con noi sei stato ingeneroso
di Bruno Gravagnuolo
«La nostra generazione ti deve tanto, per averci consegnato un Partito, il Pci in cui tragedie di coscienza come sull’Ungheria non ci sarebbero più state. Però sei stato ingeneroso quando abbiamo fatto la svolta del 1989. Non solo non ci hai aiutato, ma ci hai riempito di critiche pesanti. Anche se cercavamo di ridare un ruolo alla sinistra in questo Paese e di salvarla...». Le parole di Massimo D’Alema a Pietro Ingrao sono state il vero clou politico della serata. Quando appunto il Ministro degli Esteri, convenuto con Bertinotti e Luciana Castellina a presentare Volevo la luna di Pietro Ingrao (Einaudi), si è rivolto direttamente al vecchio leader, concludendo proprio su questo «affondo» la sua disamina dell’autobiografia ingraiana.
E che non sarebbe stata una serata banale lo si era capito sin dall’inizio. Dallo scroscio di applausi che aveva accolto Pietro Ingrao al suo ingresso nella Sala del Residence Ripetta di Roma. Sala gremita, posti in piedi o seduti fra le poltrone e ai lati. Ad
ascoltare Ingrao e i «discussants», come li chiama Ida Dominjanni: cariche istituzionali importanti. E testimoni diretti come Luciana Castellina di una vicenda politica, «l’ingraismo» che evidentemente appassiona ancora, e tanto.
Si comincia con Dominijanni che tratteggia il filo del libro tra i luoghi fisici della memoria- Lenola, gli avi siciliani e garibaldini- e lo scenario della «storia mondo» del Novecento, con le sue grandi tragedie. La tesi di lettura è: «un racconto della soggettività». Quella di Ingrao certo. E quella delle grandi masse, schiacciate dalla «forma politica». Dalla «gabbia d’acciaio della politica novecentesca». Un contrasto di fondo insomma, tra «il molteplice» in lotta per la liberazione e le durezze della Grande politica totalitaria. Domanda a Ingrao: «la sconfitta è irreversibile, e occorre ritirarsi dalla Politica, malgrado omologazione e «servitù volontaria» della società di massa del terzo millennio? E ancora. «perché il tuo libro non parla del 1989 e si ferma all’assassinio di Moro?».
Tocca a D’Alema, che non segue il questionario di Dominjanni, ma concorda su un punto: «è un’autobiografia del vissuto, non un libro politico». Un affresco testimonianza, in cui l’autore si narra come dall’esterno, benché implicatissimo. Ma allora, «perché Ingrao rinunciò a incidere di più? Perché contrastò l’idea amendoliana di un partito unico della sinistra? Perché non ci fede vedere se e come era possibile uscire da sinistra dal capitalismo?». Sì, anche grazie a Ingrao «il Pci fu diverso, e con Praga non fu come con Budapest». E nondimeno incalza D’Alema, come mai Ingrao non capì che «egli era già fuori della tradizione comunista, statalista per eccellenza..?». Poi la notazione: «non sono mai stato ingraiano, bensì storicista e togliattiano. Eppure le aperture culturali di Ingrao sul mondo mi hanno aiutato, e grazi a lui c’è stato un incontro di prospettive che ha fatto la forza di quel Pci». Infine l’affondo: « con la svolta dell’89 ti sei tenuto fuori, lontano, laddove noi volevamo dare un nuovo volto alla sinistra, e salvare il suo ruolo in Italia».
Tocca alla Castellina, che rievoca gli inizi ingraiani sul cinema, al Centro sperimentale. «Un comunismo il suo, e il nostro - spiegavo sempre ai miei amici americani - che era nato a... Hollywood!». Poi traccia un nesso ideale tra l’Ottobre 1917, con la sua «carica liberatoria» deragliata e il tentativo ingraiano di indicare «un altro modello economico nei punti alti dello sviluppo capitalistico». Contro l’idea di «un’Italia provinciale dai mille rivoli, che fosse necessario normalizzare e basta». E ancora: «Tu scrivi che eravamo una frazione. Magari! Avremmo dovuto esserlo sul serio, e invece ti ritraevi dal capeggiarla, anche per civetteria. Questo ti rimprovero, ben più che aver votato per la nostra radiazione come Manifesto. Noi non volevamo la luna, ma la terra. O almeno la nostra luna era in terra». Bertinotti concorda sul tratto «esistenziale» dell’esperienza ingraiana. Sostiene che « l’idea di un altro comunismo fu battuta in Italia nel 1966, quando Ingrao col suo modello di sviluppo viene sconfitto». Ma lì nasce anche un’altro «baricentro della liberazione: gli operai, i movimenti». E di lì per Bertinotti si riparte anche oggi, coi no global, la pace, la non violenza, i temi mondiali dell’esclusione e dell’oppressione per miliardi di persone. Replica Ingrao, che non risponde direttamente ai rilievi di D’Alema. Ma spiega «il paradosso» di aver guardato nella bufera del secolo all’Urss, «gigante leninista incarnato, travolto da crimini e tragedie». Critica «le stanze istituzionali». Che «lasciano passare tanti attacchi alla Resistenza». E non parlano di pace, «in un mondo dove la guerra è ormai a scala planetaria inaudita, massiva e feroce». Dov’è, si chiede Ingrao, la parola «disarmo»? Già, dov’è? E la serata si chiude tra altri applausi.
Liberazione 25.10.06
Il dibattito alla Camera nell’anniversario della tragedia ungherese del ’56. L’intervento di Franco Giordano, segretario Prc
«Budapest parla di noi. II fine non giustifica i mezzi»
di Franco Giordano
Signor Presidente, stiamo ricordando una tragedia, una repressione sanguinosa e terribile che ha sbarrato la strada ad una possibile innovazione democratica. Nessun giustificazionismo storicista può cancellare questa cruda realtà. Quando lavoratrici e lavoratori scendono in piazza e danno vita ad un movimento di massa per chiedere riforme, giustizia sociale e spazi di democrazia, una forza che si richiama agli ideali del socialismo non può non stare con loro. Lo comprese bene, allora, un sindacalista come Giuseppe Di Vittorio ma sbagliarono, comunisti italiani compresi, tutti coloro che approvarono o, semplicemente, giustificarono quella repressione. Essa ci parla della costruzione di un modello di socialismo che nel suo inveramento statuale si separa e si contrappone ai soggetti che sono stati protagonisti della rivoluzione, soggetti resi muti e deprivati di ogni strumento di partecipazione. Il fine non giustifica mai i mezzi, signor Presidente; anzi, quei mezzi interrogano i fini e ne rovesciano il senso. Quella forma di socialismo reale ci parla di una occupazione del potere che si separa dalla trasformazione sociale e diventa dominio burocratico. Ci siamo costituiti e ci nominiamo comunisti a partire dalla critica di quelle forme di oppressione prive di vitalità democratica con cui si è caratterizzata l’evoluzione nei paesi dell’Est. La centralità esponenziale del primato del politico, il partito, la macchina dello Stato, fino al partito-Stato, sono lo snodo teorico e pratico di una parabola di una parte della storia del Novecento: la conquista dell’uguaglianza si è infranta ed è rovinosamente crollata in una drammatica sconfitta, nel suo rovescio. Oggi, sappiamo che quel termine “uguaglianza”, pur messo a dura prova dalle profonde trasformazioni sociali, mantiene intatta la sua attualità ma non può essere mai disgiunto dalla parola “libertà”. Uguaglianza e libertà sono per noi una coppia indissolubile. Libertà intesa come superamento di ogni forma di alienazione, di ogni modalità di asservimento psicofisico delle lavoratrici e dei lavoratori e come pieno dispiegamento e crescita della soggettività; libertà intesa come critica di ogni logica produttivistica e di potenza, come valorizzazione pratica delle differenze. Dopo Budapest, Praga. » paradossale che le celebrazioni di un grande evento di popolo avvengano oggi, a Budapest, senza popolo e con le violenze che sono oggi per le strade della stessa città. La nostra scelta culturale e politica per la non violenza critica esattamente il concentrato autoritario e violento delle forme prevaricanti del potere, cerca di disvelare le forme del dominio e dello sfruttamento attuale della natura dei corpi e delle menti. La tragedia di Budapest e, dopo, quella di Praga, oggi, parlano di noi, signor Presidente, di un’idea della trasformazione che è non solo inconciliabile ma nemica di quella come di ogni altra forma di autoritarismo, di dittatura e di repressione. Non si può mai esportare con le armi un modello di società, non c’è mai alternativa alla partecipazione e alla democrazia.
il manifesto 25.10.06
lettere
Ottobre '56. Caro Valentino, Cara Rossana
Rossana Rossanda
Valentino Parlato
Caro Valentino,
non sono d'accordo. Che cosa c'è stato di magari brutale ma geopoliticamente necessario, nell'invasione dell'Ungheria, che tu ritieni giustificata allora e valida ancora oggi? Non il socialismo, ammetti, non aveva niente a che vedere. Dunque con la sicurezza dell'Urss? Non mi consta che l'Occidente stesse per invadere l'Est, salvo che con il mercato, così come è una favola che l'Urss volesse arrivare all'Atlantico. Era in gioco l'egemonia sul modello sociale europeo. Nel 1945 l'Urss l'aveva e nel 1948-1949 l'ha perduta. Un paese, e tanto meno un campo, non si tiene con la repressione e soltanto militarmente. In questo modo si coltiva l'odio e appena si apre un pertugio, passa una insorgenza. Che può anche essere manovrata. E' un errore clamoroso.
Una delle ragioni della crisi dell'Urss è proprio l'incapacità di egemonia sia nell'Europa dell'est, sia nelle sue zone di influenza fuori del continente. Diventa evidente proprio nell'allargarsi del «suo campo». Mi fece inviperire Francois Furet quando scrisse che mentre la rivoluzione francese aveva lasciato dietro di sé un lascito decisivo, Lenin nulla aveva lasciato. Aveva ragione. Ma la devastazione seguì il 1945. Prima, malgrado il sangue sparso all'interno, i popoli dell'Urss costruirono un avvenire e si difesero con le unghie e con i denti dal nazismo, dandogli il colpo fatale a Stalingrado. E' la gestione del dopoguerra che è stata disastrosa. Che resta in Russia, in Polonia, in Cecoslovacchia, eccetera? Non una minoranza dei comunisti, nessun comunista, né socialista, né idea di progresso. O guardiamo la Gorgone in faccia, o pestiamo l'acqua nel mortaio.
Quanto alle recenti conversioni dei dirigenti comunisti, sono d'accordo con te. Ma non è certo che, se nel 1956 avesse detto «no» come Di Vittorio, Napolitano oggi non sarebbe presidente della Repubblica. Lo sarebbe stato anche prima. Ma è secondario. Un «no» ragionato del Pci - ragionato significa che non balzava a piedi uniti dall'altra parte come nel 1989 - ci avrebbe rafforzato. Così la famosa barricata, nota come il Muro di Berlino, non ha retto che venti anni - che storicamente parlando è un battito di ciglio.
Rossana
Cara Rossana,
innanzitutto grazie per l'attenzione e aggiungo che qualche diverso parere si può avere in quasi quaranta anni di lavoro comune, e nei momenti più difficili siamo stati sempre uniti, così come ora, pur dissentendo.
Forse nel mio scritto mi sono espresso male. L'intervento dei carri armati sovietici a Budapest non lo ho affatto condiviso, ma ho ritenuto realistica, e quindi politicamente giusta, la scelta del Pci e di Togliatti di non condannare e di non rompere con l'Unione Sovietica perché sarebbe stata disastrosa per il Pci, per l'Italia e per quello che, allora, chiamavamo il mondo socialista.
Ma poiché la storia si fa con i se, tu hai scritto che se il Pci avesse trovato la via di un dissenso senza rotture sarebbe stato meglio per tutti.
Forse hai ragione tu, in quel caso tutto sarebbe andato per il meglio. Ma nella situazione data - sempre a mio parere - quella era un'ipotesi dell'impossibilità.
E non è un caso, ma per una scelta razionale che siamo rimasti nel Pci.
Altro era il contesto ai tempi di «Praga è sola», quando non rimanemmo nel Pci e Enrico Berlinguer fece passare un bel po' di anni prima di dire che la «spinta propulsiva» si era esaurita.
Pensando a Furet e alla rivoluzione del 1789, mi viene da dire che siamo nella stagione della Restaurazione, quando sembrava che il lascito della rivoluzione fosse stato distrutto. Cercare ancora, ci diceva Claudio Napoleoni, anche la luna.
Ma questo, forse, è un altro discorso.
Un abbraccio
Valentino
Valentino
il manifesto 25.10.06
Ingrao e la resistenza «riscritta»: in alto troppi silenzi
Presentato a Roma il libro di memorie dell'anziano leader comunista. Schermaglie nel nome di Togliatti tra D'Alema e Bertinotti. Il ministro degli esteri polemico sulle critiche alla Bolognina: «Un tentativo liquidato senza generosità»
di Andrea Fabozzi
«Io non sono mai stato ingraiano», dice Massimo D'Alema a un certo punto del suo intervento davanti a una platea di compagni e amici piena d'affetto per i novantuno anni di Pietro Ingrao. E Ingrao si sporge un po' ad ascoltarlo dall'angolo sinistro del tavolo, le mani serrate sui revers della giacca, davanti a lui una copia di Volevo la luna, il suo libro di memorie che si sta presentando. Nel Pci si è sempre detto che tutti - almeno da giovani, almeno per un po' - sono stati ingraiani. D'Alema no, lui era togliattiano già da pioniere e Togliatti infatti fece in tempo ad apprezzarlo.
Con Togliatti Ingrao ci litigava, dice Fausto Bertinotti, perché nonostante tutto credeva nel partito che Togliatti rappresentava. E ha continuato a crederci fino all'XI congresso, quando tutti i delegati applaudirono in piedi il suo intervento di critica alla «linea» e il gruppo dirigente restò immobile per iniziare subito dopo a punire e allontanare tutto quanto sapesse di ingraismo. Era quarant'anni fa. Dopo, secondo D'Alema, Ingrao cominciò un progressivo allontanamento dal centro dell'azione politica. Diventando «un testimone testardo e non più un leader in grado di costruire una risposta politica». D'Alema è appunto togliattiano. Non perché - oggi - faccia troppi sconti a quel capo «che incarnava il drammatico intreccio tra la funzione nazionale e democratica del partito e il rapporto con lo stalinismo». Ma perché ne perpetua lo schema logico, la «matrice culturale». Ingrao, dal '66, a D'Alema (che aveva 17 anni, ma ha letto attentamente il libro) appare «rinchiuso» perché «rinuncia a influire». Vive il comunismo come «rapporto con i movimenti sociali» e «sguardo al mondo degli oppressi» mentre il comunismo si è concretamente presentato come tutt'altra cosa, cioè «progetto politico-statuale che ha sempre guardato con sospetto i movimenti sociali». Ingrao insomma, secondo D'Alema si è collocato «al di fuori della storia comunista» rinunciando ad incidere anche di fronte «al tentativo di Berlinguer di stabilire un rapporto con il mondo cattolico» eppure proprio Ingrao aveva capito per primo l'importanza del rapporto con quella cultura, molto prima (e diversamente) del compromesso storico. L'accusa è netta e persino irrituale per una serata in onore, ma è nelle corde dell'attuale ministro degli esteri. Per il quale, in sostanza, nel libro e nella vita politica di Ingrao «colpisce l'incapacità di delineare un'uscita a sinistra dallo stalinismo». E alla fine - riprendendo un'osservazione di Ida Dominijanni che nell'introduzione aveva detto che sarebbe stato interessante poter leggere nel libro di Ingrao anche qualcosa sugli anni Novanta, sulla liquidazione del Pci e quella scelta di dire di no ma restando «nel gorgo» - D'Alema tira fuori anche l'ultimo sassolino: «La mia generazione ha vissuto come ingenerose le tue critiche» alla Bolognina e a quello che ne seguì. Mentre tutto al contrario Rossana Rossanda sul manifesto di ieri ricordava come quando in quel fatale 1990 si radunarono attorno ad Ingrao le speranze di chi voleva ricominciare fuori dal Pds, lui non se la sentì.
Forse perché, è il ricordo di Luciana Castellina, lei sì «ingraiana doc», chi seguiva Ingrao non si è mai sentito come una frazione «e forse avremmo fatto meglio ad organizzarci». E di nuovo il rammarico non è per il '69 quando Ingrao compì il suo «errore più grave» votando per la radiazione del gruppo del manifesto perché secondo Castellina «eravamo gli estremisti dell'ingraismo». Il rammarico è per la mancata scelta di vent'anni dopo.
Secondo Fausto Bertinotti, invece, dopo l'XI congresso la ricerca di un'uscita da sinistra dallo stalinismo non si è interrotta, come sostiene D'Alema. Solo si è spostata altrove «non più dentro il Pci». Per Bertinotti nelle memorie di Ingrao - il «comunista della libertà» - in quegli anni c'è il segno di quello spostamento, dai dialoghi con i dirigenti del partito a quelli con i sindacalisti dei consigli: «Il tema del comunismo dal '68-'69 non si declina più a partire dalla centralità del Pci ma da quella delle masse».
E' ancora la dimensione cui Ingrao si sente più vicino, anche se intervenendo «emozionato» al termine della serata riavvolge il filo del suo «personale», quello che Dominijanni all'inizio aveva indicato persino come un rischio di «congedo» dalla politica. Ritorna agli anni della formazione, la resistenza: «Peccato che io non sappia scrivere così bene per rappresentare i nostri sentimenti quando il mondo era sull'abisso». Allora e oggi. «Vorrei che nel mio libro si leggesse una domanda 'a che punto siamo?'». Ed è curioso per un libro di memorie che si fermano al '76. Ma Ingrao riprende il filo di quel suo battesimo del fuoco e si cala nella polemica di oggi. Ci viene in mente il revisionismo alla Giampaolo Pansa e, magari, anche la difesa che ne ha fatto il presidente della Repubblica mentre sentiamo il vecchio comunista chiudere «in collera» perché «sento parlare in questo modo della resistenza su certi giornali e da certi giornalisti. Dovrebbe rammaricarsi anche chi sta in stanze più in alto di questa, dove forse si tace troppo».
Repubblica 25.10.06
L'anziano leader della sinistra alla presentazione del suo libro "Volevo la luna" critica anche Giampaolo Pansa
Ingrao e la Resistenza: "Neanche il Colle la difende"
di Alessandra Longo
ROMA - Collera. Pietro Ingrao usa la parola collera, unita al «disgusto», per definire il suo stato d´animo di fronte a coloro che liquidano «in quel modo» la guerra partigiana quasi fosse un peso sulla strada della cosiddetta pacificazione, quasi si trattasse di un capitolo imbarazzante. Una denuncia «di certi giornali e certi giornalisti» (ad essere evocato è chiaramente Giampaolo Pansa) ma anche un monito a «chi, in stanze che stanno più in alto di quella dalla quale stiamo parlando», sceglie di non intervenire nel merito (qui il riferimento è, con ogni evidenza, al presidente della Repubblica). A novant´anni, solo la voce è diventata un po´ fragile ma le parole sono affilate, scelte accuratamente davanti alla platea romana che è venuta a sentir parlare del suo ultimo libro «Volevo la luna». Ci sono Fausto Bertinotti, «addirittura presidente della Camera», come ironizza amabilmente Ingrao, il ministro degli Esteri Massimo D´Alema, «uno che gira il mondo», e Luciana Castellina, «che è quel che è, Luciana», l´amica prediletta, ingraiana doc. Dunque «collera», dice il leader comunista, le mani strette sul microfono: «Non capisco il silenzio di chi sta in alto, si tace forse troppo rispetto a quel che accade, al modo con cui viene oggi descritta da taluni la guerra di liberazione». E poi anche un´altra accusa: «Si tace troppo sulla guerra. Tutti quelli che hanno in mano le chiavi del potere la praticano, con più o meno saggezza. E la speranza della pace sembra cancellata. Io vi chiedo, chiedo ai presenti: la parola pace è stata bandita?».
Ecco la zampata di Ingrao, «il vecchietto», come lui si autodefinisce per civetteria. Ascolta senza prendere appunti, anche cose per nulla compiacenti, come le riflessioni di D´Alema, divise in due, prima le lodi, poi la critica: «A te, Pietro, va la nostra gratitudine generazionale. Hai accettato la disciplina del partito con sofferenza personale, hai vissuto sulla tua pelle l´intrecciarsi drammatico tra la vocazione democratica del Pci e il rapporto con lo stalinismo, hai vissuto un´idea di comunismo come strumento di riscatto degli oppressi e degli umili, un comunismo che è il più distante possibile da quello realizzato. Sei rimasto nel partito, testardamente, al limite dell´eroismo, e il tuo permanente conflitto con lo stalinismo ha offerto a noi giovani dei varchi, ci ha consentito di vivere nel Pci senza dover passare per i tuoi traumi, per le tue prove. Il nostro ´56 fu il ´68, l´invasione sovietica della Cecoslovacchia. Ma in molti, dentro il partito, furono capaci di dire di no...». Testardo, «cultore del dubbio che immunizza dal fondamentalismo, comunista della libertà», come lo chiama Bertinotti, però anche «ingeneroso», dice, alla fine, D´Alema, pensando agli anni della Bolognina: «Abbiamo sentito il peso di una critica spesso ingenerosa nei confronti dei nostri tentativi di continuare a far vivere l´idea di una sinistra capace di rinnovarsi e cambiare».
Ingrao, il viso impassibile, registra l´affondo di D´Alema, sempre lui, che pensa sia stato più uno splendido testimone che non «un leader in grado di dare una risposta politica» alla crisi dell´esperienza comunista. Segue, a compensazione, l´analisi affettuosa di Fausto Bertinotti. Il presidente della Camera riconosce al vecchio leader di aver avuto quell´intuizione che «dà un senso nuovo» all´essere comunisti, oltre l´Urss, oltre il Pci: la scelta della nonviolenza, il rapporto con i movimenti che criticano la globalizzazione capitalistica. Per ultimo, tocca a lui. Non risponde a nessuno. Ha qualcosa che gli preme dire. Qualcosa contro «certi giornalisti che in questi giorni» si occupano della guerra partigiana «in quel modo». Qualcosa contro chi, «nelle stanze alte», potrebbe parlare ma «tace troppo». E dall´alto dei suoi 90 anni, guarda avanti, non indietro: «Vi sono zone del pianeta che bruciano. Agli amici che sono qui io dico: vorrei che nelle aule dove voi lavorate parlaste meno di eventi epocali e più di quel che sta succedendo, del ritorno alla guerra. Vi faccio una domanda: la parola pace ha ancora un senso?».